Transhimalayana: Kathmandù – Lhasa via terra
KATHMANDÙ – ZHANGMU Sono solo 152 km., ma se i primi 30 sono una piacevole passeggiata, i restanti richiedono almeno 4-5 ore di viaggio, sempre che la strada sia in ottime condizioni! Anche se durante la notte è piovuto, la mattina è calda e il sole splende nel cielo azzurrissimo, su uno scenario naturale di immensa bellezza: il verde brillante che ricopre ogni cosa, le risaie a terrazza che scolpiscono le montagne conferendo al paesaggio una sinuosità fascinosa, i piccoli templi nascosti nella fitta vegetazione tropicale, le ninfee nell’acqua, il rumore delle innumerevoli cascate qua e là, l’odore dell’aria bagnata.
Attraversiamo piccoli villaggi dove la vita scorre come in un altro tempo: gli uomini nei campi appresso ai loro vecchi aratri, le donne chine nelle risaie, avvolte nei loro sari colorati, affaticate, sudate e tuttavia leggiadre. La grazie è loro connaturale, malgrado la fatica, la terra, l’umidità.
Dopo due orette di percorso cominciamo a salire di quota attraverso una pista a dir poco impressionante: stretta e dissestata, corre sui dorsali delle montagne fra cascate, fango, ciottoli, buche… Su strapiombi terrificanti! Ci fermiamo spesso per godere del paesaggio straordinario e per riprendere un po’ fiato! Fa caldo, così alcuni compagni di viaggio preferiscono i sandali agli scarponcini: mai decisione fu più funesta, si beccano tutti fra le dita dei piedi un paio di sanguisughe, che il nostro giovane ma solerte autista “individua” e prontamente rimuove. Non è certamente la cosa peggiore che può succedere su queste piste… Ma neanche la più esaltante delle esperienze! Ormai il caldo e il sole dei 1300 metri di Kathmandù sono lontani e, quando dopo quasi sette ore arriviamo ai 1700 m. Del confine, è nuvoloso, fa freddo, pioviggina.
Kodari è giusto un paio di case di legno sulla strada ciottolosa che finisce dove cominciano i 200 metri del “Ponte dell’Amicizia” che unisce il Nepal al Tibet. Scarichiamo i bagagli e salutiamo il prode autista cui avevamo affidato le nostre vite in cima ai burroni. Quelli delle sanguisughe sono quasi commossi! E’ la frontiera più desolata e tranquilla che abbia mai visto! Ci avviciniamo alla baracchetta di legno dove due doganieri nepalesi fanno i soliti controlli di routine. Due metri più in là, all’inizio del ponte, c’è un’altra baracchetta di legno dove due guardie cinesi dovrebbero fare i controlli, che però sul “Ponte dell’Amicizia” diventano procedura complicatissima. Infatti, anche se abbiamo l’autorizzazione dell’Ambasciata Cinese in Italia al rilascio del visto, una delle due guardie comincia ad andare su e giù per il ponte con fare concitato. Va all’ufficio dall’altra parte del ponte, parla con l’ufficiale che lo presiede, torna dal collega, quindi riparte… Neanche la pioggerellina che scende lenta e copiosa lo persuade da uno zelo sinceramente eccessivo! Dopo mezz’ora siamo finalmente autorizzati ad attraversare il benedetto ponte, al centro del quale una striscia rossa segna il confine fra i due Paesi. E’ suggestivo e… Liberatorio! Ma ancora non è finita perché lo squallido ufficiale che siede comodamente coi piedi sulla scrivania nell’ufficio sul versante tibetano, ci fa perdere altri venti minuti. E pensare che non siamo una carovana, ma solo sette pacifici turisti italiani! Finalmente, fra fango e nebbia, raggiungiamo le jeep e i nuovi autisti, carichiamo i bagagli e partiamo per Zhangmu (2200 m.), 10 km. Di pista impossibile! Qui ci fermiamo nuovamente agli uffici doganali (praticamente il visto non ci è ancora stato rilasciato!), dove i nostri bagagli vengono aperti e controllati, a noi presa la temperatura per via della Sars.
Col visto finalmente sul passaporto, andiamo all’Hotel Zhangmu, il primo di una serie di alberghi governativi, tutti assolutamente identici l’uno all’altro, anonimi, essenziali, ma per lo più sufficientemente puliti. A cena, nel desolato ristorante dell’hotel, abbiamo conferma di quanto sentito e letto sulla cucina tibetana, che arriva persino a peggiorare quando viene proposta in chiave internazionale: è tutto assolutamente privo di sapore o così piccante che non riesci a distinguere se è carne, pesce o verdure o che, quello che stai mangiando! ZHANGMU – TINGRI Prima di lasciare Zhangmu facciamo una buona scorta di acqua minerale perché per i prossimi giorni non incontreremo che piccoli villaggi dove non sarà possibile trovare acqua né altro. Nei due giorni successivi percorreremo circa 260 km. In direzione nord-ovest sulla Friendship Highway diretti a Shegar.
La strada è sterrata e deserta, praticamente incontreremo giusto un paio di carri di contadini o pellegrini in viaggio. Il paesaggio della Transhimalayana è stupefacente: si passa da quello tropicale del confine col Nepal a quello lunare dei passi a 5000 metri d’altitudine; quello suggestivo e maestoso dell’Everest e quello dolcissimo delle praterie di smeraldo dove numerosi yak pascolano felici quanto le caprette di Heidi! Le piste sono stretti tornanti infiniti che incidono le ripidissime pareti delle montagne himalayane su strapiombi da paura… Ogni mattina mi raccomando a Dio, tanto più che l’autista sembra un ragazzino di 15 anni con la testa fra le nuvole… E invece è un grande, attento, capace e gentile. Siamo fortunati perché su queste piste non beccheremo mai la pioggia: dev’essere davvero tremendo attraversarle sotto l’acqua, col fango e magari pure con la nebbia! Numerosi i piccoli villaggi arroccati sulle montagne o adagiati nelle verdissime valli laterali: le case tutte bianche, le porte e le finestre di legno meravigliosamente scolpito e variopinto, i davanzali fioriti, il recinto con gli animali, e ai quattro angoli del tetto a terrazza svettano alti i pinnacoli cui sono appese numerose e colorate bandiere di preghiera. E’ tradizione appendere lunghe file di bandiere proprio nei punti più in alto: sui tetti, sugli alti passi o in cima ai Monasteri o agli Stupa, affinché le preghiere sopra incise possano essere facilmente trasportate dal vento fino in cielo.
I tibetani che incontriamo sono timidi e gentili. Gli uomini portano lunghi capelli raccolti in una grossa treccia che incornicia loro il viso scuro e una frangia rossa che cade sulla fronte. Numerosi i grandi anelli con pietre colorate infilati nella grossa treccia; immancabili gli orecchini di corallo rosso e turchese che hanno valenza soprattutto terapeutica oltre che di protezione. Le donne portano i capelli raccolti in una grossa treccia arrotolota sulla testa. Le lunghe gonne sono fermate alla vita da un enorme medaglione d’argento inciso e puntellato. Numerosissime le collane, le spille, gli orecchini. Le vedi così vestite sempre, magari mentre portano sulle spalle pasanti fasci di sterpi, o mentre impastano lo sterco per i panetti da essiccare al sole… I loro orecchini sono una meraviglia. Volevo comperarli ma difficilmente se ne separano (se non per estremo bisogno, del quale sarebbe squallido approfittare) perché ne possiedono un solo paio in genere per tutta la vita. A Lhasa in qualche gioielleria si possono trovare, ma nel loro asettico astuccio perdono improvvisamente ogni malia! Perché non sono solo il corallo e il turchese a farli tanto belli, ma lunghe trecce, pelle, occhi, voci.
Saliamo velocemente di quota: Nyalam (3750 m.), dove visitiamo la grotta in cui visse il poeta eremita Milarepa, fino al Passo di Lalung a 5050 m. Il paesaggio è suggestivo: le alte cime himalayane innevate, l’aria tersa, il sole che splende nel cielo turchese, il vento che si insinua fra le numerose bandiere di preghiera. Il cuore batte forte e sono certa che non è solo per l’alta quota! A Tingri andiamo a dormire all’hotel Everest. Naturalmente durante l’intera giornata non incontriamo alcun “punto di ristoro”; come succederà nei giorni a seguire, bivacchiamo, mangiando quello che è contenuto nel “cestino” fornito dall’hotel della notte precedente: una mela, un salsicciotto di colore indefinibile, una bustina argentata con dentro una non identificata cremina, una o due uova sode (ogni giorno!), a volte una pagnottella che sembra panettone raffermo… Natale ’96! I “cestini” saranno sempre di suddetto pregio! E se il primo giorno può anche andare, al terzo ti fiondi su simmenthal, tonno, crackers e tutto quello che il buon senso ti ha fatto mettere in valigia, con voracità quasi preoccupante! Soprattutto perché la cena al ristorante, la sera, non fa certo guadagnare punti alla cucina tibetana! Le 15 camere dell’hotel Everest sono in fila, una accanto all’altra, disposte ad anfiteatro proprio di fronte allo scenario dell’Everest (8884 m.) e del Cho Oyu (8256 m.). Ci ritroviamo spettatori storditi e inebriati da una bellezza difficile da rendere a parole! Le camere sono piccole, senza acqua né servizi, ma i letti e i soffitti sono di legno intagliato e decorato nello stile locale: certo, un po’ spartano, ma di grande atmosfera! La sala da pranzo è una sorta di soggiorno, coi mobili bassi colorati e una grande stufa di ghisa al centro. Ci siamo solo noi e quattro ragazzi di nazionalità diversa che fanno il nostro stesso percorso ma… In bicicletta! Anche se siamo stanchi e/o troppo rimbambiti o euforici per via dell’alta quota, trascorriamo lo stesso una serata indimenticabile, con spettacolo finale: il sole che tramonta sulle cime argentee dell’Everest e del Cho Oyu.
TINGRI – SHEGAR (80 km.) Trascorriamo la giornata nella zona, fra scenari straordinari e piccoli villaggi dove è una meraviglia osservare i tibetani alle prese con la vita quotidiana. Compriamo bellissimi fossili che non è necessario denunciare in uscita dal Tibet, con un’unica accortezza: non possono essere portati nel bagaglio a mano per motivi di sicurezza, in quanto arma impropria! All’hotel Shegar in cui ci fermiamo a dormire, gli stessi fossili costano mille volte di più! SHEGAR -SHIGATSE (239 km.) Ripartiamo abbastanza presto al mattino, fa freddo, ma il sole è molto intenso, cosicché è tutto uno spogliarsi e rivestirsi…
Verso mezzogiorno, superato il Passo di Gyatso La a quota 5220 m., facciamo una deviazione di una trentina di km. Dalla strada principale, che ci conduce a Sakya, 4280 m. Il Monastero di Sakya è simile ad una fortezza ed era, prima della Rivoluzione Culturale, uno dei più grandi del Tibet. Belli i dipinti murali e le grandi statue di Buddha.
Numerosi i fedeli in preghiera: recitano continuamente i mantra con in mano da una parte la ruota di preghiera che gira, dall’altra il lungo e bellissimo rosario, mentre camminano sul percorso di preghiera. Ogni monastero ha infatti un percorso tracciato sia al suo interno che all’esterno, e i fedeli lo percorrono ripetutamente e solo in senso orario, entrando e uscendo dalle numerose cappelle dove si fermano in preghiera, fanno le prostrazioni, lasciano in offerta una banconota o una cucchiaiata di burro di yak, che il monaco preposto “spalma” all’interno delle bellissime coppe d’argento dove sono sempre accese numerose fiammelle. Quindi ripartono… Camminano e camminano, ripetono questi gesti come all’infinito, per intere ore o giornate, con le ruote “ipnotizzate” in un moto circolare perpetuo, e i mantra recitati una volta e poi un’altra… Questa cultura mi è totalmente estranea, eppure provo un fortissimo senso di benessere nel percepire tanta spiritualità, tanta profonda devozione, tanta partecipazione umana.
Il Monastero di Sakya è molto bello, tutt’oggi abitato da un gran numero di monaci, anche bambini. Sono allegri ma lo stesso mi fanno una gran pena. Non è certo vocazione la loro (a 6-7 anni come potrebbe esserlo?), ma l’estremo sacrificio di una famiglia indigente che non potendo crescere il figlio sceglie per lui un destino che gli consentirà di mangiare e di imparare a leggere… Ma mi chiedo se sarà certamente migliore del destino di povertà e di fatica del contadino che si ammazza nei campi? Forse. O forse no.
Riprendiamo la strada principale e attraversato il Passo Tsa La a 4500 m., scendiamo verso la piana di Shigatse, 3900 m. Dormiamo all’hotel Shigatse, sulla strada principale del centro che ospita il Tashi Lunpo.
SHIGATSE Dedichiamo l’intera giornata alla visita del magnifico complesso monastico, ex residenza del Panchen Lama, che con i suoi tetti dorati, i templi, i palazzi è uno dei più belli fra i monasteri che avremo visitato alla fine del viaggio.
A Shigatse incontriamo i primi turisti che in 24 ore riscono ad andare e venire da Lhasa per una brevissima e sommaria visita al Tashi Lumpo. Troppo limitativo, un vero peccato. Il mercatino di souvenir è molto interessante, ci sono sicuramente meno accozzaglie che invece pullulano nei centri che visiteremo d’ora innanzi; più infatti ci si avvicina a Lhasa, più si fanno numerosi i turisti e le bancarelle.
SHIGATSE – GYANTSE (90 km.) Dopo un’oretta dalla partenza, facciamo una deviazione in una valle laterale per raggiungere il piccolo villaggio di Shalu. Pioviggina e questo vuol dire inevitabilmente fango, che però non ci impedisce di girare per il piccolo villaggio e di visitare un paio di abitazioni, dove le padrone di casa inizialmente stupite, sono felicissime di mostrarci la loro dimora, la cucina, le vecchie foto. Tutto in maniera spontanea e disinteressata! Visitamo il piccolo monastero, ma di Shalu ricorderderò soprattutto l’odore delle case e la contentezza delle signore che ci hanno ospitato! All’ora di pranzo arriviamo a Gyantse. Entrando possiamo godere di una vista spettacolare sul Monastero posto in cima a un roccione e cinto da un’antica muraglia che conferisce al paesaggio un’aspetto medievale e incantato: la nebbia a mezz’aria, i raggi del sole che illuminano come fari abilmente manovrati i piccoli fiori gialli che chiazzano l’ondosa prateria sottostante… Restiamo senza fiato! Pranziamo al ristorante dell’Hotel Gyantse, dove un ricco buffet crea in noi inutili illusioni! L’hotel e al centro di una cittadina dove le voci, le facce, le insegne parlano cinese.
Nel primo pomeriggio, riscaldati da un sole gradito quanto inatteso, andiamo a visitare il monastero che domina dall’alto il vecchio quartiere tibetano. Il Pelkor Chode è un grande complesso monastico del 1400, famoso in tutto il paese per il Chorten più grande del Tibet: una grande cupola d’oro che sovrasta quattro paia di occhi che guardano verso i punti cardinali. Un percorso a spirale sale per tutti i sei piani dello stupa attraverso scalette interne ripidissime e totalmente buie. Indispensabile la torcia che sarà anche e soprattutto molto utile all’interno dei monasteri per illuminare i dipinti murali o altri particolari che spesso le fioche luci predisposte lasciano completamente al buio. Sulla collinetta di fronte al Pelkor Chode corrono le mura dell’antico Forte posto in cima al vecchio villaggio. La vista è ineguagliabile, ovunque si volga lo sguardo è puro incanto.
GYANTSE – TSETANG (330 km) Lunga giornata di trasferimento che però ci riserva ancora scenari incredibili. Si sale rapidamente ai 5010 m. Del Passo Karo La incassato fra i ghiacciai, dove ci fermiamo a salutare una famiglia che ha deciso di mettere su casa lì. Vendono minerali e formaggio duro come il marmo, tagliato in piccoli pezzetti infilati in uno spago come una collana. E’ consueto vedere i bambini, ma anche i grandi, “ciucciare” un pezzetto di questo strano formaggio, che potrà essere mangiato solo dopo giorni di questa imperitura “operazione”.
Superato il Passo scendiamo verso il Lago Yandrok, un immenso specchio di acqua turchese che ci lascia stupefatti. Costeggiamo il lago in un continuo sali-scendi, durante il quale il paesaggio è straordinariamente mutevole.
Ci fermiamo al Passo Kamba La (4794 m.), dove il lago sembra uno smeraldo incastonato fra le alte vette bianche. E’ tutto immobile, solo le bandiere di preghiera accennano un suono: il cielo qui è solo a un passo, il vento in un soffio porta le preghiere fino a lui.
Discendiamo la Valle dello Yarlung fino al Chusul Bridje, il bivio che conduce a Lhasa. Qui lasciamo le jeep e i nostri bravissimi autisti, per un minibus con il quale d’ora in avanti viaggeremo su strade asfaltate.
Su questo bivio in realtà finisce il nostro viaggio nel “Tibet dei tibetani” e ne comincia un altro nel “Tibet dei cinesi”. Nei villaggi che incontriamo l’ondulina e il cemento hanno preso il posto delle meravigliose case bianche con le porte e le finestre di legno colorato, e i tibetani si confondono facilmente coi cinesi; li si distingue solo nei monasteri dove (malgrado i cinesi) tornano ad essere se stessi nella preghiera.
In serata raggiungiamo Tsetang, seconda città del Tibet, dove alloggiamo all’Hotel Tsetang.
TSETANG (3400 m.) Di buon ora andiamo a Samye, 40 km., dove trascorriamo tutta la giornata. Il Monastero è costruito in modo che i suoi edifici creino un enorme Mandala, che richiama l’ordine cosmologico buddista. Le statue di Buddha sono straordinariamente belle, incastonate di turchesi, coralli, ambra. Ma la cosa che ha reso la visita indimenticabile è stata la presenza di numerosi nomadi, a Samye in pellegrinaggio. Le donne portano lunghissime trecce adornate di fili di corallo e turchese grezzo, vestiti tradizionali diversi da quelli delle altre donne tibetane, grandi e numerosi gioielli e uno strano cappello texano! Gli uomini somigliano un po’ ai pellerossa, con le trecce sulle spalle e le grandi collane sul petto. Grosse pance, grossi pugnali, grossi anelli, stivali e bluse mongole. Sporchi in maniera indicibile! Del resto la cultura tibetana non contempla la pulizia personale.
Seguiamo tutto il percorso, interno ed esterno, senza tralasciare le numerose cappelle sparse nella vegetazione intorno al corpo centrale. Alcune sono straordinariamente belle. Facciamo gran parte del percorso insieme a una grande famiglia di nomadi che è una meraviglia osservare e con la quale riusciamo persino a comunicare. Non ci chiedono soldi o altro, ma solo foto e oggetti di culto: quando capiscono che conosciamo il Dalai Lama si commuovono per la gioia.
TSETANG – LHASA (190 km.) In mattinata visitiamo, ancora intorno a Tsetang, il Tempio-Castello di Yumbulakang e il Monastero di Tandruk.
Dopo pranzo partiamo alla volta di Lhasa, 3650 m. Durante il tragitto ci fermiamo ancora al Monastero di Mindoling e a quello di Dranang. Arriviamo a Lhasa a pomeriggio inoltrato.
Lhasa è un’orrenda città cinese, con una grande piazza in perfetto stile socialista proprio alla base del Potala, che appare così isolato e fuori posto in un mondo che gli è del tutto estraneo. E’ fortemente simbolico: è questa la sorte degli stessi tibetani, ridotti a minoranza etnica nel loro Paese.
Dormiamo alla Shangbala Hotel, che preferiamo al migliore (peraltro non in modo considerevole) Lhasa Hotel, perché a cento metri da Jochan, nel cuore del Barkor, l’antico quartiere tibetano dove ancora ci si può sentire in Tibet e non in Cina.
LHASA Ci fermiamo a Lhasa quattro giorni. Visitiamo il Potala, ex residenza del Dalai Lama. E’ maestoso e bellissimo, ma manca la spiritualità che è palese negli altri luoghi di preghiera. Più che un luogo di culto, è un museo.
Nel pomeriggio andiamo a Sera, 5 km., dove più che dal Monastero restiamo colpiti dal “dibattito” che si tiene fra i monaci. Sono un centinaio, in un grande cortile interno, e discutono animatamente, secondo un rituale prefissato, di problemi dottrinali: si scambiano domande e risposte, spesso gridando, con gesti e movimenti del corpo particolarissimi e concitati. Restiamo interdetti, visti dall’esterno sembrano solo una moltitudine di uomini vestiti di rosso che litiga di brutto! O, come ha maligniato qualcuno, un pugno di uomini che discute di calcio o… Di donne! Il giorno successivo lo dedichiamo all’escursione a Ganden (4200 m.). Il Monastero è costruito ad anfiteatro sulla cima di una montagna a 60 km. Da Lhasa, e si raggiunge attraverso una pista che si inerpica ripida e terrificante. C’è solo il monastero e un paio di casette di legno; vi sono 200 dei 6000 monaci che qui vivevano prima della Rivoluzione Culturale, e che ci ospitano per il pranzo in una grande sala ombrosa e scarna ma che sa di tante vite.
Il silenzio, la nebbia, la quotidianità dei monaci, ci proiettano nuovamente in un mondo lontano e carissimo, quello dei primi giorni sulla Transhimalayana.
Scendendo verso Lhasa facciamo una breve visita al Norbulingka, residenza estiva del Dalai Lama, così da essere al Jochan per il tramonto. E’ il luogo più caro ai buddisti, e con la sua strada e la piazza antistante chiusa al traffico è meta continua di un gran numero di fedeli che vanno e vengono. Molti si fermano in preghiera nei meandri dell’interno, altri girano sul percorso esterno recitando i mantra, altri ancora fanno le prostrazioni o siedono a chiaccherare sulle panche della grande piazza, con le bellissime ruote di preghiera che girano incessantemente.
Ci sono i pellegrini che arrivano da lontano, ma ci sono anche tantissimi fedeli di Lhasa, che semplicemente vengono qui per le preghiere quotidiane. E’ questa quotidianità nella strordinarietà che mi colpisce profondamente. Per questo non mancherò di tornare al Jochan ogni sera, al tramonto. Il Buddhismo continua a non aver alcuna presa su di me, ma pure non mi stanco mai di osservare i tibetani che lo praticano: mi arriva il loro appagamento profondo. Qualche volta tuttavia, quando mi sono ritrovata nella fiumana di fedeli che scorre fluttuante nel bisbiglio della preghiera, ho sentito forte la sensazione di essere del tutto fuori posto e persino elemento di disturbo: è così intima la devozione e la partecipazione umana di questa gente, che è impossibile non sentirsi intrusi.
Nell’ultimo giorno a Lhasa facciamo una visita a Depung, 8 km., per il suo bel Monastero che è anche una delle più grandi scuole monastiche buddiste.
Dedichiamo il resto della giornata agli acquisti nei negozietti e nel miliardo di bancarelle del Barkor.
All’alba del mattino successivo ci imbarchiamo sul volo per Kathmandù, e il cielo sereno ci regala l’ennesimo sguardo meravigliato sull’Everest che fa capolino fra le nuvole pannose. Ci fermiamo tre giorni a Kathmandù, poi il ritorno a casa, con la certezza di aver attraversato, e un po’ vissuto, un Paese straordinario.
I giorni sulla Transhimalayana, nei piccoli villaggi dove il tempo scorre piano, dove i cinesi sono invisibili e le grandi masse di turisti non arrivano, dove gli uomini portano ancora i capelli intrecciati e gli orecchini, le donne fanno le faccende domestiche tutte ingioiellate, i vecchietti stanchi e malfermi fanno girare grandi ruote di preghiera, e il senso di pace è palpabile, quasi corporeo, malgrado tutto… Quei giorni non li dimenticherò. Perché se dopo un po’ i monasteri cominciano con l’assomigliarsi tutti fra loro perchè ci si abitua alla loro bellezza, è l’elemento umano che ha reso questo viaggio straordinario. Perché le facce, gli occhi, le voci, saranno sempre e comunque diversi fra loro: è questa una bellezza cui non ci si abitua mai.
Flaming June