Tilos & Lipsi 2003

Ad agosto del 2003 sono tornato per la quarta volta in Grecia. L’ultima era stata a Karpathos in viaggio di nozze (vai a vedere, sempre qui, “Karpathos 2000”). Stavolta eravamo in cinque e siamo partiti per Kos con l’idea di usarla come base di partenza per le isole limitrofe. Nessuna prenotazione (aereo a parte), nessun tour operator. In...
Scritto da: Gouranga
tilos & lipsi 2003
Partenza il: 02/08/2003
Ritorno il: 16/08/2003
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
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Ad agosto del 2003 sono tornato per la quarta volta in Grecia. L’ultima era stata a Karpathos in viaggio di nozze (vai a vedere, sempre qui, “Karpathos 2000”). Stavolta eravamo in cinque e siamo partiti per Kos con l’idea di usarla come base di partenza per le isole limitrofe. Nessuna prenotazione (aereo a parte), nessun tour operator. In due settimane abbiamo toccato Kos, Tilos, Nyssiros, Patmos e Lipsi, utilizzando tutti i mezzi di trasporto possibili ma muovendoci spesso e volentieri a piedi alla ricerca di quei posti che si trovano, per l’appunto, solo muovendosi a piedi. L’idea era quella di fare più o meno una settimana nelle isole a sud di Kos (Tilos e Nyssiros) ed una in quelle a nord (Patmos e Lipsi). La cosa è tutto sommato riuscita ed i fatti sono andati più o meno come quivi descritto.

2 agosto Partiamo da Malpensa con volo Macedonian Airlines (paura, eh?) che ci caracolla lungo la spina dorsale d’Italia ed in poco più di un’ora e mezza ci deposita a Kos. L’aeronave è stipata di adolescenti e postadolescenti impazienti di scaraventarsi sulle playas e sui dancing dell’isola: è un tripudio d’ombelichi, piercings, tattoos e griffe, ma il tipo che indossa una collana di enormi perloni di plastica è il numero uno. Noi, travagliatori della vacanza difficile ed appiedata, invece sbarchiamo a Kos per dare inizio al nostro peregrinare un poco ulissesco. Sono le dieci di sera. Due tassisti Schumacher ci sparpagliano per il porto di Kos: io, ficcato nella seconda vettura con una coppia di altri italiani, vago per qualche tempo come un’anima in pena prima di ritrovare gli altri. Una volta ricongiunti ci mettiamo alla ricerca di un posto per la notte. Lo troviamo in una pensioncina periferica e tranquilla. Solo verso la mezzanotte, quando ci sediamo finalmente al tavolo di un ristorante, mi sento in vacanza, improvvisamente travolto da gyros e souvlaki. Il proprietario ci dice: “Italiani? Bella Italia, italiani piace il mio fish”.

3 agosto Il risveglio alla pensione familiare Olympia risente di una nottata piena dei vroom e dei vraaps dei motorizzati nottambuli di Kos. Abbiamo intenzione di partire per Tilos ma i collegamenti ci sono solo un paio di volte a settimana. Dovendo aspettare fino all’indomani mattina pertanto ci attrezziamo per fare un giretto dell’isola ed all’uopo ci motorizziamo con una Matiz spacciataci dall’imbonitore della Safari Car Rental assieme a sperticate lodi dell’industria coreana dell’auto. Per tutta l’isola sono sparsi un mucchio di insediamenti militari da repubblica delle banane: grotteschi bunker, reticolati improponibili a difendere il nulla e motonavi da guerra che incoraggiano la vicinissima Turchia nei suoi eventuali propositi d’invasione. Di contorno ci sono anche un mucchio di ruderi dell’esercito, come vecchi camion abbandonati nella macchia, mentre qua e là soldati sbragati e fancazzisti tutto fanno tranne difendere la sicurezza del suolo patrio. Partiamo comunque sulla litoranea nord verso Tingaki e Mastichari: turismo non eccessivo ma disordinato e spiagge tra le peggio dell’Egeo, come testimoniato da Trolos Beach, ribattezzata Trogolos Beach visto il quantitativo di rifiuti. Nota di colore essenziale: Kos è piena di mucche. Ovunque, sparse, prevalentemente di non bell’aspetto e di razza indefinibile, le bestie punteggiano la macchia brucando quel che possono tra le erbe spinose e secche. Continuiamo verso ovest senza trovare alcun posto che suggerisca o meriti una sosta. Finiamo sul litorale sud dell’isola su un bello, per quanto piuttosto sporco, spiaggione lungo e deserto. Bordeggiamo una lottizzazione di schiere postmodern colorate in tinte pastello; la vernice sparsa tutto attorno agli edifici fa supporre a qualcuno che sia stata colorata con i Canadair antincendio. Kos, la Kos dei paesaggi, non quella dei disco bar, è probabilmente tutta qui: abbastanza pianeggiante (ergo sputtanata da insediamenti disordinati), priva di qualsivoglia gadget da cartolina, con una grande superstrada che la taglia in due. Gli scandinavi onnipresenti paiono incuranti di queste implicazioni estetiche e proseguono i loro riti di culto alle divinità solari. La prima sera tutta greca, resa la Matiz, ci conduce ad una sana taverna prospiciente una bella piazzetta deserta e malincolica. Verso le sette, quando il sole taglia di sguincio e colora tutto di rouge, ogni residua velleità artistica è spenta da un bancale di gyros spalleggiato da diverse birre Mythos che assonna la plebe, oberata da cotanta possanza alimentare. Per provare a smaltire ci riversiamo su un lungoporto pregno di razze ariane. Qui comitive di svedesi iperproteici ed etilicamente già allo sbando vagano tutti uguali in comitive da colonia dell’oratorio in visita a Sodoma e Gomorra. La bar street è quello che significa: una distesa d’alcool blandito dietro forme più gentili ed urbane dentro la quale carni arrossate dal sole rotolano e ballonzolano. La trasgressione ha tuttavia la faccia bonaria di norvegesoni grossi come alberi che per un po’ vociano come capodogli spiaggiati, ma poi s’addormentano sereni sopra giacigli di fortuna senza ansie di peccato e d’espiazione. Nei numerosi bar affacciati sul molo bande d’inglesi sbronzi si guardano via satellite le amichevoli estive del Chelsea o del Manchester United ululando come coyotes.

4 agosto Sveglia alle 6.50 per riuscire ad intercettare la motonave Nissos Kalymnos diretta a Tilos. Con armi e bagagli ci buttiamo sulla banchina del porto dove, forse, pare, dicono (in Grecia è sempre così) attraccherà la nostra imbarcazione. Miracolosamente la Nissos Kalymnos arriva davvero ed alle 8.40, con soli dieci minuti di ritardo, partiamo. Solcando con piglio impavido le spume il nostro ardito vascello ci conduce sicuro sull’isola di Tilo(s), un tempo periferia estrema dell’Italico Impero. Sbarchiamo alle 12.30 sotto un sole feroce a Livadia, discreto porticciolo assonnato e bianco; dietro ad esso l’isola, erta e glabra, è di una bellezza austera e riarsa. Ripartita la Nissos Kalymnos ed il Sea Star, il locale aliscafo, il porto piomba in un silenzio meridiano immobile. Dalla taverna del ristorante Blue Sky, gestito da un napoletano che ci imbonisce con esagerata prosopopea partenopea, osserviamo la lastra turchese del mare fattasi immobile. Troviamo alloggio da Stefanakis, in una bella stanzetta con balcone affacciato proprio sul piccolissimo molo. Solo verso sera si alza la brezza ed attorno al porto comincia un’animazione leggera e placida. La stanza ci viene presentata da tre signore/ine di età diverse, esponenti del clan familiare: la conversazione, condotta prevalentemente a gesti, dà alla fine risultati proficui, tuttavia non riesco a spiegare all’anziana Stefanakis che il greco non lo capisco neanche se lo parla a voce alta. A Tilos fa caldo. Anche a tarda sera resiste una cappa d’umidità fastidiosa. Roba da ridere per noi, abitatori della Pianura Padana profonda, però è la prima volta che sperimento l’afa in Grecia.

5 agosto Muri a secco percorsi e scavalcati dalle capre spezzettano a mosaico la piccola piana della baia di Lethra, un minuscolo giardino povero di ulivi inselvatichiti, tamerici e chissà cos’altro. Attorno l’isola si fa deserta di sterpi e radi alberi torti su sponde ripide che ci chiudono la vista. Il letto secco di un ruscello conduce là in alto, verso la spaccatura tra i monti, mentre dalla parte opposta la baia è come sigillata dallo scoglio di Prasoulia. Dietro, appena disegnata, flebile, azzurrina, la costa turca.

La nostra vacanza da camminatori comincia con una puntata alla solitaria spiaggia di Lethra, ad un’oretta di cammino da Livadia. La baia si raggiunge per un sentiero rosso rugginoso (qui la terra è ferrosa, del colore dei campi da tennis) che sorvola le balze spinose ed il turchese-blu del mare. A Lethra ci sono nell’ordine: capre, terra bruna, un muro a secco, una breccia nel muro, il mare. A pochi metri dalla riva, tra i sassi, sul fondo, il guizzare multicolore del pesce-pappagallo ( o pesce-pagliaccio, a seconda dell’etimologia). L’ho visto! E scusate se è poco. Dalla rada macchia, nell’ora meridiana, cicale da sei etti rompono il polveroso e torrido silenzio della spiaggia di Lethra. Il lungomare di Kos è distante cento anni luce.

6 agosto Quest’oggi, prevedendo di spingerci più lontano, ci motorizziamo affittando da un esule britannico tre scooters (scuters?) a dir poco malfunzionanti. Con questi gioielli ci lanciamo sulle strade (?) dell’isola. Aggrappato dietro, nella innaturale posizione del koala cucciolo, osservo srotolarsi le petrosità di Tilos e le sue lontananze azzurre. In breve raggiungiamo l’estremità ovest dell’isola: a Plaka c’è una sorta di campeggio libero stile campo profughi nella rada boscaglia prospiciente il mare. Dopotutto non pare un posto così proponibile, pertanto travalichiamo la penisola che chiude la baia e ci ritroviamo sopra scogliere che affacciano su eccezionali turchesità ben più consone al nostro lignaggio nonché allineate col nostro fine senso estetico. La traversata solca distese d’origano fragrante. A mezzogiorno approdiamo a Megalo Horio, comatoso secondo centro dell’isola, dove prendiamo desco ad una taverna di cinquant’anni fa per l’esorbitante somma di € 5,5 a testa. Al pomeriggio proseguiamo verso l’isolato monastero di Agios Pentelèimon. L’eremo di San Pantaleone è un’oasi mistica e verde in un mare di spine e sassi posta al termine di una strada con baratri alpestri che però terminano laggiù nel pélagos. Il monastero è una piccola fortezza che racchiude una cappella bizantina straboccante di incensi, icone e, naturalmente, dell’idea di Dio. Più in alto una terrazza sbuca dal folto dei platani e degli eucalipti per regalare la vista del mare indistintamente a monaci e miscredenti. Cicale in numero indescrivibile friniscono come un’unica esplosione nell’ombra fresca d’acqua, mentre un pavone saltella sopra il lastricato di pietra. Il guardiano invece decide di scacciarci dalle panche del giardino perché renitenti alle consumazioni nell’attiguo bar, peraltro deserto: “Do you want something? This is a restaurant, for us is business”. La sua grettezza di bottegaio appesta il clima da iconostasi e rompe il sottile equilibrio tra Natura ed Ortodossia. Quanto basta per rituffarci a picco verso la piana di Eristos. Anche questa baia è recetto di campeggiatori sbracati e casinisti, quindi, abbandonati i mezzi, proseguiamo a piedi verso la vicina baia di Agios Petros. Incontriamo San Pietro al termine del solito deserto di rovi, capre, cardi ed origano, verso la fine della giornata e sotto il calare del silenzio. Sulla spiaggia solitaria nemmeno l’eco d’un cinema all’aperto, né, tantomeno, against the sea le Grand Hotel Sea Gull Magique, come cantava Battiato anni fa.

7 agosto Seconda escursione a piedi verso il villaggio abbandonato di Gera, all’estremità orientale dell’isola, un paio d’ore di cammino da Livadia. Fuori dal paese l’ultimo avamposto della civiltà è costituito da una chiesetta e dal retrostante recinto di maiali che diverranno presto gyros. Poi il nulla. Il sentiero corre in alto a mezza costa e lascia intravedere decine di incredibili cale di acque trasparenti ed irraggiungibili se non dal mare. La giornata è caldissima ed arriviamo a Gera verso mezzogiorno. Il villaggio è un agglomerato di cubi di pietra grigia sul fianco della montagna. E’ francamente difficile capire la differenza tra le case e gli ovili, ma tutto è rimasto là come una volta (Gera è disabitata dagli anni Cinquanta). Prima di partire sul sito . Avevo letto la seguente descrizione sull’itinerario di Gera: “Il sentiero corre sopra il mare, non presenta alcuna difficoltà. Il tratto di costa offre qualche baia isolata, raggiungibile deviando verso il mare per sentiero. Conviene però evitare di stancarsi con discese e salite inutili e puntare su Despoti Nero. Una recinzione all’ombra di un grande albero indica la sorgente, usata per riempire l’abbeveratoio. La costa in questo tratto è pianeggiante e offre la possibilità di trovare una caletta per il bagno, risalendo di poco verso Livadia. Vista Despoti Nero, si risale il sentiero e si continua in direzione nord est per giungere a Gera. Assolutamente da non perdere il villaggio fantasma con le sue case diroccate”. Ecco, noi la deviazione per Despoti Nero ce la siamo persa, quindi addio sorgente. A monte di Gera troviamo invece una fonte all’ombra di una palma: dal tubo esce un esilissimo rivolo d’acqua dal sapore limaccioso, ma è meglio di niente. La spiaggia sotto il paese invece sarebbe molto bella, purtroppo un gioco di venti e correnti spinge in questa baia tutti i rifiuti portati dal mare che si accumulano sul bagnasciuga: bottiglie, taniche, scarpe, ciabatte, flaconi, l’altra faccia del prodotto interno lordo. Osserviamo che il sindaco di Tilos, oltre che andare a mangiare al ristorante napoletano, potrebbe occuparsi della cura di questo posto. Su questa spiaggia resta il mistero più grande della vacanza: d’un tratto, a poche decine di metri da noi, compare una ragazza che prende il sole nuda. Da dove è arrivata? Dal mare no di certo. Ha fatto due ore di sentiero aculeato con le infradito? Allora subentra una seconda ipotesi: è reale o solo una proiezione dell’inconscio? Non c’è tempo di chiederglielo visto che scompare repentinamente. Reale o meno, è l’unica persona vista da quando abbiamo lasciato Livadia. La solitudine di questo posto è a tratti lacerante.

8 agosto Quella che doveva essere una giornata interlocutoria si è trasformata nell’ora delle decisioni irrevocabili. Dopo il consueto risveglio afoso, ciondolando qua e là alla ricerca della colazione, ci siamo interessati alla bacheca con gli orari del traghettame in partenza. L’isola è piacevole, ma l’idea di restare qui ancora due giorni francamente atterrisce i più ed i collegamenti sono tutt’altro che frequenti: Tilos è servita molto meglio da Rodi, andare a Kos è più problematico. Con un blitz si decide poi definitivamente di lasciare l’isola oggi stesso alle 14.30 con il catamarano Sea Star, destinazione Nyssiros. Qui dovremmo trovare un ferry per Kos alle 18. Mentre lasciamo Tilos penso a cosa mi è rimasto dell’isola: i sentieri a picco sul mare splendidamente blu, le macchie d’origano fiorito, la quieta desolazione di Gera, con i suoi fichi e la sua fonte sotto la palma, le capre, i piatti di “zia” Sofias (il migliore ristorante di Tilos), San Pantaleone, Lethra, gli anziani avventori del kafenion Omonia la sera. Non siamo andati in alcuni posti che avevo progettato di visitare (Mikro Horio, il Kastro, le spiagge della costa sud) ma del resto va bene così. Tutto il resto, come si dice in queste circostanze, fa volume. Il “catamaran” (aliscafo, insomma) Sea Star è un motoscafone cafone che beccheggia spruzzado sul pelo dell’Egeo depositando infine torme di turisti maldisposti di stomaco. Così si arriva a Nyssiros, sotto l’ombra ipotetica e mai verificata del vulcano. Il porto è luogo sommamente abietto e non accoglie amorevolmente, ma dopo, trovata la via tra i vicoli colorati, Mandraki, la città vecchia, si rivela una fonte di meraviglie. Volentieri ci perdiamo tra le porte blu, le pietre, i mosaici di ciottoli bianchi e neri, gli imprevedibili squarci verso il mare, tra fichi, ficus, limoni, melograni e frammenti di esistenze antiche. Poco turismo: il borgo, apparentemente, vive di vita propria con i suoi vecchi di mille anni ed i piccoli kafenion nascosti in spigoli improbabili che suggeriscono intimi e preziosi ritiri all’ombra di ouzo e vino bianco. Visitiamo Mandraki a turno: qualcuno rimane sempre sul molo a custodire la catasta di zaini pesanti. Una rivelazione, purtroppo abbiamo solo un paio d’ore. Il traghetto Diagoras giunge, enorme, e ci imbarchiamo. In vista di Kos, al tramonto, mentre la città si prepara per la sera, veniamo a sapere che il nostro barcone prosegue per Patmos. Ci chiediamo quindi il perché di un nuovo ed inutile scalo nella chiassosa Kos e con un colpo d’ala si decide di tirare dritto. Dovremmo così arrivare a Patmos verso mezzanotte. Lasciando Kos l’imbrunire è splendido e dorato e viene celebrato stappando una bottiglia, “fa un po’ freddo” il pretesto ufficiale. La città di Kalymnos appare quasi fiabesca nella notte colma di lumi, con il suo monastero che sembra appeso in cielo come una lanterna invisibile. Sembra una città colorata ed accogliente nelle tenebre cartavetrate dalle luci a specchio sulla baia; sembra, dico, poi magari è il solito caotico agglomerato di cubi di cemento bianchi con i ferri arrugginiti che spuntano come capelli. Quando ci mettiamo in rotta per Leros siamo già in un ritardo pazzesco. Leros, ex colonia penale, ex confino di prigionieri politici, ex manicomio… un bel posticino… Stiamo lassù, sull’attico del Diagoras, sorta di caffè all’aperto per viandanti allucinati e forzosi, mentre, lentamente, il sonno e la fatica stroncano illusioni, speranze e poesia ed i miei compagni di viaggio cadono uno ad uno come mosche, zavorrati dalle zucchine stufate servite al self service. Arriviamo a Patmos verso l’una e mezza e siamo scaraventati nella città deserta alla ricerca di un giaciglio. Tutti i posti sono o pieni o carissimi e vagliamo l’ipotesi dell’addiaccio. Alla fine ci dividiamo: chi sul lungomare chi nella pensione della povera ed anziana signora Maria, costretta al turno di notte su una sedia. Ci passa le chiavi e poi si risiede esausta. E la registrazione? “Tomorrow” replica senza esitare. Quando ci abbandoniamo sul letto sono le tre passate.

9 agosto La mattinata mostra qualche segno di logoramento. Skala, capoluogo dell’isola, è una cittadina fighetta in altissima stagione: praticamente ogni cosa, dalle stanze ai motorini ai souvlaki, o è finita o costa un’enormità. Aggiungiamo pure che certi bottegari approfittano dell’abbondanza di clienti per concedersi atteggiamenti arroganti, tanto che viene da augurargli quel po’ di carestia che li rimetterebbe con i piedi per terra. Turismo elitario, si diceva, non giovanissimi, gente annoiata che s’incontra a qualsiasi ora sotto le topie dei bar. Il monastero di San Giovanni incombe sulla città, per quanto dubito possa ancora esercitare una qualsiasi autorità morale sul sottostante crogiolo di domatias, rent-a-car, daily excursions, psarotavernas, gyrosplates. Usciti da Skala però si rinnova la quiete: la baia di Merika, a soli due chilometri dall’Apocalisse di auto e moto che intasano il lungomare, è deserta e bordata da un soffice ed inusuale tappeto di posidonia secca. Verso sera andiamo all’umile dimora di San Giovanni Evangelista, il grande monastero-fortezza che domina Patmos, salendo per un sentiero bizantino lastricato in pietra che gli sciagurati stanno devastando per posare cavi telefonici. Da lassù Skala e tutte le sue baie sembrano giocattolini. Il monastero è comunque meraviglioso: l’accesso avviene addentrandosi tra i vicoli bianchi del sottostante borgo, con vecchie sugli usci e strettoie improvvisamente aperte sul mare. Un monaco all’ingresso ci fornisce vestiti con cui coprire le parti scoperte: mi passa un paio di pantaloni neri con elastico alle caviglie che fanno tanto Bruce Lee. Già nel primo chiostro si respira l’aria della greve religiosità ortodossa traboccante d’ori, sedili intarsiati, mosaici ed aquile bifronti. In lontananza un coro gregoriano di monaci… una cassetta in vendita a prezzi modici nell’apposito angolo dei souvenir. L’ideale in macchina. Se all’interno tutto è ombre scolpite, icone ed angusti pertugi, fuori, oltre le mura, l’Egeo esplode d’azzurro e luce. Non approfondiremo oltre l’analisi di quest’isola: domani mattina partiremo per la vicina isola di Lipsi.

10 agosto Sbarchiamo a Lipsi presso mezzogiorno. Il paese dà quel senso di sparpaglìo e di tranquilla desolazione dei villaggi di confine dentro i film di Sergio Leone. Si nota subito la variazione di clima di questa parte del Dodecaneso, più fresco e ventoso di Tilos. Troviamo alloggio in una casetta tradizionale ai margini del paese ed il padrone di casa, il corpulento Vassiliki, ci accompagna con il suo pickup. L’isola è relativamente piccola e prevediamo di girarla tutta a piedi; del resto macchine e motorini non ne affittano perché tanto c’è una sola strada vera e propria… Nel pomeriggio puntiamo verso la meta più prossima, la spiaggia di Monodendri, caratterizzata da un piccolo promontorio con, appunto, un unico albero. Questo luogo si rivelerà il mio preferito di tutta l’isola: una meravigliosa spiaggia solitaria (e per solitaria intendo nessun essere umano nel raggio di almeno 3 chilometri, eccettuato un pescatore di polipi) incorniciata dalle bianche isolette di Aspronisia. La sera si fa un giretto per la cittadina che si rivela essere molto tranquilla, garbata e raccolta. Per dare l’idea posso dire che non esistono bar, men che meno discoteche o simili: ci sono tre o quattro taverne, dove peraltro si mangia benissimo, e basta. Nel resto dell’isola c’è ancora meno: probabilmente solo un altro paio di taverne sul mare. A noi sta bene, del resto cercavamo questo. Sotto la nostra veranda a mezzanotte è un oceano di quiete, luci vaghe, brezza e campanacci caprini.

11 agosto Finalmente sveglia ad ora indeterminata. Da piroettanti ballerini dell’oceano mare ci siamo velocemente adeguati alla bella vita del pensionante. In tarda mattinata puntiamo sulla spiaggia di Chochlacoura, un’altra oretta a piedi, per trovare una bella distesa di ciottoli bianchi e acque trasparenti. Purtroppo la spiaggia è affollata: ci saranno perlomeno una decina di bagnanti… Rispetto a Tilos c’è una buona presenza di italiani, perlopiù gente di mezz’età, habitué, tizi con la casa o la barca visibilmente gelosi del loro paradiso privato. Faccio un’esplorazione solitaria verso est per esplorare le baie di Xirocampos e Turkomnena (Punta dei Turchi). Queste due baie con nomi da codice fiscale sono separate da un promontorio: la prima è più pacifica, la seconda ventosissima, ambedue comunque deserte.

12 agosto Prosegue l’esplorazione. Oggi tocca alla parte più meridionale con le spiagge di Limni e Katsadia. Muovendoci a piedi (ed alzandoci tardi) non riusciamo a tornare alla nostra dimora per mezzogiorno, pertanto trascorriamo fuori le ore più calde della giornata; un problema, visto che a Lipsi gli alberi sono praticamente inesistenti e l’ombra è quasi introvabile. Il migliore momento della giornata consiste nell’assistere alle interminabili operazioni di attracco di una barca con equipaggio milanese di velisti improvvisati. Velisti, poi, si fa per dire: qui ci sono un mucchio di barche a vela ed un mucchio di vento ma tutti girano a motore. Sarà perché non sono capaci di veleggiare? Verso sera, rientrando, compro vino bianco di Samos, uva, melone bianco e miele: il momento migliore della giornata è l’aperitivo delle sette in veranda.

13 agosto La vacanza sgocciola a poco a poco. La parte orientale dell’isola (quella più “frequentata”) ormai l’abbiamo rigirata come un guanto. Oggi faremo un giro nella parte occidentale, praticamente deserta, fatta eccezione per la spiaggia di Platis Gialos, venduta come la migliore dell’isola, dove ci sono un paio di taverne. Per andare a Platis Gialos abbiamo deciso di usufruire del pulmino municipale: un Transit strapieno di bambini rompicoglioni guidato da un terrorista. La spiaggia, da un punto di vista strettamente tecnico-idraulico, è effettivamente fenomenale: trasparenze dal turchese al celeste che fanno emettere gridolini di meraviglia alle turiste italiane ed un gruppo di anatre che girella vicino a riva. La spiaggia, pur avendo sdraio e ombrelloni, per affollamento non è comunque paragonabile a quelle italiane. Ansioso di deserto però lascio Platis Gialos per andare a scrutare la baia di Moschato, estrema punta ovest di Lipsi. Qui trovo un disabitato angolo d’isola con mare melmoso, la solita cappella, una casetta, un oliveto e 44.000 mq di terra in vendita. Per farne che? Nel pomeriggio in tre, non paghi d’esplorazioni, ripartiamo con l’idea di valicare la montagna e raggiungere, sul versante opposto la spiaggia di Kimisi. Salendo incontriamo la discarica a cielo aperto dell’isola: si butta tutto giù nel dirupo e poi gli si dà fuoco. Altro che riciclaggio. Cerchiamo di passare il più in fretta possibile evitando la nube di diossina che proviene dall’antro del dio greco PVC. Valicata la dorsale però dalla parte opposta troviamo una sterrata che ci porta verso l‘emozionante baia verde di Kimisi. La mia guida dice che qui dovrebbe esserci la dimora dell’eremita Philipas, ma di lui non v’è traccia. Vediamo però la sua chiesetta personale con la fonte. Dalla baia parte inoltre un bel sentiero lastricato fatto di fresco che corre sul fianco della montagna e garantisce un’eccezionale passeggiata panoramica. Questo sentiero è misteriosissimo perché parte dal nulla e finisce nel nulla, in una specie di aia rotonda con una costruzione che a me pare un ovile. Per tornare a Lipsi vorremmo seguire un altro sentiero che corre in cresta all’isola, dove tira un vento barbaro. E’ quasi il tramonto e, ovviamente, ci perdiamo. Ma l’isola è piccola e senz’alberi ed il paese proprio lì a basso, così caracolliamo a vista giù per la china travalicando muretti in un mare di sterpi puntuti fino ad incrociare di nuovo l’asfalto. Lipsi è conquistata in lungo ed in largo! 14 agosto Oggi è l’ultimo giorno a Lipsi. Anarchicamente ognuno si prende lo spazio ed il tempo per fare le cose che più gli aggradano. Tutta la giornata è stata portatrice di oscuri presagi di fine vacanza. La partenza prossima, del resto, fa perdere interesse verso tutte le cose che non si potranno più fare né possedere. Io ho agito a casaccio, a macchia di leopardo; prevale la contemplazione melanconica con un filo di scoglionamento. Mi sistemo in spiaggia. All’ancora ci sono i soliti quattro o cinque yacht popolati da un umanità che si rompe le palle ma non può darlo a vedere e si atteggia. Pranzo alla taverna psichedelica della spiaggia, tra rastaman ed amministratori delegati in ciabatte e l’ultimo tempo vola via sulla patina turchese del mare. Il fastidioso sciabordio della risacca ed il frastuono delle cicale rendono il posto veramente invivibile… Lipsi trascolora nel suo quinto e definitivo tramonto lasciando il posto ad una notte di passaggio piena di pensieri sul nuovo inizio di una vita civile priva di oli solari, polpi, macchia mediterranea e mari.

15 agosto Tutta l’isola ha il vestito della festa: le donne sono tutte vestite di nero e vanno a messa a grappoli. All’uscita della chiesa poi si vedono tutti i gruppi familiari riuniti che procedono verso casa. Tacciono finalmente i motorini, le moto ed i pickup e mentre il paese si siede a tavola noi prepariamo armi e bagagli. Poche armi, per la verità. La giornata è caldissima e senza vento e le donne del gruppo stanno già iniziando la litania del rimpianto per spiagge e mari che nei giorni seguenti porteranno avanti sino all’ottundimento dei sensi. Nel primo pomeriggio aspettiamo la nostra imbarcazione su un molo bianchissimo e deserto, come personaggi di un film di Wenders. Un “flying dolphin” (sempre aliscafo) ci traghetta in men che non si dica dagli asini e le capre di Lipsi ai tequila sunrise ed alla kunz-kunz del lungomare di Kos. Ed il passo non è per niente breve. Allo sbarco siamo avvicinati da un petulo figuro spacciatore di appartamenti che con la sua insistenza cancella in un attimo cinque giorni di relax. Ci sistema in un posto tutto sommato infimo, ma ci dovremo solamente pernottare e non abbiamo tanta voglia di cercare un posto migliore. A sera addio alla Grecia con scorribanda per la vecchia Kos (molto turca) ed i suoi centomila bar. “Enjoy the silence” dei Depeche Mode, arrangiata per chitarra e voce da un bravissimo tizio che suona in un locale, diventa la colonna sonora dei titoli di coda di questo film.

16 agosto Entriamo nella pancia dell’aereo che sembra un congelatore e ci risputa fuori ai 37° di Milano Malpensa. Sull’aereo anche il tipo dell’andata con la collana aveva i perloni flosci. Ogni cosa rema contro l’idea di un finale più allegro: il deserto di Milano Centrale, la mestizia di Rogoredo, la desolazione di Melegnano. Il viaggio termina impaludandosi nella bassa broda padana su un regionale che fa tutte, ma proprio tutte, le fermate. Di tutti i mezzi che abbiamo preso (treni, aeroplani, taxi, rent-a-car, scooter, traghetti, aliscafi e autobus) questo è certamente il peggiore. In un’escalation senza tregua siamo passati come in un vortice Moulinex da Kos a Melegnano-stazione-di-Melegnano. Tutti a casa. Ciao.



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