The Lobster with the gun and the Green Monster – Boston, Massachusetts
La leggenda dell'Aragosta Rivoluzionaria e della Boston di chi insegue un fuori campo notturno sui marciapiedi di Lansdowne Street, fra rock club e battitori liberi, sotto l’ombra delle gradinate della leggenda del Fenway Park, fra spot che illuminano a giorno la sfida dell’uomo qualunque con il Green Monster
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Da queste Parti si narra che quando le aragoste giganti della baia decisero di ribellarsi al dominio britannico, uscirono dall’acqua per incamminarsi lungo il percorso che oggi è noto come il “Freedom Trial”, un sentiero urbano della memoria storica, un condensato di cospirazioni, giubbe rosse madide di sudore freddo spazzato dal vento, lanterne nella notte, assalti, angoscia, rivalsa e indomito orgoglio. Area del centro a ridosso del porto, ai margini delle acque del Charles River, oggi alla mercé di canottieri e corridori della domenica fra i campus di Cambridge e le rive dell’Esplanade, ma all’epoca scacchiere strategico costellato di vascelli e navi cariche di mercanzia, meeting point nel crocevia universale di merci e umanità fra le Indie, il Nuovo Mondo e la Madre Patria. Charlestown dominava il mare e fiutava odore acre di battaglia. Le redcoat avevano le ore contate. Le aragoste erano stufe della fama dell’antico e asettico culto del tè, troppo british e conservatore. Così quando gli esuli gettarono in acqua casse intere di Earl Gray in segno di protesta e manifesta insurrezione contro la Corona, ostriche, gamberi, molluschi e crostacei di ogni sorta e religione della East Coast, uscirono alla ribalta per partecipare senza invito al Tea Party del 16 dicembre 1773, sostenere la lotta e sconfiggere il tedioso nemico dall’aplomb compassato. Boston era libera, dal dominio oppressivo degli inetti e dalla loro riprovevole liturgia pomeridiana. La Storia ci consegna tante piccole storie, tasselli di un puzzle o semplici isole, talvolta marginali eppure decisive come questa. Aneddoti verosimili di aragoste sovrannaturali: un tempo servirono la causa della Rivoluzione, dei patrioti, oggi rappresentano il motore di una parte della florida economia della città, il biglietto da visita, il gadget pret-à-porter, l’orgoglio cittadino, almeno quanto la filiera di mattoni rossi e lampioni a gas delle residenze che si arrampicano sulla collina di Beacon Hill. Questa è l’importanza di essere un’aragosta. Penso a questa surreale epopea, mentre spazio fra i prodigi ittici e urbanistici del Wharf di Old Atlantic Avenue, con lo sguardo rivolto allo sconfinato mare del New England che si fa oceano. Una lingua di vita costellata di isolotti, più o meno piccoli e selvaggi, su cui si stagliano fari bianchi a indicar la via verso scenari maestosi, in cui perdersi e apprezzare il profumo della solitudine e della navigazione. Isole senza tempo né padroni. Uno scorcio, che solca l’orizzonte dal Maine al Rhode Island, amato dal talento e dall’occhio di Edward Hopper. Una luce ambigua, vitale e cupa, luminosa e introversa al tempo stesso, abbagliante e di fatto insondabile come lo spirito di questa baia e delle aragoste di queste acque che lambiscono la Quincy Bay fino alla penisola atlantica di Cape Cod. Affascinante e ipnotica immensità contraddittoria di queste luoghi. Penso alla Boston di Harvard, del MIT, delle lotte per i diritti civili, del 4 luglio, del fascino indiscreto della “maledizione del bambino” targata Red Sox, illuminata a giorno dal faro plebeo, del totem postmoderno dell’insegna Citgo. La Boston di una Downtown dallo skyline a misura d’uomo, delle ardite giustapposizioni architettoniche di Copley Square, dei campus e della movida multietnica un po’ radical chic di Kenmore Square, dello shopping di Back Bay fra fashion victim e PhD, nell’idolatria collettiva dell’Apple Way of Life. La Boston del groviglio taciturno di lamiere figlio del rush hour, dei corpi alieni che si sfiorano lungo le sponde del fiume, delle ombre irrequiete e dei sinistri misteri del Mystic River, degli italoamericani di Hanover Street, dei patrioti, degli idealisti, degli abolizionisti, dei salotti letterari, dei teatri, delle diroccate case di legno colorato dei sobborghi, del lusso sussurrato e della povertà a schiera, dell’anima europea e del sentimento indipendentista, delle armi da fuoco e del lardo imperante. La Boston di chi insegue un fuori campo notturno sui marciapiedi di Lansdowne Street, fra rock club e battitori liberi, sotto l’ombra delle gradinate della leggenda del Fenway Park, fra spot che illuminano a giorno la sfida dell’uomo qualunque con il Green Monster. La Boston dei pensatori e dei gregari, di JFK, di Babe Ruth, di Paul Revere, degli eroi di sempre, di quelli conclamati e di quelli silenziosi. Una metropoli con le ineluttabili contraddizioni che ogni anelito di libertà reca con sé: “We sell Guns! Welcome Criminals & Terrorists” recita una maxiaffissione sulle pareti dello stadio. Forse l’oro di Boston è proprio nelle viscere del tessuto urbano di questa eurozona dai connotati di laboriosa frontiera progressista, che condivide con il mondo l’affascinante sogno americano e le sue intrinseche miserie. Splendore e caducità nel regno dell’individualismo, eppure culla della cultura democratica. Ho davanti l’ineffabile luce di queste vite: qualcosa non quadra del tutto, rimane irrisolto, sfocato, meravigliosamente anomalo.