Sulle tracce di Saramago
[ José Saramago, “Viaggio in Portogallo” ] La viaggiatrice aveva in programma una breve visita di Lisbona, che per lei ancora non era altro che un tram giallo che attraversa un vicolo strettissimo con l’inconfondibile sottofondo della voce di Teresa Salgueiro dei Madredeus. Ma si dava il caso che la Piperita si trovasse allocata in un minuscolo villaggio tra le montagne a nord di Viseu e dunque la viaggiatrice ha pensato bene di attraversare longitudinalmente il Paese in bus per andare a recarle un salvifico saluto. E infine la viaggiatrice suddetta ha cominciato a sbocconcellare il Viaggio in Portogallo di Saramago un po’ sul suo divano piemontese, un po’ sul suo letto di Bari, un po’ in aereo, un po’ nella stanza della Tia tra la statua della Senhora di Fatima e i pizzi e lo ha trovato di buon auspicio. Le è sembrato che Saramago abbia suddiviso il Viaggio in tanti viaggi separati in periodi diversi, e si è ripromessa di seguirne le orme, considerando questi quattro giorni soltanto la prima delle tappe. Intanto ha provato ad imitarne lo stile, invidiandolo per ogni singola frase piena di pazienza, coraggio e memoria, senza considerare che se lei scrivesse come Saramago il premio Nobel lo avrebbero dato a lei, viaggiatrice in un Paese non suo, e non a José, viaggiatore nel suo Paese.
All’arrivo Lisbona è coperta di nuvole che vanno diradandosi nel tragitto dall’aeroporto al centro (Campo Pequeno, Saldanha, Marquês Pombal, Avenida, Restauradores) e soffia una discreta arietta atlantica. Mollato il bagaglio a mano, il sole festante accoglie la viaggiatrice alla scoperta della città in Avenida Libertade, la Strada della Libertà. Dopo aver scovato la stazione dei bus nei pressi del giardino zoologico per organizzare la partenza dell’indomani, la viaggiatrice, piuttosto scoraggiata per le iniziali incomprensioni linguistiche, raggiunge la Baixa, la zona commerciale dove si trovano i negozi e le boutique alla moda. La città bassa è stata interamente ricostruita dopo il disastroso terremoto del 1755 secondo i progetti del marchese di Pombal, che applicando criteri moderni sostituì con una sorta di scacchiera ordinata il dedalo di viuzze che c’era prima. Il terremoto è stato un evento traumatico per la città, non solo dal punto di vista architettonico ma anche da quello culturale e persino psicologico: un vero e proprio taglio con il passato che ha reso Lisbona – dicono – quasi irriconoscibile.
La viaggiatrice, dicevamo, percorre le vie perpendicolari della Baixa, districandosi tra banche e attività finanziarie, e procede filata in direzione Praça do Comércio, la centralissima piazza quadrata affacciata per uno dei suoi lati sull’estuario del Tejo: una prospettiva di portici e finestre su sfondo giallo intervallata dall’arco da Rua Augusta, pista di autobus e tram colorati che girano intorno alla statua a cavallo del re José I, che calpesta per sempre simbolici serpenti.
Attraversato un tratto della troppo turistica Rua Augusta, giunta in rua do Conceição la viaggiatrice è praticamente costretta a salire in compagnia di portoghesi e turisti sul tram 28, a bordo del quale una donna la mette in guardia a gesti dal pericolo di essere derubata da due loschi figuri che erano appena saltati su. Per inciso, il giorno dopo un tassista le spiegherà che l’uso dell’espressione “fare il portoghese” per definire chi usufruisce di un servizio senza pagarlo deriva da un episodio accaduto a Roma nel ‘700, quando l’ambasciatore del Portogallo presso lo Stato Pontificio invitò i portoghesi residenti a Roma ad assistere gratuitamente a uno spettacolo teatrale. Poiché non serviva nessun documento ma bastava dichiarare la propria nazionalità, molti romani si spacciarono per portoghesi per approfittare dell’opportunità.
Tornando al 28, dopo aver costeggiato l’Alfama (il quartiere più antico, fatiscente e pittoresco, risparmiato dal terremoto) e girato torno torno al Castelo S. Jorge (più frequentato per il belvedere che per la fortezza in sè), l’autista si ferma nei pressi del largo Martin Moniz e sbraita qualcosa da cui i pochi viaggiatori ancora a bordo del tram, evidentemente non lusofoni, deducono che è il capolinea e devono sgomberare. La viaggiatrice senza volerlo è tornata quasi al via e senza accorgersene raggiunge Praça da Figueira, dove campeggia la ciclopica statua equestre del re João I, «esempio perfetto di un equivoco plastico che solo raramente abbiamo saputo risolvere: c’è quasi sempre un po’ di cavallo in più e un po’ di uomo in meno», chiosa il suo nume tutelare, Saramago. Accanto si entra in Praça da Pedro IV, chiamata comunemente il Rossio, pavimentata a mosaico di pietre grige e nere. Qui si affacciano il Teatro Nazionale e la superba Estacio do Rossio.
Dal Rossio all’elevador do Carmo (o di Santa Justa, dal nome della via) il passo è breve: in fila con gli spagnoli dentro alla maglia di ferro finemente cesellata, progettata a fine Ottocento da un allievo di Eiffel, si raggiunge l’altezza prefissata, da cui la viaggiatrice gode di un panorama di tetti rossi e cielo plumbeo con grigi inserti di strade e piazze. Qui c’è ciò che resta del Convento do Carmo, lasciato appositamente scoperchiato dopo il terremoto, con le arcate in pietra a vista, oggi adibito a sede del museo archeologico. La passeggiata continua su nello Chiado: anche qui c’è una ferita aperta dal 1988 quando ebbe luogo un terribile incendio, in seguito al quale il quartiere è stato restaurato dal noto architetto Álvaro Siza. Girovagando è possibile imbattersi in un miradouro inagibile per lavori in corso, nel caffè A Brasileira, il preferito da Pessoa, con la sedia in bronzo accanto a Fernando (anche lui in bronzo) che attende la viaggiatrice per la foto ricordo, in ristorantini caratteristici dove preparano pesce, nella chiesa di San Roque che sembrerebbe dotata di ricchissimi e pregiati interni ma adesso è orario di chiusura.
La fame incalza, ma la prima sera è consacrata al fado, così si raggiunge l’Alfama salendo sull’inevitabile 28 fino alla Sé, ossia la Cattedrale. Passando davanti al belvedere Santa Luzia, con annesso ristoro, chiesetta omonima e parete di azulejos, i sensi sono allertati da un appetitoso odore di pesce e la viaggiatrice si siederebbe immediatamente a un tavolino lasciandosi servire sangria e pesciolini fino allo sfinimento completo, ma prosegue nelle stradine in un saliscendi bianchissimo di calce e urlante di donne che smarriscono le figlie e prepotente di ristoratori che ti trascinano a forza nel loro locale.
Sfuggiti coraggiosamente alle grinfie del primo, si entra nella Parreirinha de Alfama, “il miglior posto dove ascoltare musica nazionale portoghese”, proprietà della cantante Argentina Santos. Il personale del locale, tra cui si nasconde la fantomatica regina del fado, non finisce di incuriosire la viaggiatrice affamata e mescolata agli altri avventori, quasi tutti turisti. Truccatissime matrone impaiettate, poppute modelle impressioniste con scollature generose sotto il grembiulino bianco sporco, impomatati uomini in doppiopetto scuro: tutti mostrano sguardi seri e modi bruschi in quello che è il loro quotidiano lavoro, districandosi tra i tavoli troppo vicini. Ingurgitato un abbondante e speziato arroz de marisco, nell’atmosfera riscaldata da vini e frutti di mare, finalmente iniziano le esibizioni: uno dopo l’altro si alternano in pista (cioè in un minuscolo spazio ricavato tra i tavoli) svariati artisti, alla voce e agli strumenti a corde. I gorgheggi, i virtuosismi e gli applausi che riceve danno la conferma che l’ultima ad esibirsi sia lei, la regina del fado (se non fossero bastati la pettinatura, le paillettes, il suo tavolo personale apparecchiato vicino alla porta, l’ostentata alterigia, i modi da secondino nei confronti del traffico al portone d’ingresso).
La viaggiatrice aveva partecipato alla serata con molta ingenuità, deve ammetterlo, senza la preparazione necessaria. Per esempio, se si fosse informata, avrebbe sicuramente prenotato una settimana prima, come hanno fatto vari avventori che hanno scritto il loro commento nei siti internet, per non rischiare di trovare il locale pieno come sempre accade. Inoltre, avrebbe provato un’emozione speciale ascoltando Argentina Santos, se avesse saputo prima che la diva ottantenne è considerata l’ultima grandissima cantante di fado vivente, è molto capricciosa e dunque non sempre si ha il privilegio di assistere ad una sua esibizione. Avrebbe sicuramente concordato con Dulce Pontes (considerata una delle eredi del fado, molto famosa anche in Italia) se avesse letto che per lei la signora Santos è la più grande e dotata cantante di fado portoghese, ma è anche genuina e semplice perché continua a fare la spesa e cucinare per i clienti del suo ristorante. Se a ciò si aggiunge che solo 3 giorni dopo Argentina si sarebbe esibita a Perugia insieme ad altri fadisti, si può dire che riuscire ad ascoltarla è stata una vera questione di fato (o culo, come dir si voglia). Se si fosse documentata, la viaggiatrice avrebbe saputo anche che la famosa cantante nacque nel quartiere di Mouraria, iniziò a gorgheggiare solo dopo l’apertura del ristorante (dove inizialmente faceva la cuoca), negli anni ’50 , che nella trattoria ha ospitato eccezionali artisti come Berta Cardoso, Lucília do Carmo, Alfredo Marceneiro, Celeste Rodrigues, Mariana Silva, Maria da Fé e tanti altri e che solo da poco ha accettato di cantare anche fuori dal suo ristorante: e infatti ha vinto nel 2002 la XIII edizione del Premio Città di Recanati, per dirne una.
Infine, se avesse letto qualcosa sull’argomento, la viaggiatrice avrebbe cercato tutte le cose che ci sono nel fado: il destino, la nostalgia, la lontananza, la separazione, il dolore, la sofferenza, l’emarginazione, il dramma; e avrebbe appizzato le orecchie per scoprire tra le note lo zampino degli arabi, quello dei brasiliani e quello dei portoghesi stessi, l’odore di mare e quello umido dei vicoli. E si sarebbe interrogata, ascoltando il pizzicare ritmato delle corde della guitarra, sui motivi politici per cui durante la dittatura questa musica conobbe grande diffusione e popolarità perché assurta a simbolo della nazione, mentre dopo la rivoluzione fu parzialmente emarginata.
Le canzoni toccano il cuore ma poi finiscono, tutti sono soddisfatti, la viaggiatrice ha modo di scambiare conversazioni in europanto con avventori e musicanti, il conto a persona è sui 35 euro e si può andare a dormire felici.
Il giorno dopo la viaggiatrice deve raggiungere Castro Daire in autobus. Sono 4 ore e mezza di tragitto verso settentrione, passando per Coimbra e Viseu. Durante il viaggio alterna sonnellini a letture sparse del Viaggio di Saramago, riflettendo sul fatto che è molto più difficile scrivere in terza persona perché, volendo evitare di ripetere sempre “il viaggiatore osserva”, “il viaggiatore ritiene” e via dicendo (quando, scrivendo in prima persona, si può tranquillamente omettere il soggetto “io”), è necessario ricorrere spesso alle frasi impersonali, come nel dialetto fiorentino. Riconosce quanto la preparazione del Viaggiatore in merito alla storia dell’arte sia utile per godere di un viaggio e per scriverne in modo significativo. E infine si accorge irrimediabilmente anche della propria incompetenza in fatto di botanica, e questa è una pecca enorme se vuoi fare lo scrittore di viaggi, perché è davvero vergognoso cavarsela con inutilità quali “la vegetazione era rigogliosa” oppure “il paesaggio era verdissimo”. Diamine, un po’ di precisione! Comunque questa autocritica è molto saramaghiana e dunque il discorso fila a meraviglia.
La viaggiatrice, passeggera occasionale di una corriera portoghese, riapre gli occhi all’altezza di Leiria e le finestre sono piene di ginestre giallissime ed altissimi eucalipti, mentre alla radio passano Angie dei Rolling Stones. Coimbra sembra bella col suo fiume Montego che la attraversa e il centro arroccato in alto, soltanto intravisto. L’autobus purtroppo fa una sosta di venti minuti solo alla lugubre stazione degli autobus, dove vendono croissant ed enormi pani morbidi (parola da non utilizzare in Portogallo perché vuol dire “morto”) e insomma ci si rende conto che in questo Paese hanno una vera e propria cultura dei dolci.
È inevitabile che un jamaicano rompicoglioni, molto probabilmente ricercato per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti dalla polizia spagnola, attacchi bottone. Vorrebbe anche sedersi accanto alla viaggiatrice ma lei non ha voglia di conversare e ringrazia il cielo che il posto accanto sia occupato. La viaggiatrice in questi Paesi parla sempre un fantastico esperanto, pensa sempre che se i suoi interlocutori avessero fatto studi classici si potrebbe dialogare in latino, ma non crede che sia il caso dello spacciatore jamaicano logorroico.
Il tragitto da Coimbra e Viseu è splendido, il fiume si intreccia alla strada slargandosi e restringendosi, circondato da terrazze di vigneti, la vegetazione è verde e rigogliosa (eccola qua, l’incompetenza). Forse la viaggiatrice in altri suoi viaggi era distratta, ma in questo Paese le sembra che ci sia un’inconsueta abbondanza di tetti rossi, o almeno è ciò che vede dai finestroni dell’autobus, paesini minuscoli sparsi nella campagna con le case ricoperte di tegole, come in Toscana, e ciò che ha visto da alcuni belvedere di Lisbona.
Scesa alla stazione degli autobus di Castro Daire, tutti i passanti osservano con attenzione e probabilmente curiosità la viaggiatrice che aspetta gli amici. Lei si esamina accuratamente per capire se è per caso vestita in maniera sconveniente o almeno eccentrica, ma non scorge nulla di meno che comune nel suo modo di abbigliarsi o nella sua pettinatura. Deduce perciò che si tratti di normali abitudini locali. Tra tornanti spettacolari gli amici la conducono a Nodar, un villaggio di 30 abitanti che vivono in case di pietra e legno coi tetti d’ardesia. C’è la fontana dove si fa il bucato e ci sono le pecore col campanello. Questa casa e queste persone di Nodar ricordano alla viaggiatrice un sogno che aveva fatto in passato ed era veramente un bellissimo sogno. Il sole è potente e riscalda il torrente, la campagna, i gatti, gli uccellini e tutto insomma il bendiddio che si apparecchia uscendo sul balcone.
All’imbrunire si scatena improvviso un temporale e va via la corrente per diverse ore. Cucinare la parmigiana di melanzane e cenare con la luce delle candele fa molto salto nel passato, che poi qui non è un gran salto poiché la corrente elettrica è arrivata solo negli anni ’80. Tutti gradiscono il menu e il vino leggero, chiacchierare con gli artisti americani è divertente ma anche impegnativo. Non resta che dare la buonanotte alla Tia (che parla portoghese con l’inconfondibile accento della più remota provincia anconetana), e andare a dormire con i sensi occupati a riconoscere l’odore di stalla, il suono squillante dei campanelli, i ghirigori dei pizzi, la ruvidità delle lenzuola. Al mattino la Tia le chiede come mai si trattenga per così poco tempo e se ha dormito bene, o almeno la viaggiatrice, ospite di una famiglia portoghese dell’entroterra, risponde a queste domande ma non è certa che le domande fossero quelle; la Tia comunque sembra soddisfatta delle risposte. La viaggiatrice sceglie di non partecipare alla prevista escursione a piedi. Per fortuna, perché l’americano cade nel fiume per colpa delle lenti bifocali e bagna tutta l’attrezzatura e gli occhiali cadono nell’acqua e devono tuffarsi in due per recuperarli dopo 15 minuti di ricerca. Si va a prelevare gli unici partecipanti dell’escursione arrivati a destinazione, attraversando un paesino vicino ancor più isolato, passando sopra un minuscolo ponticello, costeggiando un fiume tra i meno inquinati del mondo. Qui in estate è caldo e arido, ma ora la primavera è nell’aria e la temperatura è dolce, i cocchi di glicine enormi, i pini marittimi e gli eucalipti slanciati, i contadini salutano. Il pranzo propone succulenti peperoni rossi nello spezzatino alle patate, con contorno di riso e olive nere, ma il momento della digestione coicide con quello in cui bisogna ripartire.
Nel viaggio di ritorno il bus fa un’inedita fermata a Fatima, riconoscibile alla santità che si respira, ma soprattutto dai nomi degli hotel: Domus Pacis Hotel, Sao Jose Hotel, 3 Pastorinhos Hotel, Santa Maria Hotel. La viaggiatrice rimpiange di non aver potuto partecipare alle visite previste nel pacchetto”Fátima e i Pastorelli”, consistente nelle seguenti tappe: Santuario, Basilica con le tombe dei pastorelli Francisco, Jacinta e Lucia, Cappelina delle Apparizioni, cuore del Santuario (con il tempo per la messa), Aljustrel (dove ci si ferma e si visitano le case dei pastorelli), Valinhos (il luogo della quarta apparizione della Madonna il 19 agosto del 1917), Loca do Anjo (dove i pastorelli hanno avuto la prima e la terza visita dell’Angelo nel 1916).
All’imbrunire Lisbona si avvicina, nessuno sul bus sa con precisione quale sia l’orario di arrivo: sembrano tutti impegnati ad ascoltare la radiocronaca della partita di calcio tra una imprecisata squadra portoghese e una imprecisata squadra spagnola. Non che il portoghese parlato sia comprensibile, si capiva giusto Rrrrrrrrrui Coshtaaaa, ma poi il tassista ha spiegato alla viaggiatrice che partita fosse, anche se ora non se la ricorda.
Cena nel Bairro alto, dal simpatico Miguel che serve all’affamata viaggiatrice un superbo bife de lomo con patatine novelle. Il viaggio più il vino la spediscono dritta nel mondo dei sogni, sorda perfino agli eccessi notturni di giovani in gita che fanno sobbalzare i pavimenti mochettati dell’hotel, di norma molli e tremolanti come le porzioni di terra emersa che si trovano nelle lagune.
Oggi la viaggiatrice si riserva di colmare le lacune più grosse relative alla capitale, considerando che a causa della divagazione a nord le rimane praticamente soltanto una giornata piena, più qualche spicciolo. La prima tappa è dunque il quartiere di Belèm (Betlemme in portoghese), dove sono concentrate alcune tra le meraviglie di Lisbona. Poiché in Praça do Comércio le file per i tram sono molto corpose, è preferibile prendere un taxi, anche perché qui i prezzi sono tanto accessibili che in molti casi quasi conviene muoversi in taxi piuttosto che viaggiare su bus e tram. Inoltre, poiché i tassisti spesso sono persone simpatiche e vogliose di conversare, la viaggiatrice ne approfitta per scambiare informazioni, pareri e battute con loro. Altro che saudade, le persone variamente incrociate emanavano un elevato tasso di allegria e follia positiva. Al massimo la saudade può darsi che esista a livello nazionale, nei confronti di un passato glorioso e spumeggiante di scoperte e potenza, mentre oggi purtroppo il Portogallo è il Paese più povero dell’Unione Europea. Restando in argomento, il tassista scarica la viaggiatrice nei pressi del monumento alle scoperte, dedicato all’infante Enrico e ai portoghesi che scoprirono nuove rotte. Costruito nel 1940 in occasione dell’Esposizione Universale, è poi diventato uno dei simboli di Lisbona. Un’enorme prua di nave in pietra bianco-rosata che spicca sul cielo blu, affacciata sull’estuario del Tejo, sulla quale, capeggiati da Enrico il Navigatore, che guidò il Paese alla scoperta di nuovi mondi, in fila sono scolpiti in altorilievo i più grandi viaggiatori, scrittori, pittori, matematici del Paese. All’interno c’è un ascensore per arrivare in cima e alcuni ridotti spazi espositivi, mentre nella piazza di accesso vi è una rosa dei venti realizzata di marmi dai colori diversi e donata dalla Repubblica del Sudafrica, circondata da un planisfero calpestabile (sempre in marmo) che indica tutte le rotte e i territori scoperti dai portoghesi.
Dalla parte opposta dell’enorme viale si può raggiungere facilmente il Mosteiro dos Jerónimos, sorprendente opera in stile manuelino, lo stile architettonico fiorito in Portogallo all’inizio del ‘500, noto per l’esuberanza e la finezza dei dettagli. In genere molte delle opere realizzate secondo questi canoni vennero finanziate dalle imprese commerciali con l’Africa e l’India, mentre il nome gli fu dato solo nell’Ottocento, in onore del re Manuele I che regnò nel periodo delle grandi scoperte. Il Monastero è tutto bianco e ricamato come un pizzo. Il portale posto a sud, che è la prima cosa che si vede giungendo dalla strada, è tutto un sormontarsi di statue e nicchie e leggeri pilastrini e piedistalli e archetti e capitelli fiori nodi pinnacoli e croci. All’interno gli archi sono a volta semicircolare, le colonne scanalate e scolpite, tranne inserti di pietra naturale a contrasto. Nella chiesa sono alloggiate le tombe di Vasco da Gama e Luis Vaz de Camoes, oltre a quelle di re e regine. Il poeta Fernando Pessoa riposa invece nel chiostro, che è una teoria circolare di snellissimi archi dentro altri archi o sopra altri archi o accanto ad altri archi, con il loro bel ricamo floreale o geometrico, e poi visi rombi animali velieri conchiglie foglie puttini coni bolle di pietra. Il sole accecante del mezzogiorno crea un contrasto fin troppo stridente tra luci e ombre. In un salone c’è un’esposizione interessantissima, nella quale su un pannello scorrono parallelamente foto e testi che comparano la storia del mondo, quella del Portogallo e quella del Monastero. Peccato non poterla impacchettare e portare a casa.
Nelle vicinanze (che di norma sono immediate) c’è la rinomata e antichissima “Pastelaria de Belem”, che sforna a ciclo continuo i suoi tipici dolcetti di pastasfoglia ripiena di crema. Nelle numerosissime sale interne è possibile ammirare gli azulejos con immagini del quartiere, scene marinaresche, citazioni dal famoso poema di Camoes e così via. La guida informa che in zona sono presenti il Centro culturale progettato dagli architetti Vittorio Gregotti e Manuel Salgado, il museo delle carrozze e quello della marina, il Giardino botanico tropicale e molto altro. Ma la viaggiatrice fa finta che tutto ciò non esista e si reca alla torre di Belém, anch’essa in stile manuelino, quindi cinquecentesca, posta nel punto da cui dovevano passare tutte le imbarcazioni prima di giungere al mare aperto. Un tempo l’edificio era ancora più perso nell’acqua, poi il progressivo insabbiamento l’ha avvicinata alla terraferma. Ciò che attira la viaggiatrice in questa piccola fortezza – quasi faro è la bianchezza in contrasto con il blu del cielo e del fiume (quasi mare), i decori in stile marinaro (nodi e corde), le influenze arabe, i balconi veneziani, le torrette di guardia, quel misto di stile militare e orientale, di possente e di leggero, che poteva e può ancora disorientare. Visitate brevemente le sale adibite a prigioni nei sotterranei, inforcando una scaletta a chiocciola a senso unico si sale verso tutti i piani, e qui ci si può affacciare da finestre e balconcini e torrette sul terrazzo sottostante e sul Tejo tutto.
Aver impegnato occhi e memoria così tanto richiede una pausa di riflessione davanti ad una birra, al sole, studiando i souvenir di galletti colorati e piastrelle. E poi direttamente al Cais de Sodré da dove partono i traghetti che raggiungono l’altra sponda del fiume: qui danno il benvenuto alla viaggiatrice poveri venditori ambulanti di formaggi e fragole. Col taxi si va a vedere da vicino il Cristo Rey, un’opera di proporzioni immense che riproduce il Cristo Redentore di Rio de Janeiro, costruito in ringraziamento per il mancato coinvolgimento del Portogallo nella seconda guerra mondiale. Da questa sponda la viaggiatrice può osservare il tutto da un’altra prospettiva: il ponte XXV Aprile, inaugurato nel 1966 durante la dittatura e prima intitolato appunto a Salazar, e poi tutta la città spalmata tra cui spiccano il castello, la chiesa di Sao Vicente, il Pantheon: “la città grigia, piatta su colline, come se costruita solo di pianterreni, lassù per caso una cupola alta, un muro più grosso, una sagoma che sembra un rudere di castello, a meno che tutto ciò non sia che illusione, chimera, miraggio creato dalla volubile cortina delle acque che vengono giù dal cielo coperto”, secondo il sempre vigile occhio del maestro.
E infine per la serata finale (fuochi d’artificio, botti, ricchi premi e cotillons) la viaggiatrice sale sulla linea rossa della metropolitana, l’ultima nata, e si reca alla stazione Oriente, un miracoloso padiglione che sembra costituito da migliaia di enormi fiocchi di neve. Da qui si può esplorare il Parque das Naçoes, il nuovissimo sfavillante quartiere costruito in occasione dell’Expo 98 (quando si celebrarono i 500 anni della scoperta del passaggio marittimo per l’India da parte di Vasco da Gama) in una zona che all’epoca era un’ex distretto industriale in decadenza. Tra le attrattive, un immenso centro commerciale, una teleferica che costeggia il fiume, il bianchissimo ponte Vasco da Gama, uno splendido Oceanario (il secondo più grande al mondo), il Casinò, il Padiglione Atlantico, utilizzato per concerti ed eventi, la Fiera Internazionale di Lisbona, il Padiglione della Conoscenza, insomma tutto nuovo di pacca e stramoderno, con specchi d’acqua e bandiere e le torri a forma di vela. Per l’Oceanario è troppo tardi, ma per la teleferica si è ancora in tempo: dalla sua cabina spenzolante la viaggiatrice può ammirare il ponte più lungo d’Europa (17 km). Il centro commerciale sembra una nave, sul soffitto di vetro scivola acqua e sulle terrazze si gode il panorama di questa Futurama lusitana. Qui l’unica cosa che interessa alla viaggiatrice sono le librerie (e infatti acquista un libro di poesie di Pessoa) e la cena, che si consuma in un ristorante a buffet, dove puoi servirti all’infinito con roastbeef appena tagliato e patatine novelle e verdure e pesce e tanto altro. Per inciso la viaggiatrice ama i ristoranti di Lisbona perché ci lavorano questi camerieri mulatti di una bellezza inusitata e denti bianchi che saltano fuori nei sorrisi che per il cliente occasionale sono una gioia inaspettata. Infatti anche una carrellata tra la strade rivela una composita accozzaglia di etnie, visi colorati e occhi scuri intensissimi dei molti emigrati provenienti dalle ex colonie come l’Angola, il Mozambico, Capo Verde.
Le ultime ore della sera passano piacevolmente al bar dell’hotel tra una birra e una chiacchierata con una coppia di olandesi e il barista della Guinea Bissau. La viaggiatrice nutre una vera adorazione per i bar degli alberghi, nulla frenerebbe la sua logorrea di cui sono solitamente vittime gli avventori occasionali e giungerebbe senza accorgersene alla colazione in un continuo scambio di pareri su questa ed altre parti del mondo. Per fortuna a volte si autocensura e quando nota che le occhiaie nei suoi interlocutori hanno assunto proporzioni preoccupanti si defila.
Prima del volo avanzano un paio di ore per pascolare senza senso nelle vie del centro, a caccia di pareti di azulejos, scorci di tram fermi in salita, pastelerie e vinerie con le insegne nere e oro, negozi di artigianato e stupidi e costosi souvenir coi galli, edifici in stile liberty restaurati.
Nella mente della viaggiatrice in tassì verso l’aeroporto (Restauradores, Avenida, Marquês Pombal, Saldanha, Campo Pequeno) questo non è che un arrivederci: si affollano nella sua mente le tegole, i nodi, le croci, i galletti, le piastrelle, le cozze, le chitarre, le chiatte, le statue equestri, le rotaie, le anse del fiume, gli eucalipti, i pini marittimi, i volti e i gesti, i ritmi della lingua, e insieme a tutto questo i nomi dei villaggi visitati dal Viaggiatore, le puntute sue riflessioni, le frasi dense, possibili solo per chi non è da mo’ che pensa, no, sono decine e decine di anni. E insomma la viaggiatrice, nonché aspirante scrittrice, ne deve fare di strada.