Transiberiana 2004
La Transiberiana rappresenta, per ogni viaggiatore, uno dei grandi viaggi verso la fine del mondo, come la Patagonia o Capo Nord, luoghi non-luoghi, dove la meta non è così importante come lo è invece l’idea stessa del viaggio.
A questo pensavo, quando in una piovosa giornata all’inizio di quest’anno sono entrato in libreria e nel dare un’occhiata nel reparto viaggi, ho scoperto la prima edizione della Lonely Planet dedicata a questa grande avventura. Come a volte capita nella buona tradizione letteraria, ne sono rimasto letteralmente folgorato, così l’ho acquistata immediatamente, senza neanche sfogliarla un po’.
Si può dire quindi, parafrasando indegnamente il sommo Poeta, “galeotto fu il libro e chi lo scrisse”, perché proprio leggendolo, io e mia moglie ci siamo accorti che anche questo viaggio si sarebbe potuto fare alla nostra maniera, cioè in modo per quanto più possibile autonomo e non programmato anticipatamente. Ormai da anni siamo abituati a viaggiare, anche con figli e amici, prenotando solamente il biglietto aereo, cercando una volta sul posto le sistemazioni e prendendo al momento le decisioni riguardanti destinazioni successive ed itinerari da seguire. Questa grande libertà, a prezzo di poche momentanee difficoltà, ci ha dato sempre molte soddisfazioni e ci ha permesso di fare i nostri viaggi più belli… Siamo così partiti con Tommaso, un piccolo giramondo di otto anni, mentre l’altro figlio, Mattia, ormai quasi maggiorenne, sarebbe andato nello stesso periodo a Malta per una vacanza studio in un college internazionale.
La nostra idea era di effettuare il tragitto in treno da Pechino a Mosca via Ulaan Baatar, viaggiando quindi su uno dei due “rami” della Transiberiana, quello conosciuto come Transmongolica (l’altro tratto va fino alle coste del Pacifico a Vladivostock ed è il percorso classico, tutto in Russia).
Il senso del tragitto, da est verso ovest, è consigliato perché meno frequentato dai turisti ed è quindi più facile trovare posti e biglietti senza prenotazione, come nelle nostre intenzioni.
Stando alle notizie raccolte in giro tra i frequentatori di forum, siti di viaggiatori e anche sul sito “ufficiale” www.Transiberiana.Com, molte sembravano le difficoltà da superare, a cominciare dall’ottenimento dei visti in paesi non ancora del tutto aperti al turismo libero o come le difficoltà di acquisto dei biglietti ferroviari che bisogna fare volta per volta, spesso in sportelli dove è molto difficile non soltanto farsi capire, ma anche solamente “leggere” indicazioni scritte in cirillico o, peggio, in ideogrammi.
Un altro problema che abbiamo dovuto risolvere riguardava il biglietto aereo. Avevamo bisogno di un volo di andata su Pechino e uno di ritorno da Mosca, perciò chiedevamo due tratte singole invece del solito a/r. Non so per quale oscura ragione commerciale, un biglietto di sola andata spesso non è previsto e quando lo è, ha un costo maggiore di uno andata e ritorno! Solo grazie ad approfondite ricerche e alla infinita pazienza dell’impiegata della nostra agenzia di viaggi, siamo riusciti ad arrivare ad una soluzione accettabile. Abbiamo acquistato un volo Finnair da Roma a Pechino (che prevedeva anche il ritorno che non abbiamo utilizzato) per 540 euro a testa, mentre per il rientro in Italia ci siamo rivolti alla società www.Evolavia.Com che ci ha fornito i biglietti da Mosca ad Ancona ad un prezzo molto invitante, solo 100 euro l’uno! Per quanto riguarda i visti, ci siamo regolati in questo modo: per la Cina, un modulo da compilare e da mandare all’ambasciata di Roma con foto tessera; per la Mongolia, un modulo in tre copie e tre foto tessera da inviare al nuovo Consolato di Trieste (fino a qualche tempo fa bisognava mandare la documentazione in Svizzera); per la Russia, la complicazione era data dal fatto che bisognerebbe avere una prenotazione alberghiera, cosa per noi impossibile in quanto non eravamo in grado, a priori, di sapere in quale giorno (e dove) saremmo arrivati in territorio russo. Abbiamo sopperito a ciò pagando una sovrattassa di 70 euro per ogni visto… il prezzo della libertà! A questo punto avevamo svolto tutte le incombenze burocratiche ed eravamo così pronti per la partenza che sarebbe finalmente avvenuta il 23 giugno.
Il volo Finnair prevedeva uno scalo ad Helsinki e poi l’arrivo a Pechino il giorno successivo.
Devo segnalare l’ottimo servizio offerto da questa compagnia, dalla estrema puntualità dei voli, alla gentilezza delle hostess dall’aspetto un po’ casalingo, ma efficientissime ed attente ai bisogni delle persone a bordo. Il menù vegetariano prenotato per mia moglie, sempre oggetto di scommesse tra di noi sulla sua presenza, è arrivato con tanto di cartellino con nome e numero di posto! Siamo arrivati a Pechino la mattina del 24 giugno e dopo aver sbrigato le formalità doganali senza eccessivi intoppi, ci siamo diretti verso la città.
Come succede in ogni aeroporto del mondo, una schiera di tassisti ci ha subito avvicinato offrendoci passaggi a prezzi esorbitanti ed alle nostre richieste di indicazioni per i bus, tutti senza eccezione alcuna, ci assicuravano che a quell’ora non ce n’erano. Ovviamente i bus c’erano, appena fuori sul marciapiede esterno alla zona degli arrivi, con tanto di biglietteria. Con pochi spiccioli a testa, in mezz’ora siamo così arrivati in centro.
Come già scritto più volte, noi non prenotiamo mai alberghi o altri servizi e la nostra tecnica di andare in una zona centrale e seguire le indicazioni della guida, ha perfettamente funzionato anche qua.
Dopo alcuni minuti eravamo già nella nostra camera all’hotel Far East (24 $ a notte, courtyard@yong.Com), a pochi minuti di cammino dalla piazza Tienanmen, in uno degli ultimi hutong non ancora travolti dalla “furia rinnovatrice” che impera in Cina.
Tutta la città sembra infatti nuovissima, grattacieli con immense vetrate, ardite costruzioni in ferro e cemento sorgono ovunque, mentre cantieri giganteschi distruggono tutto ciò che ha più di cinque o sei anni per sostituirlo con nuove costruzioni. Gli hutong, cioè i vicoli tradizionali con basse costruzioni addossate le une alle altre, dove la gente vive tranquilla con i propri animali, muovendosi con biciclette e carrettini, sedendosi la sera fuori di casa a chiacchierare o a giocare a dama o a mangiare un piatto cucinato al momento, stanno inesorabilmente scomparendo, tanto che vengono offerte ai turisti escursioni in risciò per visitare gli ultimi rimasti intatti. Tra qualche anno Pechino non sarà molto diversa da una qualsiasi metropoli asiatica, con buona pace delle migliaia di anni di storia che rappresenta.
Una domanda poi sorge spontanea: dove manderanno gli abitanti dei vicoli, visto che molto probabilmente non potranno mai permettersi un appartamento in un grattacielo? Noi abbiamo vissuto cinque giorni nel nostro vicolo, alla fine ci conoscevano tutti e Tommaso conosceva gli animali di tutti, dai cani (pechinesi, ovviamente!) ai gatti, pappagalli e canarini.
L’impressione che abbiamo avuto dei cinesi, rispecchia un po’ l’iconografia classica, cioè appaiono molto gentili, spesso sorridenti, ma molto difficili da capire perché l’inglese è poco conosciuto e quando lo è la pronuncia è molto “creativa”, quindi si comunica prevalentemente a gesti e anche così la comprensione non è immediata. Ad esempio, se si volesse indicare il numero tre, il modo giusto è usare l’indice, il medio e l’anulare; se si usano pollice indice e medio alla nostra maniera, loro, semplicemente non capiscono e fanno un grande sorriso imbarazzato… E’ proprio vero inoltre che i cinesi hanno l’abitudine di sputare liberamente. Questo atto è talmente frequente che noi, dopo un primo momento di sconcerto, abbiamo cercato di ignorare tutta la fase della sonora preparazione ed il colpo finale, mentre Tommaso, anche se redarguito prontamente, ha cercato di adeguarsi ai costumi locali.
Ciò che invece ci ha colpito negativamente è stata la vista di molte persone, anche bambini, affetti da vistose deturpazioni, a volte anche sfigurati, che chiedevano l’elemosina appena fuori dai supermercati o alle stazioni della metro. La nostra società ci ha insegnato un pudore per queste cose che evidentemente non è condiviso dalla cultura orientale. Pur evitando di esprimere frettolosi giudizi di merito, non posso non constatare la grande differenza tra le due culture. Il modo di vivere, almeno a Pechino, è molto ordinato anche se la forte presenza di polizia e forze militari fa supporre che questo possa essere in qualche modo imposto, ma bisogna tener conto della complessità di governare un miliardo e trecentodieci milioni di persone! Il grande fermento economico che sta vivendo la Cina si nota immediatamente in strada, molte sono le automobili di grossa cilindrata (VW Passat, Audi, Mercedes) e i grandi magazzini pieni di merci hanno ad ogni ingresso una ragazza che, battendo le mani, grida incessantemente ai passanti le offerte del giorno.
I cinesi stanno scoprendo giorno dopo giorno il benessere e il consumismo anche se tutto ciò sembra per ora riservato alle grandi città perché appena fuori, in campagna o nei villaggi si fa un salto indietro di quasi un secolo! Muoversi per la città è abbastanza semplice, sia perché tutte le zone di interesse turistico sono concentrate in centro come la Città Proibita, piazza Tienanmen o la stazione principale, sia perché la metropolitana è facilissima da usare e raggiunge in pochi minuti qualsiasi destinazione, anche periferica.
Abbiamo trovato invece un po’ di difficoltà nel muoverci a piedi, perché le strade sono grandissime e “transennate” ed il traffico costantemente all’ora di punta non invita certamente ad infilarcisi in mezzo, quindi per attraversarle bisogna utilizzare dei sottopassi. Per andare quindi da un posto all’altro è necessario fare un percorso che tenga conto dell’ubicazione degli stessi. Tutto ciò ci è servito a fare chilometri di cammino ogni giorno, a tutto vantaggio della nostra linea, già molto aiutata dalla cucina cinese, che non ci ha permesso certo grandi abbuffate. Oltre ai sapori molto diversi da quelli a noi abituali, quasi mai i piatti ordinati, spesso senza l’ausilio di un menù scritto in inglese, corrispondevano alle nostre aspettative. Gli unici piatti che prendevamo con una certa sicurezza erano i ravioli al vapore ed il riso. Siamo comunque riusciti quasi subito ad imparare l’uso basico dei bastoncini, anche se un paio di volte i camerieri, impietositi dai nostri sforzi, ci hanno portato dei cucchiai. Non starò a dilungarmi sulla bellezza della Città Proibita, o sull’imponente colpo d’occhio offerto da piazza Tienanmen, luoghi ormai universalmente conosciuti e di una tale bellezza che richiederebbero una descrizione particolareggiata in luogo di queste poche righe, dirò solo che bisogna esserci stati almeno una volta nella vita, per tentare di comprendere una civiltà così diversa e fino a poco tempo fa ancora così lontana dalla nostra.
Vorrei solo raccontare della visita che abbiamo fatto al Mausoleo di Mao e di come tuttora i cinesi nutrano sentimenti di autentica venerazione per questo grande personaggio, anche se la sua epoca è sempre più oggetto di una rivisitazione critica. Il Mausoleo è aperto tutte le mattine dalle 8 alle 11 e la coda chilometrica dei visitatori è costante ed impressionante, tanto che noi a prima vista stavamo per rinunciare, quando improvvisamente ci si è presentata davanti una anziana signora che ci ha letteralmente preso per mano, accompagnandoci prima al deposito bagagli e macchine fotografiche (non si può portare nulla all’interno), poi alla biglietteria dove si è intrufolata nella coda ed in pochi minuti ci ha fornito di biglietti.
Poco dopo eravamo nella grande sala, dove in penombra e dentro una teca di cristallo è visibile alla folla che scorre lentamente ai due lati senza interruzioni, il corpo mummificato di Mao Ze Dong, morto nel 1976 a più di 90 anni, dopo essere stato la guida ed il padrone di questo grande paese per quasi 20 anni.
I cinesi mostravano sentimenti che andavano dall’ammirazione al rispetto alla all’autentica commozione e giornalmente quintali di mazzi di fiori rossi vengono depositati da moltissime persone sulla scalinata esterna. Bisogna dire che anche noi, seppur col nostro disincanto occidentale, siamo rimasti colpiti dall’atmosfera del luogo.
Alla fine della visita, la simpatica nonnetta ci ha accompagnato per il percorso inverso ed ha recuperato i nostri marsupi indenni e con nostra grande sorpresa non ha accettato alcun pagamento per il suo lavoro. Siamo rimasti col dubbio che facesse parte di un servizio offerto dal Governo per facilitare gli stranieri, chissà? Comunque in Cina non si usa dare mance, se non nei grandi alberghi per occidentali.
Un’altra giornata memorabile è stata quella della visita alla Grande Muraglia.
Dalla capitale si possono fare diverse escursioni che permettono di visitare questa opera che si snoda per migliaia di chilometri, solo in alcuni punti, dei quali il più noto è Badaling. Qui avremmo trovato grandi parcheggi per autobus, centinaia di venditori di souvenirs e decine di guide più o meno autorizzate. Non volendo tutto ciò, siamo andati a Simatai, che presenta un tratto altrettanto bello ed interessante, ma molto meno turistico. La camminata completa è però lunga circa 17 chilometri fatti di scalinate, discese e salite che a volte sono delle vere arrampicate. Si devono passare ben 35 torri di guardia, in mezzo ad uno scenario fantastico e a volte surreale della muraglia che si snoda sulle creste delle montagne immerse nella natura incontaminata. Il sole splendente, pur mostrandoci un paesaggio da favola, non ci aiutava certo nella nostra impresa e nonostante l’ausilio di un ombrellino ci siamo in breve trasformati in profughi madidi di sudore con la lingua a penzoloni. Ci ha salvato a questo punto un gruppo di contadine che ci hanno accompagnato per una scorciatoia nella foresta che ha ridotto a soli 8 chilometri la nostra camminata. Eccezionale è stato il comportamento di Tommy che ha camminato per tutto il giorno senza un lamento né una protesta, tanto da meritarsi alla fine la maglietta che testimonierà la sua impresa. Anche questa volta, le nostre “guide” non hanno voluto alcun compenso ed abbiamo così acquistato volentieri da loro alcuni souvenirs, tirati fuori timidamente dalle borse.
Riuscivamo a comunicare con queste contadine prevalentemente a gesti e sorrisi, con molta difficoltà ma con tanta voglia di capirsi ed abbiamo così compreso come invidino quasi chi, come noi, ha più di un figlio, cosa che a loro non è permessa dalle ferree leggi cinesi sul controllo delle nascite.
Abbiamo passato una giornata entusiasmante, quei panorami, le sensazioni provate ed il tempo passato con le nostre guide improvvisate, ci hanno ampiamente ricompensato della fatica che ci è costata questa escursione.
E’ così arrivato il momento di acquistare i biglietti per la prima tratta che ci avrebbe portato ad Ulaan Baatar, la capitale della Mongolia. Ci siamo recati alla biglietteria internazionale della stazione centrale, ma qui, con nostro disappunto abbiamo saputo che tutti i treni erano completi e ci è stato proposto un itinerario alternativo con un cambio in una stazioncina per noi sconosciuta.
Abbiamo così tentato la carta di servirci di una agenzia governativa di prenotazioni e qui i biglietti sono saltati fuori senza alcuna difficoltà. Saremmo partiti l’indomani mattina per giungere ad Ulaan Baatar il giorno successivo dopo trentasei ore di viaggio.
Nella nostra ultima giornata pechinese abbiamo visitato lo splendido Palazzo d’Inverno, con il suo lago avvolto dalle nebbie che danno al paesaggio un aspetto irreale e misterioso.
La mattina dopo, in perfetto orario siamo saliti in treno ed abbiamo così dato finalmente inizio alla nostra Transiberiana.
I treni internazionali a lunghissima percorrenza sono ben attrezzati, hanno scompartimenti a quattro cuccette con vari sportelli per sistemare i bagagli, un tavolino centrale, due bagni per carrozza ed un samovar costantemente alimentato a carbone dove si può attingere acqua calda per fare il tè o prepararsi un pasto caldo. Per questo vengono vendute a pochi centesimi, confezioni di minestre liofilizzate che sono molto usate dai viaggiatori e che sono anche di ottimo sapore e molto sostanziose. Naturalmente c’è anche la carrozza ristorante dove si può mangiare a qualsiasi ora o bere bibite fresche.
In ogni vagone uno scompartimento è riservato a due conduttori che si alternano in servizio per tenere puliti i bagni, fornire lenzuola e coperte per la notte, cucchiai, tazze e a volte anche piccoli snacks. Dislocate lungo il corridoio vi sono varie prese di corrente per ricaricare le batterie di fotocamere o cellulari o usare apparecchi elettrici quali phon o rasoi.
Essendo noi in tre, spesso abbiamo potuto utilizzare l’intero scompartimento in modo che Tommy potesse giocare liberamente nelle cuccette superiori ed avere anche tutta la nostra privacy.
Dopo poco tempo comunque ci si ritrova a chiacchierare con viaggiatori di vari paesi o si guarda scorrere il paesaggio facendo fotografie ed il tempo passa senza che ci si possa annoiare, anche con l’aiuto di un buon libro e… dei compiti per le vacanze! Dopo qualche ora abbiamo potuto rivedere la Grande Muraglia nello splendido scenario di Badaling e la sera siamo arrivati al confine con la Mongolia, dove abbiamo effettuato un “pit stop” di quattro ore. Infatti, oltre alle accuratissime ispezioni doganali cinesi, che hanno controllato ovunque e dei mongoli poi, che lo hanno rifatto una seconda volta, abbiamo dovuto cambiare i carrelli di tutte le carrozze in quanto lo scartamento delle ferrovie cinesi è diverso da quello degli altri paesi.
Ogni carrozza, completa di tutti i passeggeri è stata portata all’interno di un capannone dove è stata sollevata per cambiare le ruote. Un lavoro che viene svolto tutti i giorni, più volte, in entrata ed in uscita per tutti i treni in transito! Solo a tarda notte siamo riusciti a dormire qualche ora, prima di essere risvegliati dalla luce del mattino. Stavamo attraversando il deserto del Gobi! I gialli e gli ocra del terreno sabbioso si confondevano all’orizzonte col blu intenso del cielo e ogni tanto un arcobaleno che sembrava nascere dalla sabbia dava un tocco di poesia ad un paesaggio già fantastico.
Quando il treno faceva un’ampia curva (non ho mai capito perchè nei deserti spesso le strade o le ferrovie come in questo caso, facciano delle curve…) si poteva addirittura fotografare la motrice col suo pennacchio di fumo che interrompeva le linee orizzontali del paesaggio. Ogni tanto si vedevano branchi di cammelli al pascolo e quando è iniziata a comparire la prateria, erano sostituiti da mandrie di cavalli e greggi di capre e pecore. In Mongolia ci sono sei animali da pascolo per ogni abitante e la scarsa popolazione di due milioni e ottocentomila abitanti su un territorio con una superficie che corrisponde a quasi metà dell’Europa, ha la densità più bassa del mondo ed effettivamente incontrare qualcuno in un ambiente come questo è un evento, da festeggiare con una bevuta ed una chiacchierata senza alcuna fretta. Sarà forse per questo che la gente si distingue per la grande gentilezza unita alla fierezza risalente ai tempi di Genghis Khan, quando i terribili guerrieri che si diceva vivessero sempre a cavallo terrorizzavano le popolazioni vicine, tanto da indurre la Cina a costruire la Grande Muraglia per proteggersi dall’attacco di quelle orde…
Ogni tanto si vedeva qualche accampamento nomade costituito da qualche gher, la tipica tenda circolare di feltro, con cavalli e pecore liberi al pascolo.
Ulaan Baatar, la capitale della Mongolia, dove siamo arrivati in mattinata, veniva definita all’inizio del secolo scorso, la città di feltro, proprio perché era costituita prevalentemente da queste tende, cosa che si può vedere anche oggi in periferia, dove quasi ogni casa in legno ha nel cortile la sua tenda, segno evidente che i mongoli sono rimasti una popolazione nomade, almeno nell’animo.
Oggi questa capitale, chiamata semplicemente UB, è una vivace città con grandi palazzi dall’architettura avveniristica ed altri un po’ meno moderni, squadrati e un po’ scrostati, ricordo dell’occupazione sovietica negli anni quaranta. Ne vedremo molti, di queste costruzioni a forma di parallelepipedo adagiato sul terreno sia qui che in Siberia, tanto che siamo convinti che a quei tempi un unico progetto fosse servito più volte senza alcuna modifica…
All’arrivo in stazione abbiamo sentito parlare italiano ed abbiamo conosciuto così Bolod, proprietario di una guest house in centro dove abbiamo preso una stanza (con bagno in comune) per soli 8 dollari a notte. Non era per noi la sistemazione ideale, tanto che l’abbiamo poi cambiata con il più comodo Hotel Urge (25 euro a notte), ma la simpatia e la comunicatività di Bolot ci ha colpito. Abbiamo chiacchierato molto con lui, in un discreto italiano misto a francese imparato semplicemente parlando con i viaggiatori, mentre il suo inglese perfetto era dovuto ad anni di lavoro a Los Angeles. Ci ha raccontato la sua vita avventurosa, ci ha mostrato le foto del suo villaggio di origine dove vive l’anziana madre ovviamente in tenda, ci ha parlato della sua terra dove la vita scorre ancora lentamente, con così tanta calma che la mattina, prima delle 10 è difficile trovare un bar aperto per fare colazione. Se capitate a UB, non perdetevi una chiacchierata con Bolod (www.Bolodtours.Com), dormite almeno per una notte in una delle due stanze spartane nella sua pensione, ne varrà sicuramente la pena.
La grande piazza centrale intitolata all’eroe nazionale Sukhbaatar è il centro vitale di UB, dove si ritrovano i ragazzi e passeggiano gli anziani vestiti con l’abito tradizionale e gli stivali da cavallo.
Siamo andati a visitare il monastero buddista di Gandantegchinlen Khiid, il più venerato fuori dal Tibet. E’ un grande complesso dove l’imponente costruzione centrale è circondata da parecchi templi minori. In tutta l’area si respira pace e tranquillità, i fedeli pregano il grande buddha di 22 metri in legno di sandalo, accendono le candele fabbricate al momento da alcune donne sedute nel patio antistante, mentre centinaia di piccioni volano continuamente nel grande giardino dove si passeggia e ci si gode un po’ di fresco.
Abbiamo vissuto qualche giorno immersi nell’atmosfera strana di questa città circondata dalle montagne sacre, visitando vecchi palazzi, residenze dei re discendenti da Genghis Khan, come il grande Palazzo d’Inverno di Bogd Khaan, ottavo buddha vivente e ultimo re di Mongolia, dove sono conservati lussuosi mobili e suppellettili tra cui una tenda coperta interamente da pelle di leopardo, troni intarsiati e vestiti ricamati in oro.
Abbiamo semplicemente passeggiato insieme alla gente del luogo, abbiamo camminato in periferia dove case di legno e tende di feltro sembrano sorgere casualmente senza un ordine, abbiamo frequentato ristoranti dove imperavano menù a base di carne di montone e dove finalmente abbiamo ritrovato le posate! Il costo della vita è molto economico, la moneta locale è il Togrok (1 euro = 1400T), i pasti costano solo pochi euro a testa, i taxi appena qualche decina di centesimi, bibite e internet quasi niente. Tommaso ha potuto passare un po’ di tempo in un internet cafè a giocare col computer, così Ulaan Baatar gli è rimasta per sempre nel cuore, anche per la visita approfondita fatta al Museo di Storia Naturale, dove innumerevoli stanze contenevano centinaia di animali impagliati, ma soprattutto i due soli scheletri completi di dinosauri finora rinvenuti (addirittura uno è un Tirannosaurus rex).
Una volta però siamo rimasti a dir poco perplessi vedendo una ragazza probabilmente epilettica lasciata svenuta in mezzo alla strada nel traffico caotico del mercato, schivata continuamente dalle macchine che le passavano a pochi centimetri dal corpo, senza che nessuno se ne occupasse. Solo l’intervento risoluto di Paola è servito a far arrivare un poliziotto il quale, accertatosi che la donna fosse viva, l’ha semplicemente trascinata fino al marciapiede lasciandola lì, ancora incosciente! Avevamo deciso di visitare solo la città, dovendo proseguire il nostro viaggio, ma i treni al completo per i successivi due giorni e l’impossibilità conseguente ad acquistare i biglietti, ci ha fatto prendere la decisione giusta: avremo usato queste giornate in più per andare nel Parco Naturale di Terelj in tenda. L’esperienza è stata molto interessante, siamo arrivati in una delle zone più isolate del parco, sotto un costone roccioso erano montate una decina di gher, al centro dell’accampamento ce n’era una grande per i pasti in comune e, più lontana, una costruzione con i bagni e le docce.
L’interno della nostra gher era composto da tre letti, una stufa a legna ed una candela.
Abbiamo trascorso il tempo cercando la legna per il fuoco, necessario vista la temperatura rigida, facendo lunghe passeggiate e cavalcate nel parco e vivendo in mezzo agli animali, dai cavalli agli yak, dalle pecore ai vitelli e con Misha, un cagnolino mascotte del campo che naturalmente ha subito stretto una grande amicizia con Tommaso.
Quando le nuvole lasciavano arrivare la luce del sole, tutte le tonalità del verde e i colori della terra comparivano sotto un cielo cobalto, un vero paradiso naturalistico.
Nel pomeriggio sono arrivati alcuni nomadi con i loro cavalli che si sono accampati nelle vicinanze delle nostre tende.
Un po’ titubanti siamo andati verso di loro che ci hanno invece accolto con molta cordialità e alla fine Tommaso ha potuto fare un giro a cavallo e noi alcune belle foto.
I pasti venivano serviti nella tenda ristorante ed erano abbondanti e sostanziosi, a base di zuppe, carne di montone e verdure condite con lo yoghurt.
Il giorno successivo, nel primo pomeriggio siamo ritornati ad Ulaan Baatar ed abbiamo trascorso la serata in una grande gher vicina alla piazza centrale, ritrovo dei giovani locali, dove si mangiava una discreta pizza e veniva suonata musica rock locale e russa.
L’indomani abbiamo visitato un monastero buddista situato in una valle a circa 30 chilometri dalla città.
Abbiamo potuto renderci conto della distruzione sistematica dei luoghi di culto attuata dai sovietici durante l’occupazione del paese in quanto del grande complesso risalente al XVII secolo rimane in piedi un solo tempio, tutto il resto è stato bombardato. Erano però scampate alla rovina alcune belle pitture rupestri dipinte dai monaci durante le loro meditazioni, inoltre un piccolo museo mostrava alcune foto del luogo prima della distruzione.
E’ così arrivato il giorno della partenza per effettuare la seconda tappa del nostro viaggio in treno. Avremmo lasciato UB e la Mongolia per raggiungere in 36 ore la città di Irkutsk, in Siberia.
Questo tratto è servito da treni russi e in ogni carrozza sono presenti due provodnitze (conduttrici) dall’aspetto burbero, ma efficienti e precise.
Al solito, ci siamo sistemati nello scompartimento a noi riservato. Altri viaggiatori occidentali occupavano la stessa carrozza ed abbiamo così cominciato a chiacchierare. Con una coppia cinquantenne di australiani ci saremmo successivamente incontrati altre volte, perfino tra la folla della Piazza Rossa a Mosca.
Fin dai primi momenti dopo la partenza del treno, ci siamo accorti di strani movimenti di un gruppetto di mongoli con grandi borsoni e buste colme di capi di abbigliamento, che si andavano accentuando all’avvicinarsi della frontiera russa. I borsoni venivano svuotati e riempiti di nuovo, pacchi di maglie e cappellini passavano di mano sotto il nostro sguardo incuriosito. Erano contrabbandieri che cercavano di trasportare le merci da vendere in Russia, ovviamente cercando di non pagare le tasse doganali. Ad un certo punto ognuno di loro aveva addosso tre camicie, due cappelli, ciabatte nuove e borsetta a tracolla, tutti gli attaccapanni del treno erano occupati ed hanno anche cercato di affibbiare alcuni capi anche a noi turisti che abbiamo rifiutato in blocco, pensando con raccapriccio alla possibilità di essere arrestati in Siberia per contrabbando.
Alla frontiera la scena era surreale: i mongoli imbacuccati sotto il sole facendo finta di niente, mentre una squadra di doganieri russi smontava letteralmente il treno alla ricerca di merci (o persone) nascoste.
L’operazione è durata in tutto quattordici ore equamente distribuite tra la dogana mongola e quella russa. Il controllo ai nostri documenti è stato tutto sommato abbastanza sbrigativo, ma hanno trovato il modo di farci occupare il tempo facendoci riempire svariati moduli e dichiarazioni doganali… In cirillico! Alla fine, contrabbandieri e militari hanno raggiunto un accordo, una parte della merce è stata sequestrata, altra è passata e qualcosa è rimasto in caserma… Così siamo potuti ripartire. Durante la notte abbiamo costeggiato il grande lago Baikal, e la mattina abbiamo visto sfilare dai finestrini immense praterie, boschi di betulle e piccoli villaggi con le caratteristiche casette di legno dalle finestre intarsiate e coloratissime, che avevano sostituito le tende circolari degli accampamenti in Mongolia.
Nella tarda mattinata siamo arrivati a Irkutsk, detta la Parigi della Siberia.
La città, da avamposto delle truppe zariste ai confini dell’impero, all’inizio dell’800 ha conosciuto un periodo di grande sviluppo urbanistico e culturale, in quanto vi erano stati mandati in esilio alcuni aristocratici del movimento “decabrista” che avevano tentato di rovesciare lo zar Alessandro I. Inizialmente costretti al lavoro nelle miniere, gli esiliati sono stati poi raggiunti dalle famiglie ed hanno così formato una classe colta locale che ha contribuito alla costruzione di belle abitazioni e palazzi pubblici, teatri e biblioteche. Oggi convivono assieme le tre architetture, quella originaria dalle costruzioni in legno, la parte aristocratica in stile classico ed i nuovi palazzi di stampo sovietico dall’inconfondibile forma lineare a parallelepipedo.
Siamo rimasti stupiti anche dal trovare, pur essendo in Asia centrale, una popolazione quasi completamente di tipo europeo, dai caratteri slavi.
Una bellissima gioventù (specialmente le ragazze, a mio parere…), in prevalenza con capelli biondi e occhi azzurri, riempiva le vie principali o passeggiava lungo gli ampi viali che costeggiano il fiume Angara.
Tutto ciò è spiegabile col fatto che l’esigua popolazione originaria di tipo asiatico, ha subìto nel tempo una vasta immigrazione dalle sovrappopolate terre europee ed oggi rappresenta appena il 4% del totale e sembra, pur stando sullo stesso meridiano di Hanoy, di essere a Praga o a Budapest.
Un’altra cosa che si percepisce immediatamente, abituati ai costanti sorrisi dei cinesi e all’estrema gentilezza dei mongoli, è il primo impatto scorbutico e sbrigativo con i russi. Il loro “niet” è assoluto e senza alcuna possibilità di mediazione, la loro espressione si lascia andare ad un sorriso molto raramente. A questo fortunatamente non corrisponde un atteggiamento altrettanto negativo, i servizi richiesti vengono svolti correttamente, ma non si riscontra apparentemente alcun sentimento di simpatia o quanto meno di curiosità verso gli stranieri.
Questo comporta la mancanza delle più comuni facilitazioni per il turista. Ad eccezione dei grandi alberghi e ristoranti di livello internazionale, è raro trovare un menù in inglese o almeno che non sia scritto in cirillico e nel chiedere informazioni o presentandosi ad uno sportello, l’addetto risponde tranquillamente in russo e veramente pochi parlano un po’ d’inglese. Le ragioni di tutto ciò credo vadano spiegate con il grande isolamento della gente comune in quella che è stata l’Unione Sovietica fino a poco più di dieci anni fa e la storica inimicizia con le nazioni anglofone.
A Irkutsk abbiamo avuto qualche difficoltà nel trovare un albergo.
Seguendo le indicazioni della Lonely Planet siamo andati inizialmente a cercare l’Hotel Arena, ma l’impatto con le due scorbutiche proprietarie ci ha fatto subito recedere dall’idea di soggiornarvi; il secondo tentativo è andato a vuoto invece perché il prezzo chiesto per la camera era esageratamente più alto di quanto riportato sulla guida e così ci siamo trovati letteralmente in mezzo alla strada con tutti i nostri bagagli.
Dopo vari tentativi a piedi e in tram, seguendo indicazioni sbagliate o che noi non interpretavamo correttamente, ci siamo arresi ad un taxi che ci ha portato all’Hotel Agat che era la nostra ultima speranza. Lì finalmente siamo riusciti a sistemarci, seppure in una stanza non proprio economica (circa 60 euro!) con bagno in comune e con la doccia da fare usando una batteria di pentole con l’acqua scaldata sui fornelli: eravamo in Siberia! Altri segni ci ricordavano che eravamo in una delle parti più lontane e dimenticate della grande Russia. Durante il viaggio vedevamo frequentemente grandi complessi industriali completamente abbandonati, capannoni ridotti a scheletri corrosi dalla ruggine e dalle intemperie, segno del disfacimento di una economia non più all’altezza di reggersi autonomamente dopo la liberalizzazione dei mercati. Ai bordi delle strade inoltre erano abbandonate, ridotte a carcasse spolpate di tutto, decine di vecchie auto e camion, tra cui le tipiche “Trabant”, utilitarie di pessima qualità che testimoniano il tentativo fallito di motorizzare il popolo sovietico.
Anche le automobili tuttora circolanti nelle dissestate strade russe, sono in prevalenza vecchie Lada e Moscovich costruite su licenza della Fiat negli anni settanta. Qui la nostra Ford del ’93 sarebbe certamente guardata con ammirazione e con un pizzico d’invidia! La sosta di tre giorni, oltre a permetterci di visitare questa piacevole città che sorge sul fiume Angara, di passeggiare sul lungofiume alberato o prendere un caffè in Piazza Lenin con l’immancabile monumento, è servita soprattutto per fare una escursione sul lago Baikal, una vera meraviglia della natura ed uno dei bacini di acqua dolce più importanti del pianeta.
Dalla stazione degli autobus ogni mattina partono diversi pulmini da nove posti che percorrono in meno di un’ora i 60 chilometri di distanza che separano Irkutsk dal villaggio di Listvyanka sulle rive del grande lago.
Il clima, rigido come una nostra giornata di novembre, imponeva un abbigliamento pesante ed il paesaggio era ammantato da una sottile foschia che sfumava i contorni delle montagne e dava un tocco drammatico alla superficie plumbea del lago. Nel piazzale che fungeva anche da piccolo molo, le bancarelle di prodotti artigianali erano affiancate da quelle di venditrici di pesce affumicato che veniva preparato sul posto. Più tardi sono arrivate le “babuske” (nonnine) con i loro carrettini colmi di frittelle ed altre leccornie come le kartocke (specie di calzoni ripieni di patate) cucinate in casa, oltre a grigliate di spiedini. Altre vendevano frutta come lamponi o fragole, unici segnali che facevano ritenere di essere in estate.
Durante la mattinata ha fatto scalo nel piccolo porticciolo un aliscafo col quale abbiamo raggiunto il villaggio di Bolshie Koty, un po’ più a nord. L’aliscafo collega direttamente Irkutsk con alcuni villaggi sulle rive del Baikal, arrivando fino a Bolshie Koty da dove riparte nel primo pomeriggio, ma dalle informazioni ricevute il giorno precedente non avevamo avuto la certezza che sarebbe partito, quindi abbiamo optato per il più sicuro viaggio in pulmino.
Bolshie Koty, che significa “quattro stivali” è composto da una decina di tipiche abitazioni siberiane in legno, una chiesetta arroccata sulla costa della montagna ricoperta di betulle che si specchia sulla riva del lago in un paesaggio da cartolina. Gli abitanti, un centinaio circa, vivono di pesca, allevamento di mucche ed un po’ di agricoltura. Un solo ristorantino ed un paio di baracche che vendono biscotti e succhi di frutta, servono i turisti che vengono qua in visita.
Ovviamente le stradine sono in terra battuta e non esiste praticamente alcuna costruzione in cemento.
Da questo punto partono diversi sentieri che permettono di esplorare i dintorni ed offrono viste stupende del lago Baikal, che è un vero e proprio museo naturalistico a cielo aperto. Si dice che l’acqua sia così limpida che la visibilità possa spingersi sino ad oltre quaranta metri di profondità ed in effetti si ha l’impressione di essere in un ambiente totalmente incontaminato, anche se anni or sono alcune cartiere riversavano nel lago le acque di scarto della lavorazione, ma ora fortunatamente sono chiuse.
L’arrivo di un pallido sole ci ha mostrato colori e panorami più definiti e mi ha invitato ad entrare nell’acqua freddissima. Ho potuto resistere solo il tempo necessario per una foto, prima di dover uscire alla svelta per non congelarmi i piedi già doloranti! Nel pomeriggio siamo rientrati in hotel sotto una fredda pioggia incessante che aveva riempito le strade di grandi pozzanghere che abbiamo dovuto “circumnavigare” come è abituata a fare la gente del luogo.
Era ormai tempo di ripartire, siamo quindi andati a prenotare i biglietti per la tratta ferroviaria successiva all’interno dell’hotel Intourist, dove è ubicata un’apposita agenzia statale e lì, una cordialissima signora – una vera eccezione da quelle parti – ci ha fornito di prenotazioni per la tratta fino a Yekaterinburg e per quella seguente, l’ultima, fino a Mosca.
Il viaggio fino alla città di Yekaterinburg, sarebbe durato ben cinquantaquattro ore, con due notti da passare in treno, ma ormai si avvicinava inesorabilmente la data del rientro in Italia e non avremmo potuto concederci ulteriori soste prima di arrivare a Mosca.
Saremmo quindi partiti nel primo pomeriggio ed abbiamo così potuto dedicare un po’ di tempo all’acquisto di qualche provvista e generi di conforto e naturalmente Tommaso ci ha scucito un altro giocattolo. Bisogna riconoscere però che nostro figlio ha la tempra del viaggiatore, perché con un paio di Topolini che ha letto e riletto più volte e qualche giocattolo, oltre ai compiti estivi, ha trascorso questi lunghi periodi in treno prevalentemente guardando fuori dal finestrino, interessato a tutto ciò che vedeva e riempiendoci di domande. Buon sangue non mente…
Durante il tragitto, boschi di betulle sempre più fitti andavano sostituendo la steppa desolata man mano che ci avvicinavamo alla fine della regione siberiana.
Nelle stazioni più grandi la sosta durava alcune decine di minuti, si poteva scendere, fare un giretto per comprare qualcosa o approfittare delle babuske che portavano fin sotto i finestrini i loro prodotti, frittelle farcite, dolci, frutta, bevande e cibi cucinati che si possono acquistare tranquillamente in questo modo, la loro qualità è sempre elevata, i prezzi spesso irrisori e nessuno tenta mai di truffare i viaggiatori. Per sapere in ogni momento dove si è, basta guardare sul lato sinistro della ferrovia, dove ad ogni chilometro è piantato un paletto con un cartello indicante la distanza da Mosca e per sapere se il treno è in orario bisogna controllare l’elenco delle fermate, scritto in cirillico, affisso in ogni carrozza, con la complicazione che l’orario ufficiale delle ferrovie è ovunque quello di Mosca e bisogna perciò fare il calcolo della differenza di fuso a seconda del luogo in cui ci si trovi. Semplice, vero? A volte ho scherzato su questo, ma imparare a leggere i cartelli e le indicazioni in caratteri russi è relativamente semplice e può essere utile, perché molte parole sono facilmente traducibili in italiano, come ad esempio TYAЛET o KACCA che si leggono “tualèt” e “cassa” e non hanno bisogno di traduzione.
Durante gli oltre due giorni di viaggio abbiamo attraversato i grandi fiumi dell’Asia come l’Ob e lo Yenisey, abbiamo toccato le città di Krasnoyarsk e Novosibirsk dove ci si può rendere conto che c’è anche una Siberia che corre, un gigante produttivo che potrà dare, in un prossimo futuro, notevole benessere economico alla sua popolazione ed alla Russia in generale.
Yekaterinburg è una grande città di quasi un milione e mezzo di abitanti, vietata agli stranieri fino a dieci anni fa in quanto sede di industrie strategiche militari e nota anche per essere stata il luogo dove venne trucidato l’ultimo zar Nicola II con tutta la sua famiglia.
Pur non giustificando in alcun modo le esecuzioni sommarie, neanche quando riguardino spietati dittatori o monarchi che nulla hanno fatto per il bene dei loro popoli, non mi sento neanche di condividere il movimento di rivalutazione della figura dei Romanov, che oggi sta cercando addirittura di santificarli.
Visitando il luogo dell’esecuzione, dove sorge ora la bella Chiesa del Sangue con le sue cupole dorate, si possono già vedere le icone che dipingono la famiglia reale con tanto di aureole e i segni della beatificazione. Bisognerebbe ricordarsi che questi personaggi vivevano nel lusso più sfrenato, letteralmente ricoperti d’oro, mentre gran parte del popolo moriva di fame e di stenti in un impero sprofondato nel medioevo, inoltre gli unici contatti con il clero e la religione riguardavano per lo più feroci intrighi di palazzo.
Ecco perchè vedere anziane donne in preghiera davanti alle loro immagini e considerare questo un luogo di martirio e di pellegrinaggio, mi fa pensare come la grande delusione avuta dal comunismo possa aver innescato una sorta di nostalgia per un regime ancora peggiore, mentre dovrebbe essere incanalata verso la ricerca di qualcosa di nuovo, anche se con fatica e a volte dai risultati imperfetti.
Ma in questa città le nostalgie non finiscono qui, molti infatti sono i ricordi del recente passato, dalle falci e martello ancora scolpite sulle facciate dei palazzi pubblici, tutti sormontati dalla stella rossa, ai carri armati e agli aerei da caccia posti su piedistalli davanti alle scuole come opere commemorative.
Il solo monumento che ha suscitato in me una intensa emozione è stato quello posto a ricordo dei caduti nella guerra in Afghanistan, dove un enorme soldato morente è inginocchiato a capo chino, reggendosi sul suo kalasnikov, senza più speranza.
Sempre sull’argomento, una visita al cimitero monumentale Shirokorenchinskaya, ad alcuni chilometri dalla città, è stata utile per vedere l’immenso sacrario dedicato alle vittime dei Gulag. Anche le guerre tra bande rivali della nuova mafia russa hanno qui la loro celebrazione. Diverse sono infatti le steli marmoree dove sono effigiati, a grandezza naturale, giovanotti dall’aria spavalda che sono dovuti soccombere in nome di un potere tanto effimero quanto inutile.
La città di Yekaterinburg non è soltanto mausolei e grandi statue, il centro storico è moderno e piacevole, lunghi viali alberati si diramano dalla solita piazza Lenin dove bancarelle di prodotti artigianali affiancano quelle che vendono spille, medaglie e mostrine sovietiche, la zona pedonale ricca di caffè e moderni fast food è frequentata da giovani ed intere famiglie per lo “struscio” pomeridiano. Un bel parco pubblico ospita, tra gli alberi, grandi pietre che testimoniano le diversità geologiche del territorio, tavoli all’aperto e giochi per bambini sono molto frequentati, inoltre una comoda metropolitana e diverse linee tranviarie permettono di raggiungere agevolmente qualsiasi zona.
All’arrivo, abbiamo subito cercato una sistemazione all’Hotel Sverdlovsk, proprio di fronte alla stazione, ma era troppo caro per noi (la Lonely Planet questa volta non è risultata affidabile come al solito nell’indicazione dei prezzi). Alla reception ci hanno però indicato il più economico Hotel Bolshoj che si trova anche più vicino al centro. E’ un ottimo albergo dall’aspetto lussuoso, ma la camera ci è costata solo 30 dollari a notte.
Un’ultima annotazione sulla città è purtroppo un dato negativo: abbiamo constatato la presenza di bambini di strada, piccoli mendicanti che, spesso in gruppi di tre o quattro, battono , alla continua ricerca di denaro, le vie del centro e i dintorni della stazione ferroviaria dove probabilmente trovano rifugio.
Il fenomeno dell’emarginazione è emerso nei paesi dell’est dove il recente benessere è ancora distribuito a pelle di leopardo e le sacche di povertà che prima erano confuse nella comune ristrettezza economica o forse mitigate da una maggiore solidarietà, oggi vengono inesorabilmente alla luce. Incontrare una di queste bande in una via semideserta potrebbe non essere un’esperienza piacevole.
Dopo tre giorni di permanenza era alfine arrivata l’ora di ripartire per completare, con l’ultimo tratto fino a Mosca, l’intero percorso dei quasi 8.200 chilometri della Transiberiana.
Questo tragitto di trenta ore non è molto interessante, il paesaggio piuttosto monotono di boschi, campi coltivati e piccoli villaggi si vivacizza un po’ solo nell’attraversare i monti Urali, (il ritorno in Europa!) con una serie di ponti e gallerie e la fermata notturna nella città di Kazan, la capitale del Tataristan che, con i suoi alti minareti e le moschee illuminate, ci ha riportato per un attimo con la mente in altri luoghi…
Prima dell’arrivo, la mattina seguente, durante la sosta nella cittadina di Vekovka, insieme alle consuete babuske, gli operai di una vicina vetreria ci proponevano l’acquisto di enormi lampadari, set di bicchieri e anfore delicatissime che mai saremmo riusciti a portare a casa indenni…
Alle 11.20, in perfetto orario siamo entrati nella grande stazione Yaroslaw di Mosca, in una caldissima giornata, finalmente estiva.
Appena fuori, sul grande piazzale dove sostavano taxi e bus, si distingueva tra gli edifici dalla pesante architettura sovietica, la slanciata silouette dell’Hotel Lenigradskaya, una delle “sette sorelle”, cioè dei sette grattacieli, simili tra loro, fatti costruire da Stalin a celebrazione di se stesso negli anni cinquanta. Conservano ancora un po’ del loro fascino queste costruzioni enormi, sormontate da un puntale con all’apice una stella, con grandi statue raffiguranti operai con lo sguardo verso il futuro, che reggono la bandiera rossa,.
Al solito, il prezzo dell’hotel era fuori della nostra portata, ma la preziosa indicazione di un’impiegata ci ha permesso anche stavolta di trovare un’ottima sistemazione, che può essere utile a chi volesse visitare Mosca.
In periferia verso sud-est c’è, in parte ancora in costruzione, un parco tematico sul lavoro dei popoli nel mondo, Izmailovsky Park. Nelle immediate vicinanze della relativa stazione della metropolitana, sorgono quattro grattacieli identici risalenti agli anni settanta, quattro grandi hotels che allora servivano a concentrare (e controllare) i primi turisti stranieri che arrivando in URSS tramite l’agenzia statale Intourist, dovevano rimanere impressionati dalla grandezza delle opere del regime a cominciare proprio dall’albergo.
Nelle spaziose camere potrebbe ancora essere nascosta qualche “cimice” dimenticata… Oggi si chiamano Alfa, Beta, Gamma e Vega. E pur essendo identici hanno amministrazioni e prezzi diversi e nonostante l’ambiente impersonale e un po’ demodè, il Vega ci è sembrato comunque accettabile per 42 euro a notte.
Poco lontano c’è anche un supermercato, alcuni cambiavalute, un paio di ristoranti e una stazione di autobus con friggitorie ambulanti, tutto ciò che occorre insomma! Per visitare Mosca, non è importante avere una sistemazione centrale, perché la metropolitana, con una rete di gallerie costituita da due anelli concentrici e una serie di raggi che si diramano verso l’esterno, svolge un servizio molto efficiente e collega qualsiasi punto periferico al centro, in una manciata di minuti.
Tra l’altro, la metropolitana di Mosca è giustamente famosa anche per la bellezza delle sue stazioni, ognuna delle quali rappresenta, in un diverso stile architettonico, un momento cruciale della storia della rivoluzione. Chissà se qualcuno ha già pensato di realizzarci un libro fotografico? Avevamo tre giorni per dare almeno un’occhiata ai luoghi più interessanti, quindi siamo andati sulla Piazza Rossa e al Mausoleo di Lenin, abbiamo visto il cambio della guardia al Milite Ignoto e abbiamo visitato le sale del Cremlino dove sono conservate pregevoli opere d’arte, oro e sontuosi gioielli, tra i quali il diamante Orloff, appartenuti al tesoro degli zar.
La Cattedrale di San Basilio, con le sue cupole colorate, è piaciuta molto a Tommy che ha gridato: “Guarda, papà, c’è un luna park!”.
A pranzo siamo stati attratti dall’insegna di un ristorante italiano, dove sia il sapore degli spaghetti alla carbonara che il livello dei prezzi ci hanno ricordato il nostro paese… Abbiamo anche fatto acquisti nei magazzini GUM, diventati ormai un centro commerciale come tanti in Europa con negozi dai marchi internazionali, soprattutto di abbigliamento.
Molto rilassante è stato invece il giro in battello sulla Moscowa. Il percorso completo, della durata di oltre un’ora, ci ha mostrato alcune vedute dei luoghi più belli della città, da Gorkij Park al campanile di Ivan il Terribile che svetta sul Cremlino, da San Basilio all’imponente Cattedrale del Cristo Salvatore per terminare infine davanti al monastero Novospassky Most da dove siamo ritornati a piedi fino alla più vicina stazione della metro.
La mattina del 17 luglio, abbiamo raggiunto in taxi (30 euro) l’aeroporto Domodedovo (ma abbiamo constatato che vi si può arrivare anche in metropolitana + autobus, spendendo molto meno) da dove ci siamo imbarcati sull’aereo (Krass Air) per Falconara-Ancona dove siamo giunti dopo tre ore circa di volo, accolti dagli amici e dalle… tagliatelle della mamma.
Concludendo, la capitale della Russia moderna ci è sembrata piuttosto ordinata e pulita, anche se le molte bottiglie e lattine di birra vuote che trovavamo il mattino nelle piazze e nei parchi, indicano che l’abuso di alcol è abituale speciamente tra i giovani (cosa che avevamo notato anche precedentemente) e questo non è sicuramente un segnale positivo sullo stato della società russa.
La presenza della polizia si percepisce, ma è discreta e nonostante la costante minaccia del terrorismo ceceno purtroppo messa più volte in pratica, non ci si sente in stato d’assedio. I mercati sono pieni di merci di ogni genere, le famose file davanti ai negozi per approvvigionarsi di qualunque cosa fosse disponibile, sono ormai ricordi del passato.
Pur avendo avuto complessivamente un’impressione positiva, Mosca non ci ha emozionato, forse perché nel mondo globalizzato le metropoli si assomigliano tutte, forse perché eravamo ormai alla fine del nostro viaggio o forse perché avevamo ancora le immagini di grandi spazi negli occhi… E alla fine… diamo i numeri! Durata del viaggio: 25 giorni, dal 23 giugno al 17 luglio Totale Km percorsi in treno: 8.173 Durata complessiva del viaggio in treno: 151 ore, più di 6 giorni Costo totale dei biglietti aerei:* 1.653,00 euro Costo complessivo dei visti: 570,00 euro Costo totale dei biglietti ferroviari:* 485,00 euro Costo totale del viaggio: 4.500,00 euro Russia, rublo 1 euro = 34 Rb Mongolia, togrok 1 euro = 1.400 T Cina, yuan 1 euro = 10 Y * i biglietti per Tommaso hanno una riduzione del 30% (aereo) e del 40% (treno) circa