Traversata atlantica
La stessa esperienza l’ho fatta io nel 2008 e quindi provo a farne un resoconto.
La prima cosa che mi viene da dire è che non è scontato che la traversata dell’oceano presenti necessariamente difficoltà maggiori del viaggio dall’Italia a Gibilterra. Nelle famose o famigerate bocche di Bonifacio abbiamo incontrato un vento ed un mare tale da costringerci a riparare a Porto Vecchio, compiendo l’unica deviazione dall’itinerario prestabilito. Un altro punto critico lo abbiamo superato in Spagna, dalle parti di Carbonera, dove con un mare molto grosso ed un vento impetuoso ci siamo rifugiati in un porticciolo di pescatori adiacente la spiaggia cd “ de la muerte” (ed il nome la dice lunga sulle difficoltà che si possono incontrare da quelle parti). Ci è stato raccontato dal benzinaio del molo (peraltro molto gentile e disponibile) che l’anno prima un peschereccio era affondato all’uscita dal porto, mentre non si contano i bagnanti morti perché travolti sulla spiaggia dalla furia delle onde.
A parte questi due episodi, il trasferimento dal circolo Achab di Fiumicino alle Canarie (fatto ad agosto) è stato piacevole e ci ha consentito di trascorrere una piacevole vacanza, visitando località molto attrezzate dal punto di vista nautico ( i Reial Club nautici spagnoli danno parecchi punti ai “marina” nostrani sia per l’organizzazione che per i prezzi praticati).
Altro effetto positivo di questo trasferimento è stata la rivalutazione delle coste italiane per quanto riguarda la conservazione del paesaggio. Se solo penso a quello che hanno combinato in posti come “Dormiben”, con grattacieli costruiti sulla spiaggia e una miriade di palazzoni che fanno scempio della costa, devo rivedere le mie valutazioni sullo stato del nostro litorale.
Ma veniamo alla traversata vera e propria.
Siamo partiti da Gran Canaria in sei con un Ovni 435 il giorno 8 dicembre. La nostra barca (“Terra mia”) è di alluminio ed ha un serbatoio di 600 litri di acqua, sicchè non abbiamo avuto alcun problema di approvvigionamento idrico.
L’attrezzatura della barca era quella di cantiere. L’unico strumento aggiuntivo che abbiamo installato è stato “Michele”, ossia il timone a vento così rinominato in onore di Michele Nardone, che lo ha regolato e messo in condizioni di funzionare. L’utilità del timone a vento è stata enorme e ci ha consentito, specie di notte, di alleviare notevolmente la fatica dei turni.
Altro strumento molto utile si è rivelato il cd A.I.S., che segnala la presenza e la rotta degli altri natanti nel raggio di 30 miglia, se non vado errato. Certo in Atlantico l’A.I.S. Non ha lavorato molto ( abbiamo incrociato due o tre navi in tutto) ma la tranquillità dal punto di vista psicologico è stata notevole.
Di scarsa utilità invece si è dimostrato il Navtex, che non ha mai funzionato bene, forse per problemi di antenna e per la nostra inesperienza nell’utilizzarlo. A proposito di navtex, ricordo che una mattina il nostro comandante (Sergio Papagni) ci ha accolti al cambio del turno con aria un po’ strana, dissimulando una certa preoccupazione. Dopo aver fatto alcune domande sul funzionamento del Navtex (Sergio è un marinaio eccezionale ma di vecchio stampo, piuttosto restio a misurarsi con le diavolerie della moderna tecnologia) ci ha comunicato che le previsioni del Navtex davano in arrivo una tempesta di notevole intensità. L’umore a bordo è mutato radicalmente, fino a quando, dopo aver consultato il manuale d’uso e decifrato i vari simboli, ci siamo resi conto con sollievo che l’allarme era stato lanciato da una stazione radio del nord atlantico e che la zona della tempesta era, per fortuna, ben lontana dalla nostra rotta. Questo piccolo brivido avremmo potuto evitarlo se solo avessimo seguito le insistenze del mio socio, Elio Michelini, che raccomandava l’acquisto di una radio SSB per poter ricevere via fax le previsioni del tempo.
Previsioni che, grazie ad un satellitare, ci venivano comunicate quotidianamente da vari amici che ci hanno seguito durante la navigazione.
Proprio grazie a questi contatti telefonici quotidiani, abbiamo appreso, dopo tre giorni di navigazione, che era in arrivo una grossa perturbazione, con venti previsti fino a cinquanta nodi. Visto che la rotta che avevamo preventivato passava a circa cento miglia a nord di Capoverde e che l’idea di far tappa in queste isole era da alcuni caldeggiata e da nessuno decisamente osteggiata, abbiamo deciso di far rotta su Sao Vicente, dove siamo arrivati di notte, con mare grosso e raffiche di vento quali non avevo mai visto. La sosta di due giorni ci ha consentito di avere una idea del luogo (che purtroppo per i turisti ma per fortuna dei locali – decisamente in gran parte poveri – si sta velocemente trasformando), di acquistare frutta e verdura e di apprezzare la simpatia e disponibilità degli abitanti. Ricordo una serata trascorsa in un ristorante dove i locali ballavano con un piacere ed un impegno che non avevo mai in precedenza sperimentato.
A Sao Vicente, purtroppo, per problemi di carattere familiare, il nostro medico di bordo Marco Santilli ci ha dovuto lasciare per rientrare a Roma. Oltre a perdere l’apporto di un validissimo marinaio e ottimo amico, ci siamo ritrovati con la barca piena di medicinali da lui consigliati ma che, in sua assenza, divenivano in gran parte inutilizzabili (molti li abbiamo poi regalati ad un ospedale di Santa Lucia.).
Siamo quindi ripartiti in cinque (io, Sergio, Elio e Michele, di cui sopra, e Luigi Leonardi, altro uomo di mare con vastissima esperienza).
Appena lasciate le isole ci si rende conto che il viaggio è di sola andata. La potenza dell’oceano e la forza del vento rende immediatamente chiaro a tutti che, qualunque cosa accada, si può solo procedere in avanti. Per vivere un’esperienza del genere occorre quindi una forte motivazione e una certa dose di fatalismo, oltre che una totale fiducia nelle capacità dell’equipaggio.
Proprio quest’ultimo fattore è stato fondamentale per me, che non ho una grossa esperienza di navigazione, visto che la bravura dei miei compagni di viaggio mi ha convinto del fatto che saremmo stati in grado di fronteggiare al meglio qualunque evenienza.
E qualche avversità, sia pure non gravissima, abbiamo dovuto superarla. Una notte ci siamo ritrovati con il genova a mare per la rottura di un grillo della drizza. Per nostra fortuna, il giorno successivo, abbiamo avuto una delle giornate più tranquille (sempre oceanicamente parlando) e il buon Elio è riuscito, non senza qualche difficoltà, a salire in testa d’albero per le riparazioni necessarie.
In altra occasione, il tangone è fuoriuscito di notte dal suo alloggiamento e ha iniziato a spazzare il ponte. In quella occasione il mare era molto grosso ma, dopo qualche esitazione, io ed Elio ci siamo portati a prua per sistemarlo.
A parte questi due episodi, ed un groppo con raffiche di 50 nodi, la navigazione è stata abbastanza tranquilla, anche perché dopo qualche giorno si fa l’abitudine a vedere onde di 3, 4 o 5 metri che ti inseguono, ad essere sballonzolati da una parte all’altra, a mangiare con le stoviglie che tendono a volare, a dormire poche ore al giorno e così via.
La innegabile fatica e tensione che comporta lo stare in mezzo al mare per quindici giorni, senza vedere niente e nessuno, a mille e passa miglia dalla costa più vicina, viene ampiamente ripagata dallo spettacolo che l’oceano offre con il susseguirsi di albe e tramonti spesso spettacolari, con il blu intenso del mare, con il repentino cambio delle situazioni al passaggio dei groppi (il mare improvvisamente si spiana, il blu diventa verde – di giorno- o, la notte, di un nero incredibile), con il volo dei flying fishes o di uccelli solitari che si spingono a centinaia di miglia dalla terra. Per non parlare dei delfini che, specie nella prima parte del viaggio, ci hanno spesso accompagnato regalandoci momenti di autentica gioia.
La sola delusione mi è derivata dalla scarsa luminosità delle stelle. Mi sarei aspettato di poter quasi toccare con mano la via lattea o di vedere nelle migliori condizioni possibili le stelle e i pianeti ma così non è stato anche nei momenti in cui il cielo era sgombro da nuvole.
Ma torniamo al punto da cui sono partito. Se a bordo di una moderna imbarcazione dotata di sofisticati strumenti elettronici, che ti consentono di sapere esattamente il punto in cui ti trovi e quanto manca all’arrivo, il grido “terra terra” ti vien fuori spontaneo e liberatorio all’atto dell’avvistamento del vulcano Mont Peleè (Martinica), non è difficile immaginare quello che deve essere successo a bordo delle Caravelle di Colombo allorchè è stata avvistata la terraferma dopo un mese di viaggio verso l’ignoto. Probabilmente sensazioni molto simili devono provarle quei pescatori (che in un primo momento avevo con qualche apprensione scambiato per pirati) che viaggiavano su un gozzo di piccole dimensioni e che si erano spinti a distanze inimmaginabili dalla costa africana, spinti evidentemente da motivi ben più concreti dei nostri.
Roma novembre 2009 Enrico Imprudente