Topi e aquiloni – Sleepless in Rajasthan
Il secondo viaggio in India, dal 20/12/07 al 5/1/08, a pochissimi mesi di distanza dal primo, ad agosto 2007. Era come se dovessi chiudere un cerchio.
E poi, da ricordare sempre che “esistono cento porte per entrare in India ma nemmeno una per uscirne”.
Link per le foto: http://good-times.Webshots.Com/album/562737660WsOulr Località visitate: Ajmer, Pushkar, Bundi, Udaipur, Jodhpur, Jaisalmer, Bikaner, Delhi.
Sono parecchie, tenendo conto che ho usato solo mezzi pubblici, ma ho viaggiato soprattutto di notte, per guadagnare tempo, e vedere il più possibile. Nonostante sia forse più comodo, ho scelto di non servirmi di una vettura a noleggio con autista, tale pratica è contraria ai principi del randagismo di cui sono cultrice e sacerdotessa. E’ stato insieme massacrante e divertente. Divertente, per ovvii motivi, massacrante perché è impossibile dormire sugli autobus indiani, per colpa delle buche in strada, dei sedili sfondati e scomodi, dei finestrini rotti, degli spifferi di aria gelida. Già, perché nell’India del Nord, di notte in inverno, fa freddo. Da qui il titolo “Sleepless in Rajasthan”, storpiando il titolo del film con Tom Hanks e Meg Ryan, perché non è che abbia avuto in dono questa gran fantasia..
Vorrei dare un consiglio alle donne: se pensate di dover avere a che fare con degli autobus, è inutile che vi portiate vestiti dai colori chiari, si sporcano solo a guardarli..
Essendo il Rajasthan, nelle festività natalizie, meta di migliaia di visitatori, sia indiani che stranieri, diciamo che molto meno questa volta ho avvertito il senso religioso e mistico dell’India che così tanto mi aveva colpito precedentemente.
In genere, sono avversa a qualunque genere di prenotazione, con l’eccezione del trasporto successivo all’intercontinentale, il primo giorno.
Nel caso delle ferrovie indiane, sarebbe forse il caso di ripensarci, col senno di poi. Il treno è miliardi di volte più comodo dei bus, ma è ovviamente molto più gettonato per cui in molti casi non sono riuscita a trovare posto nelle ambitissime cuccette di seconda classe.
E’ possibile prenotare via internet (http://www.Irctc.Co.In/ ), per cui, circa un mese prima della partenza, mi aggiudico, per 561 rupie, un upper sleeper classe 3A sul Delhi-Ajmer delle 4.30.
Degli indiani e dell’India ho già filosofeggiato diffusamente in “India on my mind”, per cui vado al sodo.
DELHI Atterro alle 10.10 di sera con un volo Aeroflop (non è un errore di ortografia, ci tengo a precisarlo) proveniente da Mosca. In aeroporto incontro due studenti bolognesi che mi chiedono informazioni per un treno che li porti ad Amritsar; non sanno nulla di preciso circa gli orari. Poiché ho davanti a me un sacco di tempo, li accompagno sino alla stazione di New Delhi, che è la più grande della città, quindi quasi certamente quella esatta. Così, condivido anche le spese del taxi.
Di Delhi, nel viaggio precedente, non avevo visto che l’aeroporto. Siccome già quello bastava, avevo deciso di escluderla dal tour. In questo caso, invece, mi tocca..
La stazione di New Delhi è affollatissima, e così le strade attorno, che sono piene di tutto, ristoranti all’aperto piastrellati di mattonelle bianche ed illuminati da luci al neon, risciò, venditori, tassisti, carretti di cibarie, e veramente un sacco di gente formicolante, nonostante la tarda ora. Le biglietterie destinate agli stranieri sono al secondo piano del grande edificio, ma di notte sono chiuse. Quelle invece esclusivamente rivolte ai cittadini indiani sono aperte, con lunghe code agli sportelli. Veniamo quindi accompagnati in un’agenzia di viaggi lì accanto, dove i due ragazzi vengono presi in custodia dal proprietario, che prenota loro i posti con una piccola commissione, e soprattutto li ospita sui divanetti sino alla partenza. Sistemati i giovani, prendo un risciò a caso, e mi faccio portare alla stazione di Old Delhi.
Arrivo verso la 1. Calma piatta. Qui solo silenzio e squallore completo. Fa freddo. Nei vicoletti scorgo molti fuochi accesi, e disperati attorno ad essi intenti a riscaldarsi. Nessuno ha il cappotto, o il giaccone, solo coperte e scialli. Le mucche sono accovacciate ovunque. Sembra una scena medievale, terribile ma anche affascinante. So che, in India, nella maggior parte delle grandi stazioni ci sono le retiring rooms, stanze, alcune doppie, altre a dormitorio, di cui i viaggiatori in possesso di biglietto possono usufruire per riposarsi, ma qui sono già tutte occupate, le porte sbarrate. Sbircio comunque attraverso una persiana sbilenca, e l’impressione che ne ricavo è quella di un bivacco profughi. I marciapiedi del primo binario sono letteralmente ricoperti di gente che dorme per terra; sto quasi per pensare di sedermi lì anch’io, quando sento un “tichi tichi tichi”, rumore di unghiette/zampette che trottano sull’asfalto.
Immagino un cane, ed invece.. Beh, le dimensioni sono quasi quelle, ma si tratta di topi, anzi, di pantegane, che si aggirano fra un corpo disteso e l’altro. Abbastanza velocemente, devo ammettere, mi squaglio e mi infilo nella prima sala di attesa che trovo. Errore: è destinata ai soli uomini. Altro bivacco per profughi. Quella dedicata all’altra metà del cielo è qualche porta dopo, ci sono alcune assi per terra, tipo bancali, già tutte occupate da donne e bambini avvolti in coperte, e grazie a Dio alcune sedie vuote. Mi rassegno ad occuparne una, fino alla partenza del treno. La separazione fra i sessi è rigorosa, viene osservata anche dai nuclei famigliari, i papà ed i mariti fanno capolino ogni tanto sulla soglia per controllare la situazione. Ad occhio e croce, la temperatura esterna si aggira sui 6-7 gradi. Per me, non è un problema, visto che ho un equipaggiamento adeguato, il solito piumino Belfe, che serve anche da cuscino, coperta, ecc ecc secondo le esigenze e le necessità del momento, e già sopravvissuto al viaggio indiano precedente. La visione di tutta quella miseria, e dei topi, mi ha turbato profondamente, ma poiché sono sola, non ho nessuno su cui sfogare la mia pena e la mia frustrazione. Per un secondo mi balena l’idea di scappare da tutto ciò che ho davanti, chiamare un taxi, e farmi portare in un caldo e confortevole 4 stelle. Ma è solo un attimo, ormai sono in ballo e devo ballare.
Per fortuna il tempo passa, per sfortuna non passa così velocemente come desidererei, ma alla fine arriva l’ora della partenza e, dopo aver comprato il primo di una lunga serie di caldissimi e dolcissimi thè al latte da un ambulante sui binari, salgo in treno.
Non sono fortunata, nel mio scompartimento ci sono dei ragazzetti tutti frizzi e lazzi, di riuscire a dormire non se ne parla proprio.
Verso la fine del viaggio, rimango l’unica occupante delle quattro cuccette dello scompartimento, ed il sole è già alto. Dopo aver preso a scarpate tre scarafaggi nel giro di mezz’ora, decido di scendere sul sedile in basso. Distolgo un attimo lo sguardo dal panorama monotono che mi scorre davanti al finestrino per osservare con disapprovazione delle bucce di arachidi sul pavimento. Gli indiani hanno la brutta abitudine di buttare tutto per terra, anche sui mezzi pubblici, non solo in strada. In mezzo ai gusci vuoti, un topolino, non una pantegana, ma pur sempre di ratto si tratta, incrocia il mio sguardo, muovendo curioso i suoi baffettini, mentre io, d’istinto, sollevo con scatto nervoso i piedi sul sedile davanti a me. Sino all’arrivo, quando avrò di meglio da fare, è tempo di autocommiserazione, cacchio, non è possibile, povera me, come farò a convivere con queste bestie! AJMER Indovinate un po’? Sono l’unica bianca sul treno! Cosa mi aspetta appena lasciati i binari già me lo immagino.
Chissà perché, le stazioni dei treni e quelle dei bus sono sempre distanti kilometri, e, sempre chissà perché, nei paesi poveri queste ultime si trovano sempre fuori dalla città, prive di mezzi pubblici di collegamento! Mentre ancora non sono uscita in strada, domando ad un ambulante quanto possa costare una corsa in risciò. Mi guarda con aria di scherno, a lui costa 3 rupie, mi dice, ma per quanto riguarda me non ha proprio idea. Si vede che sadicamente ci gode al pensiero che verrò spennata come un pollo. Della serie “cornuta ma non del tutto mazziata”, mi allontano un po’, per fortuna nella giusta direzione, per reperire un risciò-wallah un pelino meno esoso.
Ajmer ha dei palazzi degni di nota, ma non ho tempo per fermarmici. PUSHKAR Hotel Hill view, 200 rupie per una stanza pulita con bagno (quella all’ultimo piano nell’edificio bianco raffigurato nel sito). Trovato per caso. E’ vicino alla stazione dei bus, ma molto tranquillo, perché un po’ lontano rispetto alla strada Ristorante Om Shiva, ottimo buffet, cibo buono, economico e sano, a prova di dissenteria Le mie aspettative su questa città si sono rivelate proporzionali alla delusione.
Un potenziale mistico spaventoso, rovinato da una banda di guastafeste.
Intendiamoci, la zona intorno al lago sacro, dove sono state asperse le ceneri nientemeno che di Gandhi, è fantastica, e lì davvero, al tramonto, fra mucche che ruminano, pellegrini che si immergono, e stranieri in estasi spirituale si respira aria di “vera India”, ma vero è pure che si è letteralmente assaliti da rompicoglioni ad ogni angolo. Per prima vi aspetta la cerimonia del braccialetto. Un tizio per caso vi offre un fiore, un garofano arancione. Mentre vi avvicinate ai ghat, e cercate di sbirciare (tutti comunque possono accedervi, non solo gli indù, basta togliersi le scarpe), un compare del tizio sopra citato vi avvicina spacciandosi per guru. Vi conduce vicino all’acqua, vi lega attorno al polso un braccialetto di stoffa bordò, e vi fa recitare una specie di puja. Dalle cretinate che dice, e la sequela di divinità citate a casaccio, capirete che è una buffonata. Questo è il momento in cui dovete alzarvi e congedarlo. Se invece indugiate … ormai è tardi. Dopo la fine della pseudo-preghiera, costui vi chiederà un’offerta, ma non un’offerta libera, come è giusto che sia, bensì l’astronomica cifra di 100 rupie, ma non 100 rupie in tutto, bensì 100 rupie per ogni parente per cui, nella puja, avete chiesto la benedizione.
Se vi rifiutate, minaccerà sfiga perenne per tutti. Se non siete superstiziosi, come me, potete far scattare i vaf*** a questo momento.
La cosa migliore per evitare questa squallida pantomima è di accettare il fiore e poi lanciarlo alla prima vacca che vi passa accanto, o evitare del tutto l’invito a raccoglierlo.
Poi ci sono delle ragazze molto affascinanti, tipo zingare, abbigliate con sari coloratissimi ed inanellate dalla testa ai piedi. Vi tendono la mano, con amicizia. E qui sta l’inghippo: non c’è nessuna ragione per salutarvi e, anche se ci fosse, gli indiani, soprattutto le donne, non usano farlo a questo modo. Se non siete più che accorti, a questo punto, con balzo felino vi hanno già afferrato la mano come arpie, ed iniziato a scarabocchiarvele con finto hennè. Se invece siete stati lesti a scansarvi, vi chiedono soldi per farsi fotografare, A voi la scelta, in effetti la bella foto è assicurata. Salutarle a mani giunte, e tirare dritto è la miglior cosa. Poi ci sono dei ragazzini che, mentre voi beatamente ve ne state seduti al tramonto a cercare di respirare l’aria della vera India, quella di cui parlavo prima, quella che ha affascinato George Harrison e i suoi tre compagni da Liverpool, vi istupidiscono letteralmente le orecchie tormentandovi con delle litanie paurose prodotte dai loro violini, o dai sitar, finchè non gli sganciate qualche spicciolo. Non cercate di sopportarli esercitando la pazienza in attesa che si stanchino prima loro, non lo faranno. Dite loro semplicemente di lasciarvi in pace.
Ovviamente si paga per fotografare le mucche dalle corna inghirlandate di fiori e dal manto decorato con polvere colorata, si paga per fotografare i sadhu che poi sadhu non sono perché i sadhu autentici sono degli eremiti che meditano immobili in luoghi molto appartati, ed è la gente dei villaggi che porta loro il cibo, me l’ha rivelato un collega indiano. Insomma, una continua questua. Pushkar è la classica cittadina dall’aria mistica che attrae col suo fascino tantissimi occidentali, quel genere di occidentale che crede di risolvere i suoi problemi semplicemente fermandosi lì, e cambiando nome. In ogni caso, se si riesce ad evitare gli scocciatori, (e dopo un po’ l’istinto di sopravvivenza viene in soccorso), Pushkar, con l’atmosfera pigra ed indolente che si respira, le sue candide cupole a cipolla, i ristoranti a terrazza e le pensioni economiche, si trasforma in una dolce trappola che imprigionerà i vostri cuori. Nonostante gli stress, ritornerete a casa e, come me, esattamente, rimpiangerete di averla maledetta e lasciata troppo presto.
BUNDI La mia perla del Rajastan, la gemma nascosta.
Pensate ad una città piccola, quieta, con pochi turisti, visitabile tutta a piedi, senza nessuno che vi scoccia, dove la gente se vi rivolge la parola non è per vendervi qualcosa o rifilarvi qualche pacco, con un palazzo reale ed un forte meravigliosi, un lago, le case azzurre tipo Jodhpur dai tetti piatti, che al tramonto traboccano di ragazzini intenti a far volare i loro aquiloni, una pensione dove venite trattati come figli e non come ospiti paganti.
Questo il motivo per cui, lasciata Pushkar un giorno prima del previsto, rimango a Bundi un giorno in più del previsto. E, se solo avessi avuto tempo, ci sarei rimasta una settimana. Forse un anno.
La Lonely Planet dice che i collegamenti verso Bundi mettono a dura prova la pazienza dei viaggiatori stranieri, ed è per questo che è così tranquilla.
Effettivamente, per raggiungerla da Pushkar, ci ho messo parecchie ore, cambiando coincidenza ad Ajmer, e sobbarcandomi una traversata sul tipico autobus indiano che tutti si immaginano, quello che ferma ogni tre secondi, e strapieno di gente. 160 km in almeno 4 ore dietro ad una passeggera che, tanto per cambiare, vomita dal finestrino. Il “coso”, trascinato dal vento, si spiaccica sul mio finestrino, che per puro caso, ho chiuso qualche minuto prima, senza essere consapevole di quello che stava per succedere! Sono così già assuefatta a queste cose che non mi disgustano neanche più, ma diciamo che sono intervenuti altri elementi durante il tragitto che hanno contribuito a renderlo interessante. Dapprima, propongo ad una signora che viaggia in piedi di mollarmi il suo pupo, e me lo sistemo sulle ginocchia. Questo, un bimbo di circa 6 mesi, dapprima mi guarda stupito, poi, evidentemente spaventato dalla mia pelle bianchiccia, scoppia in un pianto disperato. Le donne lì attorno mi fanno capire che, qui, per tranquillizzare i neonati si usa far schioccare le dita, tipo Fonzie. Per fortuna il pargolo si adatta alla situazione. Nel frattempo, salgono a bordo, sistemandosi in piedi accanto a me, due gemelli, più o meno miei coetanei, uguali come due gocce d’acqua. La peculiarità che li rende così interessanti, e infatti, sinchè non sono scesi non ho fatto altro che fissarli, è che assomigliano come gocce d’acqua a George Clooney (quando era più giovane)! Ovvio che da lì in poi io non mi interessi più alle buche, agli scossoni, alla pipì impellente, alle continue soste, al vomito della mia dirimpettaia, ecc ecc.
Al terminal di arrivo, vengo avvicinata da un ragazzo in motocicletta, Chintu, proprietario della guesthouse Hadee Rani. Assalita da un attacco di pigrizia, accetto di seguirlo e mi sistemo sul sellino, uno zaino dietro ed uno davanti, niente casco, alla faccia della sicurezza. Se poi la pensione fa schifo, mi inventerò qualcosa per andarmene.
Invece, una volta vista, decido di restare. La Hadee Rani si trova in una haveli di colore azzurro, con un bel terrazzo da cui si gode di un panorama meraviglioso. La famiglia che mi accoglie è molto cordiale, e così gli altri ospiti, tutti australiani. La mia camera, seppur spartana e senza acqua calda, è pulita, e mi viene proposta a 200 rupie. Se voglio lavarmi con acqua calda, mi viene offerto il bagno dei padroni di casa. La stanza al piano superiore della coppia molto simpatica che mi ha dato il benvenuto, Nick e Josh, invece costa invece 600 rupie, ed è fantastica, molto più luminosa, con un letto fantastico, per cui sicuramente raccomandabile. Oltre a Nick e compagna, l’altra ospite è una tizia di Freemantle, Odette, una mia coetanea di quelle col trip dello yoga e che vanno in giro vestite all’indiana.
Nick, che è di origine piemontese come me, pur essendo nato e residente a Brisbane, mi invita ad unirmi a lui ed alla sua fidanzata per fare il primo giro esplorativo della città. Anche loro sono arrivati da poco, provenendo da Udaipur, che è invece la prossima mia meta. La Hadee Rani si trova sulla strada principale, al Sadar Bazar, ma quello che mi colpisce appena uscita è che non ci sono negozi di souvenirs!!! E fra l’altro, la popolazione del posto ci guarda perché siamo stranieri, ci saluta e ci ferma per chiederci da dove veniamo, ecc ecc, ma nessuno ci infastidisce con proposte di vendita come invece succede in altri posti! Sostiamo ad un negozietto per un fantastico thè dolce, questa volta aromatizzato con il cardamomo, spezia che io adoro.
Nick invece è attratto da un chaat-wallah, ossia un omino con un carretto pieno di spuntini, fra cui samosa ed appunto i chaat, ossia delle polpette di ceci e patate, squisite. Io invece, più ghiotta di dolci, compro delle specie di barrette fatte con sesamo, miele, arachidi pestate. L’atmosfera è veramente tranquilla, è come stare in un villaggio. Verso le 18, rientriamo alla guesthouse e saliamo sul tetto, invitati da Chintu, per assistere al volo degli aquiloni. Si tratta del gioco più amato dai bambini, non solo qui in India. Innumerevoli scrittori hanno descritto la poesia di questo momento, da Pasolini a Hossein, per cui non mi ci metto in concorrenza, che rischio di fare la figura dell’idiota. Dalla postazione si vede in lontananza il Palazzo Reale, i bambini delle case vicine richiamano la nostra attenzione, mostrandoci i loro semplici rettangoli di sottile carta velina, lanciandoli, e cercando di destreggiarli il meglio possibile. Li incoraggiamo con applausi e fischi di approvazione. Sembra stupido, ma un occidentale che non abbia mai assistito a questo spettacolo non riesce a rendersi conto della bellezza di questo momento, e del senso di pace interiore e benessere che si prova.
Provate a dire ad un indiano che viva qua in Italia, come è successo a me, che siete stati in India ed avete visto volare gli aquiloni in cielo, gli si illumineranno gli occhi.
Visito il palazzo reale di Bundi la mattina del giorno di Natale, l’ingresso costa 60 rupie, più altre 50 per l’introduzione della macchina fotografica.
Il portone di accesso è imponente e decorato con colonne sormontate da statue di elefanti. Ci sono pochissimi visitatori, oltre a me, Nick e Josh. Dalle arcate si vede un magnifico panorama, sul lago e sulla distesa blu di case. Alcuni muri sono divinamente affrescati.
Il Chitrasala, un altro elegante edificio risalente al 1600, accanto al palazzo, ha invece ingresso libero, e stupendi giardini curatissimi.
Terminata la visita, ci dirigiamo in cima alla collina per vedere il forte. Ci viene consigliato di munirci di bastone per scacciare le scimmie che hanno colonizzato la costruzione, che versa in stato di abbandono. Già raggiungere la sommità della collina è una mezza avventura, perché non c’è una strada asfaltata, ma neppure un sentiero vero e proprio, per cui spesso siamo costretti a tornare sui nostri passi. Il panorama che si vede dalle alture è sempre bellissimo.
Raggiunti i bastioni del forte, il sentiero è effettivamente occupato da gruppi di scimmie, tipo babbuini, i maschi sono grossi, ed incutono un certo timore perfino a Nick che è alto e robusto. Battendo forte i bastoni per terra ci passiamo in mezzo, sfiorandole, ma loro più di tanto non si spostano.
Gli interni della fortezza versano in grado di enorme degrado, ma nei cortili ammiriamo mirabili arcate da caravanserraglio , ed haveli decrepite con magnifiche lavorazioni di legno, ed affreschi dai colori vivaci. Il nostro scopo è quello di attraversare tutto il territorio, per raggiungere il belvedere a nord, dove si trova l’orribile torre televisiva costruita recentemente. Il terreno è pieno di erbacce, e scorgiamo dei serpenti fra le pietre. Gli australiani, che di serpenti se ne intendono, temono che siano velenosi. Sembra di essere in un videogioco. Dopo la lotta con le scimmie, e la sfida contro i rettili si apre una nuova prova dove fra noi e la meta si estende una vasto labirinto di cisterne, che è possibile attraversare solo camminando sui bordi. Anche issarsi sui muri di recinzione è abbastanza problematico, perché sono alti, e non ci sono sporgenze su cui poggiare i piedi. E’ davvero un’avventura! Dopo essere giunti alla meta agognata siamo tutti agitati ed eccitati come dei ragazzini. A parte noi, incontriamo solo un’altra coppia di esseri umani, turisti del genere saccopelista scandinavo. Le loro braghette stracciate evidenziano un minor punteggio e minor capacità di destreggiarsi al videogioco.
Sul retro del forte, accanto alla succitata torre, c’è una strada. Per il ritorno, optiamo per questa che sembra la soluzione più comoda. Ed invece, non appena incontriamo altri passanti, scopriamo che da questa parte dobbiamo camminare diversi kilometri. Accettiamo quindi un passaggio su un risciò, fermandoci per l’ennesimo thè dolce sulle rive del Jait Sagar, dove possiamo ammirare un palazzotto bianco, che pare uscito da una fiaba, il Sukh Mahal, dove per alcuni anni abitò Kipling, ai tempi della stesura di “Kim”. Rientrati alla base, Chintu ci annuncia che ci verrà offerta la cena di Natale. Accompagnati da lui, andiamo quindi in pasticceria per comprare dei dolci da offrire alla sua famiglia.
Odette, che è stanziale a Bundi da circa 5 giorni, e si ferma in India per alcuni mesi, non ci ha accompagnato nella gita al palazzo, ed ha preferito rimanere alla pensione occupandosi degli addobbi che ora adornano tutto il cortile interno. La proprietaria della guesthouse, e mamma di Chintu, le dà il permesso di appendere dei nastrini e fiocchetti ad una striminzita piantina. Il terrazzo della Hadee Rani è un bar/ristorante aperto a tutti, per cui alcuni inglesi che si trovano a passare da quelle parti, dopo aver consumato il loro pasto, incuriositi dai nostri preparativi, modificano i programmi della serata e rimangono in nostra compagnia. Addirittura, ricevo dei regali. Odette mi ha comprato un pacchetto di biscotti al burro, tipo Oro Saiwa, dimostrando una sensibilità commovente. Il giorno prima aveva infatti assistito ad un mio discorso con Nick, dove mi lamentavo che non riuscivo a trovare questo genere di gallette, che tengo di solito per le emergenze. Li avevo cercati disperatamente in un paio di negozi, ma invano, perché a Bundi non si trovano commestibili per i gusti degli occidentali, tipo i “Seven Eleven” di Kao San Road a Bangkok.
Lei, chissà dove, al bazar li ha trovati, che carina! La mamma di Chintu, invece, regala a tutte le donne dei bangles (non so il nome in italiano), ossia quei braccialetti rigidi colorati che a dozzine adornano i polsi e gli avambracci delle donne indiane.
Ho già deciso qualche ora fa che, anziché partire la sera stessa per Udaipur, mi fermo un altro giorno.
A Santo Stefano, sempre con Nick e Josh, vagabondo per le strade di Bundi per visitare i “baori” per cui la città è famosa. Si tratta di pozzi a gradini, alcuni di essi si trovano proprio in centro, e sono decorati con colonne e fini arcate intarsiate.
Perdendoci nel bazar alla ricerca dell’ufficio postale, veniamo accompagnati a destinazione da un giovanotto a cui avevamo chiesto indicazioni. Con nostra grande sorpresa costui, dopo averci condotti sulla soglia di ingresso, si allontana in direzione opposta, confermandoci che ha perso tempo apposta per prendersi cura di noi.
Non è cosa inusuale, comunque, in India.
Il mercato è caotico, le mucche si aggirano scagazzando qua e là, mangiando immondizia e ortaggi appassiti, e cercando di rubacchiare anche qualche verdura fresca esposta sui banchi, i proprietari le allontanano senza picchiarle. Alcune stazionano in mezzo ad una rotonda, ostacolando il traffico. Le macchine suonano il clacson e aspettano finchè non decidono di spostarsi. Perderei ore, ad osservare queste scene, sono davvero fuori dal mondo, e da ogni logica. Fra l’altro, prima, all’ufficio postale, una mucca si è infilata all’interno salendo le scale e per un po’ non c’è stato verso di sbatterla fuori!! Ha perfino infilato curiosamente il muso nello sportello, come se volesse pure lei comprare i francobolli.. Tornando al bazar: alcune merci sono adagiate per terra, altre sollevate da terra ma esposte a nugoli di mosche svolazzanti, l’igiene non è che regni sovrana al 100%, ma c’è un’atmosfera indaffarata e gioiosa, non la spaventosa povertà degradata che ho avuto modo di notare a Delhi. Qui la gente mi sembra felice.
Trascorro alcune ore, al pomeriggio, vagabondando sulle rive del Nawal Sagar, il lago artificiale del centro città, sorseggiando tisane varie in alcuni baretti che sorgono sulle rive.
Dopo cena, Chintu, in motocicletta, mi accompagna, senza voler soldi, alla fermata dei bus. Come spesso accade, è solo una specie di area di sosta sterrata sulla strada principale, dove sorge qualche panca, ed un chiosco che vende i biglietti.
Il bus è composto da posti a sedere e, dove di solito da noi ci sono le bagagliere, di cuccette, i cosiddetti sleepers. Io mi sono prenotata uno di questi ultimi, sperando di avere vita facile. E invece… Nick mi aveva preannunciato che la strada sarebbe stata “bumpy”, e che sarebbe stato impossibile dormire. In effetti, non ha esagerato.
Innanzitutto, fa freddo perché il finestrino scorrevole esterno non chiude bene. La strada non ho idea di come si presenti, ma so solo che per le mie povere ossa è stato un massacro. E’ un sobbalzo unico, le sospensioni del bus sono un ricordo di tanti anni fa. Tra le innumerevoli altre, prendo un paio di trambate degne di nota, la prima mi procura sul fianco un livido grande come una frittata, che impressionerà, al ritorno, quando già è diventato giallo-verde, persino una mia amica infermiera. “ma non ci hai messo il Lasonil??” mi ha chiesto.. Figuriamoci, non avevo dietro neppure un disinfettante, altro che Lasonil… La seconda è una craniata, tipo quella di Tom Hanks in “Castaway”, quando l’aereo perde improvvisamente quota e lui sbatte violentemente sulla cappelliera. Per fortuna, mi viene solo un bernoccolo, ma non mi taglio.
Ogni tanto, il bus fa una sosta pipì. Non ci sono stazioni di servizio con i bagni, ovviamente, la gente soddisfa le sue necessità ovunque capiti. L’aspetto che mi spaventa un po’ è che, nella mia ricerca di un angolo buio, temo di calpestare qualche cane randagio che dorme. Così per la prossima volta imparo a tenere a portata di mano una pila…
Una caratteristica negativa dei viaggi notturni indiani, in inverno, e sulle distanze relativamente brevi fra le varie città del Rajasthan, è che i bus partono alle 22-23 per arrivare in genere alle 5-5.30, quando è ancora buio e ancora lo sarà per un po’, fa un freddo boia, è tutto chiuso, e non c’è anima viva in giro, a parte i soliti risciò-wallah che attendono i passeggeri a fauci spiegate come un branco di avvoltoi. Non sarebbe meglio variare gli orari, partire a mezzanotte, ed arrivare almeno all’alba???? UDAIPUR Il bus, finalmente, ci scarica tutti in mezzo ad una strada. Non mi sembra un terminal, e non ho idea di dove mi trovi. E’ ovviamente ancora buio, e saranno le 5 del mattino. Aspettando che schiarisca, mi siedo su una panca davanti all’unico chiosco aperto, un thè caldo ed i biscotti di Odette mi rifocillano.
Quando mi sono sistemata, mi faccio condurre da un risciò verso il Pichola Lake. Sta albeggiando. Passeggio per le strette viuzze in discesa del Lal Ghat con le mie borse, attirando l’attenzione di parecchi commercianti, dalla soglia di qualche pensioncina già aperta mi chiamano per mostrarmi le camere ma, ad occhio e croce questa zona è già e diventerà ancora più rumorosa. Ovviamente ora sono troppo presa dalla smania di cercarmi un posto per riposare, ma mi rendo conto che la città che si sta svegliando davanti a me, con le sue eleganti haveli color crema dagli archi merlettati, è bellissima. Dal numero di alberghi, ristoranti, agenzie di viaggio e negozi di souvenirs, mi rendo conto che deve anche essere frequentatissima dai turisti.
Attraversando il ponte pedonale sul lago, dagli argini pieni di immondizie ed odori non del tutto piacevoli, mi sposto verso l’Hanuman Ghat, che secondo la Lonely Planet è molto più tranquillo. Effettivamente, qui c’è quasi nessun negozio, zero traffico, e qualche pensioncina, ma le più carine fra le economiche, tipo la Panorama e la Dream Heaven, sono tutte occupate o prenotate.
Mi accontento quindi di una lurida, umida e cupa stanza al Lakeshore; al piano superiore, però, sul tetto, c’è un bar molto carino con vista spaziale. Ci si sdraia sui cuscini e si ammira il panorama, che, dal mio punto di vista, da questa parte del lago è migliore di ciò che si vede dal Lal Ghat.
Su alcuni forum, fra cui l’utilissimo “Indiamike” giravano critiche molto negative su questa pensione, ed il suo gestore, definito da alcuni “pazzo”. Per essere più precisi, direi che è un border line.
Tanto per girare il coltello nella piaga, mi lascia visitare l’unica camera decente dell’hotel, quella da 1000 rupie.
E’ sicuramente meglio della mia, ma purtroppo già prenotata. I fortunati arrivano poco dopo, una coppia di ragazzi americani che girano il Rajasthan con l’autista. Il proprietario me la promette allora per l’indomani, salvo bussare, mezz’ora dopo, alla mia porta avvisandomi che la riserverà per dei giapponesi. Protesto ma è irremovibile.
Durante la permanenza di due giorni pieni, avrò modo di scoprire che la città è davvero visitatissima, non solo da stranieri, ma anche da indiani.
Il palazzo reale è incantevole, purtroppo c’è una ressa incredibile. Udaipur, come già Srinagar, è detta la Venezia dell’India. Sicuramente, il flusso turistico è quello di Venezia. Come mi aspettavo all’alba del primo giorno, i stretti carruggi del Lhal Ghat sono intasati da auto, risciò, carretti, e le mucche peggiorano la situazione creando ingorghi e concerti di clacson da paura.
Nei negozi sono esposti bellissimi souvenirs, prima di tutto gioielli di pietre dure, o argento, oli essenziali, oggetti di carta, marionette, stoffe, arazzi, borse, pashmine che costano poco di più che in Ladakh, quindi convenientissime.
Faccio amicizia con una parigina che anche lei viaggia sola. Mi sento assolutamente di consigliare la sua pensione, la Pratap Guesthouse, è un palazzo di proprietà di un ex colonnello dell’esercito, si fa colazione nel soggiorno, fra sedie damascate ed eleganti mobili di legno scuro dove campeggiano fotografie della famiglia; una scalinata in marmo bianco porta ai piani superiori. La stanza di Chloè ha le pareti candide dipinte da poco, ed è impeccabile, con un materasso comodissimo. Costa 900 rupie e li vale tutti. Credo anche sia consigliata sulla guida Routard. Si affaccia su una piccola piazzetta, nella zona dell’Edelweiss Cafè.
Chloé fa più o meno il mio stesso giro ma, a differenza di me, ha prenotato in anticipo gli spostamenti in treno, e le pensioni. Ci ritroveremo anche a Jodhpur, e a Jaisalmer, dandoci appuntamenti per la colazione in bar nominati su entrambe le guide (lei ha la Routard, io la Lonely Planet).
Una mezza mattinata, dopo essermi riposata un attimo, la dedico alla cura di me. Proprio davanti al ponte pedonale, sul Lhal Ghat, si trova una lavanderia dove porto i miei jeans già luridi; lo schizofrenico si era offerto di lavarmeli lui, pretendendo però un prezzo esorbitante; nel momento in cui, senza neanche rispondergli, l’ho guardato storto oltrepassandolo con il mio fagotto di roba sporca sotto il braccio, mi ha urlato dietro che tutte le lavanderie lavano i panni nel lago. Non credo che lui comunque mi avrebbe riservato un diverso trattamento.. Accanto, scorgo un negozio di parrucchiera. Per 600 rupie mi faccio tagliare i capelli e massaggiare il viso. Quest’ultima operazione, eseguita con metodi artigianali, mi lascerà per almeno un mese una pelle fantastica. Presso gli studi estetici della mia città non ho mai più riscontrato gli stessi risultati nonostante i macchinari ed i prodotti sofisticati. Un’altra attività da me reputata molto divertente, oltrechè istruttiva, è quella di sedersi sulle terrazze dei ristoranti, ed osservare il via vai delle persone. La zona intorno al Jagdish Temple è molto animata. A parte gli ingorghi di auto dovuti alla vicinanza del Palazzo Reale, del lago, e dei negozi, si aggiunge la variopinta folla di pellegrini hindù che visita il tempio, ed una nutrita schiera di pseudo-sadhu e mendicanti, seduti sulle gradinate, accanto ai venditori di fiori.
Con la mia compagna di avventure visito Sadna, un centro controllato da una ong, che promuove e vende i manufatti prodotti dalle donne dei villaggi vicini, favorendone l’indipendenza economica.
In risciò, raggiungiamo, fuori città, Ahar, ed i suoi cenotafi. Siamo le uniche creature viventi, a parte i piccioni, ad aggirarsi fra le cupole bianche.
Il pomeriggio, invece, in barca, insieme ad altri turisti, partecipiamo ad un’escursione sul Pichola Lake. Sulle sue rive, la gente sta lavando se stessa, stoviglie, vestiti, presumo anche i miei jeans… Costeggiando l’isola Janigwas, occupata dallo sfarzoso Lake Palace Hotel, ove furono girate alcune scene di un film di 007 interpretato da Roger Moore, raggiungiamo Jagmandir, circondata da mura scolpite con statue di elefante. Qui è ubicato un ristorante, dai prezzi ovviamente carissimi, per i miei standards, attorniato da giardini con profumatissimi alberi di frangipane, fontane, e torrette molto romantiche vista lago, dalle finestre adornate da romantici tendaggi bianchi. Ho letto sulle guide che molta gente sceglie di sposarsi a Udaipur, io non sono molto per questo genere di fronzoli inutili, ma devo ammettere che l’atmosfera è molto romantica.
Sto abusando della parola romantico, ma il tutto è davvero molto romantico! La vista sulla città e sul palazzo reale, soprattutto all’ora del tramonto è effettivamente magnifica, ma è molto simile a quella che vedo, per 500 rupie, dal mio tugurio al Lakeshore Hotel.
Fra l’altro, 500 rupie sono una rapina per quella topaia, ma il folle è sempre rimasto sordo davanti alle mie richieste di sconto.
Come nella nostra Venezia, il rapporto qualità-prezzo degli hotel a Udaipur è pessimo. Però, proprio come Venezia è una località imperdibile per chi visita l’Italia, Udaipur è imperdibile per chi visita il Rajasthan. Folla, confusione, rumore, prezzi gonfiati, rompiscatole, fregature : è il prezzo che bisogna pagare.
In ogni caso, e nonostante tutto, raffinata, decadente, superbamente elegante, elegantemente superba, fascinosa, piena di grazia. Mi è piaciuta un sacco.
JODHPUR Il solito scalcagnato autobus mi porta a Jodhpur, questa volta mi toccano un sedile sfondato ed un vicino puzzone. Inutile dire che non chiudo occhio.
Tanto per rovinarmi ulteriormente la giornata che non è neppure ancora iniziata, uno stordito risciò-wallah non riesce a trovare la Tourist Guesthouse, nominata sulla Lonely Planet, mi fa girare a vuoto per almeno tre quarti d’ora, facendomi battere i denti dal freddo, infine, spazientita, lo liquido facendomi condurre alla stazione dei treni. Segue una bella litigata perché mi rifiuto di pagarlo, mentre lui ora insiste nell’affermare che all’improvviso gli è venuto in mente il posto esatto. Resisto nel mio proposito, e raggiungo a piedi la pensione, che non è distante. Mi danno una stanza, senza finestre, la cui quarta parete è però di vetro smerigliato, un inno alla privacy, ed un bagno minuscolo, così stretto che devo stare seduta sul water di traverso perché altrimenti le ginocchia mi cozzano contro il muro (ndr: sono alta 162 cm…). Mi riposo un paio d’ore e vengo svegliata di soprassalto dal frastuono assordante del traffico nella via sottostante. Non capisco davvero cosa ci azzecchi questa sistemazione con quella gradevole descritta sulla guida, secondo me c’è stato uno scambio di nomi.
Nonostante abbia già pagato 200 rupie, alle 9 raccolgo i miei averi e fuggo e gambe levate, avviandomi verso la città vecchia. Il maestoso forte domina una distesa di case blu, come a Bundi, ma qui non si respira lo stesso fascino, la città è grande, c’è caos, e molti seccatori.
Mi faccio portare da un risciò in Navchokiya Street, alla Cosy Guesthouse. E’ carina, con un terrazzo con una magnifica vista sul forte, poltroncine in vimini, e lampade in stoffa colorate, ma tutte le camere sono occupate. Il proprietario mi propone di dormire in tenda sul terrazzo, assicurandomi che mi fornirà anche delle coperte, ma per i miei gusti fa troppo freddo. Allora chiama un suo cugino, che gestisce la Evergreen Backpackers. Anche se mi perdessi, non faticherei a ritrovarla, perché è l’unica casa tinta di verde menta brillante. La scalinata che porta alla mia stanza è contro ogni regola di sicurezza, ed il ballatoio ha una ringhiera che mi arriva al ginocchio. Mi domando se qualche turista ubriaco o soltanto distratto si sia mai sfracellato di sotto. La camera (350 rupie) è spartana, con un piccolo balconcino, ed un bagno ristrutturato a nuovo dotato di acqua calda. Dopo aver lasciato le mie cose, raggiungo a piedi il forte. Mi lascio convincere alla cassa, e prendo le audio-guide. E’ una mossa azzeccata, le spiegazioni sono molto interessanti. All’esterno, mi colpiscono le mura imponenti, e le ripide angolature dietro i portoni d’ingresso per annientare l’irruenza delle cariche di elefanti. I locali interni presentano decorazioni molto eleganti, e vetrate multicolori. In una zona del palazzo svolge la sua attività un celebre astrologo, poiché c’è una lunga fila in attesa, mi limito a prendere un volantino. In un’altra sala ci sono invece musicisti e danzatrici con costumi molto appariscenti. Passo il resto della giornata al Sardar Market, vicino alla torre dell’orologio, dove mi faccio tentare dai gustosi lassi da Shri Mishrilal. Ode al lassi, delizioso frullato di yogurth, vera benedizione nella calura indiana, dissetante, sano e nutriente. Sino ad ora, tenendo conto anche della mia esperienza indiana dello scorso agosto, sul menù di ciascun ristorante o bar non ne avevo trovato che 4 o 5 gusti diversi, in genere quelli dei frutti più comuni. In questo chioschetto pulitissimo all’aperto, con le sedie disposte direttamente in strada, accanto alla torre dell’orologio, la lista dei vari tipi è invece lunghissima, sia fra i dolci che fra i salati. Ne scelgo uno al cardamomo; nonostante non mi provochi scompensi intestinali, è però troppo “ricco”, e mi sazia all’inverosimile. Preferisco quelli più liquidi. Il giorno dopo, il 31 dicembre, ho appuntamento con Chloè, lei alloggia fuori città, presso uno dei villaggi bishnoi a qualche kilometro dalla città. Quando la incontro, è dispiaciuta per la scelta, in quanto si sente troppo isolata.
Dalla pochezza di righe con cui liquido Jodpur è evidente il mio scarso apprezzamento per questa cittadina che, insieme a Bikaner, non mi è piaciuta granchè, benché riconosca il valore artistico ed estetico dei rispettivi forti. Molto viva, ma troppo traffico, non mi ha impressionato Trascorriamo la cena di capodanno al Kalinga Restaurant, nei pressi della stazione ferroviaria, frequentato da indiani dei ceti abbienti, e qualche turista, visto che è nominato da alcune guide.
Cibo ottimo.
JAISALMER Trascorro la sera di S. Silvestro sul solito bus decrepito e gelido, che mi lascia a Jaisalmer ad un’ora oscena. Il gestore del Green Hotel, a caccia di clienti, mi raccatta e mi conduce alla pensione, concedendomi un paio d’ore di riposo in una camera vuota, sperando ovviamente che io decida di rimanerci per tutto il soggiorno.
Al risveglio, mentre mi sta proponendo una serie di tour nel deserto, arriva un ragazzo canadese, che hanno prelevato alla stazione ferroviaria. Proviene pure lui da Jodhpur. Mi racconta che, non avendo trovato posto, esattamente come me, nelle cuccette di seconda classe, (vengono vendute solo su prenotazione), anziché decidersi sul bus ha voluto provare gli sleepers di terza classe. Mi confessa che comunque la traversata non è stata comoda, perché i finestrini, più simili a feritoie che non a veri e propri finestrini, non avevano i vetri, e faceva un freddo boia. Il proprietario del Green Hotel mi lascia il suo biglietto da visita, e non insiste neppure troppo quando gli comunico la mia intenzione di andarmene. Anzi, quando capisce che sto cercando di raggiungere il forte, mi spiega pure la strada da fare.
Quello che voglio fare, infatti, è cercarmi lassù un letto per la prossima notte.
Quando inizia ad albeggiare, mi incammino. Dopo aver varcato la porta di accesso, una breve salita, che più tardi sarà occupata da schiere di mendicanti, e venditori, mi conduce alla cittadella vera e propria. Dopo aver vagato per qualche minuto, mi dirigo verso la parte est, più che altro perché sono attratta dal calore dei primi raggi del sole, e dalla luce. Per puro caso capito quindi alla Surja Guesthouse, dove hanno parecchie camere libere, al momento. Mi aggiudico quella che sembra la migliore, e la più cara, per la bellezza di 1000 rupie. Poiché sino ad adesso sono andata al risparmio, con la media di 200, senza contare i soldi risparmiati dormendo in autobus, mi concedo questa botta di vita. La stanza è grande, con un letto a baldacchino, il pavimento a scacchi, mobili in legno scuro, finestra-balconcino adornata da soffici cuscini, ed una vista meravigliosa. Non perdo neanche tempo più di tanto a dormire, giusto un pisolino, la città mi sembra così bella che sono impaziente di scoprirla.
Inizio la mia passeggiata alla scoperta della parte di città racchiusa dal forte, nella dorata luce del primo mattino. In giro al momento si vedono, ma è questione di ore, pochissimi visitatori. La maggior parte dei muri è color sabbia, spiccano poi alcune haveli del consueto azzurro. La parte sud del forte è occupata da alcuni tempietti giainisti. Mi fermo a far colazione da Krishna’s Boulangerie, un bar delizioso all’aperto, torte e pasticcini stupendi, come in Europa. Uscita dal forte nella parte di città che si estende ai suoi piedi, mi ritrovo immersa nella solita bolgia, vie strette, auto strombazzanti, botteghe e varia umanità intenta nei più disparati mestieri. Con mia grande sorpresa, scorgo cammelli utilizzati come traino di carri, al posto dei cavalli.
Mi divido fra haveli dall’eleganza senza tempo, e negozi di souvenirs. C’è il mondo da comprare; Jaisalmer è rinomata per i suoi tessuti colorati, con applicazioni a specchietti. Sono inoltre esposti, appesi ai muri, magnifici arazzi lavorati in cuoio, e ricamati con fili a colori vivaci.
Sono veramente sbalordita da tanta abbondanza. Le haveli sono prese d’assalto da folle di visitatori, la stessa densità umana del palazzo reale di Udaipur, si fa fatica a girare, bisogna attendere per salire o scendere le ripide gradinate. Il loro color ocra si staglia netto contro il blu brillante del cielo.
Jaisalmer è affascinantissima, come Udaipur, ma un po’ meno elegante, con un ascendente più zingaro. Se, a Udaipur, tutto il bello è come concentrato intorno al lago, qui invece è dilatato, si apre verso il deserto, la città rapisce dal Thar i colori, restituendo una bellezza selvaggia ed intrigante.
Recuperata Chloé il 2 gennaio, la coinvolgo in un giro di shopping. Il giorno precedente già avevo buttato un’occhiata qua e là, tanto per farmi un’idea sui prezzi.
Ci fermiamo in un negozio che si trova, costeggiando le mura della cittadella, sulla strada che dai templi giainisti arriva alla Surja Guesthouse. La nostra attenzione è attirata da magnifici copriletto, articoli notoriamente comodi da trasportare… I commessi sembrano intuire che c’è trippa per gatti, e tirano fuori così tanta roba che proviamo persino una sensazione di confusione. Dopo qualche tentennamento, mi decido per un modello in cotone, essenzialmente color zafferano, con ornamenti, ricami, specchietti nei toni del bordò, verde e blu. Lo pago 40 Euro trattenendomi le rupie per la sopravvivenza degli ultimi 3 giorni, nonché per lo shopping diciamo “di minutaglia”, o “dell’ultim’ora”. Mi infagottano l’acquisto in maniera compatta, avvolto in carta da pacchi e protetto da strati di sacchetti da immondizia neri. Sarà comunque abbastanza scomodo da trascinarsi in giro, ed , essendo di cotone, pesa. Chloé ha gusti meno freak e ne compra uno pure lei, concepito con lo stesso principio del patchwork, ma di seta color crema. E’ raffinatissimo. Lo paga 6000 rupie. Il suo pacchetto è più piccolo del mio, e pesa molto meno. A questo punto, esaurito l’argomento “biancheria per la casa”, ci vengono mostrati generi vari di vestiario femminili ricavati dai sari dimessi dalle signore dei ceti ricchi. Si tratta di seta morbida, e colori e ricami magnifici. Mi mettono in mano una blusa di un blu particolare, tipo pavone, con piccoli disegnini geometrici sul viola. La sfumatura cambia secondo il riflesso della luce. A me il blu piace, in tutte le gradazioni. Chloé commette l’errore di dire ad alta voce che il colore si intona a quello dei miei occhi. Il commesso purtroppo ha udito, e a questo punto non scende di una rupia. Ne chiede 400. Io insisto per ottenere lo sconto, lui inventa un sacco di scuse. Penso che non siano tante, per un capo così spettacolare, ma poi comincio a farmi le solite paranoie, sopraffatta dai sensi di colpa, come tutte le volte che faccio shopping “uffa, sono una spendacciona, ma poi a casa me la metto, cosa ne faccio, ho già un sacco di vestiti”.. Insomma, le donne sanno cosa intendo.. Ebbene, seppure a malincuore, rinuncio. Il commesso mi lascia andare. Per orgoglio, non cambio idea. Sono passati due anni, ed ancora ci penso e rimpiango di non averla presa. Tutte le volte che nei mercati vedo qualcuno che vende stoffe indiane mi ci fiondo sperando di trovare qualcosa che ci assomigli, ogni volta mi allontano triste e con le pive nel sacco. Corri e fottitene dell’orgoglio, canta Vasco Rossi. Non ho più visto un colore così, se non nelle piume dei pavoni veri.
Verso mezzogiorno, tramite la pensione di Chloé, prenotiamo, per il pomeriggio, un’escursione ai limiti del deserto del Thar, con una sosta ad alcuni templi, al costo di 500 rupie cadauna.
L’agenzia a cui si appoggiano è la Trotters.
Trotters, near Fort First Gate, Gopa Chowk www.Trotterscamelsafarijailsamer.Com Vista l’affluenza turistica di Jaisalmer in questo periodo, molta gente, nei vari forum sul web, si lamenta del fatto che le escursioni nel deserto, per cui Jaisalmer va famosa, perdano molto del loro fascino a causa appunto della troppa concentrazione di visitatori. Ovviamente le esperienze migliori da questo punto di vista sono quelle relative ad un safari in cammello che durano più giorni, e comprendono alcune notti trascorse in tende, che consentono di assaporare la pace assoluta. Putroppo la maggior parte dei turisti non ha tempo a sufficienza e deve accontentarsi di un paio di ore, ritrovandosi in molti casi nei soliti posti conosciuti da tutti e circondata da decine di altre jeep e una cagnara allucinante. Non so se io e Chloé siamo state particolarmente fortunate, o davvero la nostra guida abbia recepito la nostra richiesta di goderci un tramonto nel più assoluto silenzio, fatto sta che ci ha accontentate. Assolutamente non saprei trascrivere il nome della località in cui ci ha condotto. Fatto sta che, scese dalla jeep, e percorso solo pochi minuti a piedi ci siamo trovate davvero “nel deserto”, con il Pakistan a pochi kilometri di distanza. Il nostro accompagnatore, più che una guida è un autista, ci dice che questa zona è molto sensibile, in quanto è sulla rotta dei traffici di droga. La polizia, nei pattugliamenti alla ricerca dei contrabbandieri, si serve di cammelli, e non dei veicoli fuoristrada.
Precedentemente, nelle prime ore del pomeriggio, eravamo state in visita ai templi giainisti di Lodhruva.
Dopo l’ultima cena al ristorante Little Tibet, accanto alla mia pensione, io e Chloé definitivamente ci accomiatiamo. Non avremo più modo di incrociare i nostri vagabondaggi, io sono praticamente agli sgoccioli, lei è diretta verso Varanasi.
Con il mio ingombrante copriletto legato in modo approssimativo allo zaino, in risciò guadagno la stazione dei bus, per l’ultima sgangherata corsa notturna verso Bikaner. Con grande fortuna, infatti, mentre ero ancora a Udaipur sono riuscita a trovare per l’indomani una cuccetta 3A sull’espresso Bikaner-Delhi delle 17.20, al prezzo di 786 rupie.
BIKANER Giunta a Bikaner alle prime luci dell’alba, per prima cosa raggiungo la stazione ferroviaria, per lasciare in custodia il bagaglio, nonché il copriletto, sino alla partenza del mio treno nel pomeriggio. Dopo una veloce colazione, il solite thè dolce al latte acquistato da un ambulante, chiedo informazioni per raggiungere Deshnok. Un risciò prima si offre di accompagnarmici, chiedendomi una cifra astronomica per un’andata/ritorno comprensivo di attesa al tempio, dopodiché mi lascia praticamente in mezzo ad una strada, da sola, alla periferia della città dicendomi di aspettare il passaggio dell’autobus di linea.
Questo scenario è cosa comune per tutti coloro che scelgono di viaggiare nel mondo in modo assolutamente autonomo e, nonostante gli anni di rodaggio, è l’unico aspetto che ancora mi lascia sempre un po’ inquieta ed impaurita.
A parte il fatto che sono da sola, e quindi, anche se non eccessivo, c’è sempre qualche timore per la mia incolumità fisica, in questi frangenti mi ritrovo sempre assillata dai dubbi, della serie, sono nel posto giusto, passerà davvero l’autobus giusto, che mi porterà nel posto dove voglio andare, quanto devo aspettare, oddio, non c’è nessuno a cui possa chiedere informazioni, nessuno parla inglese, nessuno mi capisce, ce la farò ad arrivare, ce la farò a rientrare per tempo.
Sono in genere paranoie che durano attimi, ma pur sempre bisogna farci i conti… Alla fine l’autobus arriva. Le porte sono rotte, alcune finestre anche, per cui fa un freddo boia, dato che è spuntato da poco il sole. Raggiunto Deshnok verso le 8, il bus mi lascia ad un bivio, sulla strada principale. Ci sono alcuni chioschetti pieni di gente ai lati della strada. I risciò-wallah mi vengono incontro come falchi, ma alcuni passanti mi rassicurano che il tempio di Karni Mata è raggiungibile a piedi in meno di un kilometro, e mi indicano la direzione da seguire.
Karni Mata è l’unica occasione in cui avrei inteso incontrare topi, spinta più che altro dalla curiosità.
Trattandosi di luogo sacro, mi sembra comunque assolutamente fuori luogo percorrerlo a piedi nudi, viste le frequentazioni, per cui già a casa mi ero premunita portandomi dietro un paio di calze vecchie, da usare quest’ultima volta e poi gettare via.
Quando finalmente giungo all’ingresso accanto al bel portone d’argento, rimango però un attimino perplessa. Già da lontano riesco a scorgere qualche ratto, ma ci sono anche numerosi piccioni. Gli escrementi di entrambi, sul pavimento, facilmente evitabili facendo solo un po’ di attenzione, vengono adesso dispersi ovunque, perché ci sono degli addetti alle pulizie che, anziché toglierli con uno straccio intriso di acqua e detersivo, come deciderebbe qualsiasi persona sana di mente, non fanno altro che diluirli e spargerli ulteriormente con secchiate d’acqua gettate a casaccio sul pavimento, senza nessun riguardo anche per le persone che stanno deambulando nei paraggi, della serie “scansati, o sono cavoli tuoi”. Terrorizzata da questa eventualità, ricordo di avere da qualche parte alcuni sacchetti di plastica, che mi avvolgo ai piedi, sperando di non essere contaminata dalla poltiglia.
Dopodiché, con molta circospezione, varco la soglia. Ci sono molti meno topi di quello che mi aspettavo, però corrono rapidi in ogni direzione, e mi fanno uno schifo incommensurabile, anche perché ho notato che hanno il corpo e la coda pieni di croste sanguinolente. Ovunque ci sono ciotoline piene di cibo e latte per sfamarli. Noto con orrore che alcuni fedeli si cospargono le dita delle mani di una melassa dolce, poi si prostrano per terra, distendendo le braccia, affinché i ratti, che sono la reincarnazione di una qualche divinità, vadano a leccarle, portando quindi fortuna, successo, salute e prosperità. Io sono tesa come la pelle di un tamburo, vorrei avere occhi da tutte le parti, ed ho persino paura a fare le foto, temendo che quell’unico momento di concentrazione rivolta ad altro, questo unico momento di debolezza mi sia fatale, e queste creature mi tocchino. Per fortuna, mi accorgo che non sono l’unica a provare isteria nei loro confronti.
Trovato un angolino relativamente defilato rispetto alle piste percorse dai ratti, passo qualche minuto più rilassato ad osservare la scena con un certo distacco, dopodiché mi allontano e mi metto alla ricerca di un bus per tornare a Bikaner.
Il resto della mattinata è dedicato alla visita della fortezza di Junagarh, dove mi impressionano particolarmente una piccola corte, con torri ed arcate rosa, che si specchiano in uno stagno artificiale, ed alcune stanze riccamente decorate, di cui una in uno stupendo colore turchese.
Le poche ore che mancano alla partenza le trascorro nei dintorni nella trafficata via accanto alla stazione ferroviaria, che ospita molti alberghetti e ristoranti economici. Consumo il mio pranzo in un dhaba fra gli sguardi incuriositi degli altri clienti, tutti indiani barbuti e inturbantati.
Per la cena mi sono comprata alcuni samosa ed altri spuntini da un ambulante.
La stazione è discretamente animata da folle parcheggiate sui binari e da ruminanti alla eterna ricerca di cibo.
Appena salita sulla mia carrozza, osservo che fra gli altri occupanti c’è una discreta percentuale di stranieri.
Mi sistemo nella mia cuccetta, scelgo sempre quelle superiori, perché assicurano una privacy maggiore. Appena dopo la partenza, gli inservienti distribuiscono lenzuola, coperte e cuscini morbidi, che odorano di pulito; rassicurata da tutto ciò, dopo innumerevoli notti interminabili ad occhi aperti su scomodissimi autobus, cullata dal rollio delle rotaie dopo pochi minuti piombo in un sonno pesantissimo.
DELHI Un signore americano di circa sessant’anni mi scuote gentilmente per svegliarmi, alle 5.30, alla stazione di Delhi Rohilla. Che non ho alcuna idea di dove sia. Ho dormito per 12 ore di fila, senza neppure mangiare, e sono ancora intontita. L’americano e sua moglie, che si sono stabiliti qui, rientrando a casa loro, mi danno un passaggio sino alla stazione di New Delhi, ove mi metto in fila per lasciare i miei averi, copriletto sempre incluso, al deposito bagagli. Ancora topi, sempre loro, zampettano defilati lungo i muri, e fra gli ambulanti, gli scatoloni, le valigie, i passeggeri.
Il mio piano per la giornata è visitare qualcosa della capitale, cercando quanto più possibile di evitare i risciò ed i taxisti. Poiché la città è dotata di metropolitana, non mi sembra un’impresa così difficile.
Dalla stazione, via sottoterra, mi dirigo alla fermata di Chandni Chowk, l’arteria che collega il Red Fort alla Fatehpuri Majid. Sono lontana soltanto alcuni isolati dalla stazione ferroviaria di Old Delhi, e sono circa le 7.30 del mattino. Quando riemergo sulla superficie, rimango molto sorpresa. Siccome siamo in pieno centro, e scorgo di fronte a me, neanche troppo lontano, il Lahore Gate, dalla cui soglia il premier parla alla nazione nel giorno dell’indipendenza, pensavo di trovare un certo decoro. Invece, la scena che mi ritrovo è la stessa del 21 dicembre notte, con la differenza che tutti coloro che dormivano sui marciapiedi si stanno ora lentamente svegliando, e la luce del primo mattino mi svela lo sfacelo degli edifici attorno, che precedentemente non avevo notato per via del buio. Una sporcizia, una rovina, un senso di abbandono, di decadenza, di sfascio che se non ce l’avessi davanti agli occhi non sarei neppure in grado di concepirlo. Avevo già avuto modo di vedere, in alcuni film, da ultimo “Holy Smoke” scene ambientate in questa strada, che la guida definisce “il cuore pulsante della vecchia Delhi”, ma ovviamente al cinema è tutto diverso, tutto filtrato. Forse, se fosse più tardi, il traffico, la frenesia, la merce esposta nella botteghe, e la folla mi distrarrebbero un attimo, ma in questo deserto la povertà degradata mi appare purtroppo nella sua più spaventosa interezza. Un camion appartenente ad una organizzazione umanitaria distribuisce cibarie calde, ed una fila lunghissima di varia umanità è in attesa del proprio turno. Sono nella zona del Kinari Bazar, e mi infilo negli strettissimi vicoli per curiosare, ma il mercato è ancora chiuso. Mi compro alcuni dolcetti da un pasticcere già aperto, ma, passando accanto alla fila dei senza tetto che aspetta il suo pasto di carità, mi vergogno a mangiarglieli in faccia, per cui me li ripongo nello zainetto. La biglietteria del forte apre alle 8, quindi devo attendere almeno ancora un quarto d’ora, al freddo. Finalmente, riesco ad entrare, e a sottrarmi a quella miseria. Nota frivola: i negozi di souvenir presenti nella galleria appena dopo il Lahore Gate, l’ingresso principale, vende articoli molto carini a prezzi ragionevoli. Ad esempio, le stesse borsette con perline e specchietti che in un negozio a Udaipur costavano 400 rupie, sono qui esposte a 150 rupie. Ammetto di visitare il sito di malavoglia, e con una certa fretta, un attacco improvviso di dissenteria peggiora la situazione. Per fortuna i bagni pubblici puliti nel complesso non mancano. Potrebbe essere colpa del freddo, ma non escludo di essere stata impressionata da quanto visto in Chandni Chowk. Tutto ciò mi fa male fisicamente, ma mi fa anche bene. A vedere in televisione certe scene di povertà non ti rendi conto esattamente delle dimensioni del problema, se ci sbatti il naso contro, la prospettiva cambia.
Viaggiare serve anche a questo: una persona torna a casa con la consapevolezza di aver avuto una immensa fortuna ad essere nata, per puro caso, nell’Unione Europea, e può decidere di fare qualcosa.
Nei vari edifici all’interno del forte ci sono delle esposizioni visitabili, ma aprono molto più tardi, verso le 10, e preferisco non attendere tanto.
Ritornata fuori, e dopo aver dato un’occhiata frettolosa al tempio giainista situato di fronte, mi prendo un bus sino alla fermata del metrò. La mia prossima destinazione è Connaught Place, a New Delhi. Nonostante sia a sole due fermate da Chandni Chowk, qui si respira tutta un’altra aria. Nei vari tunnel sotterranei di connessione ci sono anche negozi e caffè di tipo occidentale, le ragazze che li frequentano indossano jeans anziche shalwar cameez, ed un cappuccino costa quanto un pasto in un dhaba. Connaught Place è una enorme rotatoria, cuore pulsante di New Delhi, questa volta. In zona ci sono alberghi di lusso, banche, e centri commerciali, che non mi interessano assolutamente, ma anche alcuni mercati e bazar, nonché alcuni empori statali a prezzi fissi.
Il Janpath Market, mercato tibetano, è una barzelletta rispetto a quanto si può trovare in Ladakh.
Mille volte meglio l’abbigliamento stile hippy a Pushkar, per non parlare dell’artigianato tipico che si trova nel Rajasthan. Siccome ho notato che molti miei colleghi indiani li usano come portafortuna, dopo averli cercati con una certa insistenza, compro una decina di portachiavi con l’effigie paffuta di Ganesh (il cosiddetto shopping di minutaglia a cui accennavo pagine fa). Anche il Palika Bazar, che si trova nei sotterranei sotto Connaught Circle, non è niente di che. E’ composto da tante bottegucce, contraddistinte ciascuna da un numero. Si trova soprattutto abbigliamento taroccato, tipo mercati di Bangkok. Personalmente, non aspiro a farmi vedere in giro con la scritta Rich marcata a lettere cubitali sulle chiappe. Per quel che ne so, non è che le riviste di moda siano il mio forte, le falsificazioni sono approssimative, e di modelli che in realtà non esistono. Soltanto qualche negozietto che vende essenze e profumi si salva dalla mediocrità.
Per quanto riguarda gli empori statali: visto uno, visti tutti. Hanno in genere delle belle cose, ma sono molto cari. Sono in genere frequentati dai turisti dei viaggi organizzati. Ne giro tre o quattro, praticamente sequestrata da alcuni individui che, spacciatisi per studenti e attaccato bottone con fare amichevole a Janpath con la scusa di voler far pratica di inglese, mi si mettono alle calcagna come mastini. Liquidato uno, fuori dal territorio di sua competenza, ne arriva subito un altro.. Poiché mi offrono il risciò gratis, accetto di seguirli, e li congedo dopo una scorribanda veloce all’interno. Dopo un po’, resami conto del poco che la situazione ha da offrire, mi stufo del giochetto e ritorno a Connaught Place. Sosto per alcuni minuti in una farmacia, perfetta fonte di souvenirs. Si possono infatti acquistare prodotti ayurvedici a prezzi molto contenuti, rispetto all’Italia. Sono un ottimo regalo, così come gli articoli della linea Himalaya, che qui da noi costano una fortuna. Per pochissime rupie mi porto a casa una boccetta di una mistura di glicerina ed aloe, che si rivelerà utilissima per lenire la pelle arrossata dal sole.
Riprendo il metrò e torno a New Delhi, per vedere le botteghe di Paharganj, dove nuovamente si possono trovare numerosi souvenirs. E’ comodo comprarli qui, alla fine del viaggio, per non viaggiare appesantiti, ma la qualità è migliore a Udaipur e Jaisalmer.
Scelgo delle infradito in cuoio colorate per me, e delle collane per delle amiche.
La zona è molto popolata da turisti del genere “zaino in spalla”. Ci sono quindi numerose pensioni e ristorantini economici, alcuni dei quali dotati di ultimi piani terrazzati. Guadagno uno di questi per bermi qualcosa di caldo osservando il tramonto. Dopo un ultimo giro ai negozi, ritorno alla stazione per ritirare il mio bagaglio, e consumare l’ultima cena in un dhaba. Verso le 22, in taxi, questa volta, mi faccio accompagnare in aeroporto.
Ovviamente, ritornerò, attraverso la terza porta.