Tour del Guatemala
24/1/2017: SAVONA – CITTÀ DEL GUATEMALA
E anche quest’anno, per fortuna, siamo riusciti a permetterci un viaggio. Purtroppo tra guerre ed attentati, i confini visitabili, senza correre troppi rischi, si sono ristretti molto. La nostra prima opzione è stata il Cile: ci affascinava molto percorrere i grandi deserti salati e la zona andina, e, oltretutto Giò ha un cugino che lavora per un tour operator locale, così abbiamo chiesto un preventivo ma il prezzo per 18 giorni è stato di 2800 €, senza il volo intercontinentale, una cifra per noi irraggiungibile, quindi abbiamo subito cambiato destinazione.
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Complici le splendide immagini trasmesse dal reality “Pechino Express” i cui protagonisti hanno attraversato questo splendido paese, abbiamo deciso per il Guatemala, culla della civiltà maya, dalla natura rigogliosa e dai coloratissimi mercati. Trovare il volo è stato relativamente facile, abbiamo acquistato un volo con Air France a poco più di 500 €, ma è stato più duro trovare un tour operator locale o una guida; su internet ce ne sono pochissimi, e anche il vostro sito non ci è stato di grande aiuto. Alla fine ci siamo affidati a “Thinkguatemala” che ha elaborato un programma personalizzato completo e flessibile ad un prezzo decisamente vantaggioso, 1415 € per 19 giorni in cui sono inclusi 19 pernottamenti, auto privata con autista per tutto il periodo di viaggio, gli ingressi a tutti i siti, la guida parlante italiano nei principali siti maya, praticamente esclusi erano solo i pasti. La scelta è stata assolutamente azzeccata, da consigliare. Yves Marchand, il titolare è un quarantenne belga che vive da 20 anni in Guatemala quindi conosce il paese come le proprie tasche, parla correntemente spagnolo, inglese e francese, ci ha consigliato sui posti da visitare anche quelli non battuti dal turismo di massa e, quando possibile, ci ha fatto vedere più cose che quelle previste da programma. Sempre preciso, puntuale, pronto a venire incontro ad ogni nostra richiesta, profondo conoscitore della cultura maya, infatti in un paio di siti ci ha fatto da guida spiegandoci il tutto con una competenza quasi di un archeologo.
Pare che il parcheggio dell’aeroporto di Nizza costi una fucilata, così Roby ha proposto di farci accompagnare in taxi, che, il giorno della partenza, è venuto a prenderci alle 3, 30 di notte, alle 5,30 eravamo in aeroporto, alle 7,10 siamo partiti puntuali; siamo atterrati a Parigi alle 8,30 e siamo quindi decollati con quasi un’ora di ritardo ma non è un problema visto che il transito a Città del Messico sarà di 5 ore. Il volo è stato confortevole anche perché a avevamo un sedile vuoto di fianco, quindi abbiamo potuto allungarci anche un po’e dormicchiare, buono il vino come sempre quando si viaggia con Air France, così come il cibo, anche se il cetriolo regnava ahimè sovrano! Atterrati a Città del Messico ci è capitata una cosa alquanto singolare: malgrado avessimo fatto l’imbarco diretto dei bagagli li abbiamo dovuti ritirare e, quindi, trasportati personalmente su un altro nastro trasportatore per il nuovo imbarco; pare che in questo aeroporto funzioni così! Abbiamo viaggiato per oltre 12 ore eppure siamo arrivati che il sole era ancora alto, sembra che ci abbia accompagnato per tutto il viaggio. Abbiamo più di 4 ore d’attesa nella capitale messicana, abbiamo dapprima raggiunto con un treno, il terminal da cui partiremo, abbiamo camminato per i lunghissimi corridoi del moderno aeroporto, abbiamo sbirciato nei numerosi negozi, per lo più di oggetti d’artigianato, quindi, stanchi morti, ci siamo seduti al nostro gate aspettando di imbarcarci per la terza volta. Il volo è partito in orario ed abbiamo toccato il suolo guatemalteco alle 23.40, puntualissimi. Yves era lì ad attenderci con in mano un foglio con il mio nome, in quattro e quattr’otto siamo andati a prendere il van ad otto posti con cui viaggeremo e ci ha condotto in hotel, che ha scelto a pochissima distanza dall’aeroporto, il “Mariana Petit Hotel”.
Per raggiungerlo abbiamo dovuto oltrepassare un cancello con tanto di custode che ha aperto solo dopo che il titolare dell’agenzia ha esibito i documenti; abbiamo avuto subito conferma che Città del Guatemala non è uno dei posti più tranquilli nel mondo!
L’hotel è una villetta con poche camere, anche un po’ kitch, ma è pulito e confortevole, ricorda un po’le case particolar cubane. Abbiamo saldato il conto con il titolare dell’agenzia poi ci siamo tuffati nel letto lavandoci solo i denti, sono 29 ore che siamo pressoché svegli!
25/1/2017: CITTÀ DEL GUATEMALA – PANAJCHEL
Abbiamo trascorso una notte agitata, ci siamo svegliati un’infinità di volte malgrado fossimo stati stanchi morti e poi, la vicinanza dell’aeroporto, con il via vai degli aerei, certo non ha aiutato. Avevamo appuntamento con il titolare dell’agenzia alle 9,30 ma prima delle 8 eravamo già giù nel salotto buono per la colazione. Di fianco alla reception hanno allestito un presepe meccanizzato e illuminato con decine di lucine grande quanto tutta la stanza, qui è usanza tenerlo fino a fine febbraio. Alle 9 abbiamo lasciato l’hotel ed abbiamo attraversato la capitale, che conta 4 milioni di abitanti e, stamane non è particolarmente trafficata, ci spiega Yves, con cui parliamo un misto di spagnolo ed inglese, ma riusciamo comunque a comprenderci. La prima tappa della giornata è Iximche, nei pressi di Topcol, prima capitale guatemalteca dopo la conquista spagnola. La città venne costruita nel XV secolo ed appartiene al periodo postclassico. Ha una funzione difensiva perché arroccata su di uno sperone di roccia ad un’altezza di 2200 m ed è raggiungibile da un’unica strada; è costituita da 4 piazze principali, tutte con 2 piramidi poste l’una di fronte all’altra una orientata ad est e l’altra ad ovest; sulla cima di esse, in una sorta di santuario, viveva il sacerdote che era anche sciamano ed astrologo e si mostrava ai fedeli con il viso coperto da una maschera. In ogni piazza ci sono altari di pietra su cui si facevano sacrifici, pare anche umani, alcuni conservano tracce degli affreschi da cui erano completamente coperti. Ogni piazza apparteneva ad una diversa famiglia, avevano tutte la stessa struttura ed ognuna aveva il proprio campo per il gioco della pelota. Nell’ultima piazza, le rovine sono poche ma è il luogo dove tutt’oggi si compiono riti sciamanici: su altari di pietra si bruciano sostanze vegetali: zucchero, cera, incenso, rosmarino, cannella ma sono proibiti sacrifici animali anche se, a detta di Yves, spesso si trovano le pietre sporche di sangue. Le cerimonie si compiono per lo più il sabato e la domenica ma anche oggi c’erano persone inginocchiate davanti al fumo delle candele mentre un gruppo di mariachi suonava e altri arrostivano pollo sulla brace. Il Guatemala è un paese molto cattolico ma è ancora molto legato alle credenze maya e questi 2 aspetti della religione si fondono insieme indissolubilmente. All’uscita c’è un piccolo museo con 4 reperti trovati nel sito ed un plastico della città. Ci siamo fermati per un tacos al formaggio al “Ranchon Swisso”, un ristorante con gli arredi di legno e il grande camino al centro della sala simile ad una baita di montagna. La strada di oggi è tortuosa, attraversa boschi di pini e zone coltivate a mais e cavoli, arriviamo a Sololà e, quando la strada comincia a scendere ci fermiamo in una piazzola da dove possiamo godere della vista del lago di Atitlan, secondo per estensione di tutto il Guatemala, circondato da vulcani spenti. Oggi la visuale è velata dalla foschia determinata forse dall’umidità che si alza dalle acque del lago o, forse, proveniente dal fumo che i coltivatori fanno bruciando, sulla costiera pacifica, le canne da zucchero. Panajchel è il paese più importante per turismo sul lago, centro focale della pesca sportiva, tanto che l’introduzione del persico nero ha falciato completamente la fauna autoctona del lago e luogo di ritrovo degli hippy americani ed europei. Il nostro hotel “Primavera” si trova in calle Santander, la principale via cittadina affollata da ogni tipo di negozietti d’artigianato, soprattutto di tessuti colorati. L’hotel è semplice ed elegante, con un piccolo giardino all’interno. Abbiamo posato le valigie e abbiamo passeggiato fino alle rive del lago, fermandoci spesso a vedere le merci esposte ma oggi niente acquisti, risentiamo ancora del jetlag e contrattare è sempre impegnativo! Il titolare dell’agenzia ci ha accompagnato in banca a cambiare un po’di dollari in quetzales, la moneta locale ed abbiamo scoperto che non si possono cambiare più di 500 $ in un mese e mai più di 200 $ per volta, e come fanno i turisti a fare acquisti se non permetti loro di cambiare? Abbiamo cenato al “Guajinbus” un ristorante uruguayano che ci ha cucinato una parillada superba poi subito a letto perché ci si chiudevano gli occhi.
26/1/2017: PANAJCHEL – CHICHICASTENANGO
Ancora problemi con il fuso! Alle 6 eravamo svegli come grilli, abbiamo rigirato nel letto fino alle 8 poi siamo andati a fare colazione in uno dei bar di fronte all’hotel, abbiamo mangiato un’ottima crepes con frutta fresca, yogurt e marmellata ma che hanno impiegato quasi un’ora per servirci, per fortuna ci siamo alzati per tempo! Abbiamo percorso la strada a ritroso fino a Sololà poi la strada prosegue così, tra saliscendi, per un’ora, fino a Chichicastenango. Si procede alla velocità della lumaca per evitare i dossi artificiali sparsi su tutto il fondo stradale; si è spesso quasi sfiorati dalla guida scriteriata dei bus dai colori sgargianti con il tetto coperto da scatoloni e cesti: i chicken bus, i bus sempre strapieni di contadini che dall’altopiano scendono verso le città più grandi e, approfittando dei mercati, fanno la spesa per la settimana quindi gli angusti sedili sono occupati anche da pacchi e galline vive infilate in una borsa. Alle 10.30 siamo arrivati a Chichicastenango, una cittadina che conta 3500 abitanti, che il giovedì e la domenica, giorni di mercato, raddoppia la sua popolazione. Il centro è tutto occupato da bancarelle che vendono tutto l’artigianato guatemalteco: tessuti, maschere di legno, borse in cuoio e tessuto, magliette e, per la gioia di Giò, tanti presepi ! ne abbiamo acquistati 3 e poi abbiamo approfittato per comprare già qualcosa da portare a casa ai nostri cari. Sempre accompagnati, percorriamo questo dedalo di bancarelle ed arriviamo al vero e proprio mercato della frutta e verdura, dove i campesinos vengono dalla campagna a vendere i loro prodotti che espongono su di un telo appoggiato al suolo. Al centro del mercato si trova il simbolo di Chichicastenango, la bianca chiesa di Santo Thomas sopraelevata, perché posta su un cumulo dove sorgeva un antico altare maya. La scala per accedere alla chiesa è considerata sacra e solo gli sciamani la possono salire, turisti e fedeli accedono alla chiesa da una porta laterale; molte sono le donne che si siedono sugli scalini con enormi mazzi di fiori da offrire ai Santi. L’interno è singolare, la navata centrale è percorsa da altari di pietra coperti da candele colorate e petali di fiori. Lateralmente ci sono cappelle, ognuna dedicata ad un Santo differente, a seconda della grazia che si vuole chiedere si offrono doni sull’altare posto di fronte al Santo protettore ; oggi le pareti della chiesa sono bianche perché ridipinte di recente ma fino a qualche anno fa erano completamente annerite dal fumo delle candele. Molti sono i fedeli che pregano a gran voce inginocchiati sul pavimento, in una forma di preghiera plateale che i turisti, per lo più osservano con curiosità, qui è assolutamente vietato scattare foto! Esattamente di fronte alla chiesa di Santo Thomas si trova la chiesa del Calvario, anche se in numero minore, gli sciamani, compiono riti sugli altari maya. Anche se sembra macabro, siamo andati a visitare il cimitero della città le cui tombe sono dipinte di colori sgargianti, rosa fluo, turchese, viola, giallo limone, verde pisello. Al culmine della collina si fanno sacrifici in onore dei defunti, si bruciano incensi e… scatolette di sardine che provocano vere e proprie piccole esplosioni. Dopo averci condotto e spiegato tutto ciò che c’era da sapere sulla cittadina, ci ha lasciato camminare per il mercato in modo da fare liberamente i nostri acquisti. Lo abbiamo reincontrato verso le 14, siamo andati a bere una birra nell’hotel più lussuoso di Chichi e poi siamo ritornati a Panajchel. Stasera Yves tornerà a Città del Guatemala per seguire un altro gruppo di turisti, lo ritroveremo ad Antigua, e da lì in poi, ci accompagnerà fino alla fine del viaggio. Ci ha comunque presentato Gustavo, colui che si occuperà di noi e a cui faremo riferimento durante al nostra permanenza sul lago, e un foglio con su scritto gli orari degli appuntamenti e il nome delle persone che ci accompagneranno e con i suoi numeri di telefono. Abbiamo passeggiato un po’sul lungolago, fatto ancora un giretto nel mercatino di Panajchel e poi abbiamo acquistato una bottiglia di Rum Botran 12 anni e ci siamo fatti un mega cuba libre sulla veranda del nostro hotel prima di cena.
Abbiamo cenato a “Chinitas”con tortillas e insalata e abbiamo bevuto vino cileno, una gran bella serata !
27/1/2016: PANAJCHEL – SAN FRANCISCO EL ALTO – S. ANDRES XECUL –QUETZANTENANGO –ZUNIL – FUENTE GEORGINA
Abbiamo cominciato la giornata con una bruttissima notizia: il papà di Simona è peggiorato, non riesce a respirare autonomamente, quindi hanno deciso di rientrare, hanno già contattato Federica che ha comprato loro un volo che li riporterà a casa domenica. Con il morale sotto i tacchi e lo stomaco chiuso da una morsa siamo andati a fare colazione in un bar qui di fronte ( quello di ieri era chiuso), gestito da due disorientati finlandesi che ci hanno servito una brioches della settimana passata con un cucchiaino di marmellata dal colore improbabile. Yves è ripartito ieri per Città del Guatemala, è venuto a prenderci Mario, non Gustavo, che ci ha presentato ieri, un tipo taciturno dalla guida nervosa. Vuoi per il morale sotto terra, vuoi per la strada tutte curve e la guida brusca di Mario ho veramente rischiato di vomitare ed io non patisco il mal d’auto! Una cosa che penso di consigliare a chi viene in questo paese e, patisce il mal d’auto è di premunirsi di braccialetti o antiemetici, soprattutto se si pensa di viaggiare con i mezzi pubblici, infatti gli autisti di autobus hanno una guida a dir poco spericolata! Abbiamo impiegato più di un’ora per raggiungere S. Francisco El Alto, un paese di nessuna attrattiva, tranne che il venerdì, giorno di mercato, quando si colora di mille sfumature degli abiti tradizionali delle donne che girano affaccendate tra i banchi con grossi pacchi sulla testa e talvolta con una gallina sotto braccio o una pecora al guinzaglio! Una fiumana di persone ti trascina letteralmente via se ti fermi ad ammirare le merci esposte ; la maggior parte dei commercianti espone la propria mercanzia per terra, su di un telo, proprio come al tempo dei maya. E’ uno spaccato di autentica vita dei campesinos dell’altipiano, le merci erano oggetti d’uso comune, non esistevano manufatti d’artigianato e tra quelle migliaia di persone abbiamo incrociato si e no una decina di occidentali. Le stradine ingombre da banchetti salgono su, fino al punto più alto del paese, dove, al centro di una grande piazza ci sono vitelli, maialini e pecore legati con una corda al palo; anatre, pulcini, galline,tacchini stipati in grandi ceste, qualche magrissimo cucciolo di gatto e di cane. Ho acquistato un buon numero di grembiuli dai colori vivaci, gli stessi indossati dalle donne del luogo. Lasciato San Francisco El Alto proseguiamo per la strada che serpeggia attraverso l’altipiano, tra piccoli paesi le cui case più antiche sono costruite in adobe, mentre quelle più nuove sono fatte con blocchetti di cemento; molti sono i campi coltivati, anche lungo le pareti scoscese delle colline, quasi a 45°, tanto che io faticherei a stare in piedi, altro che dissodare il terreno, coltivarlo ed annaffiarlo! Abbiamo raggiunto San Andres Xecul, con la chiesa dipinta di giallo acceso, la cui facciata è decorata con rubiconde statue di angeli e santi; a mezzogiorno chiude i battenti ma la custode ci ha gentilmente fatto entrare un paio di minuti, ma l’interno buio non è precisamente un’opera d’arte!
La seconda tappa è a Quetzaltenango, seconda città del Guatemala ma essendo stata distrutta da un terremoto all’inizio del secolo scorso è di architettura moderna. Il Parque Centro America, il cuore della città è una grande piazza con aiuole ed alberi e panchine dove studenti ed anziani riposano; lustrascarpe prestano i loro servigi, ed è circondata da palazzi in stile ellenico, con brutte copie di colonne corinzie, la facciata della cattedrale in stile coloniale nasconde la triste e severa facciata della nuova cattedrale. Mezz’ora ed eravamo a Zunil, un altro centro agricolo con un bella chiesa coloniale dalla facciata bianca e gialla, ma a quest’ora chiusa. Da qui la strada sale, fino a 2300 m d’altitudine dove di trova un laghetto d’acqua termale dalla temperatura di 30° / 40 ° a seconda della vicinanza alla sorgente, da cui si alza una lieve nube di vapore tra la rigogliosa vegetazione tropicale. Immergersi nel tepore accogliente di queste acque è stato un toccasana per tutti ! Siamo rimasti qui in questo limbo di puro benessere per quasi due ore prima di rientrare.
Siamo giunti a Panajchel che era buio, ci siamo subito attivati per stampare i biglietti aerei e il visto per il rientro di Simo e Roby, quindi abbiamo comunicato il tutto al titolare dell’agenzia locale con cui abbiamo organizzato il viaggio, che ha organizzato il loro trasporto all’aeroporto. Siamo andati a cena al “Josè Pinguino” dove si esibiva un gruppo di musicisti di mirimba, strumento nazionale guatemalteco, simile ad una xilofono, e poi un’altro gruppo si è esibito in brani di musica leggera. L’intrattenimento è stato piacevole ma la cena a base di carne un po’ troppo dura e neanche tanto calda.
28/1/2017: SAN JUAN DE LA LAGUNA –SANTIAGO ATITLAN – SAN ANTONIO PELOPO
Le notizie da Noli sono sempre più sconfortanti: Gino è entrato in coma ma purtroppo prima di domani non c’erano voli, quindi anche per non pensare, siamo andati a fare il giro dei villaggi del lago già in programma. E’ venuto a prenderci in hotel Gustavo e ci ha accompagnato all’imbarcadero dove una lancia privata ci stava aspettando per portarci a visitare 3 dei 12 paesi che si affacciano sul lago Atitlan. Anche oggi il sole splende alto nel cielo azzurro ma durante la navigazione il vento è gelido, così ci intabarriamo nelle nostre giacche a vento. Alla luce chiara del mattino il riflettersi del colore rossastro delle rocce delle montagne conferisce all’acqua limpida del lago un color cipria delicato. Malgrado una leggera foschia i vulcani San Pedro, Atitlan e Toliman si specchiano nel lago che è lungo oltre 25 km. Impieghiamo più di mezz’ora a raggiungere San Jan de la Laguna, detto così perché si affaccia su di un’insenatura dove le acque sono particolarmente ferme, come in una laguna. Il paesino è caratteristico, con la strada principale su cui si aprono negozietti di tessuti e quadri che si inerpica in salita fino alla piazza principale su cui si affaccia la chiesa moderna, quasi un capannone; dell’antica chiesa coloniale rimane solo parte della facciata. All’interno un buon numero di anziane signore assiste alla messa con veli colorati sulla testa; quando sono uscite abbiamo chiesto ad una di loro se sapesse indicarci dove venisse custodito il Maximon ed ella, dopo averci chiesto una “Propina” è stata ben felice di condurci fin là. All’interno della casa c’è un altare in pietra dove tutt’ora si compiono riti maya e, nella stanza accanto la statua del Maximon vestito con abiti colorati e la sigaretta in bocca, sigarette ed alcoolici vengono portati in dono per ingraziarsi i favori dello Spirito. Dall’altro lato del lago si trova Santiago Atitlan, il più grande paese sul lago, divenuto famoso perché nel 1990 venne firmato il primo trattato di pace tra guerriglieri ed esercito. Appena poggiato il piede sulla terra ferma siamo stati presi in “ostaggio“ da David, un ragazzino poco più che ventenne con moglie e 2 figli che, parlando correttamente lo spagnolo si propone come guida della città per 200 Q. In Guatemala e soprattutto sull’altopiano, non è poi così scontato che la popolazione parli lo spagnolo, la maggior parte si esprime ancora in uno dei 43 idiomi maya. Le strade, soprattutto quelle in prossimità dell’imbarcadero, traboccano di negozietti di souvenir, soprattutto tessuti e gioielli fatti con perline di vetro colorato. Attorno alla piazza principale della città si svolge giornalmente il mercato di frutta e verdura e al centro si trova una fontana, fatta come un plastico del lago Atitlan con tutti i paesi che vi si affacciano. La bianca chiesa cattolica, risalente al 1500, all’interno ha molti richiami al culto maya e le statue dei Santi sono abbigliate con vesti dai colori sgargianti. Sulla piazza, David ci ha presentato un’anziana signora che per pochi spiccioli, ha accettato di sciogliere e riavvolgere lo xh’ap, il rosso copricapo a cerchi concentrici tipico di qui. A questo punto ci ha portato a vedere il Maximon, l’attrattiva maggiore della città (quello di San Juan è meno famoso). Questa divinità viene custodita da una famiglia per un anno, poi durante la settimana santa viene accolta a casa di un’altra famiglia dove rimarrà per l’anno successivo. E’una statua in legno vestita con abiti tradizionali ed un cappello in testa che fuma e beve e che vien accudito dai componenti della famiglia dalle 8 alle 17, quindi viene riposto a riposare per la notte.
Durante quel lasso di tempo i fedeli vengono accolti e gli chiedono una grazia, lo sciamano compie riti propiziatori mentre il Maximon fuma e la sigaretta si consuma lentamente: una persona, di tanto in tanto, fa scendere la cenere in un posacenere. Per noi è una figura grottesca che rasenta il ridicolo, ma per la gente del luogo è un simbolo importante ed è giusto non lasciarsi andare ad apprezzamenti, anche non verbali che mostrino il nostro scetticismo. L’ultimo paese visitato è San Antonio Palopo, il meno caratteristico dei 3; appena sbarcati siamo stati presi d’assalto da una ciurma di venditori petulanti, tanto da giocarsela con gli arabi. Ci siamo fermati in uno dei pochissimi bar del paese, abbiamo mangiato una tortillas ed abbiamo camminato fino alla chiesa da cui si gode un panorama meraviglioso. Costeggiando la riva abbiamo più volte visto delle bellissime ville con giardini curatissimi e motoscafi ancorati di fronte, il turismo, anche guatemalteco comincia a farsi sentire. Alle 3 eravamo di ritorno a Panajchel. Abbiamo pigramente passeggiato sul lungo lago cercando un ristorante dove cenare questa sera, poi abbiamo deciso di provare l’ebbrezza del chicken bus fino a Sololà. I sedili sono strettissimi, si fatica ad incastrare le gambe, ma il viaggio di andata è stato piuttosto regolare, mentre quello di ritorno lo abbiamo fatto quasi tutto in piedi, in equilibrio precario tra gli sbandamenti dati dalle curve a gomito. Doccia ed abbiamo preparato le valigie perché domani lasceremo Panajchel. Come ultima sera insieme, siamo andati a prendere un aperitivo nel lussuosissimo bar del “Chez Alex”, il ristorante del nostro hotel e poi siamo andati a cena all’Atlantis, dove si faceva anche musica dal vivo, ma non siamo del’umore giusto e stanchi morti alle 10 ci siamo ritirati.
29/1/2017: PANAJCHEL – ANTIGUA
“Sunday blody Sunday“ cantavano gli U2 un po’di anni fa e, questa può essere la colonna sonora di questa triste giornata, la peggiore da quando abbiamo cominciato a viaggiare! Appena svegli Simo ci ha bussato alla porta e ci ha comunicato che suo padre se n’è andato nel sonno durante la notte; abbiamo fatto la colazione più triste di sempre con un pancake di dimensioni pantagrueliche che abbiamo appena assaggiato, poi sono partiti alla volta dell’aeroporto. Noi, tristi e orfani della loro presenza, ci siamo comunque avviati verso l’imbarcadero pubblico dove ci siamo diretti verso S. Cruz de la Laguna, quindi, mediante un sentiero sul lago, raggiungere San Marcos. Il vento ha imperversato tutta la notte, così oggi il cielo è più limpido e le sagome dei vulcani che si specchiano sul lago sono più nitide, il sole fa splendere la superficie increspata del lago come percorsa da filamenti d’oro. A Santa Cruz abbiamo preso il sentiero che costeggia il lago, un sentiero facile in semipiano, dove di tanto in tanto ci sono degli hotel o delle posadas con tanto di lettini per prendere il sole e passerelle che si spingono nel lago da cui le persone si tuffano per fare il bagno. In meno di un’ora abbiamo raggiunto Jabalitos, un centro piccolissimo, in cui non abbiamo incontrato turisti, solo bambini che guardandoti stupiti ti chiedevano una caramella. Siamo arrivati all’imbarcadero e poi, tornati sui nostri passi, abbiamo ripreso il sentiero direzione San Marcos. Il sentiero si è fatto subito più ripido e stretto ma da lassù si gode una vista mozzafiato sul lago, che assume colorazioni cangianti: il centro è blu intenso mentre nelle calette, dove il fondale è più basso, diviene verde smeraldo. Camminiamo attraversando tratti brulli intervallati da tratti di bosco di pini, eucalipti, Yucca alte come alberi, sansevierie, agavi; ogni tanto incontravamo l’accesso per scendere in uno dei molti hotel che si affacciano sul lago, un paradiso! Abbiamo goduto a pieno della tranquillità e del silenzio del luogo, abbiamo incontrato poche persone su questo sentiero ma ad un certo punto abbiamo incontrato 2 bimbi, dall’età apparente di 7/8 anni con uno sguardo malevolo ma non abbiamo prestato loro molta attenzione ed abbiamo proseguito. Trascorsa nemmeno mezz’ora da questo incontro, sbucato da dietro un arbusto, è comparso davanti a noi un ragazzo, dall’età apparente di 16/17 anni, armato di macete che, minacciandoci, si è fatto consegnare la macchina fotografica da Giò e, io, nella speranza ce la lasciasse, ho tirato fuori i pochi quetzales che avevo nel portafoglio, così ci ha derubato anche di quelli. Impossessatosi della refurtiva il delinquente è fuggito poi come uno stambecco giù dal ripido pendio; rincorrerlo era impossibile ed, in quel punto non si vedevano tracce umane da nessuna parte! Non so se in quel momento ero più spaventata o arrabbiata, soprattutto verso me stessa: ma come abbiamo fatto ad essere così stupidi ad avventurarci per un sentiero così poco battuto, come se fossimo in montagna sulle nostre Alpi, non tenendo conto del tasso di povertà che c’è in questo paese e la conseguente criminalità? Perché non ho parlato a Giò della sensazione sgradevole che ho avuto quando abbiamo incontrato i 2 bambini? Abbiamo così allungato il passo, per raggiungere il prima possibile un centro abitato, non so come, abbiamo abbandonato in sentiero battuto, siamo scesi giù per una pietraia ed abbiamo raggiunto una spiaggetta, ma da qui non si andava più in nessun posto : abbiamo provato a salire, a costeggiare il lago, a richiamare l’attenzione delle lance che passavano per farci venire a prendere al piccolo imbarcadero ma nulla.
Il telefono non prendeva, abbiamo cominciato a risalire la montagna e, arrivati al punto in cui avevamo lasciato il sentiero non ne trovavamo la continuazione; abbiamo fatto avanti e indietro almeno tre volte, quando finalmente abbiamo visto, poco più in alto rispetto a noi, una donna curva sotto il peso di un fascio di legna ;arrampicandoci, l’abbiamo fermata e le abbiamo chiesto se potevamo seguirla fino al primo centro abitato ma ci ha guardato e si è bloccata impaurita, infatti in questi villaggi, soprattutto le donne, sono analfabete e l’unica lingua che parlano è il cakchiquel, antica lingua maya, quindi non riuscivamo a farci capire. Finalmente abbiamo visto arrivare verso di noi un uomo, così abbiamo visto che il sentiero passava poco più in alto e,non capisco veramente, come abbiamo fatto a finire in quel ginepraio! Abbiamo percorso, sotto il sole cocente di mezzogiorno un tratto in ripidissima salita, aggravato dal fiatone che non ci ha più lasciati per tutto il giorno, la stanchezza data dallo scendere e il risalire le pendici del monte, il tremore delle gambe dettato dallo spavento, quando finalmente siamo arrivati, quando ormai vedevamo il centro di Tuzunà, ad un hotel; l’impiegata ci ha detto che è rischioso percorrere da soli il sentiero e che spesso turisti ignari come noi sono stati derubati e poi ci ha mostrato la strada per scendere all’imbarcadero, dove con un cenno, stavolta, la lancia è arrivata a prenderci e ci ha caricato malgrado fosse già piena zeppa di persone. Nonostante ciò si è fermata ancora un’infinità di volte ed eravamo così carichi che il bordo della lancia si alzava di pochi centimetri sul livello dell’acqua. Si è alzato il vento che ha fatto increspare la superficie del lago, così abbiamo cominciato ad imbarcare acqua, ci siamo protetti con un telo ma malgrado ciò ci siamo bagnati come pulcini. Abbiamo pagato la lancia in dollari, unici soldi rimastoci nel portafoglio, quindi siamo tornati in hotel a prendere i passaporti per andare a fare denuncia. Alla stazione di polizia due agenti che sembravano 2 pesci fuor d’acqua, non capivano cosa dicevamo e ci hanno fatto sedere in attesa di non so chi o che cosa; fortunatamente è arrivato Gustavo in nostro soccorso, accorso appena ricevuta la nostra telefonata e ci ha condotto nella stazione di polizia turistica dove un agente donna molto gentile e competente senza necessita di interprete ha compilato il verbale in tempi quasi normali con tutte le informazioni necessarie. Quindi siamo partiti per Antigua. Il viaggio è durato quasi 3 ore, rallentato dal traffico incontrato nelle vicinanze della città e siamo arrivati alle prime luci della sera. Abbiamo salutato e ringraziato di cuore Gustavo, che senza il suo intervento, probabilmente saremmo stati ancora seduti nel primo ufficio di polizia ed abbiamo preso possesso della nostra stanza. L’hotel è il “Sin Ventura”, sito al primo piano di una casa coloniale, ad un isolato dal Parque Central, il cuore della città; la stanza è spaziosa con i soliti 2 letti matrimoniali, con un grande bagno. Una doccia per lavare via stanchezza, spavento e arrabbiatura e siamo usciti, malgrado non avessimo fame, per cercare un posto dove andare a cenare perché da stamattina non abbiamo buttato giù più nemmeno un bicchiere d’acqua. Abbiamo percorso la via principale, la 5° avenida, quella attraversata dall’arco di Santa Catalina, simbolo della città, fino alla chiesa della Merced. Una folla di fedeli stava prendendo posto nei banchi e, visto l’andamento della giornata abbiamo deciso di fermarci per assistere alla funzione. Dopo la messa ci siamo fermati a cena al “Frida”, ristorante tipico messicano dove abbiamo mangiato un ottimo pollo al mango, peccato che il coriandolo la faccia sempre da padrone!
30/1/17: ANTIGUA
La notte è stata popolata di incubi e alle 6.30 eravamo già svegli. Abbiamo fatto colazione in un bar sulla piazza quindi siamo tornati in hotel ad aspettare la nostra guida per la visita di Antigua. Lorenti è arrivato con qualche minuto di ritardo e ci ha condotti subito a Parque Central e ci ha descritto, in un italiano alquanto stentato, gli edifici che lo circondano: sul lato sud, il palazzo a 2 piani, giallo con i portici, è il palazzo dell’esercito, mentre quello di fronte è il municipio, in cui è anche sito il museo della città. La bianca e imponente chiesa è la cattedrale di San Josè, più volte ricostruita perché distrutta da vari terremoti; al centro della piazza, tra le aiuole, c’è una grande fontana. Abbiamo percorso la 5 ° avenida, abbiamo ammirato l’arco giallo con orologio sulla cima di Santa Catalina che serviva da congiunzione tra i 2 padiglioni del grande convento che ospitava fino a 100 suore, in modo che le religiose non mettessero piede nel mondo esterno e che non venissero “contaminate” dal peccato. Poco oltre troviamo la Chiesa della Merced, con la raffinata facciata colorata di bianco e giallino, adornata con statue di angeli e santi e motivi floreali. All’interno è custodita una statua del Redentore alta quasi 2 metri che viene portata in processione durante la Settimana Santa, celebrazione molto sentita ad Antigua con processioni che attraversano le strade della città per giorni interi. Siamo saliti su una collina alle spalle dell’abitato, al Mirador, che, dopo aver percorso un tratto di bosco, si arriva ad una spianata con una croce e da cui si vede bene l’impianto urbano della città. Antigua, dichiarata patrimonio dell’Unesco è suddivisa in vie tutte parallele e perpendicolari le une alle altre e numerate dall’uno all’8, le avenidas vanno in direzione nord/sud, le calles in direzione est/ovest. Le case sono tutte coloniali e, se ristrutturate, non ne devono modificare la struttura originale; sono tutte dipinte con colori pastello o dalle sfumature dell’ocra e del bruciato, hanno grandi finestre e patii interni o giardini. Alti campanili e cupole di chiese sovrastano i tetti delle case ad un solo piano, la maggior parte costruite in stile coloniale e in parte demolite dai numerosi terremoti venuti in Guatemala, perché terra di vulcani altamente sismica. Da qui si possono anche vedere i 3 vulcani che sovrastano la città :l’Aqua, oggi coperto dalle nuvole, il Fuego, attivo, da cui si innalza un pinnacolo di fumo e l’Acatenango. Ridiscesi in città, abbiamo dovuto sorbirci la solita “visita guida” ad un negozio, celato sotto il nome di “Museo della Giada” che non è altro che un laboratorio per la lavorazione della giada, il minerale più prezioso estratto in Guatemala, usato dai regnanti maya per i loro gioielli. I gioielli di dubbio gusto hanno prezzi esagerati, assolutamente molto ma molto più alti che in Italia quindi il nostro tour è durato, con disappunto di Lorenti, pochissimi minuti. Poco distante abbiamo visitato la chiesa di san Francesco del XVI secolo nel cui interno sono custoditi altari dorati e la tomba di Hermano Pedro da Betancourt, un francescano, sulla cui tomba giungono un gran numero di pellegrini a chiedere la grazia soprattutto per guarigioni e su cui appoggiano ex voto, una volta ottenuta. Abbiamo percorso le vie fatte di ciotolato della città, abbiamo visto molte delle facciate delle chiese diroccate, una di queste è santa Chiara e sulla piazza di fronte ci sono i lavatoi pubblici della città. Abbiamo visto esternamente facciate di scuole antiche ed università e siamo andati a visitare i ruderi dell’imponente cattedrale di San Josè sotto il quale è stato scoperto anche un cimitero; ci sono i resti degli edifici ecclesiali, i chiostri e l’imponenza della cattedrale a 5 navate con una miriade di cappelle laterali. A questo punto, il tour, anche se prima del previsto, è terminato, gli abbiamo chiesto di accompagnarci a comprare una macchina fotografica di recupero, da sostituire la nostra Nikon semiprofessionale, abbiamo girato i 3 fotografi che c’erano ma ne abbiamo trovata solo una ad un prezzo quasi doppio di quello che avremmo pagato in Italia ma era l’unica soluzione possibile, o così o senza foto! Prima di salutarci Lorenti ci ha proposto per il pomeriggio un tour nelle piantagioni di caffè nelle colline circostanti ma quando ci ha detto il prezzo (40$ a persona per un totale di 3 ore ) abbiamo gentilmente reclinato la proposta. Abbiamo mangiato una brioches pesante come un mattone seduti su di una panchina in Parqueo central poi siamo andati alla ricerca di Casa Popenoe, una casa coloniale restaurata con mobili dell’epoca ma arrivati in loco abbiamo scoperto che si effettuano solo visite guidate prenotabili telefonicamente un giorno per l’altro. A questo punto abbiamo bighellonato per le strade affollate di turisti, scattando foto con questa macchina ridicola ai monumenti visitati in mattinata. Al tramonto abbiamo fatto un giro sul mercato della città, un autentico mercato locale non un mercato per turisti, con una varietà di bancarelle enorme, dall’abbigliamento alla frutta e verdura. Abbiamo comprato due magliette ad un prezzo irrisorio tanto che è stato quasi inutile contrattare. Siamo andati a cena al “Comedor tipico Antigueno”, una trattoria molto ruspante e non turistica dove abbiamo gustato il “pepian” alle 3 carni, ovvero un brodo di verdure molto speziato e piccante in cui sono affogati 3 grossi pezzi di carne : pollo, vitello e maiale. Il piatto è buono solo che è un problema riuscire a tagliare la carne in una ciotola tonda!
31/1/2017: PACAYA – ANTIGUA
Stamane abbiamo dormito un po’ più a lungo e poi siamo scesi in un bar vicino al nostro hotel ed abbiamo fatto una bella colazione all’italiana: abbondante tè nero e una fetta di torta di mele. Ruben è venuto a prenderci con la sua auto e ci ha condotto fino a San Francesco de Sales, ultimo paese prima del sentiero per salire sul vulcano Pacaya. Il Pacaya è uno dei 3 vulcani attivi del Guatemala e si trova proprio sopra a Città del Guatemala, è alto 2600 metri e si vede fumare da lontano. Per arrivare ci impieghiamo circa un’ora e mezza e l’ultimo tratto di strada è sterrato e pieno di buche. Ruben si è fermato al campo base con l’auto, mentre noi, accompagnati da Ervin Gonzales, una guida della montagna, abbiamo cominciato la ripida ascesa. Si può solo percorrere una parte del sentiero perché, dal 2010, epoca dell’ultima eruzione importante del vulcano, il terreno è ancora troppo caldo e franoso ed è vietato proseguire fino in vetta. Il primo tratto di sentiero è tutto coperto di pietre e ci hanno seguito 2 tizi a cavallo, probabilmente vedendoci non più ragazzini, hanno pensato che di lì a poco avremmo richiesto il loro ausilio: poveri illusi non sanno che abbiamo percorso per intero il Cammino di Santiago e la Via Francigena, senza parlare delle escursioni domenicali sulle Alpi! Il terreno si è poi fatto sabbioso, nero, polveroso, sembrava di procedere sulla spiaggia da tanto si affonda e si scivola all’indietro perdendo terreno. Di tanto in tanto facevamo una sosta ed Ervin ci descriveva con dovizia di particolari piante ed arbusti che crescono nel parco nazionale. Ci siamo fermati ad un mirador dove si scorge un lago di origine vulcanica, pescosissimo, dalle acque gelide, proprio sotto l’abitato di San Francisco. Arrivati sulla cima della collina ci siamo trovati davanti all’immensità del vulcano che emette fumo da 3 fumarole, la centrale più copiosa, le 2 laterali meno ; al centro una colata liscia, quasi scintillante al sole : uno spettacolo della natura veramente emozionante! Siamo scesi in una sorta di pianoro coperto da lava ormai solidificata ma ancora tiepida, ciò che è rimasto dell’ultima eruzione. Ervin ci ha mostrato che ci sono buchi nel terreno da cui fuoriesce aria incandescente che in pochi secondi scioglie un mashmallow. Camminare su queste rocce fa un effetto strano, scricchiolano come cocci di vetro, sembra di passeggiare sulla luna! Abbiamo fatto la strada a ritroso per ritornare al campo base ed essendo in discesa ci abbiamo impiegato la metà del tempo, abbiamo ringraziato Ervin per le lezioni di botanica impartitoci e poi siamo rientrati ad Antigua. Stamane abbiamo chiesto a Ruben di telefonare a Casa Popenoe per una visita e l’appuntamento è stato fissato per le 15.15. Questo splendido esempio di casa coloniale è stato mantenuto da Wilson Popenoe, biologo americano venuto a studiare in Guatemala alcuni tipi di piante autoctone, si è innamorato di Antigua e della sua architettura e, nel 1916, vi si è stabilito ed ha cominciato il restauro di questo stabile, cercando di lasciarlo così come era stato concepito in epoca coloniale, dando l’esempio agli altri cittadini che,vedendo lo splendido risultato, non abbattessero le vecchie case ma le ristrutturassero in modo da non deturpare l’armonia urbanistica della città. All’interno ci sono 2 giardini, o meglio due patii, uno con le erbe aromatiche, l’altro, più grande, con un enorme albero di avocado al centro. C’è un salone lungo oltre 140 m dove si ricevevano gli ospiti, con quadri appesi alle pareti e con ritratti di nobili spagnoli del 1600, uno studio con tanto di biblioteca dove è stato costruito per la prima volta un caminetto; la stanza da letto padronale con annesso il bagno, la stanza occupata dalle figlie, una grande cucina con un alto camino e le pareti annerite dal fumo, una vasca da bagno con maioliche originali del 1700, tutte le camere si aprivano sul patio principale. Attraverso una stretta scala si raggiunge una piccionaia, usata dai contadini che si erano appropriati della casa dopo l’abbandono da parte dei conquistatori e sopra una grande terrazza da cui si domina tutta la città. Gli arredi non sono tutti originari della casa ma sono frutto di un’accurata ricerca in Europa e in America di arredi dell’epoca da parte della seconda moglie del Sig. Popenoe. Oggi la villa è proprietà dell’università Marroquin, donata dalla figlia perché erano insostenibili le spese di gestione. Usciti da lì, quasi di corsa, perché alle 17, chiudono tutti i musei, siamo andati a visitare i resti dell’imponente complesso di Santa Clara, che è stata costruita nel 1600, vent’anni dopo fu completamente distrutta da un terremoto, ricostruita 50 anni dopo e definitivamente crollata nel 1976. Della sua originaria magnificenza rimangono una bellissima facciata completamente ricoperta da stucchi e statue, un grande chiostro con una fontana al centro, attorno al quale i muri di quelli che dovevano essere i laboratori delle monache, l’infermeria e il refettorio. Attorno al chiostro minore altri ambienti e la cucina dall’alto camino. Della chiesa rimangono le navate, il coro superiore, la sacrestia dove si possono ancora intravedere parte degli intonaci. Avremmo voluto entrare ancora una volta in San Josè per poter scattare qualche foto ma ormai era tutto chiuso, così abbiamo passeggiato un po’fino ad un altro centro dell’artigianato ma i prezzi erano cari e non avevano nulla di particolarmente interessante. Avevamo letto che il Guatemala per noi europei fosse un paese particolarmente conveniente ma a noi, per ora, non è sembrato così: una birra Gallo, la loro birra locale costa l’equivalente di 3 €, un piatto di carne si aggira sui 12 /15 €, i biglietti d’ingresso ai musei sono circa 5/ 6 euro ; la cosa che mi ha dato veramente fastidio è il prezzo di entrata nelle chiese di Antigua, per esempio Santa Clara il prezzo per turisti è 80 quetzales ( circa 10 €) mentre per i guatemaltechi 5 quetzales, la differenza mi pare davvero troppa! Stasera siamo andati a cena in un ristorante bellissimo, come la maggior parte dei locali di Antigua, “L’Otapas” un locale molto chic con una cucina spagnola strepitosa e una carta dei vini veramente fantastica ma con prezzi veramente inaccessibili, una bottiglia di chianti classico costa l’equivalente di 80 €! Abbiamo terminato la serata alla Casa del Ron con un rum Zacapa Centenario 23, una vera delizia!
1/2/2017: ANTIGUA – COPAN
Ieri sera ci siamo addormentati prima di fare le valigie così abbiamo fatto sveglia presto: oggi saluteremo Antigua. Abbiamo fatto colazione all’italiana al solito bar e alle 8,30 Yves è venuto a prenderci. Oggi è una giornata di trasferimenti, oltrepasseremo la frontiera ed entreremo in Honduras. Siamo tornati verso Città del Guatemala, l’abbiamo attraversata tutta, quindi abbiamo puntato verso est, verso il Caribe, abbiamo attraversato una zona brulla fatta di cave di cemento, dove, forse per i mezzi in manovra siamo stati fermi quasi mezz’ora. Raggiungiamo Zacapa, città che dà il nome al celeberrimo rum, ma dove non c’è né la distilleria, né una cantina dove si possa degustare il rum, poi il panorama si fa man mano più verde, si vedono fiumi solcare la campagna, molti campi coltivati e prati su cui pascolano mandrie di mucche. Nel primo pomeriggio abbiamo raggiunto El Florido, dove abbiamo pagato alla frontiera 20 quetzales per l’uscita dal paese e 3 $ per entrare in Honduras. 10 km ci separano da Copan Ruinas, il paese sorto attorno alla città maya; siamo andati subito in hotel il “Brisas de Copan” un po’vecchiotto ma con stanza e bagno spaziosi che dista poche decine di metri dalla piazza centrale. Ci ha accompagnato a cambiare un po’di dollari in lempire, la moneta hondurena, poi si è congedato perché doveva raggiungere Santa Rosa per lavoro. Abbiamo bighellonato per le strade parallele ed acciottolate del paese con negozi asettici di souvenirs, che quando entri neppure ti salutano, altro che i guatemaltechi che cominciano un’insistente contrattazione solo se rivolgi lo sguardo ad uno degli oggetti che hanno in vendita. Abbiamo mangiato due manghi buonissimi seduti sulla piazza comprati da una venditrice ambulante poi siamo andati a fare la doccia quindi abbiamo cenato alla “Carniceria Nia Lola”, un locale particolare sorto nello stabile dove il nonno del proprietario attuale aveva una fucina di fabbro, ora, in questa fucina ci cuociono la carne! Abbiamo cenato in terrazza vestiti con abiti estivi e malgrado ciò è la prima sera che non abbiamo freddo. Qui la carne è superba e il Flor de Cana, la degna conclusione della cena!
2/2/2017: COPAN
Alle 8 siamo andati a fare colazione con il titolare dell’agenzia poi, a piedi, ci ha accompagnato lungo un sentiero alberato con copie di stele, fino all’ingresso del sito, che dista poco più di un chilometro dal centro del paese. Ha preso i biglietti e ci ha presentato Elbin Martinez, la nostra guida che parla un italiano perfetto e ci ha spiegato con competenza e dovizia di particolari tutto ciò che c’è da sapere sull’antica città maya di Copan. Prima di entrare nel parco abbiamo fatto la conoscenza di uno stormo di are dal piumaggio rosso, giallo e blu, uccelli simbolo dell’Honduras. Copan è sorta nel periodo classico e ciò che rimane della città è la zona abitata da nobili e reali, il popolo viveva in abitazioni di legno ai loro margini e quindi non è arrivato nulla a noi. Il sito, patrimonio dell’Unesco è inserito in un contesto naturale splendido, dove enormi alberi di ceiba (capoc) con le loro lunghissime e tortuose radici si insinuano tra le rovine delle piramidi e ne tengono in piedi molte. L’intero sito si divide in 3 piazze principali; quella orientale è considerata il centro astronomico con altari e costruzioni a gradoni e una statua del dio It, dalla faccia di scimmia, dio degli inferi. L’inframondo è rappresentato dall’acqua, al contrario del nostro inferno rappresentato dal fuoco, non è un luogo di penitenza ma un luogo di purificazione per raggiungere il paradiso; molte sono le simbologie che ci riportano al mondo acquatico : 2 grosse conchiglie, gli altari hanno la forma del fiore di loto. La parte più alta è l’acropoli che non è stata costruita su di un colle ma sulle rovine dei palazzi utilizzati dalle precedenti dinastie. Ogni 52 anni si cambiava era e conseguentemente il sovrano e il nuovo regnante costruiva palazzi e templi nuovi sopra quelli del suo predecessore; si scolpivano altre stele con le sembianze del sovrano e si mozzava la testa a quelle rappresentanti quello prima. La dinastia di Copan conta 13 regnanti, l’ultimo fu 18 Coniglio, il mecenate, perché decise di non distruggere l’operato di suo padre Fumo Giaguaro ma, seppur costruendo nuovi edifici, mantenerlo. Sul lato orientale del’acropoli c’è una zona con basse costruzioni che venne considerata per molti anni un cimitero per il gran numero di corpi trovati, ma ora si è scoperto essere stata una zona residenziale, infatti i maya erano soliti seppellire i propri defunti in prossimità delle abitazioni in modo da non allontanarli dalla propria famiglia. Sull’acropoli sono rimasti in piedi molti edifici, quello centrale conserva un trono, quello del Pipistrello, con glifi che rappresentano questo animale, era il luogo in cui si amministrava la giustizia. Qua e là rimangono pareti completamente coperte di glifi, l’alfabeto maya ne contiene migliaia, altri si sono cancellati per l’usura e le intemperie. Queste pareti oggi color della pietra erano dipinte di un rosso brillante, mentre la pavimentazione, oggi coperta d’erba era dipinta con stucco bianco. Dall’alto dell’acropoli si domina la grandiosità della piazza centrale con il campo della pelota e lateralmente le gradinate da cui si poteva assistere al gioco. Le regole di questo gioco cambiavano da città a città, infatti, le città maya come quelle greche erano città stato, ognuna con il proprio governo e le proprie leggi. Qui il campo è delimitato da 3 grandi teste di pappagallo per lato e i 5 giocatori per squadra facevano il punto solo se riuscivano a colpirne una con la palla in cauciù del peso di 2 libbre; palla che andava colpita solo con ginocchia, spalle, gomiti ed anche… il gioco poteva durare anche l’intera giornata e il capitano della squadra perdente veniva sacrificato, ma era un grande onore perché saliva al cielo come un Dio. Lateralmente al campo della pelota c’è una lunga scalinata con 220 scalini, fatta erigere dal re 18 Coniglio, ogni scalino narra la storia della città citando le date dei vari avvenimenti ma nessuno li ha ancora decifrati interamente. Al centro della scala ci sono le statue dei 13 sovrani. La piazza è inoltre occupata da basse piramidi, luogo in cui assistevano alla vita pubblica nobili e sacerdoti. Sul fondo della piazza riparate da un tettuccio di lamiera ci sono 9 splendide stele che raffigurano il re 18 Coniglio in diversi abbigliamenti, e in qualcuna delle quali rimangono tracce dell’antica colorazione; c’è anche un altare tondo con una canalina serpeggiante in cui veniva convogliato il sangue umano dei sacrifici. Terminata l’interessante visita siamo andati a visitare il museo adiacente dove sono custodite alcune stele e sculture trovate nel sito e dove ci sono alcune ricostruzioni delle facciate dei palazzi. Al centro, nella sua imponenza e con gli originali colori sgargianti c’è la ricostruzione della tomba di Rosalila, scoperta nel 1996 sotto l’acropoli e, vista la perfezione con cui era stata costruita, il sovrano che seguì non ebbe il cuore di distruggerla ma la ricoprì di terra per costruire sopra il suo tempio. Ci siamo fermati per una tortilla poi, con in mano il biglietto, siamo rientrati nel sito per scattare con calma le foto e gustare con calma ciò che abbiamo visto ed appreso con Elbin stamane. Il tempo è bellissimo, il sole splende ma sotto le fronde degli alberi la temperatura è perfetta, abbiamo trascorso lì quasi tutto il pomeriggio camminando anche tra le rovine che Elbin ci ha mostrato solo dall’alto. Siamo andati anche a visitare il tunnel dove si trova l’originale tomba di Rosalila, ma è veramente una delusione, da dietro una lastra di plexiglass si scorge solo uno dei mascheroni angolari della base; attraversando la piazza si scende nuovamente nel tunnel che costeggia la base di un altro tempio molto più ricco di sculture ma… non vale assolutamente i 15 € del biglietto! Abbiamo lasciato Copan alla luce calda del tramonto, abbiamo fatto quattro passi per il paese,abbiamo acquistato due bottiglie di Flor de Cana, il rum del Nicaragua che qui costa 30$ e in Italia 65 €, ci siamo fermati nel giardino dell’hotel a mandare messaggi quindi una bella doccia e alle 19.30 ci siamo incontrati con Yves per andare a cena. Abbiamo provato ad andare in un locale gestito da tedeschi che produce birra artigianale ma non aveva tavoli liberi cosi abbiamo ripiegato sul “Twister”, un locale con una terrazza che si affaccia sulla piazza, ma piuttosto caro e con un menù mediocre, niente a che vedere con quello di ieri.
3/2/2017: COPAN – QUIRIGUÀ– RIO DULCE
Dopo colazione abbiamo lasciato l’Honduras, siamo rientrati in Guatemala da El Florido, percorso a ritroso la stessa strada fino a Zacapa poi abbiamo svoltato verso est, la strada del Caribe che porta sulle rive dell’oceano Atlantico. La strada è rallentata da tir enormi con il marchio di Chichita o Del Monte, qui si coltivano quasi tutte le banane che giungono in Europa. Attraversiamo bananeti a perdita d’occhio i cui caschi di banane sono protetti da nylon blu. Dopo 3 ore di viaggio arriviamo a Quiriguà,, città maya contemporanea di Copan e legata a quest’ultima da un fatto di sangue, infatti re 18 Coniglio è stato ucciso qui dal re Cielo di Canac che voleva dichiarare la sua indipendenza da Copan, anzi si auto proclamò 14 ° sovrano. Questa non è una città sacra ma una città commerciale, qui, attraverso il fiume si trasportavano giada, cacao, sale ed altre merci nelle altre città del Chiapas, dell’Honduras e del Nicaragua. Malgrado sia patrimonio dell’Unesco, della città rimane poco: una grande piazza centrale, un’acropoli dietro la quale si trova una zona residenziale da cui si amministrava la città e l’abbozzo di un campo di pelota. Ma i gioielli di Quiriguà sono le 7 stele che ritraggono il re Cielo Canac, son quasi tutte bifronte ed hanno elaborati glifi (l’alfabeto maya ne contiene circa 8000) in ottimo stato di conservazione,si possono leggere informazioni quali la decapitazione di 18 Coniglio, la data precisa della costruzione delle stele secondo il calendario largo maya che ha una complicata suddivisione del tempo e che Yves ci ha spiegato con la competenza di un archeologo ma che, purtroppo la nostra conoscenza dello spagnolo non ci ha permesso di comprendere a pieno. Le stele venivano costruite ogni 5 anni, la più antica era sita sulla riva del fiume (oggi il corso è stato deviato ) e non è bifronte, aveva la funzione di indicare a chi solcasse le acque del fiume che la città gli apparteneva. Sono fatte incidendo massi di pietra calcarea con punteruoli di giada, la più alta supera gli 8 metri, alcune sono reclinate leggermente su di un lato, come piccole torri di Pisa. Sul fondo della piazza le ultime due stele rappresentano il figlio di Cielo di Canac che regnò solo 19 anni (egli regnò fino ad 86 anni ) e del nipote, ultimo grande re di Quiriguà che tentò un accordo con la città messicana di Piedra Negras ma che ne segnò la decadenza nell’800 d.C. Interessantissime e uniche nel loro genere sono delle pietre piatte di forma zoomorfa, in cui si intravedono, figure di animali sapientemente mescolate con figure umane che si intrecciano con un’infinità di glifi ; queste furono erroneamente eguagliate agli altari di Tikal ma sono invece monumenti che narrano la vita dei vari regnanti. Il sito è mantenuto come un giardino dal manto erboso verde acceso e le fronde delle altissime ceibas ricoprono il sentiero ; fuori si trova un piccolissimo museo con alcune suppellettili trovate nel sito e la spiegazione della simbologia delle 7 stele. Abbiamo impiegato altre 2 ore per raggiungere Rio Dulce malgrado siano poche decine di chilometri ; Yves, con ragione, afferma che i chilometri non contano nulla in Guatemala, il traffico e lo stato delle carreggiate, ci costringe sempre a ragionare in ordine di ore di viaggio. Prima di portarci in hotel abbiamo attraversato il ponte che collega le 2 rive del Rio Dulce ed abbiamo fatto un giro in auto del paese, sporco, trasandato, trafficato, senza alcuna attrattiva particolare. Il nostro hotel è “Marina di Nana Yuana”proprio sul lago dove ai pontili sono ormeggiate barche a vela; c’è una grande piscina animata da bimbi allegri che ci tuffano e giocano, un campo da beach volley. Nei giardini sono dislocate delle cabanas, abbastanza vecchiotte ma con una bella vista sul lago. Abbiamo indossato il costume e siamo andati a sdraiarci ai bordi della piscina ma è troppo fresco per fare il bagno e il sole è tramontato di lì a poco. Non ci è rimasto che andare con calma a fare una doccia ed appropinquarci al ristorante, dove il titolare dell’agenzia aveva già cenato ed era lì a lavorare con il suo computer facendo prenotazioni e stilando programmi di viaggio. Hanno impiegato più di un’ora per servirci la cena ma il pesce era delizioso. Abbiamo terminato la serata a lume di candela davanti alle acque scure del lago sorseggiando un Zacapa Centenario accompagnato da una tavoletta di cioccolato comprato al supermercato di Copan.
4/02/2017: RIO DULCE – LIVINGSTON
In inverno in Guatemala non piove mai, ci è stato detto, invece è piovuto ininterrottamente tutta la notte, a tratti talmente forte che il picchiettio dell’acqua sulle fronde di paglia sul tetto della terrazza ci ha tenuti svegli a lungo. Alle 6, 30 è suonata la sveglia perché avevamo appuntamento con la guda alle 7 per essere pronti a partire alle 8, per poter godere appieno dell’unica giornata di mare di questo viaggio, ma, dalle 7,30 alle 9 la pioggia si è letteralmente trasformata in diluvio, siamo rimasti più di un’ora nella sala ristorante aspettando che spiovesse almeno un po’. Alle 9, sfidando la sorte, ci siamo imbarcati sulla lancia, che subito si è diretta ad ovest, verso il lago di Izabal, dove nel punto di confluenza con il Rio Dulce si trova il Castillo di San Felipe, una fortezza spagnola del 1600 che sbarrava il passo ai predoni che venivano dal mare. Abbiamo quindi invertito la marcia e ci siamo inoltrati giù per il Rio Dulce, un vasto bacino di acqua dolce che sfocia 28 km più ad est nell’Oceano Atlantico. Durante la navigazione più volte abbiamo attraversato tratti di fiume il cui cielo era color del piombo e siamo stati investiti da scrosci d’acqua, ma nulla che non potesse essere riparato con un sacco nero messo a disposizione dal barcaiolo. Sulla riva si possono vedere abitazioni con il tetto in paglia, alcune case di villeggiatura, piccoli hotel che, quasi per la totalità, sono di proprietà di europei o nord americani che vengo qui ad eludere i rigori dell’inverno con le loro barche a vela, che sono ormeggiate nella baia. Spesso costeggiavamo la riva per poter osservare da vicino la fauna ornitologica fatta di egrette bianche e grigie, cormorani, pellicani e martin pescatore; per cercare di scoprire tra i rami le iguane distese in cerca del tepore del sole. Attraversiamo distese immense di ninfee bianche aperte nella luce tiepida del mattino, dove sulle larghe foglie a pelo d’acqua passeggiano uccelli in cerca di cibo. Lasciamo il largo bacino del Rio Dulce per inoltrarci in uno dei tanti bracci laterali fino ad un vasto lago chiamato El Galfete, dove le verdi fronde degli alberi lambiscono l’acqua quasi ferma riflettendosi come su di un grande specchio; qui il silenzio è irreale, rotto solo dal canto degli uccelli e, qui, finalmente, abbiamo potuto godere del tepore del primo raggio di sole della mattinata. Questo è il territorio dei Maya checka, che vivono in capanne di legno sulla riva del fiume, vivono di pesca e, un poco di turismo, infatti, appena inoltrati in questi stretti canali siamo stati avvicinati da canoe guidate da bambini che vendevano i loro manufatti di legno e di cocco. Abbiamo fatto una breve sosta in un punto definito “Agua Caliente”, dove di fianco ad un bar c’è una pozza di acqua termale calda ma non così invitante da fare un bagno! L’ultimo tratto del fiume si incanala tra 2 ripide pareti rocciose, coperte a tratti di vegetazione solcate da piccole cascate di acqua bianca. Il Rio, con un largo estuario sfocia nell’oceano e sulla sinistra appare il paese di Livingstone, raggiungibile solo via mare, che ha la particolarità di essere abitato da neri di etnia garifuna, giunti qua come schiavi dall’isola di S. Vincente, dopo svariate peregrinazioni sulle coste caraibiche ed essere scampati a varie epidemie, si sono stabiliti qui. C’è una singolare mescolanza tra checka e garifuna, per alcuni versi sembra veramente un angolo d’Africa, ma tolto ciò il paese non ha alcuna attrattiva: solita via centrale con qualche bar e qualche bancarella d’artigianato scadente, la cosa più bella è il colore dei murales dipinti sui muri delle case. La guida ci ha condotto a fare una passeggiata sulla spiaggia, anche se definirla spiaggia è una parola grossa: una lingua di sabbia scura totalmente ricoperta di spazzatura su cui si affacciano molte case/baracche da cui fanno capolino visi curiosi che scrutano il nostro passare. La famosa Playa Blanca in cui oggi avremmo voluto poltrire dista da qui più di un’ora di barca e, visto il ritardo accumulato per il maltempo, non si riesce neppure a raggiungerla ma, a detta della guida, non è altro che una spiaggia come questa ma ripulita e ricoperta con sabbia bianca davanti ad un resort. Abbiamo bevuto una birra in un bar “ ruspante” sulla spiaggia finalmente scaldati da un raggio di sole, ancora quattro passi tra le vie tranquille del paese quindi abbiamo fatto a ritroso il viaggio di stamane, ma stavolta senza soste, ed abbiamo evitato la pioggia per un pelo, infatti appena messo piede in hotel ha ripreso a piovigginare. Siamo rimasti un po’ai bordi della piscina a rilassarci, poi al coperto ma le temperature sono scese quindi ci siamo rintanati in camera a scaldarci. Alle 19.30 siamo andati a cena, la guida era ancora lì a lavorare. Noi abbiamo nuovamente mangiato il pesce veramente buono mentre la pioggia aveva ripreso a cadere copiosa e, alle 21, approfittando di una breve tregua abbiamo raggiunto la nostra stanza e, dopo aver rifatto le valigie siamo andati a letto.
5/02/17: RIO DULCE – FLORES
Anche questa notte la pioggia ha continuato a cadere; alle 6,30 eravamo già svegli perché ieri sera alle 9 dormivamo già, così abbiamo approfittato per telefonare in Italia perché là è l’ora di pranzo. Alle 9 siamo partiti e, malgrado la pioggia, siamo andati a visitare il Castillo di San Felipe, visto ieri dalla barca. E’un castello seicentesco completamente distrutto dopo la fine della dominazione spagnola, poi, negli archivi storici di Valencia ne hanno trovato un’immagine, quindi hanno potuto ricostruirlo fedelmente. Sul fondo del lago sono stati rinvenuti alcuni cannoni usati per la difesa e la pesante catena con la quale sbarravano il fiume. Siamo saliti sulle torrette d’avvistamento tramite ripide scalette di legno, abbiamo attraversato sale vuote, una cucina con un grande camino ma nulla di che anche se è inserito in un contesto ameno, circondato da un giardino verdissimo, molto curato in cui i guatemaltechi si riuniscono per fare la gita domenicale fuori porta, ma oggi, per il tempo avverso, è particolarmente tranquillo. Abbiamo proseguito costeggiando il lago Izabal, il lago più grande di tutto il Guatemala, con un bacino di 600 kmq. Questa è la zona più povera attraversata fin’ora : le case sono quasi tutte capanne in legno, per lo più senza porte, con le galline che razzolano entrando ed uscendo dalle case, l’unica casa del villaggio in muratura è quella in cui è sito il negozio del villaggio, l’unico con il telefono ed una vecchissima televisione. Bambini scalzi giocano nelle pozzanghere, tra fili lunghissimi di panni stesi, l’unica nota di colore in questo concentrato di miseria. Qui la gente vive esclusivamente di agricoltura, ci sono distese interminabili di banani e di palme da olio. Enormi tir percorrono questa strada colmi di terra rossa che contiene un alto tasso di nichel, che scaricano in porto in grandi container e che vengono poi spediti in Russia dove viene estratto il minerale, il perché non lo si estragga in loco e quindi si esporti solo il nichel è un mistero! Abbiamo lasciato l’auto sul limitare di un bosco, abbiamo percorso un sentiero scivolosissimo, coperto di fango fino ad una pozza dove si butta una cascata d’acqua calda fumante “Aqua Caliente” per l’appunto! Qui si può fare un piacevolissimo bagno termale ma oggi, per la pioggia dei 2 giorni scorsi, l’acqua è torbida e color del fango, così non siamo stati tentati dal tuffo. A questo punto abbiamo ripreso l’auto ed abbiamo viaggiato per quasi 5 ore consecutive, attraversando pochi miseri villaggi, su di una strada dissestata, spesso in coda dietro a mostruosi tir che trasportano frutta. Piove a tratti piano piano, a tratti più forte, rendendo ancora più noiosa questa lunga trasferta, non abbiamo neppure visto un lembo di cielo blu specchiarsi nel lago. Alle 5, finalmente, abbiamo raggiunto Flores; il nostro hotel il “Maya International” è molto carino, la nostra stanza ha un balcone direttamente sul lago Peten Itza, 2 letti confortevoli con la tastiera in legno e una sorta di baldacchino, il tutto molto elegante… manca solo il sole! Ci siamo rilassati un po’in terrazza, doccia e alle 18.30 avevamo appuntamento con la guida per andare a cena. Il nostro hotel si trova al di là del ponte che unisce l’isola di Flores alla terra ferma, quindi per raggiungere il centro abbiamo camminato una ventina di minuti. Flores è tutta un luccichio di locali, oggi, in quanto domenica, è affollata non solo da turisti ma anche da indigeni in festa. Abbiamo scelto un locale un discosto dal lungo lago dove ho voluto provare il cheviche ma non regge sicuramente il paragone con quello peruviano. Dopo cena la guida, stanca morta per la lunga trasferta, è rientrata in hotel, noi, approfittando della tregua concessa dal maltempo abbiamo passeggiato un po’sul lungo lago ed abbiamo concluso la serata con il solito squisito rum. Domani Tikal o Yahxa, dipenderà dal tempo!
6/2/2017: FLORES – YAHXA
Finalmente qui la colazione è inclusa, una abbondante colazione internazionale. Oggi il tempo volge nuovamente al grigio anche se per ora non piove, così la guida ha consigliato di andare a Yahxa, città maya del periodo classico che sorse attorno al 900 a. C e si sviluppò fino al 700 d. C. Davanti all’hotel ci ha raggiunto Nixon, la nostra guida, un indio che ha studiato archeologia e storia maya. Yahxa si trova sulle rive del lago Mandanchè dove i maya navigavano per commerciare con le altre città; nel periodo del suo maggior splendore contava 50/60 mila abitanti. Il sito è tutto custodito nella giungla impenetrabile ed è tutto un insieme di collinette più o meno alte: sono tutti resti delle numerose piramidi che con l’andare del tempo sono parzialmente crollate, si sono ricoperte di uno strato di 20 / 25 cm di terra su cui sono sorti alti alberi di Ceiba o di Ramon e rimangono assolutamente invisibili all’occhio inesperto. La strada che separa Flores da Yahxa è di circa 50 km, poi devia per una strada sterrata dissestata che porta a Yahxa e poi prosegue verso altri 2 siti, la città di Nakum e Naranjo, che per ora si raggiungono solo con una 4×4 durante la stagione estiva, ma c’è un progetto di migliorare la strada e liberare dalla morsa della foresta altre costruzioni in modo che si possa fare, con un tour di un paio di giorni la visita a tutte e 3 le città. Giunti nel parcheggio antistante l’entrata del sito ha preso a diluviare tanto da impedirci di scendere dall’auto. Quando la pioggia ha cominciato a diminuire abbiamo indossato le mantelle ed abbiamo affrontato il maltempo, per fortuna dopo pochi minuti è cessato di piovere ed è uscito il sole. Ci inoltriamo sotto alberi altissimi e qua e là si aprono grandi piazzali con ruderi di piramidi a gradoni, molte delle quali servivano come osservatori astronomici e sono poste in posizioni strategiche rispetto ad equinozi e solstizi; si sono trovate qui anche alcune stele ma non così ben conservate come quelle di Quiriguà. Poste lateralmente a queste piazze cerimoniali ci sono edifici per lo più adibiti ad abitazioni; le più antiche avevano il tetto di paglia spiovente appoggiato su un arco a sesto acuto, mentre nell’ultimo periodo il tetto era piatto in muratura poggiato su 2 colonne. Le varie piazze sono messe in comunicazione da una strada larga 40 m, a dorso di mulo, fiancheggiata da canaline di scolo che convogliavano l’acqua piovana in grandi cisterne per il fabbisogno idrico della città; la stessa strada continuava poi fuori dalla città e la metteva in comunicazione con la città di Nakum, che dista da qui 25 km. In molte piazze, al centro si trova una grande pietra piatta circolare, un altare cerimoniale, usata ancora oggi per i riti sciamanici. Nixon ci ha fatto notare i metodi di costruzione nelle varie epoche: nell’era preclassica venivano usati massi enormi, man mano che si andava avanti le dimensioni delle pietre diminuivano, fino a raggiungere nell’era post classica la dimensione di un mattone, come si può facilmente vedere nelle costruzioni poste sulla cima delle piramidi. L’acropoli è la parte più importante del sito con 3 enormi piramidi, la più alta raggiunge i 50 m; l’ultima visita di oggi è alla piramide cosiddetta delle mani rosse perché sul muro, sulla sommità c’è impressa l’impronta di 2 mani. Da lassù si può ammirare un panorama impareggiabile sulla giungla da cui spuntano qua e là, sopra le fronde degli alberi, la cima dei templi più alti, e il lago che brilla alla luce del sole. La calma e la pace di questo sito (i turisti sono pochissimi !) è rotto solo dal verso delle scimmie urlatrici che emettono un verso simile da un ruggito. Oltre a queste ultime, abbiamo visto anche scimmie ragno saltare da un ramo all’altro, un tucano e una sorta di pavone, senza la coda colorata, che al tempo dei maya era considerato cibo dei re, mentre oggi sono animali protetti. Abbiamo raggiunto appena in tempo l’auto prima che ricominciasse a piovere, ed è piovuto per tutto il viaggio di ritorno a Flores.
Salutati la guida e Nixon siamo andati a fare quattro passi per Flores in cerca delle 4 cose che avremmo voluto ancora comprare ma i negozi hanno manufatti bruttissimi e a prezzi decisamente alti e poco contrattabili, per fortuna abbiamo comprato quasi tutto a Chichicastenango e sul Lago Atitlan. A cena abbiamo assaggiato il pesce bianco del lago che ci ha piacevolmente sorpresi.
7/2/2017 FLORES – TIKAL
Oggi finalmente non piove anche se le sponde del lago sono ancora nascoste da una nebbiolina, ma, una cosa positiva ne segue subito una negativa : Enrico non è stato dichiarato idoneo per un lavoro in ferrovia… Non ci voleva! Ci speravamo tanto! Siamo partiti angustiati verso Tikal, il gioiello del Guatemala, che dista da Flores una sessantina di chilometri e, oggi, con il sole, la strada sembra meno lunga. La biglietteria del sito dista circa 10 km dall’ingresso; la strada attraversa la foresta, che è parco nazionale, dove tutta una serie di cartelli indica il possibile attraversamento di animali quali il giaguaro, il cervo, i serpenti, e tutti gli altri animali presenti nella riserva. Come sempre, all’entrata del sito, c’è un grande plastico che mostra come era la città al massimo del suo splendore; essa sorse nel 900 a. C e prosperò fino al 700 d.C, anche se venne ancora usata come centro cerimoniale fino al 1500. Contava dagli 80 ai 100 mila abitanti e qui si trovano monumenti risalenti alle varie epoche dal preclassico al post classico. Abbiamo raggiunto le varie piazze non dalla strada principale ma percorrendo sentierini nella giungla, per poter conoscere anche la flora e la fauna di questo sito, infatti ci siamo imbattuti quasi subito in un numeroso branco di coati,piccoli roditori dal naso allungato che grufolavano nel terreno in cerca di cibo. Abbiamo visto il sistema di canalizzazione delle acque, che dalle piazze principali venivano convogliate in grandi cisterne e usate come riserva della città. Nel fitto della vegetazione ci sono buche scavate nel terreno usate come deposito per granaglie. Raggiungiamo la prima piccola piazza con 2 piramidi gemelle, 2 edifici non molto alti posti l’uno di fronte all’altro, una ad est e l’altra ad ovest, che i maya erigevano ogni kaktun, ovvero un periodo di circa 20 anni, come buon auspicio.
Di lì a poco ci siamo imbattuti nell’edificio più alto di tutto il sito, il tempio 4 alto 64 m appoggiato su un basamento di 150 m x 200 m, in cui la parte bassa della scalinata è ancora coperta dalla vegetazione. Mediante una scalinata in legno si può salire fino sulla cima da cui si può ammirare la foresta a perdita d’occhio e la punta dei templi più alti che bucano il manto verde. Passiamo così al “Mundo Perdido”, con 3 piramidi alte circa 30 m, così detto perché risale al periodo preclassico e riscoperto di recente. Passiamo direttamente alla piazza dei 7 templi, caratterizzata da 7 costruzioni gemelle poste l’una a fianco all’altra lungo lo stesso lato della piazza, probabilmente abitazioni private, l’ultima della fila ha ancora in piedi parte del tetto di paglia. Percorriamo ancora un breve tratto di jungla e raggiungiamo l’imponente 5° tempio, liberato dalla vegetazione per 2 lati, mentre gli altri 2 sono ancora inglobati nel terreno. Le piramidi non avevano funzioni di mausoleo, ma in questa, in una piccola stanza posta alla base, è stato rinvenuto il corpo di una donna, di cui non si conosce l’identità ma era sicuramente un personaggio di alto rango, forse una principessa o forse una sacerdotessa. Queste costruzioni avevano fondamenta profonde 16 metri, poggiavano su larghi basamenti fatti con massi colossali e venivano costruite a strati in modo da creare un tutto pieno, l’unica parte vuota è la stanza sulla sommità in cui i sacerdoti studiavano il sole, le stelle, le fasi lunari, raggiungibile con una turrita scala. Subito dietro il tempio 5 si trova l’acropoli nord, una grande piazza con molti edifici atti ad abitazioni ed uffici da cui si amministrava la giustizia ; c’è anche un palazzo di ben 5 piani con scala interna. Tutte le stanze sono arieggiate da finestre che le mettevano in comunicazione le une alle altre per il ricircolo dell’aria; avevano la porta rivolta ad est con davanti una sorta d’altare che veniva usato per le meditazioni e per cerimonie. Raggiungiamo finalmente la Grande piazza, dove si trovano i monumenti più spettacolari:la piramide 1, completamente restaurata e liberata dalla vegetazione posto sul lato est della piazza, di fronte c’è il tempio 2 su cui si può salire con una scala posteriore in legno, dai gradoni centrali è vietato salire perché ripidissimi e dai gradini sdrucciolevoli. Siamo rimasti lassù a godere della bellezza del luogo, una sensazione simile l’abbiamo provata solo sul Macchiu Picchu. Disseminati sulla piazza ci sono una serie di altari circolari e stele scolpite ma in avanzato stato di degrado. Sul lato sud della piazza si innalza l’acropoli sud, con una serie di costruzioni risalenti al periodo preclassico (circa 4000 a. C) che però si mescolano in modo armonioso con le 2 grandi piramidi costruite nel 700 d. C. L’acropoli è considerata la zona sacra della città, dove venivano seppelliti i sovrani di Tikal. Lungo la scalinata, protetta da una tettoia c’è un’enorme maschera di stucco, forse l’effige di un re ed altre due più piccole e più rovinate che ritraggono due dei. Usciti dal sito che erano ormai passate le 16 ci siamo aggirarti un po’per le immancabili bancarelle “ attira turisti”per cercare un magnete da portare a Simona e una palla con la neve per Nadia ma senza successo. Ci siamo quindi rilassati in hotel, sulle rive del lago, davanti ad un magnifico tramonto. Abbiamo cenato al ristorante “Imperiale” sul lungolago; il locale è carino ma la cena assolutamente mediocre : i miei peperoni ripieni senza infamia e senza lode, pancarrè al posto del pane, la carne di Giò dura come una suola. Abbiamo concluso la serata con il solito Zacapa.
08/02/2017: FLORES – CEIBAN – COBAN
Alle 7.30 Nixon era puntuale dinnanzi all’hotel e siamo partiti alla volta di Ceiban. Abbiamo raggiunto in auto fino a Sayaxchè poi abbiamo preso una piccola lancia a motore sul Rio Pasion accarezzati dai primi tiepidi raggi di sole del mattino. Le acque quasi ferme del rio fanno da specchio alla rigogliosa vegetazione delle rive: molti gli uccelli sorvolano a pelo d’acqua il fiume per pescare, molti osservano fermi il nostro passaggio sui rami degli alberi; abbiamo visto una tartaruga che nuotava e un coccodrillo che ha alzato il suo muso appuntito sopra il pelo dell’acqua. Dopo un’ora di navigazione siamo sbarcati sul limitare della foresta e ci siamo inoltrati all’interno, sotto alberi così alti e così fitti che non si vedeva neppure il cielo. Qui l’umidità è tangibile e le pietre di cui è ricoperto il sentiero in salita sono scivolose come il sapone ; abbiamo camminato per più di un’ora su questo sentiero aperto a colpi di macete dai primi archeologi che hanno raggiunto il sito negli anni 60. Camminando su per questo affascinante sentiero, Nixon si ferma di frequente per mostrarci questa e quella pianta, il suoi frutti e ci elenca anche i loro nomi scientifici. Salendo ci siamo imbattuti in un uccello della famiglia del quetzal e un paio di rumorosissime scimmie urlatrici. Abbiamo raggiunto una vasta radura strappata alla jungla dove sorgeva la città di Ceibal che era una grande città, con tantissimi templi ed edifici ma pochissimi sono stati restaurati, la maggior parte di essi restano ancora oggi nascosti sotto terra tra le robuste radici di Ceiba. La città sorse attorno al 700 a. C., verso il 400 a.C venne abbandonata per poi essere riscoperta e ripopolata dal 600 d. C al 1200 e le nuove costruzioni sono state costruite sopra quelle precedenti. Il cuore della città oggi è una radura ripulita da alberi con un verdissimo prato punteggiato di fiori gialli con al centro un piccolo tempio con un restauro approssimativo fatto negli anni 60, usando cemento al posto delle malte naturali, così per mancanza di muschi che mantengono l’umidità, parte dei muretti si sta nuovamente sgretolando. Nella piazza sono dislocate varie stele in buono stato di conservazione, si possono osservare i profili dei regnanti e, uno di questi, risalente al 700 d. C è rappresentato di fronte ed ha le sembianze di una scimmia. Sempre camminando per la giungla arriviamo ad un’altra radura dove è posto un grande altare circolare posto proprio di fronte ad una delle maggiori strade che conducevano al centro della città ; non si è ancora scoperto quale fosse la sua funzione, ma probabilmente serviva per studiare gli astri. Abbiamo ripercorso a ritroso il sentiero fino alla lancia; durante il nostro viaggio di ritorno abbiamo incontrato altri 2 coccodrilli che si scaldavano al caldo sole di mezzogiorno e che, appena avvertita la nostra presenza, si sono tuffati sul fondo creando un grande schizzo d’acqua. Abbiamo salutato Nixon e abbiamo ripreso l’auto in direzione Coban. La strada è lunga e rallentata dai tir che viaggiano a 20 km all’ora, disseminata di buche e dossi e per arrivare a destinazione impieghiamo 4 ore. I paesi che attraversiamo sono poverissimi, l’unica costruzione in muratura è la chiesa, le abitazioni sono in legno, piccole, quasi senza finestre e spesso senza la porta. Al tramonto uomini e donne, seguiti da bambini trotterellanti, camminano sul ciglio della strada tornando a casa; gli uomini portano sulla schiena fasci di legna, le donne anfore sulla testa che contengono probabilmente mais. In questi luoghi una delle attività principali è l’approvvigionamento di legname, che spesso viene tagliato in modo radicale tanto da provocare gravi danni da disboscamento, ci sono piantagioni immense di caffè dove, per lo più, lavorano le donne. La quasi totalità delle donne indossa gli abiti tradizionali costituiti da una larga e corta casacca di forma rettangolare, gonne lunghe e larghe svolazzanti,un grembiule talvolta decorato con perline, il tutto di colori vivaci. Finalmente, verso le 6, quando il sole era appena tramontato abbiamo raggiunto il “Park Hotel” che dista almeno una decina di chilometri da Coban. E’un complesso enorme e a noi è stata assegnata una “cabanas” ovvero una stanza con bagno in una sorta di villettine circondate da aiuole fiorite. La camera è confortevole ma la doccia non funzionava, abbiamo dovuto chiamare ed attendere che venissero ad aggiustarla. La cena è necessariamente nel ristorante dell’hotel, abbiamo provato un paio di piatti guatemaltechi ma non ci sono piaciuti un granchè. Qui fa di nuovo freddo, così alle 9 eravamo già rintanati in camera.
9/02/2017: COBAN – SEMUC CHAMPEY
Oggi abbiamo viaggiato con il gruppo di belgi che ha creato i maggiori grattacapi a Yves nei giorni scorsi : prima è stato cancellato loro un volo e sono arrivati in Guatemala un giorno dopo rispetto al previsto, poi le loro valigie non sono arrivate e poi è stato tutto un problema e uno scambio continuo di telefonate per riorganizzare il viaggio perché, a questo punto, non c’era più nulla che combaciasse con il programma originale. Costoro sono 12 belga, compaesani della nostra guida, già piuttosto anzianotti e, visto il numero, per spostarsi usano un piccolo bus da una ventina di posti. Abbiamo quindi preso il loro bus, abbiamo attraversato Coban, che è una cittadina piuttosto grande e movimentata, poi ci siamo introdotti all’interno del paese. La strada è sempre in condizioni disastrose, con il bus si sobbalza ancora di più, i paesini attraversati sono miseri come quelli di ieri, gli abitanti camminano sul ciglio della strada per recarsi al lavoro. E’una zona agricola dove incontriamo gli onnipresenti campi di mais, piantagioni di caffè e di cardamomo di cui il Guatemala è il primo produttore al mondo, e alberi di cacao. A Cajoj, uno dei paesini attraversati, abbiamo fatto una breve sosta per mischiarci tra i locali che tutte le mattine si raccolgono sul ciglio della strada per vendere le loro merci in una sorta di mercato giornaliero; per lo più a vendere, dietro un sacco di mais o ad un cesto di verdure ci sono le donne con i loro bambini legati sulla schiena. Arrivati al bivio per Lanquin, abbiamo lasciato il bus ed abbiamo proseguito su 4 pick up perché, da qui in poi l’unica strada per il paese è sterrata, impraticabile da un normale mezzo di trasporto. La cittadina di Lanquin, malgrado sia letteralmente in mezzo al nulla è vivace, piena di vita, ha bar, ostelli e alberghetti senza troppe pretese, una banca, agenzie turistiche e negozi e un via vai di persone e mezzi pesanti di trasporto. Dopo un’ora di scrolloni e sobbalzi siamo arrivati a Semuc Champey, un piccolo villaggio sulle rive del Rio Cahabon. I belgi hanno preso il sentiero che costeggia il fiume e che porta direttamente alle piscine naturali; la guida ci ha accompagnati all’inizio del sentiero per arrivare al “Mirador” da dove si può ammirare dall’alto lo spettacolo delle piscine. Il sentiero è irto, con alti scalini scavati nella roccia e tratti di scale in legno; siamo saliti per circa un’ora, ma, arrivati in cima, lo spettacolo che si apre dinnanzi a noi ripaga abbondantemente la fatica fatta per arrivare fin lassù. Una serie di piscine semicircolari comunicanti, le une con le altre di un color smeraldo intenso, che brillano con pagliuzze dorate sotto il sole di mezzogiorno, un vero spettacolo della natura! Proseguiamo per il sentiero che ora scende serpeggiando tra gli alberi e con tratti fatti di scale, fino alle piscine dove ci siamo subito tuffati nelle fresche acque per un bagno rigenerante, dove una miriade di pesciolini ti mordicchiano i piedi. Ci siamo quindi asciugati e percorrendo il sentiero basso che costeggia il fiume abbiamo raggiunto il parcheggio dove avevamo appuntamento con gli altri per il ritorno. Il nostro programma prevedeva anche la visita alle grotte di Lanquin ma avendoci uniti all’altro gruppo la visita è saltata. Rientrati in hotel, alla luce calda del tramonto, ci siamo persi per le stradine che uniscono le varie strutture del nostro hotel; c’è una grande piscina, un imponente salone per cerimonie, una pizzeria, un ristorante uruguayano, una voliera con pavoni, laghetti attraversati da ponticelli, diverse sistemazioni, dalle più lussuose alle più spartane e, in alto, un campo da tennis e la pista d’atterraggio per gli elicotteri. Il proprietario della struttura è un italiano e ad ogni settore dell’hotel è stato assegnato il nome di una città italiana o di qualcosa tipico del nostro paese. Stasera per cena siamo andati sul classico: pesce alla piastra, che poi ci hanno portato fritto, e il solito Zacapa, accompagnato con il cioccolato comprato dai bambini del villaggio.
10/02/2017: COBAN E BIOTOPO DEL QUETZAL
La giornata è cominciata male: stanotte è piovuto ed anche ora continua a piovigginare. Abbiamo preso l’auto direzione Città del Guatemala e, man mano che procedevamo per la strada la pioggia è andata via via aumentando. Dopo circa mezz’ora di viaggio abbiamo raggiunto il Biotopo del Quetzal e la pioggia continuava a cadere incessante. Abbiamo subito indossato le mantelle e, affrontando le intemperie, ci siamo incamminati nella jungla. Questa zona è definita “ bosco nebuloso” perché qui l’umidità che si alza dalle acque del Lago Izabal incontra le correnti più fredde che provengono dall’oceano Pacifico provocando frequenti piogge che conferiscono al Parco Nazionale una colorazione verde accesa. Questo parco istituito dal biologo Mario Dary Rivera è denominato del quetzal perché ricchissimo di alberi di aquacatillo, albero del quale si nutre l’uccello simbolo del Guatemala, dai colori sgargianti e dal lunghissimo piumaggio caudale; ma qui gli esemplari sono pochissimi è quasi impossibile vederli, oggi poi, con questo tempaccio, ancora di più! Nel parco si snodano due percorsi: uno più lungo e uno più breve. Noi abbiamo percorso quello più lungo, di circa 2 ore, che parte da un’altitudine di 1600 m ed arriva a sfiorare i 2000m. Il sentiero in salita si apre tra alberi altissimi, felci gigantesche, piante parassite abbarbicate sui rami e il fusto coperto da soffici muschi. Il percorso è talvolta attraversato da rigagnoli che formano cascatelle, si arriva anche ad un “mirador” da cui si può ammirare la foresta dall’alto ma oggi, come sospesi nel nulla, si vede solo nebbia! Ad un certo punto, durante la discesa ci siamo trovati dinnanzi ad un fiume, che per le piogge odierne, aveva allagato il ponticello per attraversarlo, quindi non ci è restato che entrare nell’acqua fino alle caviglie, infradiciandoci ancora di più! Presso l’uscita del parco c’è una piccolo museo dove è descritta la flora e la fauna del Biotopo e al centro della stanza c’è un quetzal impagliato, così almeno lo abbiamo visto! Bagnati fino alle ossa siamo tornati in hotel dove abbiamo messo degli indumenti asciutti e poi siamo andati a Coban. Abbiamo pranzato alla “Casa D’Acuna”, un locale molto carino, sito in una casa coloniale con patio interno ma, viste le temperature odierne, noi abbiamo preferito una sala con la stufa accesa; qui abbiamo gustato un espresso quasi come quello italiano. Abbiamo poi camminato un po’per il mercato, dove le donne vendevano frutti e verdure a noi sconosciuti e che la gida ci ha descritto. Su Parque Central, il cuore della città si affaccia la cattedrale e al centro c’è un bruttissimo monumento di forma circolare che gli indigeni definiscono l’UFO. A questo punto la pioggia ha ripreso a cadere copiosa costringendoci a tornare all’auto e quindi in hotel. Abbiamo fatto una doccia bollente per riscaldarci e poi, con calma, abbiamo fatto le valigie per la partenza. Alle 19.30 avevamo appuntamento con la guida per cenare e stasera siamo andati alla “Parillda Uruguayana”, all’interno dell’hotel dove abbiamo gustato una tagliata veramente eccellente, forse la migliore mangiata in Guatemala, alle 21 eravamo già sotto le coperte perché domani si partirà prima dell’alba.
11/02/2017: COBAN – CITTÀ DEL GUATEMALA
La pioggia ha continuato a cadere imperterrita tutta la notte e continua a piovere… Ho dormito pochissimo, ho faticato ad addormentarmi e alle 3.30 ero già sveglia. Ci siamo alzati prima che suonasse la sveglia e alle 5,45, caricate le valigie, abbiamo lasciato Coban. La prima ora di viaggio è stata disastrosa, è ancora notte fonda, le strade non hanno di illuminazione, evitare dossi e buche è un’impresa. Abbiamo anche trovato un albero riverso sulla strada; molte sono le biciclette ed i pedoni che percorrono i bordi della carreggiata e il pericolo di investirli è veramente grande. Città del Guatemala dista da Coban circa 200 km, ma, viste le condizioni delle strade, si ci impiega circa 5 ore, sempre che non ci si imbatta in qualche incidente in cui uno dei bestioni americani si sia rovesciato sulla strada ostruendo il passaggio in entrambe le direzioni di marcia; allora… addio volo di ritorno! Finalmente si è fatta l’alba, non piove più e la visibilità è migliorata; verso le 9 ci siamo fermati a fare colazione in un fast food affollato di famiglie, perché il sabato mattina, qui è usanza fare colazione con un mega buffet. Abbiamo percorso la strada che avevamo fatto in senso inverso per andare in Honduras, la strada in cui si trovano cantieri e cave di pietra e che sono spesso bloccate da tir in manovra che bloccano la viabilità. Come all’andata siamo rimasti fermi per una ventina di minuti e poi siamo ripartiti. E’ buffo come qui ci sia una fila interminabile di venditori che ti propongono, auto per auto, la qualunque, dall’acqua fresca alla frutta, dal cibo caldo alle foderine per auto a mazzi di fiori. Percorrono l’intera colonna di mezzi, per poi tornare al punto di partenza non appena le auto si mettono in moto per poi ripetere il tutto da capo al successivo blocco. Da qui in poi il viaggio è proseguito nel migliore dei modi, abbiamo attraversato anche la periferia della capitale con un traffico modesto; alle 11,30 siamo giunti in aeroporto abbiamo salutato e ringraziato Yves per l’ottima organizzazione del viaggio, quindi abbiamo fatto il check- in. Alleggeriti dalle valigie abbiamo atteso il nostro volo passeggiando per i negozi dell’aeroporto, c’è anche il negozio del Rum Zacapa ma non è particolarmente conveniente, o meglio lo sarebbe solo acquistandone 2 bottiglie ma non abbiamo rischiato l’acquisto perché transiteremo per altri 2 aeroporti prima di ritornare in Italia e temevamo ce le sequestrassero.
Il volo è partito puntuale alle 14 e ha raggiunto Città del Messico alle 16; abbiamo fatto una coda di più di un’ora al controllo passaporti, abbiamo ritirato il bagaglio come all’andata e abbiamo veramente temuto di aver già persa una valigia, perché non l’abbiamo mai vista sul nastro trasportatore ma l’abbiamo trovata lì di fianco, probabilmente qualcuno l’ha scambiata per la sua e poi, accortosi dell’errore l’ha abbandonata lì a terra. L’abbiamo reimbarcata dopo pochi metri, quindi abbiamo cominciato la nostra paziente attesa, infatti il nostro volo partirà attorno alla mezzanotte. Abbiamo passeggiato un po’tra i negozi, poi, stanchi ci siamo seduti in una zona wifi free ed abbiamo assistito in diretta alla proclamazione del vincitore del festival di Sanremo; abbiamo quindi atteso che il nostro volo comparisse sul tabellone ma niente! Alle 23.55 comparivano solo due voli uno per Santiago del Cile e uno per Madrid ma del volo per Parigi nemmeno l’ombra! Ad un certo punto è comparso Tokio ed altre destinazioni con partenza all’1 fino alle 2 della notte, così, preoccupatissimi, siamo andati ad informarci al banco dell’Aeromexico, che ci hanno assicurato che il volo non era stato cancellato e il problema era solo legato al malfunzionamento dei tabelloni, e che sarebbe comparso di lì a poco. Il tempo continuava a passare ma sul tabellone aumentavano sempre le destinazioni ma mai Parigi; tornati al banco della compagnia di bandiera, ci hanno indicato il gates che, in effetti, ci ha imbarcato in perfetto orario.
12/02/2017: CITTÀ DEL MESSICO – PARIGI – NIZZA – SAVONA
Stanchi morti, anche se scomodi perché l’aereo era tutto pieno, abbiamo dormicchiato, malgrado il male al collo e le formiche alle mani. Aeromexico non è Air France, la cena era scadente con pasta scotta e vino dolce e la colazione degna della cena. Un’altra cosa spiacevole di questa compagnia aerea che l’intrattenimento e i vari films contemplano oltre alle lingue più comuni, l’arabo, il cinese, il giapponese, l’ebreo ma non l’italiano, quindi non abbiamo potuto distrarci nemmeno un po’guardando un film. Dopo 12 ore di volo, alle 18 ora locale siamo atterrati a Parigi, abbiamo nuovamente impiegato quasi un’ora per passare i vari controlli ed altrettanto per trovare un bagno: l’aeroporto Charles De Gaulle è tutto un luccichio di negozi, boutique delle firme più prestigiose, bar e bistrot ma si devono percorrere chilometri per trovare un bagno e le poltrone davanti ai gates sono pochissime tanto che la maggior parte dei passeggeri in partenza sedeva a terra. Alle 20 il nostro volo è partito e alle 22 eravamo finalmente a Nizza ma le nostre valigie non c’erano…. smarrite chissà dove! Abbiamo dovuto fare una denuncia di smarrimento on line coadiuvati da un tipo che con comprendeva una parola di italiano, l’ennesima arrabbiatura del rientro. Fuori ad attenderci Roby e Simo che sono gentilmente venuti a prenderci per ricondurci a casa dopo quasi 2 giorni di viaggio. Le valigie ci sono state consegnate a casa, chiuse ed intonse, 4 giorni dopo.
CONCLUSIONI
Guatemala in lingua maya significa “tanti alberi“ per la vegetazione rigogliosa che lo ricopre, ed è la culla di questa antica civiltà ; in tutto il paese si contano 54 siti archeologici delle varie epoche, dal preclassico, che va dal 1800 a. C al 250 d. C, al classico che va dal 250 d. C al 900 d, C, al post classico che va dal 900 al 1560. E’ ricchissima di bellezze naturali, 37 vulcani di cui 4 attivi: il Pacaya, il Fuego, il Santiaguito e l’Acatenango.
Ha due sbocchi sul mare. una piccolissima parte nel Caribe sull’oceano Atlantico e, una più grande sull’oceano Pacifico, fatta di lunghe spiagge dalla sabbia nera perché si trova a sud della catena montuosa dove si trovano tutti i vulcani.
Ha altopiani e jungle dalle mille sfumature di verde che determinano i vari tipi di colture, fiumi e laghi azzurri ma tanta bellezza naturale si scontra con le innumerevoli problematiche di questo piccolo paese del Centroamerica.
Ufficialmente gli abitanti sono tra i 13 e i 15 milioni anche se stabilirne il numero esatto è sempre difficile in quanto, soprattutto nei centri rurali, molti bambini non vengono registrati all’anagrafe.
Il 65-70 % della popolazione vive in stato di povertà, il che significa che vive con meno di 2 $ al giorno e di questi poveri il 15 % vive in condizione di estrema povertà, cioè con meno di 1 $ al giorno.
Circa 1 milione e mezzo di guatemaltechi sono immigrati negli Stati Uniti, mezzo milione legalmente, un milione illegalmente.
La prima fonte di reddito per i guatemaltechi sono i proventi inviati dai famigliari immigrati negli USA seguita poi dall’agricoltura e poi dal turismo.
Qui la mortalità infantile è molto alta, i bambini sono circa 4,2 milioni, il numero più alto di tutto il centro America, ogni famiglia ha in media 5 figli, il 50% di essi, di età compresa tra 0 e 5 anni è in stato di denutrizione. Il prezzo di un litro di latte è di circa 1,5$ così, per sfamare queste orde di figli i genitori possono solo permettersi pacchetti di patatine e dolciumi da prezzi irrisori ma che non hanno alcun valore nutritivo.
Malgrado questo stato di indigenza la contraccezione è pressoché sconosciuta e condannata dalla chiesa, così come l’aborto che però viene praticato illegalmente.
Nel 2014 il numero delle bimbe dai 10 ai 14 anni che ha partorito è stato 6700.
La mortalità materna in gravidanza è la più alta di tutto il Centro America, il parto avviene per lo più a domicilio, dove, se insorgono complicanze, non si hanno gli strumenti per salvare la vita alla gestante; il 20 % di queste morti è dovuto ad un procurato aborto.
La scuola primaria è obbligatoria ma nessuno mette in discussione se una famiglia decide di non mandare il proprio figlio a scuola, i più fortunati sono i primogeniti e talvolta i secondogeniti, gli altri, a seguire, devono occuparsi della casa, di lavorare i campi ed occuparsi dei fratelli minori e, ciò è tanto più vero quando si tratta di bambine.
Ufficialmente la percentuale di analfabetismo è il 13 % anche se si ritiene sia decisamente più alta, infatti moltissimi campesinos non parlano neppure lo spagnolo e si esprimono in una delle 42 lingue maya ancora esistenti nel paese.
Questo è quello che ci appare oggi nella culla di una delle civiltà antiche più evolute della storia e tutto ciò è molto triste, è triste vedere tante bellezze naturali e vestigia storiche e sontuosità di palazzi in contrasto con tanta miseria… uomini, donne e bambini curvi su campi in ripida pendenza da cui non si produce neppure il necessario per sopravvivere; disperati dormire per terra ai bordi della piazze con coperte di fortuna e mendicanti agli angoli… e, forse capisco anche quel disperato che ci ha rapinato, probabilmente, rivendendo la nostra macchina fotografica, mantiene la sua famiglia per mesi.
Spesso il Guatemala viene considerato una sorta di appendice del Messico, che dopo aver fatto un viaggio in questo paese ed aver soggiornato sulle bianche spiagge dello Yucatan si fa una capatina in Guatemala, giusto un paio di giorni per vedere Tikal, il mercato di Chichicastenango, forse Antigua e poi basta, ma il Guatemala è tanto, tanto di più, e le 3 settimane che vi abbiamo trascorso sono appena sufficienti per poter conoscere questo popolo, la loro cultura e il paesaggio.
Un grazie infinito va ad Yves, professionista instancabile, preciso, attento, profondo conoscitore della cultura maya che ci ha aiutato nei momenti di difficoltà e soprattutto ci ha accompagnato nella scoperta di questo paese meraviglioso!
ULTIME COSE DA TENERE A MENTE
· Noi abbiamo soggiornato in hotel di media categoria, non in ostelli economici ma rarissimamente abbiamo trovato l’occorrente per l’igiene personale, dovete portarvelo da casa.
· Se dovete scegliere tra il mercato di Chichicastenango e quello di San Francisco El Alto scegliete il secondo, perché più autentico e dove si vede realmente la vita delle popolazioni dell’Altopiano.
· I migliori acquisti di oggetti d’artigianato si fanno a Chichicastenango, sul lago Atitlan e Antigua; altrove la qualità è più scadente e i prezzi sono più elevati.
· Per visitare Casa Popenoe ad Antigua bisogna prenotare telefonicamente la visita almeno un giorno prima alla sig. Loren Lemus (tel.+50224133258 / cell. +50230023467) perché la si può visitare solamente con una visita guidata.
· Ricordate che in Guatemala raramente gli hotel forniscono la prima colazione, spesso bisogna andare fuori.