Tungurahua, il Re delle acque

---- PREMESSA “STORICA” ---- Alla fine dell’estate del 1988 nove disperati, zoccolo duro di una casinara classe di liceo, sono in procinto di iscriversi all’Università. Nessuno ha le idee chiare, nessuno ha un seppur minimo progetto per il futuro, nessuno è veramente attratto da una carriera in particolare. Tutti e nove...
Scritto da: Steve
tungurahua, il re delle acque
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—- PREMESSA “STORICA” —- Alla fine dell’estate del 1988 nove disperati, zoccolo duro di una casinara classe di liceo, sono in procinto di iscriversi all’Università. Nessuno ha le idee chiare, nessuno ha un seppur minimo progetto per il futuro, nessuno è veramente attratto da una carriera in particolare. Tutti e nove però concordano su una cosa: il gruppo non va diviso. In particolare cinque, reduci da un viaggio post-maturità (devastante ma che ha ulteriormente cementato l’amicizia!) si sono giurati fedeltà eterna. Io sono uno di loro. Siamo cresciuti insieme sui banchi di scuola, insieme abbiamo fatto la patente, insieme e da sempre giochiamo nella stessa squadra di basket. Soprattutto (tappa che allora ritenevamo fondamentale nel processo maturativo di un diciottenne) insieme siamo andati al cinema per il nostro primo (e ultimo) film porno, aspettando addirittura lo sfigato di turno che compiva gli anni a dicembre. E se non è amicizia questa…

Il giorno di apertura delle liste, documenti alla mano, ci incolonniamo decisi come mai e orgogliosi di noi stessi allo sportello prescelto. La città è piccola, i licei solo 4, ci conoscono in molti. C’è chi ci guarda e scuote la testa. Alcuni sghignazzano altri, più compassionevoli ci chiedono se abbiamo sbagliato fila. “INGEGNERIA? Ma siete sicuri? Ma chi ve lo fa fare? Volete morire? Voi siete pazzi!…” e così via.

In effetti, nonostante quello che vogliamo far credere (a noi stessi per primi), non siamo sicuri per niente. Nella nostra fila non c’è neppure una ragazza (tantissime, abbronzatissime, minigonnatissime, bellissime sono tutte agli sportelli di giurisprudenza, economia e lettere – 1º grande dubbio esistenziale) e siamo circondati da una marea di strani ectoplasmi occhialuti. Parlano di pre-corsi estivi di algebra lineare, calcolo vettoriale…Aargghhhhhh, no!, sono quelli del primo banco, quelli con la mano sempre alzata che non ridono mai, gli stessi che per cinque anni abbiamo evitato come la peste! 2º grande dubbio esistenziale… Occhiate reciproche per farci coraggio…Resistiamo, a fatica, ma resistiamo! Poco prima di Natale, ultima chance di cambiare facoltà senza perdere l’anno, da nove rimaniamo in cinque, guarda caso il nucleo storico, poi il tempo vola tra pallose lezioni ed interminabili partite di biliardo e arrivano gli esami di giugno.

Analisi Matematica I, la prova del fuoco! “Se passi questa hai già fatto una buona parte del biennio” dicono i ben informati e noi, incoscienti, la proviamo per prima.

Siamo li, nel corridoio, pallidi come cadaveri, ad aspettare che il prof faccia il nostro nome per entrare in aula e prendere posto. Saremo duecento, tutti più o meno con lo stesso effetto-guttalax nella pancia, l’aria è pesante e la cosa va per le lunghe.

Per tirarci su Bobo, l’ottimista-sognatore del gruppo comincia a fantasticare sul nostro futuro: “Dai, dopo di questo ne mancano solo altri 31 (…Mavaacagareeee…!), poi è deciso, qualche anno in Sudamerica o in Africa a dieci milioni puliti al mese, e a 35 torniamo qui e facciamo i nababbi…” —- FINE PREMESSA —-

Maggio 2002, sono passati 14 anni, un’eternità. Quell’odissea è finita da un pezzo ma l’immagine di quel giorno ce l’ho scolpita nella memoria. Soprattutto vorrei avere qui davanti Bobo-nostradamus, e sputargli in un occhio! Beh, in realtà lui non ha nessuna colpa. Dei cinque sono l’unico che ha cercato di realizzare quel sogno di ventenni spensierati, soprattutto per soddisfare un congenito e maniacale desiderio di girovagare per il mondo. Loro hanno optato per un posto chi in un’azienda chi nell’altra, sicuro, molto ben pagato, vicino a casa. Nessuno è un nababbo ma tutti vivono più che bene.

A dire la verità io li ho sempre compatiti ma pensandoci bene forse quello da compatire adesso sono io.

Voi che fareste? Voglio dire voi che fareste se vi trovaste soli (errore grave), in piena foresta amazzonica colombiana, sotto il tipico diluvio equatoriale, a un po’ troppi Km dal primo centro abitato e soprattutto con la jeep (una UAZ, russa e indistruttibile, dicevano…) con due ruote bucate? Certo la jeep è dotata di innumerevoli parti di ricambio, incluse 2 ruote nuove, ma avete mai provato a puntare il crick su un terreno limaccioso-merdoso come il sottobosco (anzi la sottogiungla) amazzonico nella stagione delle piogge? Anche le “placche in acciaio ad alta resistenza” (le istruzioni, almeno, sono in inglese) studiate per fare da basamento al crick su “terreni problematici” non servono a una beata fava! Al quarto tentativo, dopo che per tre volte le avrete riesumate dai dieci centimetri di schifume nel quale sono sprofondate, indipendentemente dalla vostra fede religiosa e senza il minimo ritegno, scomoderete a voce alta tutti i santi del cielo, compresi quelli meno noti! Io l’ho fatto, non serve! Sono bloccato e mi sale un’incazzatura biblica…Ce l’ho con tutto e con tutti…Prenderei a randellate nelle gengive McGiver quello che con un coltellino, fil di ferro, tre bulloni e una chewing-gum costruiva una centrale termonucleare, sterminerei l’A-Team, torturerei il Gran Mogol con tutte le Giovani Marmotte e brucerei il loro odioso manuale… E, già che ci sono, penso a quanto mi ha sempre affascinato il Camel Trophy e mi prenderei a sberle…

La situazione, in realtà, è tutt’altro che comica. La zona (come tutto il paese, del resto) è tristemente nota per la presenza di narcotrafficanti e, soprattutto, di gruppi sciolti di banditi che praticano il loro sport preferito, il rapimento di tecnici stranieri che utilizzano come merce di scambio per ottenere dalle autorità il rilascio di compagni incarcerati o semplicemente soldi.

Faccio finta di non pensarci ma mentre mi tornano in mente Bobo e le sue profezie butto un’altra occhiata alle gomme per capire meglio cosa è successo. Mi rendo conto di essere passato sopra ad un’asse di legno chiodata e mi si gela la schiena…Cerco di richiamare via radio il cantiere ma niente da fare, non c’è nessuno oppure la radio non va oppure io sono rincoglionito e non la so usare…

Diciamo pure che mi prende il panico …”magari potrei andare a piedi, tanto basta seguire la pista e poi se fosse un’imboscata non avrebbero aspettato un’ora per farsi ved…” … Non faccio neanche in tempo a finire il pensiero che mi trovo davanti 6 uomini in mimetica e fucile automatico.

Ammettere di essermi cagato sotto è estremamente riduttivo!…La sensazione è quel cocktail di pugno-nello-stomaco, voglia-di-piangere e convinzione-di-essere-già-morto che solo chi l’ha provata può comprendere.

“Que pasa señor, se le jodió la furgoneta?” dice uno di loro ridendo…Probabilmente il Padreterno non ha sentito il mio rosario di litanie di poco fa o ha fatto finta di niente…Comunque ha guardato giù: sono militari dell’esercito regolare governativo!!!!!!! Mentre quasi li bacio mi spiegano che stanno pattugliando la zona e che proprio qui il mese scorso c’e’ stato uno scontro a fuoco con dei banditi. Avevano teso un’imboscata a un gruppo di americani, mi dicono, usando appunto assi di legno chiodate per bloccare i loro fuoristrada. Poi mi mostrano una serie di fori di proiettile su alcuni alberi…Deglutisco… Meno male che prima non me ne ero accorto! In sette finalmente riusciamo a cambiare le ruote e per sdebitarmi li invito al cantiere. Accettano di buon grado e in poco più di mezz’ora ci ritroviamo tutti seduti attorno ad un tavolo. Propongo un caffè, in fondo è la bevanda nazionale, ma vengo sommerso di risate, fischi e “vaffa” assortiti…È ben altro il “combustibile” di cui si ha bisogno per sopravvivere nella giungla, mi spiegano! E così, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si scolano in un lampo un barilotto da dieci-litri-dieci (!) di guarapo (un liquore fatto in casa fermentando frutta o mais in acqua e zucchero, “incendiario” per gradazione alcolica) per poi congedarsi e sparire nella giungla tanto rapidamente come erano apparsi. Tutti tranne uno che ritroveremo l’indomani addormentato, meglio in coma etilico, nel cucchiaio di una delle scavatrici!!!! E’ già quasi un mese che sono quaggiù, tra non molto si torna a casa.

Già ma “quaggiù” dove? Me lo ero chiesto anch’io più volte quando in studio, mappe alla mano, pianificavamo il lavoro ma tutto quello che ero riuscito a sapere era la città di riferimento, Leticia, capitale della Colombia amazzonica, un po’ sotto il 4º parallelo South, un po’ più in la del 69º meridiano West. Uno di quei posti che il mio collega, in un ibero-latino improbabile, cataloga come “inculomundis” che non ha bisogno di traduzioni e rende benissimo l’idea.

Si parte da Madrid, come sempre.

Il volo per Bogotà, diretto, sarebbe anche comodo se pochi giorni prima una sadica infermiera dalla mano di piombo non avesse sfogato le sue frustrazioni menopausali giocando a freccette sul mio culo. Febbre gialla, rossa, blu, verde, fucsia, epatite A, B, C e D che non si sa mai, antitetanica, antirabbica, antimalarica, antitifo, anticolera, antikriptonite…Sono immune a qualsiasi cosa, invulnerabile… Ma non mi posso più sedere!! Neanche i tre cuscini che la compassionevole hostess mi ha portato aiutano, sembrano sacchetti pieni di ricci di mare…Un inferno! Dopo undici ore (di sofferenza) atterriamo in Colombia.

All’aeroporto ci aspettano. Niente autobus, taxi o macchina con autista, ma una pattuglia di polizia. Si, avete capito bene…

La polizia in Colombia gode di pessima reputazione e in particolare a Bogotà e Cali, dicono, è forse la cosa più pericolosa che vi possa capitare. Corrotta, dedita al narcotraffico, al controllo della prostituzione, al ricatto, ai sequestri, alle rapine o a qualunque altra cosa illegale vi venga in mente può però anche essere la vostra “polizza vita”. Avendo gli agganci giusti (noi – non abbiamo avuto scelta – per la parte burocratica ci appoggiamo a società locali) dietro “generosa elargizione” vi vedrete assegnata una pattuglia. Due angeli custodi che veglieranno sulla vostra incolumità e vi scorteranno (sulla loro macchina se volete!) dovunque vogliate andare.

I nostri hanno la faccia da serial killer, parlano poco ma in auto ci offrono un caffè. Per tutta la settimana saranno la nostra ombra.

Bogotà è un circo aggressivo! La città, anzi la metropoli visti i sei milioni e passa di abitanti, ti sbatte subito in faccia il suo biglietto da visita. Architettura ultra moderna, grattacieli, ville hollywoodiane con guardie armate, ristoranti di lusso, boutiques alla moda, centri commerciali, bellissime chiese coloniali, incredibili musei. Ma poi smisurate baraccopoli, decine di niños de la calle senza scarpe con l’immancabile sacchetto di colla, droga spacciata alla luce del sole, prostituzione minorile, delinquenza, disperazione. Un casino totale, una realtà tristemente comune in Sudamerica! Ci portano in hotel, scarichiamo le valigie poi ci congediamo dicendo che fino all’ indomani non avremo bisogno di loro. Ci guardano insospettiti poi, prima di andarsene ci danno un numero di cellulare e ci chiedono se abbiamo bisogno di una pistola…Cominciamo bene!!!! È tardo pomeriggio e l’aria è fresca e per niente umida, i 2600 m de “La Sabana”, l’altopiano dove sorge la città, si notano. Casualmente di fronte all’hotel una banca è ancora aperta e decidiamo di verificare alcuni accrediti. Nenche il tempo di entrare che due uomini a volto coperto e pistole alla mano fanno irruzione. Di sicuro è la suggestione ma il taglio degli occhi del più alto mi ricorda un po’ troppo quello di uno dei nostri angeli custodi…Giro lo sguardo da un’ altra parte! Sembriamo gli unici agitati ed infatti pochi minuti dopo, a “prelievo” effettuato, gli impiegati beatamente ci spiegano che è routine, basta non reagire! Poi fanno la denuncia…Per telefono! Ho sei ore di fuso orario e undici di volo sulle spalle, anzi sul didietro, ho bisogno di una doccia calda e di sdraiarmi un po’ (in pancia). Si torna in hotel, l’appuntamento è per la cena.

La cena, primo incontro di lavoro, si svolge in un elegante ristorante in stile coloniale. Tra luci soffuse e un quartetto d’archi che fa da sottofondo gente in abito da sera conversa sottovoce. Poi, di colpo, una baraonda…”Cabron!… Hijo puta!… Te mato!…”…In un angolo un corpulento energumeno con più oro addosso della Madonna di Fatima, sta discutendo con un cameriere…Ne arrivano altri due, pim-pem-pam…Scoppia una rissa! In pochi secondi intervengono i membri della security del locale, analizzano la situazione e…Sbattono fuori i camerieri!!!!! La musica riprende, l’energumeno continua a mangiare, la gente ri-bisbiglia. Tutto come se niente fosse. Io guardo il mio collega…Ma dove siamo finiti? La giornata è stata lunga e fin troppo emozionante, il mio desiderio è solo quello di dormire. Che illuso! Mentre stiamo tornando all’hotel, una signora sul marciapiede viene scippata da due ragazzini in moto, cade, la trascinano, sviene, non si riprende! Rimaniamo li per più di un’ora (!), gli unici, ad aspettare l’ambulanza…

Un letto non è più solo un desiderio, è una necessità! Alla reception però ci trattengono un po’ per illustrarci l’ultima “sorpresa”: la colazione domani verrà servita direttamente in camera perchè è prevista una manifestazione. Passerà davanti all’hotel e le vetrate della sala desayuno danno proprio sulla strada…Può essere pericoloso, non si sa mai! “Ma non c’è la polizia?” chiedo io candidamente. ”Appunto!” mi risponde sottovoce l’usciere. Già, che tonto sono…

Altra doccia poi mi addormento pensando…Ma qui sarà così tutti i giorni o sono io che posso vantare una sfiga da guinnes? Il resto della settimana in realtà scorre veloce senza altri contrattempi e nel tempo libero tra le varie riunioni riesco anche a conoscere meglio la città, cosa che l’ultima volta per motivi di tempo non avevo potuto fare.

Forse mi sbaglio ma mi sembra ogni giorno più bella, più vivibile, meno pericolosa. L’importante è ricordarsi di non indossare vestiti costosi o gioielli, di non ostentare macchine fotografiche o telecamere, insomma cercare di passare il più possibile inosservati. Niente di diverso da molte altre città del mondo.

Qui però soprattutto è fondamentale rifiutare sigarette o bibite da sconosciuti perchè il “borrachero” (letteralmente “ubriacante”), una droga narcotizzante, viene spesso somministrata agli ignari turisti con conseguenze facilmente immaginabili.

Orientarsi non è difficile. Bogotà ricorda, con le debite proporzioni, Manhattan.

Basta prendere come punto di riferimento il centro e sapere che le strade si dividono in “carreras” grandi viali orientati in direzione nord-sud e “calles” strade più piccole che incrociano perpendicolarmente in senso est-ovest…Un po’ come Avenues e Streets.

Visito il Museo dell’Oro con le sue splendide reliquie di quella cultura precolombiana tanto ricca da aver dato vita al mito del El Dorado, il Museo Nacional e molte chiese, una più bella dell’altra, tra cui San Francisco, San Ignacio, Santa Clara e la Catedral Primada de Colombia che troneggia nella Plaza de Bolivar circondata di edifici dagli stili più diversi. In un pomeriggio faccio anche una capatina in funicolare a Monserrate, uno dei due picchi che dominano la città, forse il più amato dai bogotani per il suo Santuario, da dove si può godere di un panorama mozzafiato.

Ma, soprattutto, come resistere al fascino di “perdersi” a piedi tra la gente, cercando di guardare la città con occhi diversi da quelli di un semplice turista? In particolare nel più antico quartiere coloniale, La Candelaria, osservando la frenetica attività di venditori di ogni cosa con le loro bancarelle, entrando a caso nelle colorate busetas (gli originali negozietti) ammirare gli artisti di strada vicino a Plaza de Santander, curiosare tra le cianfrusaglie del Mercado de las Pulgas e, perchè no, rifarsi gli occhi nel famoso mercato degli smeraldi di cui la Colombia è primo esportatore al mondo. O, molto più semplicemente, scambiare due chiacchere con una signora al bancone di una fruteria, lasciare che un vecchio mendicante per 4 pesos ti racconti la romanzesca storia della sua vita o, seduto su una panchina del parco, dare una divertente lezione di italiano ad una scolaresca di bambini curiosi, su invito della loro maestra accortasi del tuo accento un po’ “diferente”! E quando lo stomaco chiama, guida alla mano, strafogarsi di “ajiaco” una buonissima minestra di pollo e patate, la specialità di Bogotá, provare la “hormiga culona” una formicona enorme (e con una parte posteriore effettivamente fuori misura!) servita fritta o la “lechona”, versione locale del porceddu sardo, però ripieno di riso. Tutti e tre rigorosamente in chioschi ambulanti in mezzo alla strada seguendo l’esempio di decine di bogotani.

Poi, dulcis in fundo, il rito del “tinto” (la tazzina di caffè nero), di cui la Colombia è notoriamente tra i primi produttori mondiali, ovviamente la bevanda più diffusa. A proposito se, provandolo, vi sembrerà schifoso come è sembrato a me alcune volte, sappiate che in certi bar vi rifilano un surrogato a base di fagioli secchi tritati…Io l’ho saputo tardi!!!! Sabato, giorno del mio compleanno, inizia la mia avventura in solitario…Che bel regalo! Il mio collega (con un sorrisino idiota) se ne torna beatamente a Madrid mentre io proseguo. Destinazione appunto “inculomundis”! Per il supporto logistico-tecnico, incluso il mio volo di trasferimento, ci siamo associati ad un grosso studio americano che ha grandi lavori in zona e che, con attitudine tipicamente yankee, non bada a spese in niente.

Già, in niente un par di palle!…L’aereo che mi porterà a destinazione è un preistorico bimotore ad elica, probabilmente già decrepito al tempo dei fratelli Wright. Lo pilota un omignolo dagli occhi a mandorla, forse cinese o giapponese, vecchissimo, con tante di quelle rughe su di un viso cotto dal sole da sembrare una sunsweet, la prugna secca della california… Io adoro volare, però che volete che vi dica, mi piace di più vivere…Ma purtroppo non ci sono alternative e si parte!!!! L’aereo avrebbe una dozzina di posti ma ci siamo solo io, lui e qualche cassa così mi propone di sedermi in cabina per farci compagnia…Wow, un viaggio da questa prospettiva mi fa dimenticare su che aereo mi trovo e accetto con incosciente entusiasmo.

Decolliamo…. È un pazzo!! Effettivamente è giapponese, trasferitosi qui dopo la guerra (ma quale guerra? e quanti anni ha?… Il pensiero che sia un ex-kamikaze sopravvissuto prende sempre più corpo in me ed inizio a sudare!!!) e da allora, racconta, non ha mai smesso di pilotare (probabilmente sempre questo aereo)! Dà l’impressione di volare alla “carlona” senza badare agli strumenti, muovendo la cloche e schiacciando ogni tanto dei bottoni a caso solo perchè lo ha visto fare da qualche parte. Italiani, popolo di poeti, navigatori e…Superstiziosi! Tutti luoghi comuni? Sarà, ma io in un semplice quanto solenne rituale antisfiga mi afferro le parti intime con una mano e stringo…

Stringo e prego, prego e stringo al punto che a fine viaggio avrò recitato più orazioni di un convento di suore di clausura e mi sarò auto-provocato una specie di orchite alla rovescia, temo permanente. Ma sarò sopravvissuto! Voi riderete ma vi ricordo che qui c’è la cordigliera delle Ande e se ci schiantiamo sopra e come nel film devo sopravvivere mangiando la carne del pilota e….Lasciamo perdere! Per distogliermi mi guardo in giro. C’è una vecchia foto in bianco e nero di una donna e due bambini che fa tanto (kimono a parte) Italia anni’60 quella delle Fiat 600 e dei loro cruscotti con la calamita “Vai piano, ti aspettiamo!”. Dietro la foto c’è un indicatore con la lancetta che va da tutte le parti…”che cos’è questo?” gli chiedo…”non so” mi risponde…Oh cazzo ma perchè non me ne sto zitto!?! Il volo prosegue così, con quest’atmosfera di constante precarietà, tra lunghe chiaccherate (sue) e improvvisi silenzi (miei)…

Voliamo sospettosamente bassi e più passa il tempo più si rafforza in me la convinzione che questo Top Gun del dopolavoro non abbia la minima idea di cosa siano una rotta aerea, una mappa, i punti cardinali ma segua montagne, valli, fiumi a memoria crecando di orientarsi alla meno peggio! In realtà il tutto ha un suo vantaggio (oltre a quello, in caso di schianto, di essere precipitati da un’altezza inferiore!) che è la possibilità di godere di un panorama incredibile, di una natura stupefacente ed incontaminata che si perde all’orizzonte e sembra non avere fine.

Poi, dopo non so neanch’io quanto tempo, eccolo li il Rio delle Amazzoni, in tutta la sua enormità: siamo arrivati. L’atterraggio avviene a due mani, nel senso che le uso tutte e due per afferrarmi le zone basse, finalmente ci siamo! Saluto il fulminato giapponese, certo di non vederlo mai più (povero ingenuo…!) e raccatto bagagli e strumentazioni in attesa che mi vengano a prendere. Sono in Amazzonia, ragazzi, e fa una caldo che “aplasta” (che ti schiaccia) come dicono qui!! Un termometro segna 26 gradi ma è il 98% di umidità a non lasciare scampo! Sembra di essere in una immensa serra, di quelle da cui non vedi l’ora di andartene perchè ti manca il fiato…Ma non c’è la porta d’uscita! Mi sudano anche le unghie…Prevedo settimane lunghissime! Non passano neanche 5 minuti che a tutta velocità arriva una vecchia Land Rover. Arancione.

C’è un enorme buca in mezzo alla strada, una voragine …L’ha vista!…No non l’ha vista!… Forse la evita!…Oddio la prende in pieno! La jeep sparisce inghiottita poi riappare…È decollata…Sta volando!!!!! Atterra poco lontano su un cespuglione poi di rimbalzo miracolosamente ritorna in carreggiata. Si apre una portiera…Esce fumo! Il radiatore? l’impianto elettrico? un principio d’incendio?…Quasi…È una canna, un gigantesco, enorme, smisurato spinellone che il sopravvissuto sta assaporando. E ride! E’ Paco meglio conosciuto come El Lindo, il bello, perchè nonostante sia un metro e una papaya ha, unico tra gli operai, tutti i denti È il nostro capocantiere, discretamente tossico, irreversibilmente alcolico ma un buon uomo, affidabile e rispettato da tutti. Ci eravamo conosciuti a Bogotà l’ultima volta che ero venuto ma adesso, che è la prima volta che lo vedo nel suo ambiente, mi sembra francamente molto ma molto più a suo agio (!). Ci salutiamo, (arieggio l’abitacolo), carichiamo e partiamo. Sgommando! La buca!… Beh ormai lo saprà, no?… Non occorre che glielo dica! …Tanto la evita!…Noooooo!!!!…Porc#ª@cc#…!!! Due su due, un record (di deficienza)! Stavolta però nell’atterraggio la Land Rover perde un parafango che finisce chissà dove. Mentre l’idiota lo cerca bestemmiando io esco e quasi per caso noto un adesivo che prima non avevo visto. E’ quello della bandiera sudista americana, del Generale Lee…Sulle prime non ci faccio caso poi un flash: Hazzard, la serie televisiva, quella di Bo e Luke Duke i due cugini country che saltavano con la loro macchina arancione qualsiasi cosa si trovassero di fronte, case e fiumi inclusi! No, non può essere vero…Ma tutti a me capitano i malati di mente?! Mi lascia in città, all’appartamento e ci diamo appuntamento per l’indomani. Una sacrosanta doccia e sono già fuori a curiosare.

Venticinquemila abitanti che vivono in un angolo magico stretto stretto tra la giungla e il Rio delle Amazzoni, sulla triplice frontiera tra Colombia, Perù e Brasile, questa è Leticia. Ci si arriva solo in aereo oppure navigando: da Iquitos, Perù, 250 miglia a ovest o da Manaus, Brasile, 1000 miglia a est. Se si esclude la Transamazzonica poco più a sud, le strade sono relativamente poche (una la stiamo costruendo, anzi riabilitando noi) e sembra che non portino da nessuna parte! Il fiume è tutto.

Verso la fine dell’ottocento la città era solo una piccola missione. Poi scoppiò la febbre del caucciù attirando migliaia di avventurieri che popolarono tutta la zona in cerca di fortuna. Ben presto ci si accorse delle potenzialità immense di questa regione così, finito il boom della gomma, adesso sono bauxite, ferro e petrolio a fare gola. Da allora non è cambiato molto, l’immigrazione continua e il Rio è sempre lì a svolgere la sua funzione di porta della speranza per migliaia di campesinos altrimenti senza futuro.

In questo braccio di fiume esistono diversi centri abitati, la maggior parte formata da quattro case, altri decisamente più grandi. Alla brasiliana Tabatinga il Perù risponde con l’ironico Puerto Alegre povero agglomerato di pescatori che di allegro non ha proprio niente. La gente, un miscuglio di tre nazionalità che parla indifferentemente spagnolo o portoghese, gravita incurante delle frontiere attorno al centro nevralgico, Leticia appunto, in una dinamica e serena convivenza.

Da brava città colombiana anche Leticia ha avuto un suo periodo “agitato”. Fu negli anni settanta, quando era una delle capitali del narcotraffico e dal suo aeroporto partiva la maggior parte della coca prodotta nel paese. Destinazione ovunque.

Erano tempi in cui la “plata”, il denaro, girava in grandi quantità ma, ricorda la gente, c’era almeno un morto assassinato al giorno! Fino a quando una massiccia operazione di polizia, coadiuvata dalla DEA americana, disse basta ristabilendo quella tranquillità che tutt’oggi si respira.

Di quel tempo sono rimaste tutte le opere urbane più importanti, ma soprattutto ricordi e leggende come quella che vuole la più grande discoteca della città comprata da un narcotrafficante a Miami, smontata pezzo a pezzo e dopo un viaggio in nave, ricostruita dove sorge ora.

La sensazione di chi non è abituato a questo fiume è quello di essere di fronte al mare. Lo sguardo si perde all’orizzonte, incapace di raggiungere l’altra sponda. E non c’è da stupirsi, questa sconfinata, incredibile massa d’acqua ha numeri che spaventano: oltre 6000 Km di lunghezza, una larghezza che può raggiungere i 4, profondità variabili tra i 30 ed i 300 metri.

E soprattutto una pendenza ridicola (50 metri di dislivello in oltre 2000 Km) che contribuisce a creare quell’aspetto surreale di luogo senza tempo, immobile e statico dove non esistono onde e la corrente non si percepisce. Sulle rive del Rio delle Amazzoni si vive con pazienza. E ci si abitua alle distanze, tanto qui tutto è lontano. Los “caboclos”, così vengono chiamati gli abitanti del fiume, sono discendenti di immigranti e avventurieri, gente abituata a convivere con una natura spietata dove temperature disumane fanno evaporare anche i pensieri e dove l’umidità non dà mai tregua. Sono pescatori, naviganti, allevatori, agricoltori. Sono poveri ma tenaci, in simbiosi con un fiume che un giorno ti dà tutto e quello dopo te lo toglie. Il mercato di Leticia ti avverte della sua vicinanza con l’inconfondibile profumo del pesce fritto che alcune instancabili donne non smettono di cucinare. Sono pesci mai visti, enormi e bizzarri, dai nomi musicali, Jaraquì, Tucunarè, Pirarucù, Jelitorè, che ti rimbalzano in testa come a sottolineare che questo è davvero un mondo a parte. E poi la frutta, esotica, coloratissima, profumata ed invitante dalle forme e dimensioni improbabili, figlia di una fantasia che solo la natura amazzonica può avere.

Tutt’intorno bambini che giocano correndo ed io, invecchiato di cent’anni da un afa che non ha pietà, mi chiedo come facciano. Già, ma loro sono nati qui e poi, si sa, i bambini, dovunque siano, non si stancano mai…

Di notte non chiudo occhio.

Il caldo e l’umidità quaggiù lavorano 24 ore su 24 e non vanno mai in vacanza, senza eccezione. L’aria condizionata non funziona.

La casa è un po’ isolata e circondata dal silenzio più silenzioso che si possa immaginare.

“Povero uomo di città”, penso guardandomi allo specchio del bagno, “così abituato al traffico e ai rumori della modernità che senza neanche una sirena o un rombo di motocicletta in sottofondo non riesci a prendere sonno…” Dalla finestra si intravede la foresta e oltre la foresta, il fiume. Ha appena smesso di piovere e uno squarcio tra le nubi scopre una luna enorme…Possibile che sia la stessa di Madrid?… Mentre all’orizzonte i lampi del temporale ormai lontano rischiarano le acque. Non c’è dubbio, sembra proprio il mare.

Rimango a guardare non so quanto, poi, vinto da una stanchezza più potente di qualsiasi clima, crollo sulla stessa sedia su cui ero seduto.

Quando mi sveglio sono le sei ma nonostante il rincoglionimento non ci metto neanche un secondo ad accorgermi dell’errore! Non mi preoccupa la schiena, anchilosata da qualche ora di postura irregolare si rimetterà, ma piuttosto la gamba destra, la caviglia sinistra, le braccia, il collo…Insomma tutto il resto! Sono gonfi come zampogne e mostrano i segni inequivocabili di un banchetto al quale pare abbiano partecipato tutte le zanzare dell’Amazzonia! Probabilmente passandosi parola, le bastarde! Non sono serviti Autan e repellenti vari…L’unica soluzione sarebbe stata la zanzariera, ma quella, giustamente, era sul letto!!!! Mi rivedo a otto anni in campeggio quando per imitare Zoff finii (vestito solo con dei calzoncini!) in una scarpata piena di ortiche! Si, è vero, la mia farmacia personale è più fornita del pronto soccorso di ER ma per efficace che sia, il chilo e mezzo di pomata che diligentemente mi spalmo non aiuta molto. Senza contare il salasso di sangue…

Cerco di non grattarmi anche perchè – lezione 2 del libretto di sopravvivenza per novelli Indiana Jones gentilmente fornitoci dalla consociata americana – il clima tropicale ritarda il rimarginarsi delle ferite e favorisce le infezioni. Poi un inequivocabile strombazzare tamarro proveniente dalla strada. È il Generale Lee…! Quando scendo Paco sta parlando con una vecchina che porta una cesta di frutta tre volte più grande di lei. Mi offre un nonsochè dolcissimo poi, come per tranquillizzarci, guarda in su e dice “Oggi non pioverà, sicuro!”. Un quarto d’ora dopo, puntuali come solo la sfiga sa essere, le cataratte del cielo si aprono e viene giù più acqua di quella che ho mai visto piovere in vita mia. Per 12 ore non smetterà! La vecchina della quale non so il nome viene prontamente ribattezzata Gufa! A dieci minuti di jeep nella giungla dopo un falsopiano ecco il cantiere! Non erano servite decine di foto e qualche filmato per farmene avere un’idea precisa ma adesso sono qui e non mi sembra diverso da un qualsiasi altro. A parte l’afa, s’intende!! Paco raduna gli operai, una trentina, e mi presento. Mi guardano scettici, hanno l’aria di studiare se potersi fidare o no. In realtà quello più in soggezione sono io. La loro fiducia è importante, non solo per la buona riuscita dei lavori di cui sono il direttore e quindi il responsabile (= quello da cazziare se qualcosa va storto), ma anche perchè un buon ambiente aiuta sempre, soprattutto quaggiù dove il clima rende tutto molto più difficile.

Non so proprio cosa dire poi di colpo un’illuminazione: mi tolgo la T-shirt e mostrando il risultato dell’attacco zanzarifero notturno chiedo se qualcuno ha una soluzione efficace! Risata generale, il ghiaccio è sciolto, meno male! Solo uno non ride ma continua a guardarmi sospettoso. “Es Francisco, señor” dice Paco, “no le haga caso, le falta algun tornillo!” (gli manca qualche rotella).

Dire che i giorni successivi sono tutti uguali sarebbe limitativo. Certo il lavoro (e il clima) è sempre lo stesso ma gli inconvenienti sono quanto di più vario e originale ci si possa immaginare. Un lunedì il diluvio si porta via una piccola betoniera (la ritroveremo in un fosso poco distante ricoperta di fango), martedì un enorme tapiro passa in mezzo al cantiere e incurante del rumore s’infila nel capanno degli attrezzi, mercoledì non lo so perchè per un attacco di dissenteria (colpisce il 60% degli “stranieri” in Amazzonia, figurati se io stavo nell’altro 40!!) rimango a casa, giovedì durante i lavori un operaio con un colpo sbagliato di machete quasi si amputa una gamba. Poi arriva venerdì, giorno di paga.

Il contratto degli operai prevede pagamento settimanale in contanti (dollari), appunto il venerdì pomeriggio. Per loro scelta durante tutta la settimana non tornano alle loro case ma vivono al cantiere in casette prefabbricate. Potrebbero uscire quando vogliono ma non vanno mai da nessuna parte. Fino al venerdì.

Si forma una fila e Paco distribuisce le buste.

Quando ognuno ha la sua io saluto e faccio per andarmene ma Paco mi prende per un braccio e ridendo mi dice “Espere, espere señor, que lo mejor es ahora!”.

Effettivamente c’è un’atmosfera strana… Si formano alcuni capannelli poi, a gruppetti di quattro cinque, cominciano a lasciare il cantiere…Nessuno dal cancello principale ma tutti dai posti più impensabili, mimetizzandosi nella giungla. Tutti tranne Francisco.

Tre minuti dopo un casino rompe la calma amazzonica. Sono urla di donne, improperi, alcuni colpi secchi…”presi anche ‘sta volta” sghignazza Paco e io continuo a non capire!!!!! La situazione, mi spiega, è questa: ogni venerdì un esercito di mogli, fidanzate, madri e nonne lascia Leticia e gli altri centri limitrofi per convergere sui pochi cantieri in zona, incluso il nostro. Sanno che è giorno di paga, sanno che i loro mariti, fidanzati, figli e nipoti riceveranno i soldi che servono per tutta la famiglia, e aspettano. Si, ma aspettano cosa? Non “cosa”, sottolinea Paco, ma “chi”! Aspettano proprio loro, gli operai, per riuscire a farsi consegnare le buste prima che vengano interamente “investite” in colossali bevute o in qualche ora di piacere in uno dei bordelli della zona, come quello costruito su un barcone che instancabile risale il Rio senza fermarsi mai e che, casualmente, il venerdì è sempre da queste parti!!! Ogni settimana gli uomini provano a farla franca dividendosi, scappando di corsa nella foresta, nascondendosi, ma niente da fare, le donne più furbe e scaltre li beccano quasi sempre! Quasi! Bisogna riconoscere che il nostro piccolo studio italo-spagnolo (l’italo sono io) nonostante una probabile e quasi certificata megalomania ben poco avrebbe potuto fare quaggiù senza il supporto degli americani. In un punto imprecisato della foresta truppe di ingegneri, geologi e topografi made in USA stanno sondando il terreno per localizzare al millimetro un enorme, dicono, giacimento di gas naturale e in previsione di un prossimo sfruttamento sono ben contenti che qualcuno assicuri (o ci provi) un collegamento via terra per lo meno decente. Per questo ci hanno fornito il loro appoggio incondizionato che si concretizza soprattutto in risorse tecniche e tecnologiche d’avanguardia. I contatti radio tra noi sono frequentissimi, quotidiani ma, per gentili che siano, la sensazione è sempre quella che ci (mi?) considerino un po’il cugino scemo da aiutare, guidare, controllare. Poi un giorno una chiamata diversa dalle altre: mi invitano (“would you to honour us by visiting…” addirittura) a visitare la loro “zona operativa” come orgogliosamente la chiamano! Sono piacevolmente sorpreso e interessato. Non solo potrò dare un volto a quelle voci via radio (a parte qualche riunione a NY e Bogotà non ho mai visto nessuno di persona) ma anche e soprattutto potrò assistere in prima fila ad un’opera gigantesca.

Il problema di non sapere esattamente dove si trovino è presto risolto, mi manderanno un elicottero. Meeting point una radura sulla riva del fiume poco fuori Leticia, il giorno dopo alle 8am.

Sono le otto meno dieci e sto aspettando.

La radura sorge in un punto dove il Rio, pacioso come sempre, fa una specie di ampia curva giusto di fronte ad uno dei suoi mille affluenti. In lontananza il rombo inconfondibile di un elicottero che si avvicina…Eccolo! Vola bassissimo, radente al fiume, inclinandosi vertiginosamente per seguirne il corso e sfiorando la vegetazione con le pale. Mancano solo i vietcong e la musica della Cavalcata delle Valchirie, per il resto…..Apocalypse Now!!! Il modello è proprio quello, verde e con i due portelloni laterali rigorosamente aperti. Cerco con lo sguardo la mitragliatrice, meno male, non c’è! Atterra e subito scendono due uomini con un’abbronzatura da obitorio. “Hi!” mi dicono, poi si allontanano barcollando (a vomitare suppongo) e non tornano più.

Sono un po’ stupito ma lo sconcerto si trasforma in terrore quando dalla cabina di pilotaggio esce proprio lui, sunsweet, il pericoloso kamikaze!!!! Oh no, cazzo, noooo!…Ancora!!…Ma allora lo fate apposta!! Come se non bastasse sfoggia sulla fronte una bandana con il simbolo del sol levante e alcuni ideogrammi. Magari è solo la pubblicità di un ristorante nipponico ma fa tanto “preghiera propiziatoria pre-suicidio” e a me passa il buonumore!!! Tutto sorridente mi dà una vigorosa pacca sulla spalla poi mi invita a salire! Stavolta vado dietro, non considerando – e me ne pentirò – i portelloni aperti!! Mentre affannosamente cerco di allacciarmi il cinturone prima che il pazzo decolli, guardo fuori. Da sotto una cesta enorme qualcuno mi saluta con la mano…È la Gufa!! Alè, la giornata è completa!!!! Dieci minuti dopo (che lascio alla vostra immaginazione) siamo arrivati.

Mi accoglie un pool di persone, mi chiedono del viaggio, io mento spudoratamente. “No doubt Tanaka is the best pilot in Colombia”, dicono…Figuriamoci gli altri penso io! Inizia la “visita guidata”. Non è quello che mi aspettavo, è molto, molto di più! Hanno costruito un paese intero, chiesetta inclusa, senza tagliare un solo albero ma approfittando (con il grato consenso del governo colombiano) di una radura prima occupata da una immensa piantagione dei narcos. E lo dicono con quell’aria very proud tipicamente americana, da salvatori della patria…

Hanno macchinari effettivamente d’avanguardia quasi tutti automatizzati e ciononostante ci sono moltissimi tecnici tutti indaffarati come in un enorme formicaio. Io, che mi sento come un bambino di fronte ad una gigantesca scatola di Lego-Tecnic, a stento mi trattengo dalla tentazione di giocherellare con la miriade di bottoni e leve che puntualmente mi trovo davanti, ma mi faccio forza e resisto. Poi all’ora di pranzo ci dirigiamo verso l’enorme padiglione che sorge al centro del villaggio. È il “Leisure Center”.

Avete presente Disneyland? Beh, esagerate pure.

Effettivamente era impossibile pensare che un qualsivoglia ingegnere americano, per stratosferico che fosse lo stipendio, rinunciasse a tutte le comodità di casa sua per venire a giocare a Tarzan nella giungla.

E così questi si sono ricostruiti gli Stati Uniti quaggiù, in Amazzonia.

Che siamo in “territorio yankee” ce ne si accorge subito non appena aperta la porta d’entrata. Non tanto per l’immancabile bandiera a stelle e strisce quanto piuttosto per il turbogetto verticale di aria condizionata che, sparato dall’alto, in un millisecondo ti criogenizza la cervicale…

Dentro l’enorme hall c’è …Non ci credo!… Un ristorante, anzi un fast food in piena regola che sforna tonnellate di hot dogs, hamburgers, patatine fritte, nuggets di pollo e milk shakes come nella più colesterolica tradizione americana!!! Una tentazione troppo forte…Non ce la faccio, mi butto! Tutto questo sarebbe già sufficiente se il bello non dovesse ancora venire e così, finita la (difficile) digestione, la visita continua. In un crescendo di incredulità mia e di soddisfazione loro mi mostrano nell’ordine: – sala cinema/Tv satellitare con Dolby Surround capacità 60 persone, – piscina con sala massaggi e sauna (ah-ah-ah in Amazzonia!!), – sala videogames/biliardo, – due piste da bowling, – palestra con squash-hall e campo da basket (lacrima di commozione!), – sala attrezzata con macchina lancia palle per allenarsi a baseball (!!!!), – sala internet (vuota perchè c’è la connessione alla rete in ogni appartamentino e come tutti gli americani che si rispettino ognuno ha il suo portatile, ma non si sa mai), – ospedale con tanto di sala operatoria fornita di apparati per risonanza magnetica e TAC, – gabinetto dello psicologo (l’hobby preferito degli americani, chi NON va dallo strizzacervelli ha dei problemi!), – monumentale biblioteca.

Dietro il Center la centrale energetica che controlla la miriade di pannelli solari che forniscono (non da soli) energia al complesso e, ciliegina sulla torta, la serra dove crescono rigogliosi pomodori ed insalata. Non avrete mica pensato che gli hamburgers li mangiassero sguarniti, vero? A proposito, per la cronaca la carne degli hamburgers e i würstel per gli hot dogs (a questo punto i più cari del pianeta!) arrivano settimanalmente da chissà dove insieme a mille altre cose con un aereo cargo che li paracaduta direttamente in zona!!!!!Non ci sono parole! Viene organizzato un breve workshop per fare il punto della situazione. Finito il mio resoconto, mi applaudono! Prenderanno per il culo o sono semplicemente stupiti che il cugino scemo sia così avanti con i lavori??? Ma non c’è tempo per dubbi amletici o sterili polemiche, è ormai ora di partire e tornare alla realtà! Abituato all’aria condizionata l’uscita è ancora più traumatica ma il vedere che il pilota dell’elicottero è un altro mi rigenera non poco! Saluto tutti e via, finalmente un volo tranquillo! L’indomani ho un febbrone da cavallo, non so se per l’invidia o (più probabilmente) per gli sbalzi di temperatura. Una telefonata a Paco (”..Yankees de mierda”, dice… Lui – che non li sopporta – dà la colpa sempre a loro!) poi mi giro dall’altra e dormo. Il giorno dopo sono già fresco come una rosa.

Arriva anche il venerdì, il mio ultimo quaggiù, la settimana prossima riparto. Dopo il solito rito del pagamento (con spettacolino annesso) rimango al cantiere a sistemare alcune pratiche.

Credevo di essere solo ma bussano alla porta dell’ufficietto. È Francisco. Francisco in un mese non ha detto che tre o quattro parole. Dovessi dare una nota di valutazione, come faceva la mia maestra delle elementari, scriverei… Un lavoratore meticoloso e instancabile con un’abilità manuale fuori del comune ma non socializza con nessuno degli altri operai. Men che meno con me e Paco.

“Señor… La semana pasada naciò mi hija… Me gustaria que la conociera…”, dice titubante con lo sguardo basso e il cappello in mano. Sono sorpreso soprattutto per la frase (una, intera, tutta di fila!) ma non ci penso un minuto e accetto con piacere. Gli si illuminano gli occhi e mentre ci accomodiamo per l’inevitabile brindisi a base di aguardiente…”Lo sabìa que usted no era como los demas…” (lo sapevo che lei non era come gli altri), bisbiglia. Mi sento orgoglioso! Abbiamo condiviso un mese di cantiere ma possiamo dire di non conoscerci affatto. Eppure stiamo seduti uno di fronte all’altro come due amici di vecchia data ridendo e scherzando. Soprattutto raccontandoci.

È un indio, di una di quelle tribù che popolano da sempre questa regione, in un villaggio sperduto a quasi due giorni (!) di viaggio da qui, così isolato e introvabile che la gente di città vi ha ricamato sopra le leggende più incredibili. Popolato da terribili uomini-giaguaro, da spiriti maligni, da entità soprannaturali e quant’altro il mix “fantasia popolare-ignoranza” può generare. Questo spiega le distanze che i compagni di lavoro hanno preso da lui! La gente della sua tribù vive di pesca, agricoltura e un po’ di allevamento ma lui no, voleva vedere il “mondo”, dice, (incredibile, abbiamo in comune molto più di quello che immaginavo!!) ed è venuto fino a…Leticia! Ha fatto i lavori più disparati poi si è inventato operaio.

Nonostante tutto questo ha mantenuto uno stretto legame con il suo popolo (dove vive ancora sua moglie e adesso appunto, sua figlia) e ogni due-tre settimane va in città e con i soldi della paga gelosamente conservati compra sementi, utensili e qualche medicina. Poi parte.

La mia curiosità aumenta, vorrei fargli mille domande ma non me ne viene neanche una…

Mi anticipa lui…”Señor, que tal se vive en el primer mundo?” La domanda mi lascia a bocca aperta…

Già, noi, abitanti di quel “primo mondo” tanto frenetico e all’avanguardia da prendersi la libertà di etichettare ogni altra zona del pianeta che non sia alla sua altezza, come viviamo? “Viviamo bene, credo, ma con molto stress e spesso poco contenti…” sono le uniche parole che mi escono dalla bocca. “Que es “estres”?”, chiede lui… Si, bravo, e adesso come glielo spiego io il concetto? “E nella foresta come si vive?”..Ribatto .

“No EN la foresta señor, CON la foresta”…E mi sento un po’ idiota! Continuiamo così un buon paio d’ore e minuto dopo minuto scopro che nella sua semplicità Francisco cela un sapere e una saggezza immensi, frutto di centinaia d’anni di tradizioni tramandate di padre in figlio, generazione dopo generazione. Sono affascinato…

Mi ha dato appuntamento l’indomani mattina alle 6 in riva al fiume poco lontano dal cantiere. Ho avvertito Paco (che stentava a credermi), ci rivedremo martedì.

Con il mio zaino pieno soprattutto di disinfettanti e repellenti per insetti fingo sicurezza e navigata esperienza ma mi sento tanto “Fantozzi va al safari”.

Arriva Francisco, in piroga! Riesco a salire a bordo e prendere posto senza errori (= finire in acqua). Questa la collocazione: lui piccolo e molto sicuro seduto dietro al timone, io alto e molto instabile davanti di vedetta. In mezzo i bagagli. Il mio compito sarà quello di evitare i numerosi tronchi e piante galleggianti che in questa stagione di acqua alta riempiono il fiume renedendo pericolosa la navigazione. Non male come responsabilità…..

Visto da “dentro” il Rio delle Amazzoni è ancora più impressionante e immenso. Il suo letto è solcato da moltissime altre imbarcazioni, quasi tutte di legno alcune piccole come la nostra, altre molto più grandi ed imponenti. Sono i “recreios”, i battelli passeggeri dalla forma leggermente ovale ed inarcata, che collegano le principali città. Alcuni sono belli nuovi e colorati, altri vecchi brutti e scrostati, ma tutti hanno nomi beneauguranti come “Fe em Deus”, o vivaci come“Flor do rio” e così via…

Sulla riva decine di pescatori si guadagnano la giornata. È un lavoro duro ma il fiume, oggi generoso, riempie abbondantemente tutte le reti, nessuna esclusa.

Gli indios hanno la loro personale teoria per spiegare l’origine del luogo dove vivono: in principio tutto era foresta poi un immenso albero cadde formando il Rio, con il suo tronco, e tutti gli affluenti, con i suoi rami.

Tungurahua, lo chiamano, Re delle acque.

La visione non è solo poetica ma anche estremamente efficace. Dal letto principale, infatti, partono (o arrivano) migliaia di “igarapes” rigagnoli piccoli, grandi o grandissimi che si perdono verso l’interno dando proprio l’idea di un albero dalle fronde intricate. Un labirinto in continuo movimento dove acque rossastre, verdognole o nere come la pece si mescolano continuamente a quelle del Rio, color caffè, dando vita ad acquarelli meravigliosi.

Di colpo lasciamo il corso principale per uno secondario e ci addentriamo nella foresta. Nessun’altra barca, nessun essere umano a parte noi. Un silenzio quasi totale rotto solo dal borbottio del nostro “peque-peque”(pronuncia peche-peche, dal rumore che fa) come vengono chiamati qui i piccoli ma instancabili fuoribordo che spingono queste canoe.

Ogni angolo riserva una sorpresa: uno stormo di migliaia di uccelli coloratissimi si libra in volo disturbato dal nostro passaggio, alcune scimmie sugli alberi ci guardano incuriosite, dalla riva di tanto in tanto si immergono alligatori interessati ad una possibile merenda fuori programma. E poi, incredibile, alcuni boto, i delfini di fiume, che ci nuotano a fianco mostrando il loro dorso lucido di un color rosa tanto meraviglioso che viene voglia di accarezzarli. In tutto il mondo si possono vedere solo qui, uno spettacolo unico, irripetibile. Il paradiso! In alcuni punti le fronde degli alberi sopra di noi si toccano, come a formare una galleria dove la luce quasi non filtra e l’umidità si fa ancora più opprimente. In altri ci dobbiamo praticamente fermare perchè le acque, alimentate dalle recenti piogge, sradicano isolotti interi che vanno alla deriva e sono pericolosi.

“Ma come fai a sapere la strada, se ogni giorno il paesaggio cambia?” chiedo a Francisco…”La siento”, risponde… E per l’ennesima volta rimango lì con quell’aria un po’ ebete di chi non sa cosa dire! Le ore passano ma solo sul mio orologio, il tempo tutt’intorno sembra essersi fermato! C’è una radura tra alcuni alberi e decidiamo di fermarci a mangiare qualcosa. Francisco scende e si addentra brevemente nella foresta, io resto ad aspettare. Poco dopo torna soddisfatto…”Todo bien!” e mi fa cenno di seguirlo. Un po’ all’interno, spostando alcune frasche, uno spettacolo celestiale: un piccolo laghetto dalle acque limpidissime coperte quasi interamente da decine di victoria regia, una pianta acquatica dalle foglie tanto grandi e resistenti da sopportare il peso di un bambino!! Siamo circondati da un arcobaleno di farfalle enormi che volano su fiori dal profumo inebriante mentre un tucano per nulla infastidito dalla nostra presenza osserva la scena. Si, è proprio il paradiso! Riempiamo un secchio e torniamo alla riva.

Mentre io accendo il fuoco chiedendomi cosa mangeremo, Francisco ha già srotolato una piccola rete da pesca e si appresta a lanciarla in acqua. In cinque minuti tira a riva un pescione enorme e, soprattutto, quattro o cinque pirañas!!!! A parte in un acquario è la prima volta che li vedo dal vivo…Effettivamente oltre che pericolosi sono orribili.

Il pescione cotto alla griglia si rivela, anche grazie ad alcune spezie, delizioso ma la sorpresa sono i pirañas. Si mangiano ben cotti, praticamente tostati come fossero biscottoni, per non sentire le numerose spine. Riconosco di essere un po’ titubante nell’assaggiarli ma poi ne mangio tre! Francisco sghignazza.

Ci fermeremmo volentieri un altro po’ ma c’è ancora molta strada da fare e dobbiamo ripartire.

Ci infiliamo sempre più all’interno, seguendo una ragnatela di viuzze d’acqua che a me sembrano tutte uguali. “Se succede qualcosa a Francisco”, penso, “non mi troveranno mai più!” A volte dobbiamo spegnere e ritirare il motore dall’acqua avanzando solo con le pagaie tanto è intricata la vegetazione, ma procediamo comunque abbastanza rapidi. Di tanto in tanto una folata d’aria più fresca venuta da chissà dove ci accarezza il viso aiutandoci a sopravvivere.

Siamo nel regno delle lontre giganti che, ignare di essere in via d’estinzione, si avvicinano curiosissime e per nulla intimorite come per studiarci da vicino…Meno male che non siamo bracconieri! Passata un’altra mezz’ora, di colpo rallentiamo e quasi ci fermiamo. Di fronte a noi, poco lontano, uno spettacolo incredibile.

Sul tronco di un vecchio albero schiantato che attraversa il corso d’acqua, un giaguaro splendido e maestoso si è accorto del nostro arrivo e ci sta fissando. Francisco lancia un grido e il giaguaro scatta sparendo nel fitto della giungla.

Poi, quando il sole sta già cominciando a colorare il cielo di un viola mai visto, un piccolo pontile, unica traccia umana dopo ore di natura incontaminata, fa capolino dalla selva e noi attracchiamo. Siamo arrivati, stanotte dormiamo qui.

C’è un capanno di legno senza finestre con il solo varco della porta, il “motel” personale dove Francisco fa tappa ogni volta che torna a casa.

Faccio per entrare con il mio zaino ma mi prende per un braccio…”sin prisa, sin prisa” (senza fretta), dice! Poi raduna delle ramaglie, alcune molto verdi, le colloca davanti all’entrata e accende un fuoco facendo in modo che il denso fumo penetri ben bene all’interno. Io, con in viso un’espressione alla Forrest Gump, guardo e non dico niente.

Di li a due minuti un’enorme, smisurata, gigantesca e ripugnante anaconda esce dal rifugio, ma non fa in tempo a sparire tra le piante che Francisco, con un colpo secco di machete, le taglia di netto la testa. “Stavolta siamo noi a mangiare lei e non viceversa” dice ridendo ed io, guardando quella specie di palo della luce che ancora si muove e pensando che stavo per entrare nella capanna, ho un lieve mancamento.

Ho mangiato formiche giganti, piraña (e hot dogs americo-amazzonici), figuriamoci se mi perdo il serpentone e così convertito il fuoco in un barbeque, inizia il banchetto. Il sapore, anche grazie alle immancabili spezie stavolta piccanti, ricorda con un po’ di fantasia quello del pollo.

Poi, per dessert, alcuni frutti rossastri e polposi che crescono su una pianta poco lontana e l’immancabile tinto che Francisco prepara con la sua caffettiera portatile.

Sistemo l’amaca mentre lui alimenta il fuoco, non prima di aver collocato all’interno della casa alcuni grossi fiori carnosi e maleodoranti. Gli insetti non li sopportano, dice. Li capisco, rispondo, e mi addormento di sasso.

All’alba vengo svegliato da alcune voci. Francisco in un idioma incomprensibile e gutturale, sta parlando con due uomini. “Buenos dias” mi dice, “estos son mis hermanos” e me li presenta. Io, che ormai ho rinunciato a capire molte cose, non chiedo come hanno fatto a sapere che arrivavamo visto che non hanno telefoni o altri mezzi di comunicazione e, per evitare un’altra risposta disarmante (telepatia? segnali di fumo? pappagalli spia?…) rimango con il mio dubbio! Stanno facendo una ricca colazione a base di anaconda…Io ripiego sulla frutta! Ci dividiamo i bagagli (già, senza loro due come avremmo fatto?) e in fila indiana partiamo verso l’interno.

Francisco e un fratello davanti con i machete, io nel mezzo, l’altro fratello dietro.

La luce filtra poco tra le piante e fa un caldo quasi impossibile. Gli sporadici acquazzoni che di tanto in tanto ci accompagnano invece che rinfrescare peggiorano la situazione. Sono fradicio, non so se per la pioggia o per il sudore ma è tutto lo stesso meraviglioso.

Ho smesso di contare le varietà di uccelli (pappagalli, tucani, colibrì…), farfalle, ragni, insetti, scimmie e chi più ne ha più ne metta, che vediamo, ma l’incontro con il bradipo (che qui chiamano “perezoso”, pigrone) non me lo dimentico. È li, di fronte a noi che ci guarda con un’espressione tonta, poi fa una smorfia che sembra uno sbadiglio e alla sua maniera si arrampica sul tronco di un albero. Così veloce che una lumaca arriverebbe prima.

Poi, le piante si aprono e dal nulla appare una radura. Siamo al villaggio.

Una ventina di capanne dal tetto di frasche, qualche recinto per gli animali e un gruppetto di bambini indios nudi che sguazza in una pozzanghera fangosa ridendo. Sembra un documentario naturalistico ma stavolta partecipo anch’io! Si accorgono di noi, accorrono un po’ tutti ed è subito festa. Pochi parlano spagnolo, i più comunicano con il loro dialetto “precolombiano”, ma c’intendiamo.

Dopo i primi momenti di titubanza ho già due o tre bambinetti arrampicati addosso, incuriositi forse dall’unico che supera il metro e 85 in una comunità dove l’altezza media è un metro e cinquanta.

Francisco mi presenta sua moglie poi, dopo aver distribuito gli utensili e le altre cose che ha portato, tutti e due andiamo a vedere sua figlia. È lì nella capanna in un’amaca-culla. È piccolissima e dalla pelle scura scura ma, con solo una settimana di vita già esplora il mondo con i suoi occhioni neri brillanti e straordinariamente vivi.

Entrambi la vediamo per la prima volta e non so chi dei due sia più emozionato.

Per celebrare è stato preparato un banchettone al quale parteciperà tutto il villaggio. Tra balli e canti mi invitano a provare di tutto. Pesci di ogni colore e dimensione, variopinte pappette di riso e non-voglio-sapere-cosa e strani tuberi che fanno da contorno a carni dai sapori forti, tra le quali anche quella di capibara, il roditore più grande del mondo. Se ne cacciano soprattutto i cuccioli, mi spiegano, più teneri, che dopo essere stati bolliti per toglierne la pelle, vengono tagliati a pezzi, lasciati macerare nel succo di chissà quale frutto e infine cotti con riso e spezie varie. Si mangiano con le mani insieme al pane di tapioca sbrodolandosi dappertutto e ricordano (molto alla lontana) uno spezzatino insipido. Il tutto innaffiato abbondantemente dal terribile guarapo che, vi ricordo, trangugiato ha lo stesso effetto che avrebbe il bere una molotov accesa! Anche la frutta è buonissima, papaye, manghi e soprattutto alcune banane tanto enormi e dolci che l’Uomo del Monte andrebbe fuor di testa!! Alla fine, come in ogni celebrazione che si rispetti, il momento del “dolce”. Dopo pirañas, anaconda e compagnia bella credevo di essere preparato a tutto ma mi ero sopravvalutato. Decine di larve bianche grandi come un dito e ragni (tarantole?) marron e pelosi come un kiwi sono infilati su bastoncini e arrostiti a fuoco lento mentre vengono ripetutamente cosparsi di acqua e zucchero. Risultato: uno spiedino caramellato, la pietanza più ambita soprattutto dai bambini che io, l’ospite d’onore, avrò il piacere di assaggiare per primo mentre tutti mi guardano! Che culo…!! Mi faccio forza e addento ad occhi chiusi. Cerco di non pensare a cos’ho in bocca e, sorretto ancora una volta da una poderosa fantasia, mi autoconvinco di star sgranocchiando un croccante di mandorle come quelli della fiera di S. Giuseppe. Sono finalmente uno di loro e per sancire questa adozione mi sottopongono ad un rito portafortuna invocando alcuni spiriti della foresta che mi proteggeranno. Poi è l’ora di provare le lunghe cerbottane che usano per andare a caccia. Nelle visite mediche al test spirometrico di solito mi difendevo bene ma qui niente da fare, il bisnonno del gruppo, asmatico e tisico, fa meglio di me. Tra le risate generali il dardo cade miseramente a 2 metri dai miei piedi e, considerato che la cerbottana è lunga almeno un metro e mezzo, la cosa è ancora più triste.

La sera, complice la stanchezza ma soprattutto uno stordimento – devastante! – da guarapo si va a letto presto. Di notte non smette di piovere e il ticchettio sulle frasche del tetto nonostante la sbornia epica mi tiene sveglio.

L’indomani pomeriggio salutiamo tutti e partiamo. Senza la mercanzia siamo molto più leggeri, anche il mio zaino è svuotato, ho lasciato buona parte delle medicine e alcune T-shirt al villaggio, e camminiamo più rapidi.

Dormiamo al solito “cottage” (niente serpenti stavolta ma i pirañas a cena non mancano mai) e il giorno seguente, martedì, dopo un’altro viaggio nella dimensone senza tempo, siamo di nuovo a Leticia.

Ringrazio Francisco, ci vedremo l’indomani!! Sulla via di casa incrocio la Gufa con il suo cesto di frutta. Me ne offre uno ed io, che ormai sono un indio protetto dagli spiriti e non temo più niente mi fermo ed accetto tranquillamente. Ha un sapore forte, quasi fermentato, ma ho mangiato ben di peggio e non mi preoccupo. Mezz’ora dopo sono in casa, seduto in bagno, in preda a dolori di pancia lancinanti! Eh già, alla sfiga non importa se sei il clone di Crocodile Dundee e Tarzan oppure un italiano fai-da-te, lei non guarda mai in faccia a nessuno e implacabile colpisce!!! Mercoledì, dopo una notte rigeneratrice riesco a rimettermi in sesto. Torno al cantiere dove nel pomeriggio, finita un’altra giornata di lavoro, con le ultime direttive mi congedo dagli operai che Paco ancora una volta ha radunato. C’è un clima di festosa allegria (perchè me ne vado?) e dal nulla salta fuori un barilotto di guarapo. Ci risiamo! Per una volta tanto anche Francisco sorride e partecipa.

Ultima chiamata via radio per salutare gli americani poi, prima di tornare a Leticia lo vado a cercare.

Lo trovo nella sua casetta e, senza fare in tempo a dire niente, ci abbracciamo. “Cuidate” (abbi cura di te), gli dico…”Hasta pronto!” mi risponde lui. A casa il martello pneumatico che ho nella testa si fa insopportabile così mi sdraio sul letto e mi addormanto (vestito)! Giovedì si parte. Niente Tanaka, bimotori scassati, voli a memoria e rischi assortiti ma un comodo aereo di linea fino a Bogotà poi rapido cambio e un altro diretto a Madrid.

E’ mattina presto e in piena sindrome da torre di Pisa (= incapacità di stare in corretta posizione verticale, tipica di ogni mio post sbornia) sto ancora finendo le valige quando il solito strombazzare anticipa l’arrivo del Generale Lee…

Dalla finestra vedo Paco e sorprendentemente anche Francisco. Ha voluto salutarmi per l’ultima volta.

“Scendo subito” grido “se appare la Gufa scappate”! Paco ride, Francisco non capisce.

Mi accompagnano all’aeroporto (guido io) dove ci congediamo rapidamente (niente sentimentalismi tra “rudi” uomini della giungla!) promettendoci di rimanere in contatto, fosse solo per seguire i lavori a distanza. “Non solo per quello” dico guardando Francisco…E per la prima volta mi rendo conto di quanto mi dispiace partire.

Nella sala d’aspetto un gruppo di americani di mezz’età sta rientrando a casa da una settimana di turismo amazzonico, di quelli all-inclusive con tanto di spettacolino indio e vendita di souvenir finto-autentici, triste anticipazione della fine che rischia di fare anche questo ultimo angolo incontaminato di mondo.

Mostrano facce stanche e un aspetto piuttosto dimesso ma non hanno perso la voglia di attaccar bottone ed è così il mio vicino di sedia mi coinvolge mio malgrado nel suo racconto. “Abbiamo patito un caldo pazzesco, è incredibile ma non c’era l’aria condizionata quasi da nessuna parte (!!) ed era impossibile fare una doccia o anche solo un pasto decente. Una vacanza orribile…Ma questo è il prezzo da pagare per aver voluto vedere la “vera” amazzonia”, sottolinea con fare vissuto da cow boy di frontiera…

Sono indeciso se ridergli in faccia, mandarlo direttamente affanc.… o citargli a memoria il finale di Blade Runner (“I’ve seen things you people wouldn’t believe (…) all those moments will be lost in time…like tears in rain…”) ma mi trattengo, sorrido e riprendo a leggere il mio libro.

A Bogotà complici ritardi, sovrappeso del bagaglio e un doganiere meticolosamente scassapalle quasi perdo la coincidenza per Madrid ma alla fine tutto si risolve.

Nell’ultimo mese ho dormito su una sedia, per terra, su un’amaca, sotto la pioggia, nella foresta ma è inutile, sulla poltrona di un aereo non ci riuscirò mai! Il libro l’ho finito, le riviste non sono interessanti, il film l’ho già visto…davanti a me troppe ore…Mi rimane solo il portatile, indispensabile strumento di lavoro e soprattutto geloso custode delle mie avventure. “Come sono finito quaggiù?”, mi chiedo… E chissà perchè mi viene in mente un mio vecchio compagno di liceo e Università, Bobo, ed inizio a scrivere…

Sto ripensando a quello che ho vissuto in queste ultime settimane, ad ogni sensazione provata, a com’ero quando sono arrivato e a come mi sento adesso che parto, se sono sempre lo stesso o se qualcosa in me è cambiato…

Poi me ne rendo conto. Non si può vivere, anche solo per poco, in questi luoghi e pensare di potersene andare come nulla fosse, qualcosa rimarrà per sempre dentro di noi e sarà proprio la scintilla che ci spingerà a tornare. Per le infinite sfumature di tramonti che tolgono il respiro, per i profumi forti ed i colori accesi di una foresta difficile ma incantevole, per il lento scorrere di un immenso fiume magico che sembra mansueto ma che nasconde una forza incomprensibile, per la cordialità di gente buona e semplice che non ha niente ma ti regala tutto. O anche solo per gli occhi neri e brillanti di una bambina appena nata che ti scruta curiosa dalla sua culla nel bel mezzo del paradiso come per dirti…A presto! È questa l’Amazzonia che ho conosciuto io. E già mi manca! Steve.



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