Teranga! Il calore del Senegal

Prologo - La voce del Continente Nero Il richiamo dell’Africa ha una voce costante, ti tormenta nei momenti di solitudine, monopolizza il tuo pensiero e ti rende inquieto. Sai sempre che devi tornare, ma non sai mai come e quando. Poi in un piovigginoso giorno di settembre, quando l’autunno comincia a battere alle porte e le foglie sugli...
Scritto da: Chiara Molinatto
teranga! il calore del senegal
Partenza il: 01/09/2004
Ritorno il: 15/09/2004
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
Prologo – La voce del Continente Nero Il richiamo dell’Africa ha una voce costante, ti tormenta nei momenti di solitudine, monopolizza il tuo pensiero e ti rende inquieto. Sai sempre che devi tornare, ma non sai mai come e quando. Poi in un piovigginoso giorno di settembre, quando l’autunno comincia a battere alle porte e le foglie sugli alberi iniziano ad ingiallire, ti ritrovi su un volo intercontinentale che solca i cieli verso l’Equatore. E, finalmente, è ancora Africa! Il Boeing 757 attraversa uno spesso strato di nuvole candide e in meno di tre ore abbandona il nostro Mediterraneo lasciandosi le Colonne d’Ercole alle spalle. Sbircio giù dal finestrino, è la prima volta che mi capita di passare sopra lo stretto di Gibilterra. Soltanto ora realizzo che i due lembi di terra sono davvero vicinissimi, una manciata di chilometri di mare agitato separa due continenti così prossimi sulla carta ma così diversi e lontani nell’immaginario collettivo. Non ho tempo a sufficienza per godermi il momento che l’aereo sta già sfiorando la pista di atterraggio dell’aeroporto Mohammed V di Casablanca. Le sei ore nell’area di transito, in attesa della coincidenza, trascorrono leggendo e osservando la variegata fauna umana che popola gli aeroporti di tutto il mondo. Qui strano ma vero siamo gli unici occidentali, evidentemente di questi tempi in molti decidono di evitare alcune mete cosiddette a rischio… peggio per loro! Anche sul volo per Dakar siamo gli unici turisti. Gran parte dei passeggeri indossa gli abiti tradizionali dell’Africa Occidentale. Una bella signora dal bobou dorato prende posto nella fila davanti a me, per la prima volta mi sento fuori luogo con i miei jeans e le scarpe da ginnastica; nei prossimi giorni imparerò ad apprezzare la comodità di un bobou e di un paio di ciabatte. Pochi minuti dopo il decollo viene servita la cena, ma è quasi mezzanotte e preferisco tentare di dormire fantasticando sui territori che scorrono 10.000 metri più in basso… Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania… Senegal! Dopo un viaggio interminabile, alle tre del mattino metto piede in terra africana. Come prevedibile non è finita qui, mi aspetta ancora una lunga coda al controllo passaporti e una mezz’oretta di attesa al ritiro bagagli. Esco nell’ampio piazzale che fronteggia il basso edificio dell’aeroporto, sembra di entrare in una serra di umidità e calore. Qualche minuto di presentazioni, poi Mbake e Seydou caricano gli zaini sul tetto di un pullmino sgangherato sul quale percorro le strade periferiche di una Dakar addormentata. Si apre la porta di una casa, tempo di infilarsi sotto la doccia e di rimboccare la zanzariera e – finalmente – crollo esausta in un sonno profondo. L’ultima cosa che giunge al mio orecchio prima di addormentarmi è il chicchirichi del gallo nel cortile. Sono le cinque.

Capitolo I – Strade di Dakar Mi giro e mi rigiro nel letto sudata e appiccicaticcia. Nonostante la stanchezza, la calura e l’adrenalina mi impediscono di continuare a dormire. L’orologio sotto il portico segna le nove e mezza, primo giorno in Senegal e ancora non mi sembra vero di essere di nuovo in Africa. Una breve esplorazione mi fa prendere coscienza dell’ambiente, una bella casa a due piani dove le stanze si affacciano su un cortiletto protetto dal sole da una tettoia di legno e paglia. Il Thally Cauris è una via di mezzo tra un ostello e una casa privata, in ogni momento ci si sente parte di una grande famiglia allargata e basta poco per familiarizzare con il custode Pepè o con la tuttofare Filomena. A metà mattinata riunione con Seydou e Alex. Seydou è ufficialmente la nostra guida in Senegal, ma nel corso del viaggio si rivelerà un amico nonché un ottimo ballerino. Alex è la mente che sta dietro a questo progetto di turismo sostenibile, con il passare dei giorni impareremo a conoscere i lati a volte africani a volte italiani della sua personalità; noto estimatore di Bob Marley e bersaglio preferito dei nostri scherzi, grazie alla sua presenza il viaggio sarà eccezionalmente divertente. Il meeting comincia con una breve presentazione del paese e con alcuni accenni ai principi del turismo responsabile. Una parola usata da Seydou – teranga – lì per lì non mi trasmette nulla di particolare; ma nel corso delle prossime due settimane quella parolina magica, che in wolof indica il senso di ospitalità del popolo senegalese, diventerà la chiave di lettura di questa preziosa esperienza in Africa Occidentale. Gironzolo nel quartiere intorno al Thally Cauris alla ricerca di un sarto per farmi confezionare un bobou su misura. Le difficoltà di comunicazione cominciano a farsi sentire, il mio francese stentato cozza contro il wolof francesizzato del giovane sarto che mi sta di fronte. Per oggi rinuncio al mio abito, ma questo episodio serve per spronarmi a fare un po’ di esercizio col francese, idioma che da sempre mi è ostico ma che qui è lingua ufficiale. Dimentico presto il mancato bobou grazie al gustoso pranzo che ci viene servito sotto la familiare tettoia di paglia del Thally Cauris: il thieboudienne, riso accompagnato da pesce e verdure, è il piatto nazionale del Senegal; già saporitissimo grazie alle spezie con cui viene condito, gli incontentabili possono aggiungervi la salsa di tamarindo (dakar), pianta da cui prende il nome la capitale senegalese. Nel primo pomeriggio faccio nuovamente capolino nelle strade polverose della periferia sotto un sole che spacca le pietre. Sono gli sgoccioli della stagione delle piogge, di nuvole nemmeno l’ombra ma l’umidità si percepisce eccome. La nostra casa-ostello è ubicata in un quartiere piuttosto distante dal centro, sulla strada per l’aeroporto. La penisola di Cap Vert, all’estremità della quale sorge Dakar, è ormai interamente urbanizzata. Difficile distinguere il centro della città dai vari sobborghi se non fosse per la confusione e il traffico che crescono man mano ci si avvicina alla vie centrali. Per arrivare in Place de l’Independance, cuore di Dakar, tra cartelli stradali inesistenti e ingorghi impressionanti, ci vuole un’ora buona. Il pullmino di Mbake è provvisto di minuscoli finestrini che permettono ad un filo d’aria di entrare quando il mezzo è in movimento, roba di lusso considerando lo stato della maggioranza dei taxi-brousse che incrociamo per strada, dove una quarantina di persone vengono stipate nella metà dei posti e convivono con pollame e mercanzie varie per l’intero tragitto. Il caldo e l’umidità, uniti allo smog e agli odori acri che caratterizzano le strade africane, sono insopportabili. Sudore, mosche, gas di scarico, colonne di auto immobili, venditori ambulanti, lingue incomprensibili. In Africa la gente trascorre gran parte della sua vita in strada, per lavorare per vendere per contrattare per parlare per socializzare per mangiare… e a volte anche per dormire. I ritmi sono lenti, il tempo occidentale scandito da ore e minuti scompare per lasciare il posto a una strana percezione dello scorrere delle cose e degli eventi. Per la prima volta scopro di avere parecchio tempo per fermarmi a pensare e per riflettere, cosa che a casa capita sempre più raramente. Guardo fuori dal finestrino e sorrido compiaciuta dal fatto di trovarmi di nuovo in questa realtà così distante da quella quotidiana; un turbinio confuso di voci e di suoni, di colori e di odori, che esercita il suo potente fascino di cosa ignota e sconosciuta, tutta da scoprire. Mbake imbocca la strada che si snoda lungo la costa della penisola di Cap Vert, una sosta alla Pointe des Almadies ci regala una vista magnifica su Dakar e ci distrae per un po’ dal traffico e dal caos delle vie cittadine. La Pointe des Almadies è il punto più occidentale dell’Africa, segnato da un bel faro bianco che da un colle verdissimo per le recenti piogge sovrasta la costa sottostante. Mi sono sempre piaciuti questi luoghi di confine, “dove la terra finisce e inizia l’oceano”, per dirla con il poeta Camoes. Purtroppo la punta estrema della penisola è ormai proprietà di un villaggio Club Med, particolare non trascurabile che fa perdere gran parte della poesia. La spianata davanti al faro si è trasformata in un tappeto di cadaveri di cavallette enormi e gialle, a testimoniare l’invasione della scorsa settimana. L’evento ha dato non pochi problemi alla città, sono stati addirittura sospesi alcuni voli in quanto la pista dell’aeroporto era in condizioni inagibili. Quasi una piaga d’Egitto di biblica memoria.

Capitolo II – L’Africa ieri e oggi Alle quattro del pomeriggio passate arriviamo in Place de Soweto, una piazza circolare su cui si affacciano il Museo IFAN (Institut Fondamental d’Afrique Noir) e alcune ambasciate. Al centro della piazza campeggia un monumento contro l’apartheid e il razzismo, non a caso il luogo prende il nome dalla più famosa township di Johannesburg e non a caso la grande via che passa qui davanti è dedicata a Nelson Mandela. Il museo raccoglie maschere e reperti provenienti da tutta l’Africa Occidentale, due grandi sale ospitano la ricostruzione di alcuni riti tradizionali di etnie dell’intera regione: dai Mende della Costa d’Avorio ai Bambara del Mali. Un antropologo dell’Università di Dakar ci guida per un’oretta alla scoperta di riti di iniziazione, pratiche magiche, vodoo. La ricchezza maggiore dell’Africa Occidentale è proprio la presenza di un grande numero di etnie, di lingue e di usanze; un calderone di popoli e di culture che rende questa fetta d’Africa multiculturale e sfaccettata. Mi tornano alla memoria le parole di Kapuscinski, acuto e attento osservatore della realtà africana che definire giornalista sarebbe riduttivo: sono mille, non uno soltanto, i volti dell’Africa. Profondamente vero. Nel solo Senegal si contano almeno una mezza dozzina di gruppi etnici principali: Wolof, Serer, Fulani-Peul, Toucouleur, Mandinka, Diola. Ogni etnia è divisa in una quantità innumerevole di sottogruppi e di sottofamiglie, a tal punto che usanze e lingua possono variare di villaggio in villaggio, a poche decine di chilometri di distanza. Quel che ancora più stupisce del Senegal è che, nonostante le diversità culturali e religiose, i popoli convivano pacificamente uno accanto all’altro nel pieno rispetto di queste diversità. Una situazione molto diversa da quanto accade in altri stati africani, dove l’arrivo dell’uomo bianco e dei governi coloniali ha stravolto equilibri tribali millenari, portando a quel conflitto interetnico che ha segnato tristemente la storia africana nell’ultimo secolo e continua a segnare l’Africa di oggi. Al piano superiore è stata allestita una mostra temporanea sulla tratta degli schiavi, attraverso scene di cartapesta si cercano di ricostruire gli aspetti principali del fenomeno. Niente cartelloni esplicativi, nessuna didascalia, solo pupazzi di cartapesta che hanno un enorme potere evocativo e comunicano in modo diretto la crudeltà dell’uomo e la vergogna della storia.

Per tornare al Thally Cauris il nostro pullmino imbocca le vie del centro, qualche volta si fa una sosta e qualcuno scende per fare qualche commissione. E ogni volta puntualmente decine di mani entrano dai finestrini per cercare di vendere qualcosa. Qualche temerario cerca di piazzare la sua merce anche mentre il pullmino procede a passo d’uomo nel mezzo degli ingorghi onnipresenti. E’ un metodo di compravendita piuttosto strano, ma gli stessi senegalesi sembrano fare la spesa in questo modo. Imito Alex che si mette a comprare cappelli e scarpe a destra e a manca, in effetti dopo pochi minuti di contrattazione si riescono a spuntare ottimi prezzi. Forse gli acquisti migliori del viaggio! Arrivati a casa, ennesimo giro di doccia della giornata. Alla fin fine queste docce gelate quotidiane stanno diventando una pura formalità e un pretesto per fare qualcosa nei tempi morti. Tanto dopo cinque minuti si è più sudati e appiccicosi di prima… meglio non lavarsi affatto, come saggiamente suggeriscono alcuni dei miei compagni di viaggio. Un metodo perfetto e comprovato che verrà applicato sistematicamente nei giorni seguenti per risparmiare la preziosissima acqua. Doccia o non doccia, la cena viene servita e segue un’altra abbuffata di pesce. Concludo questa prima giornata senegalese sul tetto a rimirare il cielo stellato di Dakar, mentre Pepè prepara il the alla menta mescendo e rimescendo l’intruglio da un bicchiere all’altro. La sottile arte del the in questo caso concilia il sonno, mi butto sul letto per recuperare le ore perdute e prepararmi ad un nuovo giorno africano.

Il traghetto balla su e giù, giù e su, su e giù, giù e su. Dall’imbarcadero di Dakar sono stata marcata a vista da una grassa signora che cerca di piazzare le sue mercanzie; mentre il traghetto continua la sua danza contro le imperturbabili onde atlantiche lei mette in bella vista decine di collanine e giargiattole, cercando di convincermi a comprare qualcosa e a visitare la sua bottega non appena arrivati a Goree. Ed eccole, le case colorate dell’isola, spuntano in mezzo alla distesa d’acqua con le facciate illuminate dal sole. Sotto al molo un gruppo di ragazzini fa a gara per recuperare sul fondo del mare le monetine lanciate dalle persone a bordo dell’imbarcazione. Non ci sono passerelle, per scendere a terra basta aspettare l’onda giusta e fare un bel salto per raggiungere la banchina. Sbarco sull’isola di Goree, un pugno di chilometri al largo di Dakar, un fazzoletto di terra insignificante se non fosse che da qui sono passati milioni e milioni di schiavi deportati verso le Americhe. Oggi Goree è diventata patrimonio mondiale dell’umanità, sito dichiarato dall’Unesco e meta di tanti turisti, tra i quali molti afro-americani, che vengono qui in visita per vedere, e per non dimenticare. Sulla piccola spiaggia che ospita il molo si affaccia una fila di edifici coloratissimi, tra cui si snoda una serie di strette vie che portano alla Maison des Esclaves e al Castello. La mia prima meta è quella casa degli schiavi dove si respira ancora l’aria acre della prigionia e di quel crimine contro l’umanità di cui Goree è stata protagonista fino a non molti secoli fa. Al primo piano dell’edificio è stata allestita una mostra che raccoglie testimonianze e documenti sulla tratta degli schiavi, dal cortile si accede alle celle anguste dove veniva stipata la merce umana in attesa di salpare verso il Nuovo Mondo. Al fondo di un corridoio buio, una porta si apre a picco sul mare aperto: è la porta del non ritorno. Da qui osservo l’oceano infinito e l’orizzonte ignoto, pensando a quanti occhi spaventati hanno guardato lo stesso paesaggio prima di me. Dimentico le mani bianche che premendo il grilletto fecero cadere gli imperi le mani che fustigarono schiavi e che li flagellarono le vecchie mani vi schiaffeggiarono le mani laccate e incipriate che mi hanno schiaffeggiato le mani sicure che mi spinsero alla solitudine e all’odio le mani bianche che abbatterono la foresta di palme che dominava l’Africa Spianarono le foreste d’Africa per civilizzarci visto che scarseggiava il materiale umano Signore soffocherò la mia riserva d’odio verso i diplomatici che sorridono con i loro lunghi camini e domani baratteranno carne nera Il mio cuore Signore si è sciolto come neve sui tetti di Parigi L.S. Senghor La Goree del 2004 è piena di movimento e di colori, vista la sua fama turistica molti artigiani di Dakar ogni giorno si trasferiscono sull’isola per vendere le proprie opere ai tanti turisti di passaggio. In verità settembre è bassa stagione per il Senegal, quindi non solo a Goree ma per tutto il viaggio saranno pochi i toubab che vedrò. Gli artisti di Goree si concentrano soprattutto nella zona alta del Castello, il vecchio posto di vedetta francese oggi è occupato da distese di quadri e batik. E’ ora di pranzo e siamo gentilmente ospitati da Clarisse, un’amica di Alex che ci serve un cous cous gustosissimo. Fuori cadono le prime gocce di un temporale passeggero, poco importa quando si hanno davanti un piatto di cous cous e un bicchiere di karkade! Dopo Goree e un giro in centro bisogna sperimentare anche la vita notturna della capitale senegalese. A mezzanotte, che poi in puro stile africano diventa l’una, poi l’una e mezza, poi le due meno dieci, ci vengono a prendere Lay e Djara, ennesimi amici di Alex, per portarci a ballare. L’Alize è uno di quei posti in cui non puoi fare a meno di farti entrare i ritmi africani nel sangue. I giovani di Dakar si scatenano nella piccola pista del locale, le note sono quelle della moderna musica senegalese, ovviamente suonata dal vivo come sempre accade a queste latitudini. Siamo gli unici toubab. Di quella notte ricordo soltanto di aver ballato come una indemoniata fino allo sfinimento, lasciandomi travolgere da musica, ritmo e atmosfera fino alle cinque del mattino, ora in cui, finalmente, mi sono infilata sotto la zanzariera del letto. Capitolo III – Quelli di Pikine I momenti che mi attendono sono di quelli che non si riescono a dimenticare tanto facilmente, quelle ore che rendono speciale un viaggio e che si continuano a rivivere con la mente anche dopo giorni, mesi o addirittura anni, quegli attimi che ti fanno perdutamente innamorare di Madre Africa e dei figli di questa terra ancestrale. Il Senegal non si limita soltanto alle lunghe spiagge bianche di Cap Skirring, dove i turisti occidentali fanno cuocere al sole le loro delicate carnagioni e le ricche signore di mezza età vanno in cerca di nuove avventure. Il Senegal è soprattutto luoghi e persone dimenticate, luoghi come Pikine, dove la vera Africa ti si rivela in tutte le sue contraddizioni e in tutta la sua crudeltà. La notte appena trascorsa è stata troppo breve e le quattro ore scarse di sonno si fanno sentire quando il pullmino di Mbake sbuffa e scricchiola per metà mattinata nel traffico della strada che da Yoff corre a est verso Pikine. Mentre il mezzo procede a passo d’uomo e i venditori ambulanti cercano di attirare l’attenzione battendo sui finestrini, alterno un sonnellino a movimenti ritmici con il ventaglio di paglia che ho trovato smarrito sotto il sedile. Oggi fa caldo, un caldo terribile e più insopportabile dei giorni scorsi. Finalmente si arriva a Pikine, la faccia oscura e meno conosciuta di Dakar, il quartiere che con il suo milione e mezzo di abitanti supera di gran lunga i soli 500.000 abitanti ufficiali della capitale. Districandosi nel consueto marasma umano che anima ogni città africana, Alex ci conduce nel cortile della radio comunitaria Oxy-Jeunes. Due ragazzi, incuranti della nostra presenza, giocano a dama con una manciata di sassolini e una scacchiera artigianale che consiste in un semplice gruppo di buche allineate nella sabbia. In Africa non mancano mai sorprese, l’arte dell’arrangiarsi è di fondamentale importanza per la sopravvivenza e viene applicata in ogni piccolo gesto quotidiano. A conferma c’è un bel proverbio senegalese, che recita più o meno “In Senegal non ci sono problemi, esistono soltanto soluzioni”. Poco ma sicuro che un senegalese riuscirà sempre a trovare un modo per superare ostacoli e difficoltà! L’ufficio del direttore della radio è pulito e molto curato, con dei soffici divani di velluto dove sprofondiamo per una buona mezz’ora mentre ci racconta la storia di Oxy-Jeunes, prima emittente libera a trasmettere notizie a tutti i cittadini di Dakar e Pikine. Oumar Ndiaye ci narra le peripezie affrontate negli ultimi quattro anni per riuscire a divulgare una informazione indipendente e incorrotta a tutti gli strati della popolazione. La voce di Oxy-Jeunes ha combattuto contro analfabetismo e ignoranza, rendendo la gente consapevole dei propri diritti e fornendo aiuto per superare gli innumerevoli problemi burocratici e non che ogni giorno i senegalesi, soprattutto i meno abbienti, si trovano di fronte. Esistono diverse rubriche settimanali, cultura, sport, diritto, attualità, musica. Le trasmissioni vengono condotte in francese e in wolof ma anche negli altri dialetti, affinché nessuna minoranza linguistica e culturale sia esclusa dall’informazione. L’attività di Oxy-Jeunes si dimostra un ottimo lavoro di impegno sociale, che testimonia come a Pikine idee e volontà non manchino nonostante povertà e condizioni disagiate. Lo scopo di questo viaggio si concretizza nelle ore successive, i membri dell’associazione Jant-Bi di Pikine ci accolgono nella loro casa con un caloroso benvenuto. Presentazioni, discorsi, ringraziamenti, sorrisi e salaam alaikum si susseguono nel corso della giornata. Ritroviamo Lay e Mawolli, due giovani amici che avevamo imparato a conoscere già nei giorni scorsi e che sono pilastri portanti di questa associazione impegnata a rendere migliore la vita di Pikine attraverso sport e corsi di musica e danza, progetti di adozione scolastica delle bambine, distribuzione gratuita di kit anti-malarici alle famiglie. Dopo i salamelecchi ci rimbocchiamo le maniche e cominciamo a smistare e catalogare il materiale portato dall’Italia, è fondamentale soprattutto tradurre in francese posologia e principio attivo dei farmaci. All’ora di pranzo donne e bambini stendono grandi stuoie intrecciate sotto gli alberi del cortile della scuola di Pikine, un vasto spazio aperto polveroso e affollato. Oggi moltissimi bambini del quartiere si sono radunati qui per vedere curiosi l’arrivo degli stranieri bianchi, i toubab. Dopo esserci accomodati a piedi scalzi sulle stuoie di paglia, ci viene servito il cous cous in grandi piatti di metallo circolari da cui i commensali attingono con le mani. Mangiare con le mani non è semplice come sembra, bisogna adottare una tecnica precisa per evitare di imbrattarsi di cibo e di sugo. I primi tentativi sono fallimentari, ma poi basta osservare i nostri vicini senegalesi e a poco poco dimenticare cucchiaio e forchetta. I pranzi in comune all’ombra degli alberi e le ore più calde della giornata africana trascorse a sonnecchiare sulle stuoie diverranno una costante per tutto il resto del viaggio. L’Africa è fatta soprattutto da questi momenti di vita sociale, in cui bisogna condividere cibo e parole con gli altri membri della comunità. Sono i momenti che si ricordano con più nostalgia una volta tornati a casa. Il pomeriggio scivola via lentamente. Mentre viene organizzata una partita a calcetto Italia-Senegal io scambio quattro chiacchiere con Daouda, l’unico ragazzo che parla un po’ di spagnolo. La conversazione è difficile, un misto di francese e italiano spagnolizzato, ma alla fine riusciamo a comprenderci. Daouda si rivela molto curioso, vuole sapere dell’Italia e dell’Europa, delle mie idee sul Senegal e sugli africani. Nonostante le barriere linguistiche intavoliamo una discussione complessa, toccando la triste attualità, la politica statunitense e quella del governo italiano. Siamo cresciuti a migliaia di chilometri di distanza, con cultura, mentalità e stile di vita completamente diversi. Eppure ci troviamo d’accordo. L’Africa è molto più vicina di quanto sembra. Ma non posso fare a meno di riflettere sul fatto che questi ragazzi brillanti di Pikine difficilmente avranno le mie stesse possibilità di continuare gli studi e di vivere nel benessere. Esco dal cortile della scuola e faccio un giro nel quartiere insieme a Lay e Mawolli. Le strade sono sporche e polverose, le vie non hanno un nome e non è raro finire per perdersi in questo labirinto di periferia se non si conosce bene il posto. Molte persone sono sedute in strada, davanti alla soglia che conduce nei loro cortili. Le donne fanno il bucato o sono intente a sistemare i capelli in piccole trecce dalla strabiliante geometria; alcune chiacchierano tra di loro, altre, avvolte nei loro bobou colorati, si limitano a guardare sornione la vita brulicante che scorre intorno, rispondendo ai nostri saluti con un m’alaikum salaam e con un sorriso. Qui il fluire del tempo non incatena gli uomini, la smania di essere in ritardo e i ritmi scanditi dall’orologio sono cose sconosciute. Facciamo visita ad un anziano membro malato di Jant-Bi, che accoglie benevolmente nella sua camera da letto gli stranieri. Prima di entrare in casa bisogna rigorosamente togliersi le scarpe. Mentre Lay e Mawolli parlano fittamente in wolof con il loro amico, osservo la stanza misera e il cortiletto angusto. Le case senegalesi sono solitamente formate da un cortile interno, intorno al quale si dispongono le varie stanze della casa. I membri della famiglia trascorrono la maggior parte della giornata all’aperto, i bambini scorazzano nel cortile e in strada insieme agli animali, sorvegliati a vista dai fratelli più grandi. I muri scrostati di questa e di tante altre abitazioni di Pikine mostrano i segni del tempo e della povertà, mancano ancora acqua corrente ed energia elettrica, ma nonostante le condizioni igieniche precarie, le malattie frequenti e i disagi, i volti della gente di Pikine mostrano una grande serenità. Il disagio si avverte soprattutto nei più giovani. Penso a Daouda e agli altri, che come tanti ragazzi del mondo coltivano il sogno di una vita migliore. Trascorro l’ennesima notte insonne, questa volta in compagnia dei ritmi e delle melodie di Youssou N’Dour, il più famoso cantante senegalese che ho la fortuna di vedere in concerto proprio a Dakar, la sua patria. Insieme a me ci sono centinaia di giovani che ballano e cantano sotto il palco. La scorsa settimana Youssou N’Dour e il suo gruppo si sono esibiti anche nello stadio comunale, i biglietti di ingresso sono stati venduti a prezzi ridotti per permettere a tutti gli abitanti di Dakar di assistere allo spettacolo. La musica in Africa è di tutti.

Capitolo IV – Il ritmo dello djembe E l’alba di un nuovo giorno e di una nuova parte di questo viaggio alla scoperta del Senegal. Lasciamo Dakar di mattina presto per raggiungere il Lac Retba, forse una delle più famose meraviglie naturalistiche del paese. Il lago Rosa è la tappa finale della Parigi-Dakar e viene citato in tutte le guide turistiche per le acque colorate da cui prende il nome. Quando arriviamo sulle sponde del lago comincio a pensare che le sue decantate acque rosa siano soltanto un’attrazione per i turisti, si intravede una leggera sfumatura rosacea ma niente di più. Ma basta pazientare qualche minuto ed ecco che, con la luce giusta, intorno alle barche dei raccoglitori di sale appare un forte colore rosa che poi si espande su tutta la superficie dello specchio d’acqua. L’atmosfera è surreale. Sulla riva giacciono bianchissime montagnole formate dal sale che viene estratto dal lago e che è responsabile di questo fenomeno particolare, più in là le barche colorate delle famiglie di raccoglitori, alcune delle quali giacciono in secca in mezzo a distese multicolori di incrostazioni saline. Tra il lago e l’oceano si stende una striscia di dune di sabbia finissima, che percorriamo con un pick up fino a raggiungere una spiaggia deserta, di cui non si intravede la fine. In mezzo al nulla e al silenzio ci buttiamo tra le onde dell’oceano, la temperatura dell’acqua è calda al punto giusto per far passare la voglia di uscire. Poi si torna indietro sobbalzando sulle dune e si costeggia il perimetro del lago fino ad arrivare al luogo di ristoro sulla sponda orientale. Vicino al lago è sorto un piccolo complesso con un resort e un ristorante, circondati da una serie di bancarelle di artigianato. La maggior parte dei commercianti è sempre pronta a scambiare qualche parola mentre si fanno acquisti e si contratta, incontro anche un ragazzo che si è trasferito in Italia e che ora è qui per le vacanze. In un italiano fluente mi dice di abitare in provincia di Novara, a pochi chilometri dal paese di origine della mia famiglia… il mondo è davvero piccolo! Proseguo il viaggio verso sud, la strada scorre velocemente sotto la sapiente guida di Mbake, mentre Seydou ci insegna qualche canzone popolare o ci racconta qualche aneddoto. Lungo la strada incrociamo parecchi taxi-brousse e camion sui quali la gente viaggia pigiata come in una scatola di sardine, ma sono moltissime anche le persone che si spostano su grandi distanze soltanto a piedi, sui bordi della carreggiata, con grossi cesti e fagotti tenuti in bilico sulla testa. Quando arriviamo a Mbour, sulla Petite Cote, il sole sta già tramontando. Scarichiamo i bagagli al Blue Africa, una guest house semplice ma confortevole con bungalow adagiati direttamente sulla spiaggia. Giusto il tempo di fare ancora un bagno, lasciandosi cullare dalle morbide onde dell’Atlantico scaldate dagli ultimi raggi solari. Un gruppo di ragazzi gioca a calcio sulla battigia, le donne raccolgono i pareo e le collane in vendita, uno djembe lontano suona le ultime note della giornata.

Mbour è un grosso villaggio di pescatori che negli ultimi anni si è trasformato in una rinomata località balneare. La meta principale del turismo sulla Petite Cote è però Saly-Portugal, una cittadina nata dal nulla che oggi vive principalmente dai proventi del turismo organizzato internazionale. Il suo litorale è punteggiato da resort e villaggi turistici, ma fortunatamente l’afflusso maggiore di stranieri rimane confinato a questa località. Le vicine Mbour e Toubab Dialao sono meta soprattutto di backpackers e di viaggiatori indipendenti, motivo per cui si trovano molte guest house tranquille a prezzi competitivi. Le mie giornate a Mbour trascorrono soprattutto in spiaggia, dove si riesce a fare amicizia facilmente con la gente del posto. Riesco a trovare alcuni giovani che parlano inglese e finalmente ho modo di fare lunghe chiacchierate senza difficoltà di comunicazione. Il nostro gruppo questa volta si divide, c’è chi preferisce rimanere a oziare sotto le palme e chi invece esplora i dintorni, qualcuno si dedica agli acquisti, altri imparano la difficile arte dello djembe. La cultura musicale è profondamente radicata in tutta l’Africa, ma qui piuttosto che altrove sembra trovare la sua patria. Non passano giorni senza cantare, ballare o suonare; la musica è il mezzo di espressione più diffuso tra la gente. La sera spesso manca la corrente elettrica e il Blue Africa si illumina soltanto grazie alle feste intorno al fuoco che organizziamo in spiaggia con la gente del posto. Dimentichiamo le barriere culturali e i muri linguistici, ci ritroviamo a saltare come cavallette intorno a grandi falò e a cantare a squarciagola canzoni dalle parole sconosciute.

La musica è davvero un pilastro portante nella cultura dell’Africa Occidentale, i musicisti in Senegal godono di un elevato rispetto nella comunità, quasi pari a quello di sapienti e stregoni, tanto che spesso i due ruoli si sovrappongono. La cultura musicale non viene impartita in alcuna scuola ma si tramanda di generazione in generazione in vere e proprie famiglie di artisti, come quella di Lamine e dei suoi fratelli, amici che Alex spesso invita al Blue Africa per farci compagnia. Un buon artista non soltanto deve sapere suonare alla perfezione uno o più strumenti, ma è tenuto a conoscere a memoria i canti tradizionali che devono essere affidati ai posteri attraverso il ritmo della sua arte. In Senegal questi cantastorie vagabondi sono chiamati griot e sono profondamente riveriti dalla popolazione rurale, soprattutto perché ancora oggi costituiscono l’unico canale di comunicazione e informazione nei villaggi più remoti dove la televisione è ancora sconosciuta. Le percussioni sono di gran lunga gli strumenti più diffusi in questa parte del continente nero; dal Senegal al Ghana il tipo di tamburo più caratteristico è lo djembe, a forma di grosso calice e realizzato in legno e pelle di capra, fissata alla sommità con una striscia di cuoio. Spesso gli djembe sono finemente incisi con disegni geometrici e astratti, ogni artista costruisce il suo strumento con le proprie mani a partire dal materiale grezzo. Un musicista deve quindi essere anche un abile artigiano. Ma il tipico strumento attraverso il quale i griot seducono il pubblico con le loro storie affascinanti è la kora, una sorta di grosso liuto a 21 corde con un lungo manico in legno e una zucca cava come cassa di risonanza. Le corde vengono pizzicate a mo’ di arpa e il suono prodotto è molto particolare. Il mal d’Africa è causato non soltanto dalla nostalgia di luoghi incontaminati e di una natura grandiosa, ma anche da quel calore degli abitanti della Mama Africa che si esprime al meglio proprio attraverso la musica. In Senegal la musica è ovunque, nelle grandi arterie stradali di Dakar come nei più sperduti villaggi di campagna. Spesso basta il solo battito delle mani a creare una melodia, un canto ritmico e indimenticabile che continuerà a martellare i pensieri anche a mesi di distanza. Capitolo V – Dal fiume al deserto Tra il litorale della Petite Cote e i confini del Gambia, il minuscolo staterello che separa il Senegal settentrionale dalla Casamance, si stende per diversi ettari il piatto delta del Sine-Saloum. Questa distesa di acque tranquille è il rifugio di numerose specie di volatili e piccoli mammiferi, le sue lagune sono senza dubbio un paradiso per gli amanti del bird-watching. Parto da Mbour appena dopo l’alba. Dopo un breve tratto asfaltato lungo la costa, Mbake imbocca una pista di terra battuta, una scorciatoia che attraversa verdissime radure di baobab e palme. La stagione delle piogge mi permette di cogliere questo paesaggio nella veste migliore, tutto è ricoperto da un manto verde abbagliante in forte contrasto con la terra rossa che scorre sotto le ruote. Una breve sosta ci permette di esplorare a piedi la zona, i baobab centenari sovrastano la pianura con tutta la loro imponenza. Grazie alle acque abbondanti di agosto, questi colossi della natura, simbolo dell’Africa, sono ricoperti alla sommità da numerose piccole foglie. I baobab del Sine-Saloum sono abbastanza differenti da quelli delle grandi savane dell’Africa orientale e del Madagascar. Al contrario dei loro cugini più conosciuti, questi alberi non hanno un aspetto tubolare e liscio ma uno spesso tronco nodoso che si contorce fino alla cima formando talvolta alcune cavità. Queste piccole grotte naturali in passato davano asilo ai griot di passaggio, tanto che ancora oggi è usanza seppellire le spoglie dei cantastorie all’interno dei tronchi cavi dei baobab sacri. Lungo la strada le radure deserte punteggiate dai baobab si alternano a terreni fittamente coltivati a manioca e a palmeti. Non è raro imbattersi anche in qualche enorme termitaio, cattedrali di argilla che raggiungono addirittura i due metri di altezza! Alcuni sono brillanti opere di ingegneria, a dimostrazione dell’elevato grado di organizzazione di queste comunità di migliaia e migliaia di insetti. Nella corsa verso il delta si attraversano alcuni piccoli villaggi di capanne, la gente alza sempre la mano in segno di saluto e i bambini ridono alla vista di una decina di toubab appollaiati sul tetto di un pullmino malandato. In poche ore arrivo a Ndangane, dove mi imbarco su una lancia a motore per visitare i placidi canali del delta del Sine-Saloum, formato dalla confluenza dei due fiumi omonimi. Le acque sono costellate da colonie di pellicani, che all’arrivo dell’imbarcazione prendono il volo sopra le nostre teste disegnando ampie linee curve nel cielo. Isolette sabbiose separano le ramificazioni del delta, alcune sponde sono ricoperte da un fitto intrico di mangrovie. Il paesaggio è piatto e tranquillo, il silenzio è rotto di tanto in tanto dal richiamo di qualche volatile. Senza dubbio l’atmosfera è affascinante, ma il sole di mezzogiorno comincia a picchiare implacabile. Sbarco a Mar Lodj, situata sulla riva opposta di questo braccio del fiume. Facciamo una breve sosta all’ombra di un ristorantino che si affaccia su una minuscola spiaggia. Da qui attraversiamo a piedi un’ampia radura brulla fino al villaggio vero e proprio, dove veniamo ospitati per il pranzo da una conoscente di Seydou. Come sempre si mangia nel cortile, distesi sulle stuoie sotto un grosso albero di mango, con pollame e bambini che scorazzano tutto intorno. Oltre al solito cous cous ci portano abbondanti vassoi di gamberi di fiume appena pescati, una delizia al punto di farne indigestione! Per riprendersi dall’abbuffata ci va qualche oretta, trascorsa ad oziare sotto il mango; nel primo pomeriggio gironzolo per il villaggio, costituito interamente da case di fango e paglia che si raccolgono intorno ad una piazzetta con un vecchio baobab. Sotto i rami ci sono alcuni feticci ed un piccolo altare tradizionale, questo luogo è riservato al culto degli antenati e degli spiriti. Nonostante il Senegal sia a maggioranza musulmana, con alcune comunità cristiane, la popolazione non ha abbandonato i culti ancestrali su base animistica e capita ancora di imbattersi in rituali centenari, come quello frequentissimo della circoncisione o quelli praticati dai guaritori di Yoff nella periferia di Dakar.

In serata rincasiamo al Blue Africa, questa volta percorrendo la strada principale asfaltata. L’indomani ci aspetta un’altra escursione verso nord, fino al deserto di Loumpul. Se la Casamance e le regioni meridionali sono fertili e verdeggianti, più ci si avvicina al confine con la Mauritania più l’ambiente diventa arido e desertico. E’ il Sahel, fascia climatica al confine con il deserto del Sahara, una regione che negli ultimi anni si sta estendendo velocemente in direzione dell’Equatore a causa degli inarrestabili processi di desertificazione. Durante il viaggio verso nord sono necessarie alcune soste per rifocillarsi, una prima deviazione ci porta ad un villaggio di Fulani-Peul, l’etnia di pastori nomadi diffusa in tutta l’Africa occidentale. Gli abitanti ci accolgono calorosamente e ci permettono di visitare l’interno delle abitazioni, capanne circolari di paglia che vengono usate soprattutto come rifugio per la notte. Gran parte della giornata si trascorre all’aperto, nei pascoli. I Fulani, con i loro corpi longilinei e i tratti raffinati, sono tra le popolazioni più belle dell’Africa nera, forse grazie ad una remota parentela con le tribù nilotiche, e hanno alle spalle una storia di migliaia di anni, fatta di continue migrazioni e spostamenti nella vasta area compresa tra gli odierni Camerun e Senegal. Oggi i Fulani sono 12 milioni. Tra le sottoetnie più diffuse in Senegal è quella dei Toucouleur, le cui donne sono riconoscibili dagli orecchini circolari verniciati di rosso e arancio. Alcune donne del villaggio indossano ancora il boubou tradizionale, ma molte portano indumenti occidentali vecchi e sdruciti a causa delle condizioni economiche sempre più disagiate. Lasciamo il villaggio e continuiamo il cammino verso nord, ma presto ci imbattiamo in un violento temporale equatoriale e siamo costretti a chiedere rifugio ad un pescatore, che gentilmente ci ospita nella sua baracca di legno per consumare il pranzo al sacco. La pioggia continua imperterrita a battere sulle lamiere del tetto, rinunciamo al bagno in mare e decidiamo di continuare comunque verso il paese di Loumpul. Qui, dove per fortuna non piove, tramite un camion raggiungiamo le dune che si stendono a qualche chilometro di distanza. Nel cassone ci sono anche alcuni ragazzini del posto, incuriositi dall’inaspettato arrivo di turisti, e facciamo conoscenza con Mor, alias Garibaldi, musicista e grande amico di Alex che da ora fino alla fine del viaggio ci terrà compagnia con il suo inseparabile djembe. Le piogge recenti hanno dato nuova vita a questa zona pre-desertica che ora è ricoperta da chiazze di erba e di piccoli fiorellini: il deserto è fiorito e l’effetto è sorprendente. La distesa arida conduce fino ad un tratto di grosse dune di sabbia rosata, dove la pioggia non è riuscita ad arrivare. Il nostro campo è formato da basse tende a pianta quadrata, con materassi e stuoie come giacigli. Poso lo zaino e corro ad arrampicarmi sulla duna vicina, da cui si ammira uno straordinario panorama lunare con altre dune che si perdono fino all’orizzonte. Si consuma la cena sotto una tenda comune, acqua corrente ed elettricità ovviamente sono impensabili in quanto siamo accampati nel vero e proprio nulla. Per la doccia si usano grosse sacche di acqua appese ad un palo di legno, circondato da un recinto che garantisce un po’ di intimità. Nonostante il sole sia calato da un pezzo, sotto le tende il caldo è asfissiante; decidiamo di trasportare le stuoie sotto la duna e accendiamo un falò intorno al quale si riuniscono anche alcuni sconosciuti arrivati dal villaggio. Come al solito prima si balla al ritmo dei tamburi, poi arriva l’ora delle conversazioni e dei racconti, con le ultime fiamme del fuoco morente a disegnare strane ombre sui volti scuri delle persone che ci circondano. Così, con lo sfrigolio del fuoco, il sussurro di parole incomprensibili e l’odore pungente del tabacco nero mauritano a fare da sottofondo, mi addormento sotto un velo di nubi che nasconde il cielo stellato. Mi sveglio all’alba a causa del frescolino mattutino e della luce. La gente del posto che ieri ha animato la serata è scomparsa misteriosamente così come era arrivata. Un tè bollente risveglia gli animi e partiamo alla volta di Thies. La strada è la stessa del giorno precedente, percorsa a ritroso e oggi illuminata finalmente dal sole che ha preso il posto della pioggia scrosciante. Tra me e me mi rammarico di non avere avuto più tempo a disposizione per arrivare fino a Saint Louis, cittadina di stampo coloniale che giace all’estremo nord della lunga costa senegalese. D’altra parte sono soddisfatta della guida di Alex, che non ci ha sballottato a destra e sinistra in un mordi e fuggi ma che ci permette di vivere con calma e tranquillità i luoghi toccati, in modo da calarsi parzialmente nella loro quotidianità. Thies è la seconda città del paese per grandezza, il suo mercato artigianale è uno dei migliori posti per fare acquisti anche se spesso si riescono a spuntare ottimi prezzi nei banchetti lungo le strade polverose di campagna. La sosta a Thies si rivela una buona occasione per acquistare una bella maschera di legno, ma soprattutto per gustare qualche frittella di miglio cucinata agli angoli delle strade da grasse signore dal sorriso smagliante sopra i rotoli di doppio mento. In Senegal, come in tutto il resto dell’Africa, capita frequentemente di imbattersi in queste cucine all’aria aperta: da un pentolone unto e fumoso vengono offerte ai passanti le migliore delizie della cucina africana, dai dolcetti alla thieboudienne alla manioca. E loro, le grasse signore che incarnano lo spirito di Mama Africa, ti porgono la loro specialità in un cartoccio con il largo sorriso di chi è fiero del prodotto della propria classe culinaria. Qui, sui bordi di un marciapiede malandato e in mezzo ai gas di scarico dei taxi-brousse, divorando le frittelle di una paciosa Mama Africa e nel frattempo tentando di scacciare un fastidioso venditore che cerca di piazzare i suoi orologi taroccati, mi sento davvero in Senegal, percepisco il suo calore, la sua ospitalità, la sua vivacità e il suo confusionario tran tran. Teranga, benvenuti in Africa! Facciamo una sosta per pranzare quando ormai sono le due del pomeriggio passate. Dalla terrazza di un alberghetto arroccato sulla spiaggia pietrosa di Toubab Dialao si ammira l’oceano sottostante, con le onde fragorose che si scagliano contro la scogliera. Una serie di piccole spiagge separate da tratti rocciosi lambisce questo piccolo villaggio, dove la maggior parte dei bagnanti sono famiglie senegalesi che si godono le coste del loro paese fuori stagione, quando i turisti occidentali non affollano ancora le spiagge. A Toubab Dialao faccio conoscenza con uno dei rari senegalesi che parla inglese. Ange mi vuole a tutti i costi mostrare la sua bancarella in una spiaggetta limitrofa, vista la sua insistenza mi lascio convincere anche se gli faccio sapere subito che ho dimenticato i miei CFA nella borsa sul pulmino. Perse dal principio le mie potenzialità di cliente, il nostro incontro si rivela una interessante occasione per capire meglio le difficoltà che devono affrontare i tanti venditori ambulanti che quotidianamente percorrono le spiagge della Petite Cote in cerca di affari. Ange arriva dalla Casamance, la regione meridionale del Senegal che da un ventennio è teatro degli scontri tra il governo e l’MFDC (Mouvement des Forces Démocratique de la Casamance), movimento indipendentista guidato da padre Diamacoune Senghor. Nel corso degli ultimi anni la situazione si è stabilizzata, ma la Casamance ha perso inevitabilmente le sue possibilità di sviluppo turistico, nonostante le lunghe spiagge di Cap Skirring e la vegetazione lussureggiante dell’entroterra che l’avevano resa celebre. Ange, come molti suoi conterranei, è stato costretto ad abbandonare la terra natia per fare fortuna nelle località turistiche del nord. Mi racconta che non vede la sua famiglia da ben 3 anni, nonostante le poche centinaia di chilometri che separano Petite Cote e Casamance. Per guadagnarsi da vivere compra prodotti di artigianato a Dakar e li rivende sulle spiagge di Toubab Dialao, Mbour e Saly-Portugal, in questo modo si assicura un guadagno minimo per pagare l’affitto di una stanza e mandare parte del ricavato al resto della famiglia in Casamance. Ma in questa stagione ci sono pochi turisti – mi dice – gli affari migliori si fanno da dicembre a marzo, quando il clima secco e soleggiato attira migliaia di occidentali sulle coste senegalesi. Qualcuno vende manufatti artigianali sulla spiaggia, altri si guadagnano da vivere suonando lo djembe nei villaggi turistici, altri ancora fanno compagnia ai toubab in cerca di facili avventure. Il turismo sessuale in Senegal non è così evidente come in altri paesi del mondo, ma anche ora fuori stagione mi capiterà di vedere qualche signora di mezza età accompagnata da un bel ragazzo del posto. La piaga del turismo sessuale qui non è soltanto al maschile, il fenomeno riguarda anche le turiste attempate. Ange mi saluta lasciandomi il suo indirizzo, strappandomi la promessa che una volta tornata in Italia mi attiverò per far conoscere al maggior numero di persone possibile la sua terra, il Senegal, con tutto il ventaglio di luci e ombre che lo caratterizza. Capitolo VI – Il villaggio di acqua e conchiglie Prima di rientrare a Dakar trascorro ancora alcune giornate di riposo a Mbour. Nel palmeto che separa il cortile del Blue Africa dalla spiaggia sono state appese comode amache da cui osservare l’oceano e la vita che scorre sulla battigia. Mbour costituisce un buon punto di partenza per diverse escursioni, ma la cittadina è in se stessa meritevole non solo per il lungo litorale. Ogni sera prima del tramonto i pescatori raccolgono le reti e tornano a riva con il frutto della pesca, vendendo la merce ancor prima di sbarcare dalle loro bagnarole. A Mbour esiste una vasta area coperta adibita a mercato del pesce, con un lato aperto direttamente verso l’oceano. Ogni giorno qui si mette in moto un complesso meccanismo che coinvolge nel commercio del pesce parecchi abitanti del villaggio. L’odore è acre e sgradevole, le mosche pullulano a migliaia nell’aria. Aggirandomi sotto la tettoia di cemento nella quale avviene lo smistamento del pesce e la compravendita, per la prima volta da quando sono atterrata a Dakar sento che la mia presenza non è gradita. La gente sta lavorando e ha gli occhi diffidenti di chi non vuole sguardi intrusi ad interrompere la propria attività. Per rispetto della fatica altrui limito il più possibile l’uso della Nikon, mi soffermo sull’orlo della banchina ad osservare gli uomini che si immergono fino alla cintola nell’acqua melmastra e putrida, avanzando a stenti verso le barche dei pescatori per raccogliere la merce in grosse ceste di vimini da trasportare a riva. Alcuni sono poco più che bambini. I più fortunati si addentrano nella melma di pesce in decomposizione su carretti trainati da cavalli. Questo è il Senegal nudo e crudo, visto senza il filtro patinato del turista, che mi rimarrà sempre impresso quando nei giorni seguenti gusterò quell’ottimo pesce fresco che arriva dalle coste atlantiche. Una ventina di chilometri di litorale dividono Mbour da Joal-Fadiouth, dove mi dirigo dopo la sosta al mercato del pesce. Joal e Fadiouth sono due villaggi separati da un piatto lembo di oceano e collegati soltanto da un lungo ponte di assi di legno malconce. Da Joal, sulla terraferma, mi imbarco su una fragile piroga per raggiungere il gemello marino Fadiouth, che giace su un’isola formata soltanto da conchiglie. Ad ogni passo i piccoli gusci rosati si frantumano sotto i piedi, creando un continuo scricchiolio a cui dopo qualche minuto si fa l’abitudine. La particolarità di questo posto non è soltanto lo stretto legame col mare, ma la struttura stessa di questo villaggio sospeso sull’acqua e nel tempo. La lunga passerella di legno collega Joal alla parte abitata di Fadiouth, dalla quale tramite un altro ponte su palafitte è possibile raggiungere l’isolotto adibito a cimitero, cristiano e musulmano insieme. La comunione pacifica dei due credi è una cosa di cui vanno particolarmente fieri gli abitanti del luogo, tanto che non distante dalla chiesa cristiana si staglia un minareto. Infine, un terzo isolotto raggiungibile soltanto via mare custodisce le riserve alimentari della comunità. Il grano è conservato in curiosi granai circolari a forma di capanna, rialzati dal terreno in modo da ridurre l’umidità. E’ l’unica isola a non essere collegata al resto del villaggio tramite un pontile, probabilmente per preservare le preziose scorte da possibili incendi. Ci fermiamo nella piazzetta centrale, seduti su una panca a sorseggiare le solite bevande coloratissime e frizzanti che in Africa spesso costano meno di una bottiglia di acqua minerale. Osservando il viavai di persone sul ponte e a nostra volta osservati da decine di occhi incuriositi, ammiriamo il nostro ultimo tramonto infuocato sulla Petite Cote, un luogo magico che in questi giorni ci ha regalato nuove amicizie e nuove emozioni. Epilogo – L’Africa dentro Dopo la settimana di vagabondaggio sono nuovamente nella frenetica Dakar e nei suoi ritmi da metropoli africana. Trascorro le ultime ore in terra senegalese tra il mercato artigianale di Soumbedioune e il quartiere di Pikine, dove gli amici dell’associazione Jant-Bi hanno preparato una festa di addio, o forse di arrivederci. Se nei giorni passati avevo comunque già sperimentato la teranga, l’ospitalità del Senegal, e assaporato l’energia musicale dei griot, mai mi potevo aspettare cosa significa trovarsi nel bel mezzo di una festa africana. Questa festa di saluto è vissuta da tutta Pikine come una grande occasione di svagarsi e divertirsi, trascurando per qualche ora le gravi incombenze che sono all’ordine del giorno in un quartiere come questo. Il primo pomeriggio abbiamo ancora la possibilità di scambiare qualche parola con le persone conosciute la settimana precedente, come sempre la nostra presenza attira decine e decine di bambini davanti alla sede di Jant-Bi, che fanno a gara per ricevere qualche attenzione o per venire a sedersi sulle mie gambe. Alcune famiglie del quartiere si sono prese l’impegno di vestire ciascuno di noi alla maniera africana, io vengo invitata dai parenti di Daouda nella loro casa per provare un boubou. Mi addentro nei vicoli di Pikine insieme a una delle cugine del mio amico, scansando il pollame e le capre che circolano liberamente sul sentiero. Finalmente arrivo nel cortile della mia famiglia-ospite, dove i membri anziani si sono riuniti all’ombra. Prima di entrare in casa è buona educazione salutarli ad uno ad uno, scambiando i canonici salaam alaikum e m’alaikum salaam, nanga def e mangi firek. Bastano soltanto poche frasi in wolof per essere subito accolti calorosamente. Sono completamente sola, senza sapere più di dieci parole di wolof, in compagnia di persone appena incontrate, in un quartiere periferico di Dakar dove con i CFA che ho nella borsa un’intera famiglia potrebbe mangiare per una settimana, eppure non ho alcun timore o paura. Mi portano nella camera da letto, separata dalla sala soltanto da una tenda sottile, e mi fanno indossare un bellissimo boubou bianco e viola tirato fuori direttamente dall’armadio della proprietaria! Non finirò mai di stupirmi di questi gesti di cortesia e di affetto che in Africa sono considerati la normalità, mentre dalle nostre parti sono ormai più unici che rari. Sono quasi commossa mentre mi fanno accomodare su un divano di velluto fatiscente e mi mettono in braccio l’ultimo nato di questa numerosa famiglia; cerco di dimostrare la mia gratitudine per l’ospitalità ma mi rammarico ancora una volta della mia scarsa padronanza del francese, che non mi permette di esprimermi in libertà. In una strada di Pikine sono state disposte in circolo alcune panche e sedie, nel mezzo un grande spiazzo polveroso ospita i percussionisti, tra cui Mor/Garibaldi che ci ha seguiti durante tutto il viaggio da Lompoul sino a qui. I suonatori improvvisano una serie di musiche e di canti, a turno ognuno è chiamato al centro per ballare il tamtam. Alex e Seydou dimostrano la loro abilità di ballerini mentre il pubblico intorno batte le mani per tenere il ritmo, poi tocca ad alcuni responsabili di Jant-Bi e alla bella Mawolli che incanta la folla con i suoi movimenti aggraziati, infine non poteva che venire il turno di noi toubab, scomposti e fuori tempo sotto gli sguardi divertiti della gente. La festa continuerà fino a sera, in un estenuante vortice di musica e schiamazzi, tanto che tornati al Thally Cauris sprofondo in un sonno ristoratore prima di caricare i bagagli sul pullmino alla volta dell’aeroporto, dove alle due del mattino ci attende il volo di ritorno.

Con una stretta al cuore salutiamo i nostri amici nell’atrio delle partenze, fisso per l’ultima volta i loro sguardi profondi, i sorrisi bianchissimi che illuminano i volti. Seydou, Mbake, Mor, Lay, Mawolli, Djara. Molti probabilmente non li rivedrò più, ma il ricordo della loro terra e del tempo trascorso insieme saranno sempre dentro i miei pensieri. Alex invece torna in Italia con noi e la sua presenza almeno farà trascorrere più velocemente le quattro ore trascorse nel gate dell’aeroporto al gelo dell’aria condizionata in attesa dell’aereo di ritorno che, quasi per uno scherzo del destino, sembra non arrivare mai a causa del ritardo accumulato a Casablanca. Passo la notte in volo cercando di dormire, ma si fanno già sentire le prime avvisaglie del mal d’Africa e di quella malinconia onnipresente alla fine di ogni viaggio. Nel primo pomeriggio atterriamo a Linate, recupero frettolosamente lo zaino, scalpito dietro le porte scorrevoli degli arrivi internazionali e finalmente, in mezzo alla folla, eccolo là. Il sorriso di Bob che mi ha aspettato pazientemente per due settimane. La mia parte di Africa in Italia, che attutisce la nostalgia per quella terra meravigliosa.

Galleria fotografica, itinerario dettagliato e altre informazioni utili su http://www.Seshepankhatum.Net



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