Sul tetto delle Americhe
Dopo lunghi istanti passati a respirare avidamente, io e Tonia riuscimmo finalmente a presentarci ai ragazzi della Piccola Locanda, un delizioso rifugio sulle alture di Cuzco consigliatoci da un amico. Evidentemente assuefatti ai viaggiatori che arrivano da loro sfiancati dall’altura, attesero pazientemente che ci riprendessimo, offrendoci un rigenerante mate de coca. Benedetta sia la coca! Da non confondere con la cocaina, sia ben inteso, che è frutto di una lavorazione chimica. Le foglie della coca, una pianta che cresce nelle zone tropicale dell’America latina occidentale, rappresentano uno stimolante naturale e blando, con effetti paragonabili a quelli del caffè. Costituisce il rimedio ideale al mal d’altura che colpisce inevitabilmente in queste zone, contribuendo ad alleviare le emicranie e a ridurre il senso di spossatezza.
Cuzco è il punto di partenza di una luna di miele un po’ sui generis, in cui hotel a 5 stelle saranno sostituiti da rifugi le cui uniche stelle si troveranno in cielo, i mari tropicali lasceranno il posto ai deserti più inospitali della Terra e le cene a lume di candela si trasformeranno in bivacchi di fortuna in compagnia di viaggiatori erranti. È vero che decidendo di sposarmi Tonia era consapevole di cosa la aspettasse, ma ciò non sminuisce minimamente la sua stoica pazienza!
Vaghiamo in città per alcuni giorni, in cerca di un acclimatamento che arriva lentamente e delle suggestioni storiche della mitica capitale dell’impero inca, che invece cogliamo subito. Cuzco, infatti, è ammantata da un’energia magica, che sembra sgorgare direttamente dai suoi antichi abitanti, il misterioso popolo che sottomise con la forza un impero sterminato e floridissimo. Le rovine che si susseguono in città e nei suoi immediati dintorni consentono di familiarizzare con una cultura i cui esempi architettonici più impressionanti li abbiamo ammirati nella Valle Sacra, una sorta di Florida precolombiana dove gli Inca più facoltosi (imitati ancora oggi dai Cuzqueni più benestanti) si ritiravano per sfuggire le rigide temperature della città.
Ma col passare dei giorni, mentre i polmoni si assuefanno malvolentieri all’aria di montagna, i nostri sforzi sono sempre più concentrati sull’organizzazione di un trekking andino. L’idea originaria, una traversata di quattro giorni attraverso la selva amazzonica per raggiungere il quasi inaccessibile sito inca di Choquequirao, tramonta definitivamente la sera prima dell’ipotetica partenza. In città era giunta voce del cedimento di un ponte, unico mezzo per superare un fiume, a causa delle copiose piogge dei giorni precedenti. Non per niente il sito è quasi inaccessibile! Poco male, rimandiamo la partenza di un giorno e riorganizziamo gli zaini per adattarli alle temperature ben più rigide che affronteremo durante il Salkantay trek. Si tratta di un percorso che si snoda alle pendici di gigantesche pareti innevate, tra cui spicca il grande Salkantay coi suoi 6270 m. per proseguire, oltre duemila metri più giù, attraverso i fumi della foresta nebulosa e concludersi con l’ascesa al Muchu Picchu. È un cammino alternativo al classico e sovraffollato Inca trail e, se da un lato offre una panoramica meno completa dell’area archelogica inca, dall’altro consente di vivere un’esperienza più genuina e spirituale rispetto all’altro percorso, su cui spesso si è costretti a camminare in fila!
I contorni dei picchi gravidi di nevi ritagliavano l’azzurro acceso del cielo come lattiginose cesoie impazzite. Sotti di essi, i bassi prati verdastri salivano timidi al cospetto delle lontane montagne, arrendendosi metro dopo metro all’intrusione di scure rocce erratiche. Sull’altopiano di Soraypampa, mentre scegliamo nervosamente lo stretto necessario da portare con noi e scartiamo quanto sarà trasporti dai muli, lo spettacolo che ci troviamo davanti mentre percorriamo i primi, già affannosi, passi è al tempo stesso meraviglioso e tremendo. L’aria fredda e il sole rovente coesistono in un’improbabile alternanza, infischiandosene delle più basilari leggi di osmosi fisica.
Il corpo sembra acquisire una volontà autonoma e protesta rumorosamente per mezzo del cuore. Siamo a 3.800 metri e l’impresa che ci aspetta si presenta per quello che è: dura! Non è il momento delle parole, in silenzio, proteggendo il prezioso carico d’ossigeno, mettiamo un piede avanti all’altro, senza pensare troppo, solo un passo, poi due, respirare piano, le braccia che aiutano le gambe. Dopo poco, troppo poco, mi volto indietro. Abbiamo percorso un breve tratto in falso piano e siamo già piegati con l’affanno. Il Salkantay sulla destra e l’Humantay sulla sinistra, esattamente dov’erano prima, sembrano prendersi beffe di noi. Ma allo stesso tempo fanno sentire il loro richiamo, il loro fascino primordiale. Forza, allora! Un piede davanti all’altro, lentamente, prima il destro, poi il sinistro…
… dopo ogni passo, dopo ogni tornante superato, dopo ogni metro che ci avvicina al cielo coperto di nebbia, acquisiamo sicurezza in noi stessi, galvanizzati dai paesaggi selvatici che ci avvolgono. Ci fermiamo a quota 4.300 metri, sul limitare di un piccolo lago di montagna, rifugiandoci dal vento sferzante in una tenda, dove consumiamo un pranzo a base di brodo di pollo bollente e mate de coca. Un occhio sempre all’orologio, dato che non possiamo permetterci il lusso di attardarci. Della sigaretta digestiva non se ne parla nemmeno.
Scolliniamo a 4.600 metri di altitudine, il punto più alto del nostro percorso, sotto una pioggerellina fitta ed in mezzo alle dense nubi. Per la prima volta da quando ci siamo mossi sopra di noi non c’è più strada da percorrere. Il sollievo arriverà dopo, ma per il momento c’è solo la grande emozione. Mi arrampico correndo sulla collinetta formata dai sassi in cima alla quale è posto il cartello con la quota, improvvisamente immune ai rigori dell’alta montagna. Foto di rito e grandi risate, per un attimo ci sentiamo dei Mesner in miniatura, ma c’è poco tempo per godersi il trionfo. Si gela, piove sempre più forte e ci attende una lunga, defatigante discesa fino al primo campo, posto a 3.800 metri.
Arriviamo a destinazione devastati e infreddoliti. La notte andina si sta abbattendo sulla montagna con la velocità di una mannaia e riusciamo a stento a scorgere le nostre tende, appena sistemate dai portatori, oltre un piccolo torrente sulla cresta di una stretta vallata. Ci scaldiamo e recuperiamo le energie, conversando con gli altri in quel misto di spagnolo e italiano che funziona sempre. Prima di addormentarci sfiniti, la serata mi regala una piccola magia che porterò sempre nel cuore. Mi alzo ed esco dalla tenda, sfidando il gelo della notte andina. Ne valeva la pena: le nuvole si stavano finalmente ritirando, forse stanche di scaricare acqua, e la mantella di neve di cui era vestito il Salkantay sfavillava alla luce argentea della luna. Lo spettacolo era impressionante. Mi sentivo minuscolo al cospetto di un gigante minaccioso, ma anche potente, come se la montagna dispensasse la sua energia tutto intorno a sè, fino a sfiorarmi. Mi giro per rinfilarmi nella tenda e mi sorprendo nel constatare che siamo circondati da ombre immobili ed allineate. Le sagome di decine di flemmatici lama si stagliano nitide sullo sfondo della radura, rischiarate dai riflessi del manto nevoso sovrastante. Come narcotizzati dall’imponente montagna, adagiati tranquillamente sulle zampe, i docili animali andini masticavano e giravano le teste in cerca di chissà cosa. Grato per quello che la natura mi stava regalando, rientrai nella tenda e dormii come un bambino.
Il giorno seguente il programma prevedeva una discesa continua dalla montagna fino ai margini della selva, come viene chiamata la giungla del Perù orientale. Quasi duemila metri di dislivello, attraverso una varietà sorprendente di ambienti: l’alta montagna, le verdeggianti alte vallate, la foresta nebulosa, la giungla. Partiamo di primo mattino, nebbia e nuvole che si confondono in un abbraccio gelido intorno a noi, dopo una buona scorta di mate de coca. Man mano che le ore trascorrono e l’altitudine diminuisce, la temperatura aumento in maniera sensibile, e cominciamo a sfogliare le “cipolle” che sono i nostri abbigliamenti. Aumenta, però, l’umidità. La foresta nebulosa è un ambiente naturale peculiare di queste zone del Perù, in cui i vapori provenienti dalla foresta amazzonica ad oriente stazionano perennemente contro le ripide alture preandine. Questo rende possibile la vita di una fittissima vegetazione, che altrimenti non potrebbe fiorire a quelle altitudini. Attraversarla, soprattutto in discesa, è un’esperienza frustrante e le mie ginocchia gridano ancora vendetta al solo ricordo. Tutto è bagnato, scivoloso, sfuggente, il terreno trasformato in melma untuosa come se fosse spalmato di unguento oleoso. Gli stretti sentieri di dipanano sui fianchi di vallate scoscese, scavate da fiumi impetuosi che corrono incazzati in un lungo viaggio che li porterà in Amazzonia. Il silenzio ovattato è interrotto solo dal nostro affanno e dallo sgocciolio dell’incessante pioggerellina. Gruppetti di montanari sbucano all’improvviso da dietro una curva, guidando pigri muli o in groppa a robusti cavalli che barcollano nei sentieri scivolosi, seguendo rotte impervie e vecchie di secoli, con la solerzia e la sicurezza della gente avvezza alle difficoltà. Fortunatamente incrociamo frequenti piante da frutto e costeggiamo piccoli villaggi incapsulati nel folto della foresta, tutte ottime scuse per fermarsi a dare respiro alle articolazione sempre più provate.
Il secondo campo si trova in una località chiamata “la playa”, a spregio del 1.900 e passa metri a cui è posta, ma che, vuoi per la placidità del luogo vuoi per l’aria quasi torrida, è quanto di più vicino ad una spiaggia ci possa aspettare sulle ande. Un piccolo insediamento si trova a poca distanza dal punto in cui piantiamo le tende, e insieme a noi ci sono altri due piccoli gruppi di viaggiatori. La serata trascorre lentamente, l’atmosfera è di quella da “ce l’abbiamo fatta”, quindi allegra, chiassosa, un po’ esaltata… e finalmente torna lei, la birra, che scorre copiosa sull’unico tavolaccio di legno del villaggio, mentre i bambini, onnipresenti e vivaci come cavallette, ci corrono intorno ridacchiando.
La giornata successiva ci vede impegnati in un percorso in falso piano che non presenta difficoltà particolari. Abbiamo tutto il tempo di far riposare le ossa e i muscoli mentre seguiamo, con lentezza, i binari della linea ferroviaria che costeggia il basso corso dell’Urubamba fino ad Aguas Calientes. Basta fare attenzione ai potenti fischi del treno, togliersi quando passa e attraversare di corsa le gallerie, per il resto è tutto tranquillo. Un simpatico cane dal pelo fino e rossiccio ci adotta e ci segue, prima a distanza di sicurezza e poi scodinzolandoci tra le gambe. Salkantay (potevamo chiamarlo in altro modo?) divide con noi il pranzo e ci fa compagnia durante le soste, senza degnare di uno sguardo i pochi che incrociamo. Non c’è che dire, sa come farci sentire importanti.
La cittadina di Aguas Calientes ci riporta con rudezza alla realtà del grande business del turismo. Si tratta di un agglomerato di palazzi, case, ristoranti, hotel, minimarket, empori di attrezzatura sportiva, cresciuto troppo rapidamente, troppo disordinatamente e troppo artificialmente. Frotte di turisti vengono scaricati dai treni provenienti da Cuzco, quasi fossero pendolari diretti al lavoro, e la città li assale offerndo tutto e solo quello che ha da offrire: notti in hotel, cene e attrezzature. Probabilmente nessuno ha passato due giorni di fila in questo caotico budello, la cui strada principale è rappresentata dai binari del treno e la cui unica ragion d’essere è la sua prossimità al sito inca di Machu Pichu. Rmpiangendo le nostre tende, ci ritiriamo subito nella nostra umida stamberga in attesa che trascorrano le poche ore che ci separano dal gran finale.
L’oscurità della notte, col silenzio che l’accompagna, rendevano sopportabile la città che fino alla sera prima avevo disprezzato. Ma già prima dell’alba Aguas Calientes appartiene già al passato. Nelle nostre teste c’è solo quello che ci aspetta e per cui ci inoltriamo nel buio rischiarato dalle torce. Nemmeno ci fossimo dati appuntamento, ecco spuntare da dietro uno dei mille ristoranti Salkantay che ci corre incontro entusiasta.
Per visitare il sito inca di Machu Pichu bisogna per forza partire da Aguas Calientes. Quello che si può scegliere è come arrivarci, se con un autobus attraverso un tratturo di tornanti o a piedi, tramite un’estenuante scarpinata di quasi seicento metri. La nostra scelta è ovviamente ricaduta sulla seconda possibilità, e quindi intorno alle 4,30 del mattino inforchiamo le bacchette a cominciamo l’ascesa sui gradoni scavati nella parete ripidissima della montagna sacra degli inca. Fa freddo, o meglio, farebbe freddo se l’opprimente umidità lasciasse spazio a qualcos’altro se non la difficoltà di muoversi. Ogni passo costa sudore e fatica. Il mio ginocchio sinistro è in condizioni miserevoli, quasi quanto i piedi di Tonia, piagati dagli sforzi dei giorni precedenti. Continuare a salire… gradino dopo gradino… prima il sinistro e poi il destro, ancora una volta… respirando a pieni polmoni, metà aria e metà vapore… proseguiamo in silenzio, concentrati sulla nostra volontà per quest’ultimo sforzo, mentre dietro di noi l’alba accende un paesaggio da fiaba, montagne avviluppate dalle nubi e cime svettanti. E quando finalmente ci siamo, quando finalmente arriviamo al mitico sito di Machu Picchu, e possiamo ammirare la terrazza naturale che sorregge le misteriose costruzioni degli antichi inca, come una formidabile platea naturale sulle valli sacre, bè in quel momento passa la stanchezza, ginocchia e piedi la smettono di lagnarsi e si inchinano di fronte a quello spettacolo, meravigliosa ricompensa a tutti gli sforzi profusi. Ma forse è stato proprio il duro, lento, faticoso, disagiato cammino a regalarci la profonda soddisfazione che ci pervade mentre ci aggiriamo, letteralmente zoppicanti, tra i vicoli della città perduta. Come spesso accade, il percorso è più importante della meta, il come si raggiunge un obiettivo trascende l’obiettivo stesso. E in quel momento, mentre le nebbie mattutine si diradano liberando la vista sui picchi sacri di una grande popolo del passato, capiamo che il vero viaggio è in noi stessi e la vera meta sono le nostre emozioni di fronte al mondo.