Transiberiana Mosca, Vladivostok 2006
Quale idea migliore per le vacanze di un ventottenne, in forze, libero, curioso e un po’ incosciente? Il viaggio, per di più, è in solitaria. L’amico Edoardo alla fine ha scelto di rimandare; ma sono altrettanto pronto al viaggio. Anzi, in questo modo il tutto assume una dimensione più epica nonché dei non irrilevanti tratti di sfida interiore.
Impossibile nascondere l’entusiasmo, negli ultimi giorni. Tra amici e colleghi, la reazione alla notizia è stata di quattro tipi: 1. Stupore Entusiasta Partecipativo, del tipo “Che bello… vorrei venire anche io!” 2. Apprensione, del tipo “Mamma mia… stai attento eh, fammi avere tue notizie” 3. Ignoranza, del tipo “Transiberiana? E cos’è?” 4. “Questo Qui È Pazzo” Vabbè.
L’uscita d’imbarco inizia ad affollarsi: famigliole biondissime, italioti in vacanza, una splendida fanciulla che pare venire da Legoland e nell’attesa estrae un mazzo di carte e si fa un solitario.
Passaporto e visto sono al sicuro nel mio taschino.
30 luglio Mosca, h 16:00, km 0 Sono sul treno Sibiriak, che tra venti minuti partirà. I due giorni a Mosca sono passati velocissimi. Le ore di sonno perdute nei giorni precedenti alla partenza mi hanno causato una stanchezza enorme nel giorno di arrivo, tanto che sia Sergej, il simpatico ragazzo che è venuto a prendermi all’aeroporto, sia Olga, la gentilissima signora che mi ha ospitato, si saranno chiesti, vedendomi, dove mai avrei preso le energie per affrontare il mio lungo viaggio. Comunque, una buona dormita è bastata per rimettermi in sesto.
La prima impressione sulla città, come avviene spesso, l’ho tratta dal parco veicoli che si è presentato ai miei occhi una volta sbarcato in aeroporto. Una proxy valida anche in questo caso: accanto a vecchie, enormi, polverose Volga e Lada, spiccano macchinoni esagerati e lucidi (Mercedes, Bmw, Chevrolet, Lamborghini, etc). Una città dunque dai forti contrasti. La conquista della libertà, soprattutto di quella economica, ha creato un far west – e questo è noto – in cui chi è abile (e ancor meglio senza scrupoli) vince, chi no vivacchia, e chi resta indietro arranca. Una città enorme, smisurata, con strade a 4 corsie anche in centro; servita benissimo da una metropolitana stupenda: efficiente e bella da guardare. Elegante, lussuosa, con un gusto tutto sovietico per lo sfarzo, ereditato dagli Zar (almeno quello, e almeno per sé…).
Mosca è ormai una metropoli internazionale, forse troppo influenzata dallo stile di vita occidentale, sicuramente sviata in molti casi dalla nuova ricchezza. Mantiene qualche angolo di fascino tipico, come la piccola cattedrale di Kazan, che mi ha colpito più di tutto ciò che ho visto nella Piazza Rossa e nel Cremlino (ma il groppo alla gola di fronte alla Duma e alla sede del Soviet Supremo era notevole), e i Banya Sanduny, dove ho sperimentato (dopo un po’ di incomprensioni iniziali col personale, dovute alla lingua) il piacere profondo quanto provante di una vera sauna russa e di un vigoroso massaggio col sapone, che ti scuote da capo a piedi con la rude morbidezza di uno schiacciasassi.
Ecco, il treno si è mosso. Si parte: destinazione Novosibirsk (per il treno), Ekaterinburg (per me).
I miei compagni di viaggio fino a Ekaterinburg saranno Vladimir Petrovic e sua figlia Olga. Un altro signore di cui non conosco ancora il nome si fermerà a Vyatka, e legge Kant. Olga è una ragazzina molto sveglia, che grazie al suo inglese mi ha già aiutato: a prendere a noleggio le lenzuola per stanotte. Tra i vari elementi che accomunano i visi russi, lei ha lo Sguardo Profondo (e, nel suo caso, nero).
Ma dicevo, di Mosca. Ieri sera ho passato la serata con l’eccezionale Alsu, ragazza di origine tatara, amica di un mio ex compagno di collegio. È stata davvero gentile: nonostante le fatiche della sua giornata, mi ha accompagnato lungo un bel tragitto a piedi che da Piazza della Rivoluzione ha piegato verso la Moscova, passando per la Cattedrale di Cristo Salvatore (spettacolare), e poi tornando attraverso l’elegante zona delle ambasciate verso Stare Arbat, dove si consuma il passeggio serale dei giovani moscoviti. La cena in un singolare ristorante azero mi ha fatto conoscere una caratteristica crepe ripiena di carne e verdura, con una spezia che poteva essere cannella, ma chissà (la mia dimestichezza coi sapori è pari a quella di Cassano con la sintassi). Alsu tradisce le origini tatare in virtù di una chioma densa e scura e una carnagione quasi latina, che non è frequente vedere da queste parti. Il carattere forte e sicuro non so sia compreso nel pacchetto “Tatar”, comunque lei lo ha. Stamani sono andato alla ricerca di una chiesa cattolica che mi avevano assicurato essere in Bolscioe Gruzinskaya uliza, ma niente: trenta minuti di camminata che non si sono risolti in una preghiera in casa del Signore, ma che spero – vista la fatica – mi valgano lo stesso la Sua protezione.
Mi sono presto reso conto che i russi parlano molto più veloce della signorina delle cassette DeAgostini che ascoltavo più di dieci anni fa. Sull’autobus, “piatnadzat rubliei” è stato trasformato dall’autista che mi chiedeva 15 rubli in “piz-t-r-bli”. Oleg, il controllore del treno, mi ha chiesto “scis-t-sie” rubli per le lenzuola, io lo avrei capito se avesse scandito “sciestdisiat-siem”, per fortuna è intervenuta Olga col suo sixty-seven.
Il treno è molto più bello di quanto sperassi. Elegante e mantenuto in ordine dalla provodnitsa Alla, ha scompartimenti da quattro cuccette, cosicché ciascuno può occupare il proprio divanetto (io, al pari dei miei compagni di viaggio, l’ho già preparato col materassino e le lenzuola per la sera). Il padre di Olga ha appena tirato fuori uova e pomodori, qui mi sa che si cena (sono le 17:30, eh). Tra un po’ (19:30), dovremmo arrivare alla prima fermata, Vladimir.
Le tende blu sono molto efficaci. E anche se Turgenev mi aspetta, sono troppo incuriosito da questa famigliola.
Dopo Vladimir, h 20:40, km 200 ca.
La famigliola mi ha offerto solo dei bake-rolls (oltre a della buona birra), e quindi, superata la stazione di Vladimir – dalla quale ho scorto le tipiche cupole dorate di una cattedrale – ho iniziato a pormi il problema della cena. La signora Olga, stamani, mi aveva riempito: tre fette di pane e formaggio, una porzione di una specie di strudel (che normalmente non mi fa impazzire, ma non stavo certo a sottilizzare), tè e yogurt. Ma a pranzo ero di fretta e ho dedicato più tempo a fare foto a Gorky Park che al mio stomaco, mettendolo a tacere col solito wurstel (che chissà perché veniva chiamato “hot dog francese”); insomma, cominciavo a sentire un certo languore. E poi avevo voglia di conoscere questo famigerato vagon ristoran della Transiberiana.
Se il treno mi era parso tutto sommato bello (è come un nostro intercity, ma più pulito e scuro – il rivestimento interno – e con le efficaci tende blu), la carrozza ristorante di questo Sibiriak è davvero eccellente. Mi è sembrato di tornare indietro di un paio di secoli: tendaggi sfarzosi, velluti, servizi buoni; tutto in una tonalità rosso scuro, molto regale. Arrivato lì, scorgo a un tavolo il mio compagno di scompartimento ancora innominato, e lui mi fa cenno di sedermi con lui. Apprendo dunque – più grazie al mio stentato russo che al suo zoppicante inglese (ed è tutto dire) – che si chiama Mihail, fa l’ingegnere, è stato in Spagna e non in Italia, e a quanto pare è molto divertito dal fatto che la Juventus sia in B. Bene.
Il menu è quasi indecifrabile, e allora mi affido a quel “quasi”, ordinando un assorti miassoe che riconosco come “assortimento di carni” (ma ovviamente si riveleranno solo salumi).
L’altra bella (è il caso di dirlo) sorpresa del vagone ristorante è una delle cameriere: non so come si chiami, ma è un po’ il punto d’incontro di tutto il fascino russo. Alta, il portamento sicuro ed elegante, capelli lisci, rossi e corti a coccolarle il viso; un viso al contempo da diva e da amica, dominato da un paio di grandi occhi verdi. Mentre mi fissava incuriosita cercando di interpretare i miei monosillabi slavi, essi diventavano, per lunghi momenti, ancora più grandi – e sorridevano al posto delle sue labbra carnose, che invece restavano composte.
Torno al mio posto schivando un giovane completamente ubriaco all’altezza del vagone n.9. Ormai la maggior parte dei viaggiatori dorme, ma non nel mio scompartimento, dove Vladimir e Olga gustano il tè, e Mihail continua a leggere Kant. Per me, è ora di Thom Yorke, che rende sempre tutto soffice e pulsante.
31 luglio Vyatka, h 5:36 (ora di Mosca), km 956 In piena notte, il buon Mihail ha cercato di non farsi sentire, ma lo stesso il suo risveglio e la sua preparazione per l’uscita a Vyatka (nome sovietico, ancora in uso negli orari ferroviari, Kirov) ci ha fatto aprire gli occhi. Mi ha fatto molta tenerezza, mentre si rivestiva con la camicia buona, la giacca e la cravatta; trasferte di lavoro simili (956 km in treno) fanno impallidire quelle per cui ho osato sentirmi stanco in passato… Alla stazione di Vyatka la sosta di 20 minuti mi ha consentito di scendere dal treno; infreddolito, ho concluso la mia prima compravendita con una babushka; la più cara delle babushke di tutte le Russie, visto che per del cioccolato e del tè ho speso l’equivalente di 3 euro. L’affare mi ha fatto trattenere in banchina più a lungo di quanto la mia t-shirt mi consentisse, ed ora sono qui a ristorarmi con l’acqua calda del samovar (cui la bustina di tè non ha aggiunto molto sapore), mentre il treno ha ripreso la sua corsa tra le betulle – e adesso anche qualche pino.
Balyezino, h 9:05 (ora di Mosca), km 1192 L’arresto del treno alla stazione di Balyezino mi sveglia definitamene. Scendo per prendere un po’ d’aria. La banchina (pseudo-banchina, in terra battuta) è invasa dalle babushke, che offrono di tutto, dalla matrioska agli shampoo alle ali di pollo. Queste ultime mi attirano molto, ma ho appena cortesemente rifiutato l’offerta di Olga che mi invitava a fare colazione con lei e il padre, sostenendo di non avere fame… Comincio a pormi il problema dell’ora. Già da Vyatka, infatti, saremmo teoricamente con un’ora in più rispetto a Mosca; ma l’orario illustrato nel corridoio del treno – così come tutti gli orari mostrati lungo la linea Transiberiana – seguono l’ora della capitale. Decido quindi di non spostare le lancette dell’orologio: lo farò solo scendendo dal treno a Ekaterinburg.
Oblast di Perm, h 15:00 (ora di Mosca), km 1600 ca.
Siamo da qualche parte nell’oblast di Perm, città che abbiamo lasciato un paio di ore fa. Tra un po’ dovremmo arrivare a Kungur e superare poi l’obelisco che segna il confine tra Europa e Asia. In realtà, per quanto ne so, potremmo averlo già fatto. Nelle ultime due ore infatti mi sono distratto, prima affrontando una coscia di pollo con patate, acquistata per 40 rubli (poco più di un euro) alla stazione di Perm., poi lavandomi alla bell’e meglio in quelle trappole che sono le tualet del treno Sibiriak. E infine, sono andato nel vagone ristorante a concedermi un cappuccino (concedermi: perché costa quasi il doppio della coscia di pollo della babushka). Lì, ho subito incontrato lo splendore di cui scrivevo prima. Sorridente, mi fa accomodare a un tavolo, recepisce il mio “kofye s malakòm” e me lo serve con grazia. La invito a sedersi con me e lei sorride incredula, come se fosse onorata, e allora mentre si sedeva di fronte a me, tra quei drappeggi di velluto rosso, mi sembrava di vederla non già nella sua camicina bianca ma in una veste elegante, ottocentesca, con pieghe ampie e armoniose. Erano più i sorrisi che le parole, visto che la tenera Lilya da Novosibirsk non parla che il russo; ma i suoi begli occhi brillavano di attenzione, una principessa che nei suoi 22 anni non ha visto altro che il tratto Novosibirsk-Mosca… 2 agosto Stazione di Ekaterinburg/Sverdlovsk, h 8:45, km 1814 Il momento è topico. Ma sono tante le cose successe da quando ho smesso di scrivere.
Ekaterinburg.
Due ore prima di arrivare a destinazione, mi siedo nel vagone ristorante, sperando di rivedere Lilya. Le pagine di Turgenev e la vodka scorrono, vellutate, ma lei arriva solo quando mancano venti minuti al momento in cui sarei dovuto scendere dal treno, e si siede accanto a me. Il suo viso è insieme sorridente e triste, come un magnifico fiore. Le prendo la mano e sulle note di un tango belga si realizza l’ideale romantico (sempre in senso letterario) del viaggiatore, quello dipinto da Turgenev tramite l’opposto nichilista Evgenij Bazarov; quello capace di cedere tutto il suo cuore in pochi minuti, quello che crede nei valori, e che dà del voi alle ragazze. L’ultimo bacio, quello d’addio (sappiamo entrambi che non ci rivedremo mai più, e sappiamo entrambi che nonostante ciò la nostra magica affinità è troppo sincera per non serbarne un ricco ricordo), l’ultimo bacio, dicevo, è un baciamano.
Il vecchio Nicolaj, che a giudicare dalle rughe era vivo quando il suo omonimo Romanov veniva ucciso da Sverdlov nella stessa città (1918), mi prende in stazione e mi porta a casa (un appartamento vuoto, contrariamente alle attese). Contatto subito Evgenij, conoscente anche lui di Fabio, e con lui e i suoi amici passo una splendida serata. Dima è il più ubriaco di tutti e davanti alla vodka prima, lungo Lenina Prospect e sotto il monumento a Djukov poi, ci infervoriamo in discussioni appassionate e sincere, che svariano dal calcio (Dima è un grosso fan dell’Italia e di Cannavaro, e mi invidia molto perché posso dire di essere Campione del Mondo!) alla religione, all’economia e alla storia. Il giorno dopo, mal di testa post-vodka a parte, scorre tranquilla tra una piacevole passeggiata per Ekaterinburg e una festa di compleanno a casa di Anatolij, amico di Evgenij; il suo monolocale, che si trova in uno squallido block in periferia, è sorprendentemente bello, arredato con un gusto occidentale modernissimo. Durante la festa, manco a dirlo, l’attrazione principale era l’”italiano pazzo che va da solo fino a Vladivostok”.
Il contrattempo.
A dispetto di tutti i “good luck” che mi sono beccato, il contrattempo è arrivato, puntuale. Puntuale lui, ma non io né il vecchio Nicolaj: il treno delle 3:52 per Irkutsk è perso.
Aspettavo una chiamata alle 3:00 per essere portato in stazione, ma il sonno ha avuto il sopravvento e la chiamata non è arrivata. Quando apro gli occhi sono le 4:00; mi fiondo in strada e c’è solo il nulla. Panico.
Chiamo l’agenzia e arriva subito Constantin, con cui andiamo in stazione. Dà istruzioni alle impiegate della biglietteria e mi lascia lì, con molte parole di conforto. In realtà, so già per le prossime 4-5 ore dovrò aspettare impotente che le dyevushke mi diano notizie (incomprensibili) sulla disponibilità o meno di biglietti per i prossimi due treni per Irkutsk. Le possibilità sono tre.
1) C’è posto sul treno 240: partirei alle 11 e arriverei nel pomeriggio del 4 agosto; il che vuol dire che avrei tempo per visitare Irkutsk e poi, come da programma, prendere il treno 2 per Vladivostok il 5 agosto alle 7:38.
2) Non c’è posto sul 240, ma c’è sul 2: che parte stanotte (1:42) e arriva a Irkutsk ventisette minuti prima di ripartirne (già, infatti è lo stesso che mi porterà a Vladivostok); niente visita di Irkutsk.
3) Non c’è posto da nessuna parte: richiamo l’agenzia, uccido tutti, e poi mi suicido.
…Ecco, la roulette ha parlato: è uscito il numero (2). Il viaggio prosegue. Non vedrò Irkutsk.
h 21:15 Ai capitoletti precedenti, adesso, mi tocca aggiungerne uno.
La tragedia.
Già. L’unica persona in stazione che sapeva un minimo di inglese e che quindi mi aveva aiutato a interpretare le news sul mio destino era una ragazza dall’aspetto innocuo, anzi quasi simpatico; ma che se ora, dopo 12 ore, è viva, lo deve solo al mio self-control. La ragazza in questione, dal già fastidioso nome di Gulnaz, che quando me l’ha detto stavo per invocare l’aiuto di Gandalf per proseguire il mio viaggio verso il Monte Fato, si è sentita in dovere di farmi compagnia e aiutarmi durante la lunga attesa. Ma la giornata è diventata così un incubo, un po’ per casi fortuiti (come la sua unica chiave di casa che si inceppa nella serratura), un po’ perché il Nazgul notoriamente non è una cima di brillantezza e rapidità, e ne ha combinate di tutti i colori per farmi spazientire, seppur involontariamente. A poco a poco i nervi cedevano e con essi il mio savoir-faire; A fine giornata odiavo tutto in lei, dalla faccia, alla voce, alle riviste promozionali. L’ultimo, definitivo saluto è stato quanto di più falso abbia mai fatto nella mia vita.
…Ora dunque sono in stazione, e attendo il treno, sollevato. Il mondo mi sorride. Non vedrò Irkutsk, è vero. Ma chi se ne frega: mi sono liberato per sempre del Nazgul.
Questa stazione in fondo è bella: la sala d’aspetto ha dei gradevoli affreschi moderni che illustrano la recente storia della Russia e del mondo. Però, dopo la giornata odierna, mi è inevitabilmente venuta in odio. Non la città, tuttavia; che continuo ad apprezzare per la sua ariosità e la sua anima placida e lavoratrice.
Un altro mio personale indice di modernità per le città è la segnaletica orizzontale nelle strade; qui le linee bianche per terra sono rarissime, e non ho mai visto delle strisce pedonali. C’è ancora da crescere.
Ekaterinburg, in effetti, è piuttosto lontana dal mondo. I turisti sono quasi assenti, e quando vado per le strade la gente mi guarda come fossi Brad Pitt in Sette anni in Tibet.
3 agosto Tra Ishin e Omsk, h 14:05, km 2700 ca.
Da 12 ore circa sono a bordo del treno 2. Salito verso le due di notte (ora di Ekaterinburg), mi sono subito ‘installato’ al mio posto, giusto il tempo di comprare le lenzuola (ormai con una certa self-confidence) dalla provodnitsa, e di vedere che nel mio scompartimento viaggiano tre signore che – poverine – ho svegliato pesantemente col mio arrivo. Stamattina, però, tutte si sono mostrate molto cordiali; e del resto l’intero vagone è tranquillo, rallegrato anzi dai giochi di tre tenerissime bambine (bionde, ça va sans dire). Ciò mi consente di lasciare con fiducia il mio scompartimento ed esplorare il treno – come avveniva sul Sibiriak. Questo Rossiya, però, è meno bello del Sibiriak. Anche il vagone ristorante è decisamente più anonimo, privo dello sfarzo rosseggiante di quello che ho conosciuto: un ben più post-sovietico marrone riveste le pareti di questa carrozza, e i tavoli sono più modesti, così come il servizio.
Il problema è quello delle batterie. Le prese di corrente non funzionano, almeno non quelle del mio vagone. Cercherò dunque di razionare il più possibile la carica del cellulare per poter inviare messaggi a casa di quando in quando.
Questo treno è anche – rispetto al Sibiriak – molto più frequentato dai turisti. Probabilmente perché è l’unico che effettua l’intera tratta Mosca-Vladivostok. C’è un gruppo di ragazzi francesi, uno di tedeschi, una coppia olandese, una inglese, una svedese. Tutti loro scenderanno a Irkutsk (…Irkutsk…!) per visitare il lago Baikal e poi dirigersi verso Ulan Bator e quindi Pechino.
Cambio regime di gestione dell’orologio. Vista la lunghezza del tragitto, nonché la distanza da Mosca, mantenere l’ora della capitale non sarebbe comodo; decido quindi di adeguare il mio orologio ai fusi orari locali, man mano che cambiano. Adesso, per esempio, ci siamo appena fermati a Omsk e sono le: • 10:00 ora italiana • 12:00 ora di Mosca • 14:00 ora di Ekaterinburg • 15:00 ora di Omsk Fra l’altro, poiché viaggiamo verso Est e dunque andiamo incontro al sole che si leva, i giorni vanno via via accorciandosi…
Barabinsk, h 19:35, km 3035 La ‘stazione’ di Barabinsk è un altro di quei casermoni di cemento che tanto sanno di post-comunismo.
Ogni volta che scendo giù dal treno incontro qualche nuovo gruppo di occidentali. Avevo appena comprato da una babushka, per 20 rubli (circa 50 centesimi) dei blinciki, frittelline ripiene di ricotta (ma a volte qualcos’altro), quando un signore brizzolato con macchina fotografica al collo prova a fare lo stesso, ma deve ricorrere al mio aiuto quando la vecchina gli dice il prezzo (“dvadzat”). E così cominciamo a parlare: è francese (quando lo dice mi porto istintivamente le mani davanti allo sterno per protezione da eventuali ‘colpi di testa’) e va verso Pechino con tutta la sua famiglia (moglie, due ragazzine e un bimbo). Un modo per avere tempo per stare insieme… È sicuramente vero: lo stile di vita occidentale ormai non conosce questi ritmi. Sul treno di tempo ce n’è in abbondanza, ma riempirlo non è difficile – anche per me che viaggio da solo. In effetti ho definito una sorta di agenda quotidiana, in cui alternare il sonno, la lettura, la musica, la scrittura, il panorama (che – va detto – non è poi così spiazzante; pare però che dopo Irkutsk sarà più vario), e le visite al vagone ristorante, come adesso. Certo, rimpiango molto il vagone ristorante del Sibiriak, i suoi drappeggi e le sue impeccabili cameriere (tra cui la mia principessa Lilya) – mentre qui c’è un rozzo e insofferente omone, che mi serve la birra quasi controvoglia.
I momenti di maggiore interesse e scoperta sono comunque le soste nelle stazioni. Durante la veglia ne capitano tre o quattro. Allora si scende dal treno e si scruta l’ambiente, si respira l’aria sempre più asiatica, si conoscono gli altri passeggeri, si osservano le babushke, i loro tratti somatici e i loro atteggiamenti. Quelle più vecchie, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono le più mobili e si affannano appresso ai viaggiatori come tante pernici, declamando il contenuto delle loro borse lise. Venditrici più giovani invece tendono ad appostarsi, con tattica decisamente più attendista.
Il Rossiya ha ripreso la sua corsa da un po’. Nel tratto intorno ad Omsk siamo stati piuttosto vicini al Kazakhstan, adesso ce ne allontaniamo addentrandoci nella Siberia, in direzione Novosibirsk. In questa steppa, terra d’origine dei Kirghizi, non è raro vedere laghetti; e adesso abbiamo – addirittura – incrociato una strada che sembrava avere due corsie.
4 agosto Krasnoyarsk, h 12:00, km 4100 Siamo appena ripartiti dalla stazione di Krasnoyarsk, dopo uno stop di 25 minuti, e dopo che nella notte avevamo superato Novosibirsk, Mariinsk, Bogotol e Achinsk. Il Rossiya ha percorso il lungo ponte sopra il fiume Yenisej: un punto di snodo fondamentale in queste terre. Una delle opzioni che mi erano venute in mente quando pianificavo il viaggio prevedeva di abbandonare il treno proprio in questo punto, per prendere un battello sul fiume e percorrerlo fino alla sua foce, attraversando la Siberia quindi in direzione Sud-Nord anziché Est-Ovest, nei pressi della città di Dudinka, oltre il Circolo Polare Artico. Chissà, magari in futuro.
Le tre donne del mio scompartimento mi ricordano sempre di prendere il tè che ci portano a colazione. Anche se non parliamo quasi per nulla, sembrano avere assunto un atteggiamento quasi materno (o almeno da sorelle maggiori) nei miei confronti. La stazione di Krasnoyarsk era molto grande: chioschi in muratura toglievano il posto alle care babushke… Jesper, turista olandese, si stupisce di vedere pochissime facce asiatiche attorno a sé. In effetti è vero: se guardo la mappa, vedo che ci troviamo al centro esatto dell’Asia; eppure paiono del tutto europei i volti che vediamo quando scendiamo dal treno. D’altronde siamo in Russia. Forse, da Irkutsk in poi, visto che il lago Baikal è lo snodo per la Mongolia e la Cina, inizieremo a sentirci in Oriente.
Ilansky, h 16:15, km 4377 Le bimbette che giocano nel treno sono una gioia. Qualche ora fa armeggiavo col caricabatteria del cellulare accanto a una presa (non funzionante) e la più piccola di loro mi chiede in perfetto russo (sigh!) ma con parlata incerta (avrà due-tre anni) “shto ty dielaesh?” (“che fai?”). “Eta dlia tilifòna” (“è per il telefono”), le dico, con parlata sicura e russo incerto. Lei mi guarda, sorride, “Ah!”, fa spallucce e va via per proseguire i suoi giochi.
Una presa funzionante l’ho finalmente trovata qualche vagone più in là: ho chiamato casa e poi, sedutomi sul sediletto lì a fianco, letto un po’ Il Gattopardo mentre il telefono si ricaricava; ma quasi subito la severissima provodnitsa del vagone mi ha bacchettato, intimandomi di sloggiare (perché ero fuori dal mio territorio).
Alla stazione di Ilansky riprendo il discorso interrotto con Laurent (il simpatico francese con famiglia) con cui a ogni fermata abbiamo tacito appuntamento. Sempre in stazione ho avuto modo di fotografare una vecchia locomotiva, cautamente dopo aver letto sulla guida la disavventura dell’inglese che qualche anno fa fu qui arrestato per lo stesso motivo; ma confidando che in questi tempi non ci sia più pericolo di essere preso per una spia americana.
Tajshet, h 20:45, km 4515 Qualche ora fa stavo scrutando il panorama fuori dal finestrino, mentre Tom Waits cantava un blues intenso in cuffia, riportandomi con la mente al giorno in cui per l’ultima volta ho spedito dei fiori a una ragazza che li meritasse – non molto tempo fa, a dire il vero. A un tratto vedo Laurent sbucare nel nostro vagone; mi invita nel suo scompartimento per una partita a carte: evidentemente la spontanea simpatia è ricambiata. E così entro nell’alloggio di famiglia – davvero una bella famiglia, unita e allegra, con la moglie Isabelle, il bimbo Guillame (9 anni) e le piccole Margo (13) e Camille (15). Mi impartiscono una severa lezione a whist (peraltro la mia prima partita nella vita), punendomi per le mie – intrattenibili – frecciatine calcistiche. Anche loro fanno la Transmongolica, e Laurent sembra molto affascinato dal mio intendo di raggiungere Vladivostok da solo. Mi racconta di un francese che ha scritto un libro a testimonianza di una sua assurda impresa: sulle tracce di tre evasi russi che anni addietro lo avevano fatto alla ricerca della libertà, il folle ha attraversato il continente asiatico a piedi, da Nord a Sud, fino all’India! Sentire questo mentre fuori dal finestrino, davanti ai nostri occhi, la smisurata steppa siberiana si faceva largo qua e là tra le foreste di betulle, faceva un certo effetto… Laurent, comunque, è davvero un personaggio valido, e la promessa è di rivedersi, o in Normandia (dove mi farà riguastare l’ottimo ‘44’ di cui mi ha lasciato la ricetta), o in Sicilia (dove li porterò fino al cratere centrale dell’Etna). O – ancora meglio – in entrambi i posti.
5 agosto Irkutsk, h 7:45, km 5185 E così, ho poggiato il piede sul solo di Irkutsk, ma solo per cambiare vagone. Ho salutato tutti i miei amici che qui si fermano per una gita sul lago e per poi deviare verso Mongolia e Cina: Laurent, Isabelle, Camille, Margo e il piccolo Guillame; e Vincent, Jocelyn e Florence (simpatici ricercatori di Montpellier); e gli olandesi Jesper e Anna, che mi ricordano molto Gabriele e Marta: come loro intrepidi viaggiatori (mi consigliano un giro del Perù ‘off the beaten track’). Saluto anche Kristina, un’affascinante fanciulla, il cui viso (tipicamente slavo, con gli zigomi alti e le labbra carnose) notai sin da quando salì sul treno a Novosibirsk. Oltre a un indefinito colore a metà tra l’azzurro e il verde chiaro, il suo sguardo attraeva per una certa aria inquieta, come se con la loro spiazzante bellezza volessero impedire agli altri di poter leggerle nell’anima. Ieri sera, nel vagone ristorante, mentre cenavo in compagnia dei ragazzi francesi, Kristina si alza dal tavolo accanto, e in buon inglese (cosa che non avrei mai sospettato) chiede a Vincent, che mi siede di fronte, se può scattarle una foto insieme a me. A parte l’ammirazione imperitura dei francesi, ciò mi è valsa la possibilità di approfondire la conoscenza di Kristina durante il resto della serata. E così sono venuto a parte di ciò di cui la sua bellezza misteriosa lasciava sospettare l’esistenza – un piccolo segreto, grande però nel suo cuore coraggioso. Un segreto sigillato sulle mie labbra da dolcissimi baci, e che quindi non svelerò.
Il cambio di vagone pare avere apportato solo vantaggi. Innanzitutto, sono adesso nella cuccetta inferiore: più comodo durante la veglia, e anche più sano, dacché in quella superiore si è esposti alle bocchette dell’aria condizionata, che di quando in quando (in modo particolarmente intenso quando si decide di stendersi per leggere) emette una corrente degna del Circolo Polare Artico. Inoltre, alle tre donne, cortesi ma piuttosto chiuse, si è sostituito un signore affidabile e particolarmente interessante, perché gentile e curioso: un ingegnere civile, originario di Chita. Laureatosi nel ’73, e dunque molto più giovane di quanto appaia, Anatolij ha dei bellissimi occhi grigio-verdi cui il tempo, come carta vetrata, pare aver spolverato via le nere pupille. Con il suo inglese – altrettanto invecchiato – si è già offerto di avvisarmi quando inizieremo a costeggiare il lago Baikal. Dovrebbe accadere tra qualche decina di chilometri, e sarà il mio unico – ma spero significativo – incontro col mitico lago. Dopo, avranno definitivamente inizio questi ultimi tre giorni della mia corsa verso il Pacifico.
Ulan Ude, h 15:00, km 5640 L’incontro col lago si è consumato, breve ma intenso. La distesa d’acqua colpisce in quanto sconfinata e ancor più per il colore blu, profondo come lo spirito dei russi.
Durante l’avvicinamente a Ulan Ude, capitale della Buriazia, ho avuto modo di scorgere l’’hinterland’ di questa città. Da queste parti, a quanto pare, solo il centro cittadino ha case in muratura e strade. Nei dintorni si vedono solo gruppi di casette di legno (alcune molto graziose) cui si accede tramite piste in terra battuta. Nel ‘giardinetto’ di una di queste ho catturato con gli occhi (purtroppo non ho avuto la prontezza di farlo anche con la fotocamera) una scena curiosa: due ragazzini che salutavano festosamente il Rossiya, mentre facevano il bagno dentro un’enorme ruota di trattore poggiata di traverso e ricolma d’acqua. In effetti si avverte un notevole cambio climatico; già più o meno da Krasnoyarsk fa molto più caldo, e se a Mosca ed Ekaterinburg andare in giro senza maglione era arduo, qui indossarlo sarebbe una pazzia.
Durante la sosta alla stazione di Ulan Ude, seguendo i consigli della guida, salgo sul ponte pedonale a cavallo dei binari nell’estremità nord della stazione per fotografare l’intenso traffico ferroviario (specialmente merci). Appena il tempo di scattare una foto, ed ecco che vedo due uomini in uniforme dirigersi veloci verso di me. Cerco di mantenere la calma, nonostante nella mia mente mi prefigurassi già le scene descritte da Simon Richmond in merito al proprio arresto a Ilansky in circostanze similari. Con tutto il mio savoir-faire (…), anticipo l’intervento del baffuto buriato con un cordiale “scusate, non si può fotografare?”. “Non si può” fa quello, meno cordiale, e io con faccia contrita alzo le mani in segno di scuse. Vedendo comunque che quello non sembra voler affondare il colpo, ne approfitto per indicargli l’antica locomotiva a vapore messa in esposizione all’inizio del primo binario e strappargli il ‘permesso’ di scattarle qualche foto – solo da vicino, però.
Ad Irkutsk il treno si è completamente svuotato di turisti. Solo facce russe si muovono attorno a me adesso (e non c’è più neanche Kristina); ancora pochi i tratti asiatici, anche giù in stazione. Solo un paio di babushke tradivano la vicinanza con la Mongolia (che stiamo ‘sorvolando’ a Nord); da una si queste ho acquistato per 20 rubli due cannoncini ai wurstel che di orientale hanno ben poco, così come il jingle che precede gli annunci in questa stazione – le prime note di We Wish You A Merry Christmas…
Prima di Chita, h 1:00, km 6100 ca.
La giornata che va a chiudersi è la prima nella quale ho avvertito un po’ il peso del viaggio. La scomparsa contemporanea di tutte le persone con cui era possibile (oltre che piacevole) intrattenersi e la difficoltà di comunicazione con il comunque gradevolissimo ing. Anatolij Il’ic, hanno fatto sì che l’allegra levità delle partite a carte coi francesi sia stata sostituita da passatempi come la musica (molto raramente, vista la severità delle provodnitse e quindi la difficoltà di ricaricare l’iPod) o la lettura: attività solitarie mentalmente più ‘impegnative’ delle distrazioni di gruppo. E la fatica mentale è l’ostacolo più pericoloso in questo tipo di viaggio, come sottolineava Laurent dicendo “dovrai avere una strong head o negli ultimi giorni ti ritroverai a scrivere sul diario ‘What am I doing here? What am I doing here? What am I doing here?’”.
Comunque: Tomasi di Lampedusa, come previsto, è eccellente. Leggere Il Gattopardo subito aver ultimato Padri e figli di Turgenev (i due romanzi condividono non solo la collocazione temporale di fine Ottocento, ma anche il tema del sentire aristocratico in tempi di progresso liberale) contribuisce a confermare il sospetto che nutrivo. Tra la gente russa e quella siciliana non sono pochi gli aspetti comuni. Ovviamente me ne rendo conto leggendo, ma anche e soprattutto con l’esperienza diretta del viaggio.
Uno di questi aspetti è l’estremismo delle passioni: l’amore è amore cieco e irrazionale, l’odio è sempre viscerale; se si è felici sono smodate le manifestazioni di gioia, così come smisurata è l’afflizione in caso di eventi tristi.
Un altro aspetto è un certo orgoglioso fatalismo, che nell’attendere e accettare lo sviluppo degli eventi non manca mai di intravedervi o le tacite conseguenze di proprie previe azioni o qualche possibilità di un proprio futuro intervento; il tutto imbevuto di un religiosità ‘tradizionale’, latente e non invasiva, che conferisce l’ovattata consapevolezza che i disegni di Dio non possono essere accolti con disperazione anche nelle più tragiche delle circostanze.
Ancora, unisce gli uomini russi a quelli siciliani una speciale inclinazione all’ironica grazia, a un sottile fascino naturale, come nel nobile Tancredi o nell’intellettuale Bazarov.
Mentre il treno prosegue la sua corsa nel buio andando incontro al sole dell’Est, mentre Anatolij riposa in attesa di scendere nella sua città, io – riposto il Gattopardo nel comodo scomparto alla mia destra – non posso che rivolgere un pensiero alla mia famiglia, che in un misto di inglese e russo ho provato poc’anzi a descrivere al candido ingegnere di Chita. Papà, mamma, Piermaria e la sua Tiziana con l’esserino in grembo; e non posso non sorridere e non ardere dal desiderio di abbracciarli – non foss’altro che per alleviare infine quella preoccupazione che la mia voglia di scoperta starà loro facendo vivere in questi giorni.
Ma i pensieri corrono e s’inseguono; e mentre sulle dita sento ancora la freschezza del corpo di Kristina e sulle labbra il brivido intenso e glaciale dei baci di Lilya, mi interrogo sull’Amore. So – ne sono convinto come il più ingenuo dei cavalieri medievali – che non sono solo quelle frementi sensazioni ad attrarmi, in questa alternanza di romanticismi; non il sottile e ingombrante autocompiacimento delle seduzioni; e che il mio cuore è capace di aprirsi tutto, e in un colpo solo, di fronte allo stile e alla grazie di certe personalità femminili. Eppure. Cosa mi impedisce di fermarmi, e realizzare la cifra più vera dell’Amore, il perpetuo dono di sé a una creatura divina? Sono davvero tanto pauroso di fronte alla possibilità di un legame, quanto impavido di fronte a un lungo viaggio in terre ignote? Oppure (o anche), sono ancora così bloccato nel ricordo – idealizzato – dell’ideale raggiunto e abbandonato in terra croata? Mi tocca lasciare irrisolti questi quesiti, temo. Dio vorrà che un giorno io mi illumini. E un giorno imparerò a suonare il piano – ché ascoltare Tom Waits, più ancora che Jarrett, te ne fa dolcemente e subdolamente crescere la necessità.
Intanto, arrivati a Chita, saluto caramente Anatolij Il’ic, e accolgo i miei nuovi compagni di viaggio: un’intera famigliola. Sergej e la moglie, con le due bambine (di cui la piccolissima Olga dorme nello stesso posto del padre, essendoci quattro cuccette in tutto), mi faranno compagnia fino a Vladivostok.
6 agosto Tra Chernyshevsk e Mogocha, h 12:05, km 6750 ca.
Stamani sono stato svegliato dai gridolini giocosi di Olga. La bimbetta è uno spasso, ma quando fissa gli occhi su di me mi guarda come di sottecchi, con un paritario misto di curiosità e timore. La famigliola continua a mostrarsi molto generosa con lo straniero venuto da lontano (ospitalità: atro punto di contatto tra russi e siciliani); mi offrono sempre cibo, e mi dispiace dover dire di no, ma Sergej non si sarà offeso se, appena sveglio, ho rifiutato un cosciotto di pollo.
Fuori dalla finestra il panorama si mostra più vario e affascinante di prima. A volte intravedo brevi paradisi e laghetti piccolissimi immersi nei verdi anfratti tra le colline dell’oblast di Chita, ma ormai le movenze del Principe di Salina mi hanno affascinato troppo per lasciarmi dedicare alla fotografia.
Ci sono alcune pagine, del Gattopardo, che da sole valgono l’intera bibliografia di Camilleri per spiegare i Siciliani e la Sicilia. Non posso fare a meno di riportarle, se non altro in omaggio al fatto che questo elegante e ironico faro che illumina così sapidamente la mia terra si è acceso per me a migliaia di chilometri di distanza… Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsoneria o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana (…) Ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi (…) Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno attorno come bellissimi fantasmi muti, tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori, oltre che da una terrificante insularità d’animo (…) Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘ i Siciliano vorranno migliorare’… “Vengono per insegnarci le buone creanze, ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi”… i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti, essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani musulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli, se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola? (Giuseppe Tomasi di Lampedusa) Amazar, h 17:15, km 7004 In queste ore la famigliola diretta a Vladivostok mi ha praticamente adottato. A pranzo mi hanno voluto con loro; praticamente i russi quando viaggiano in treno si portano la casa (altro punto di contatto con i siciliani?): il tavolino del nostro scompartimento è stato apparecchiato come fosse un tavolo da cucina, con tanto di posate di metallo, e scatolette con il sale, l’olio e il succo di limone. Il cibo tirato fuori dai loro imprevedibili sacchi di plastica era tantissimo: carni, formaggi, uova, pomodori, patate… un pranzo luculliano che hanno generosamente condiviso con me. La bambina più grandicella (11 anni), di nome Sveta, ha poi confessato di sapere (un po’) l’inglese. Apprendo dunque che il padre fa l’autista, la madre la contabile, e che lei da grande vuole fare la ‘doctor for the face’ (non ho capito se il chirurgo plastico o la truccatrice…). Dopo, mentre i genitori e la piccola Olga dormivano, e io leggevo, Sveta si è messa a pulire per bene lo scompartimento e ha poi apparecchiato il tè per me: che infinita tenerezza! Ad Amazar, in quella che viene difficile chiamare stazione, dacché si tratta di una pista di terra con alcune casupole l’una dietro l’altra, c’era una concentrazione notevole di babushke, ma essendo pieno pomeriggio non ne ho approfittato. Sveta e sua madre, Lena, hanno invece fatto il pieno di diverse varietà di bacche, che mi hanno ovviamente sottoposto una per una: quelle somiglianti ai nostri mirtilli non erano male, mentre altre più scure (che mi assicurano essere ciliegie – vishnij – ma sembrano cacchette di coniglio) sono molto farinose e si sfaldano in bocca senza lasciare un sapore gradevolissimo. Altre, altrettanto scure, ma più grandi e dure, erano sorprendentemente amare e me ne sono concesso una doppia razione.
7 agosto Khabarovsk, h 20:45, km 8523 È l’ultima giornata, e sta scorrendo veloce, più che altro perché ho dormito tutto il pomeriggio: Sergej, a pranzo, si è posto come obiettivo (e con successo) di finire con me un’intera bottiglia di vodka, dopo che ieri sera l’avevo invitato a bere nel vagone ristorante (una cosa da ‘signori’, per la maggior parte dei viaggiatori locali).
Il lungo abbiocco post-vodka non ha contribuito a rendere più sopportabile il caldo atroce (come in Sicilia) che riempie questo treno nei suoi ultimi mille chilometri di viaggio. Mi ha impedito invece di vedere il tratto immediatamente precedente all’arrivo a Khabarovsk, dove si attraversa il fiume Amur su un ponte di 2,6 km, il più lungo di tutta la Transiberiana. Ho saltato anche i venti minuti di sosta a Khabarovsk, cosicché l’ultima fermata lunga prima della notte (e quindi dell’arrivo a Vladivostok) è la prossima a Vyazemskaya. Devo assolutamente ricordarmi di comprare qualche dolcetto e del cioccolato per Olga e Sveta; quest’ultima mi ha regalato un disegno di una foca e una lumaca, fatto durante il viaggio.
Vyazemskaya, h 22:30, km 8651 Piccole grandi gioie. Il finestrino aperto nel corridoio lasciava entrare l’aria fresca della sera, ed io ero lì a godermela. Il paesaggio, fuori, era spettrale; una coltre di nebbia, fitta e bassa, ricopriva la steppa dell’Estremo Oriente Russo facendolo apparire un grande e bianco prato lattiginoso, degno delle atmosfere madreperlacee di Sparklehorse, curativo come i sogni dei Sigur Rós. In effetti la presa di corrente proprio di fronte al mio scompartimento aveva ripreso a funzionare consentendomi (oltre che di rispondere agli sms di amici e parenti) di godermi un’adeguata colonna sonora per quello strano incanto. Le melodie dei Midwest, gli attriti dei Battles, i ghirigori di Bach mi infondevano nel sangue una nuova, calma forza, che potrebbe sostenermi per una settimana ancora su questo treno. Tutti gli abitanti del vagone erano usciti sul corridoio a bearsi con l’aria fresca, i biondi russi con gli scuri buriati e i pochi cinesi dagli occhi a mandorla, tutti parevano muoversi in armonia col treno e con le note che solo io sentivo nelle orecchie.
Solo il ‘vecchio marinaio’ – così l’ho chiamato – non partecipava alla festa che la mia fantasia stava tenendo. Torvo e immobile come al solito, davanti al suo finestrino, scrutava chissà cosa (il paesaggio? il suo passato?) con occhi di ghiaccio e senza che da sotto i baffoni bianchi provenisse mai una parola. Neanche i suoi tatuaggi, antichi e consumati, osano parlare di lui. Quando scenderemo a Vladivostok, non dimenticherò di seguire, con lo sguardo, la sua figura ormai vecchia e minuta, ma mai debole.
8 agosto Vladivostok, h 8:00, km 9289 La notte è passata, quasi del tutto insonne come la precedente, e ora, dal finestrino del Rossiya, vedo già la distesa grigia e apparentemente quieta dell’oceano Pacifico. Poco più in là, l’ammasso di case e le gru del porto. Siamo a Vladivostok.
Da Mosca verso Est, ho visto scorrere dal finestrino tutta l’Asia. 9289 chilometri, un terzo del globo. Ho incrociato e superato, in linea d’aria, città come Baghdad, Calcutta, Ulan Bator e Pechino; e sono giunto all’incrocio tra Russia, Corea, Cina e Giappone, in questa città dal nome glorioso: il Signore dell’Est; che si presenta trasandata, metallica e molto arrugginita, come solo da una vecchia città di mare ci si può aspettare.
La piccola bimba di nome Olga sbadiglia, stanchissima per le sue lunghe ore al chiuso di un treno preso a Chita, tremila chilometri fa. Stanotte, nell’oscurità, l’ho sentita piagnucolare verso la madre: “…Quando arriviamo?”.
Anche l’aeroplanino di carta che Olga regge tra le mani sembra esausto, dopo i mille voli lungo questo corridoio.
La provodnitsa e il provodnik riassettano le lenzuola, pregne di sudore e di pensieri, che i viaggiatori hanno già restituito; diversi vagoni più in là, l’anziano cameriere del ristorante, lento e silente come la Siberia, che provava sempre a chiedermi se volessi del pane, sapendo benissimo che no, starà sistemando le casse di bottiglie vuote da lasciare in stazione. I conduttori del treno sono pronti per le ultime manovre e questo lunghissimo serpente dalla livrea bianca, azzurra e rossa avrà il coraggio di arrivare a destinazione, dopo più di novemila chilometri, con zero minuti di ritardo.
Tra sedici ore, e per meno di 100 dollari al mese, ripartiranno tutti verso Mosca.
Il ‘vecchio marinaio’ pare trasformato.
Stanotte si è rasato, tirato a lucido, e in occasione dell’arrivo sfoggia una bella giacca, grigia come il Pacifico. Ha cambiato anche finestrino; adesso guarda il Signore dell’Est da un posto più vicino all’uscita. E, da lontano, mi è sembrato di vederlo sorridere.
Epilogo: Vladivostok Vladivostok è una città strana.
È una città di mare che brulica non già di anime, ma di incroci: storici, naturalistici, commerciali, umani.
Le anime sembrano nascondersi, e preferiscono mandare avanti i tanti corpi, ma che si nascondano lo avverti e quindi sai che ci sono, anche se tutti sembrano individui radiocomandati lungo il proprio cammino.
Anche per questo (perché non la capisci, e perché riesci solo a intuire la presenza di tante anime da farne il centro del mondo) è così intrigante Vladivostok, questo pianeta a sé stante dove mi pare di essere l’unico infiltrato, dove le montagne che esplodono di verde entrano dentro la città e si buttano in mare, dove il mare è abitato da strani mostri: granchi enormi e un’evoluzione aliena e guerresca del gambero (dal nome predatore: medvetka), che si mangia pure, e che sa di gambero alieno, né più né meno.
Dove c’è anche la Casa Bianca: l’alta, imponente, lineare sede della regione primoriana.
Dove c’è un sottomarino da visitare, che affondò decine di navi americane e che è una gioia per l’obiettivo della fotocamera, con le sue mille manopole, valvole e tubature.
Dove i pullman costano 7 rubli e li paghi a un’addetta che trovi a bordo. E dove a un certo punto, all’improvviso, scopri che c’è anche il mare; quello da spiaggia, intendo, con tanto di lungomare: e ti rendi conto che in fondo è normale che, con un caldo così subdolo e potente, i tanti corpi facciano un bagno refrigerante (ancorché puzzolente e, con ogni probabilità, piuttosto batteriologico): ma di anime, neanche l’ombra – ammesso che le anime ne facciano.
Non ci sono chiese a Vladivostok, di nessun tipo – non nel centro, almeno.
Le uniche persone che parlano inglese pare siano le vecchiette alle casse dei musei; e una ragazza di nome Juliya di cui mi è parso di scorgere l’anima (davanti a un cappuccino fatto con caffè Ionia, di Catania), ed era un puzzle stupendo, quasi come i suoi eleganti occhi verdi, quasi come Vladivostok, quasi come il mondo.