Sudafrica da solo

CAPETOWN, 27 MARZO 2002 Giornata intensa che inizia di mattina presto con una puntata in palestra (disappointing) ed una bella colazione al ristorante dell’albergo. Una signora italiana mi scruta dal tavolo di fronte cercando di capire se sono anch’io italiano, io mi rivolgo in perfetto inglese alla cameriera e nel frattempo osservo il suo...
Scritto da: Paolo Lombardi
sudafrica da solo
Partenza il: 20/03/2002
Ritorno il: 31/03/2002
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
CAPETOWN, 27 MARZO 2002 Giornata intensa che inizia di mattina presto con una puntata in palestra (disappointing) ed una bella colazione al ristorante dell’albergo. Una signora italiana mi scruta dal tavolo di fronte cercando di capire se sono anch’io italiano, io mi rivolgo in perfetto inglese alla cameriera e nel frattempo osservo il suo abbigliamento da italiana in vacanza, pantaloni larghi e scarpe da tennis che chissa’ quante volte avra’ criticato in italia. Sono I primi che incontro da quando sono arrivato.

Fuori diluvia e tira un vento forte. La collina di fronte all’albergo e’ avvolta nella nebbia, ma gia’ al ritorno dalla mia colazione ha smesso di piovere e l’aria fuori e’ bella frizzantina.

Faccio subito un paio di telefonate per prenotare il tour di Robben Island ed un giro storico/culturale che avevo notato sulla guida. Mi risponde Andrew, un ragazzotto peloso ed un po’ timido ma sicuramente che sa il suo mestiere. Mi dice al telefono che in realta’ per adesso sta studiando e che quindi ha un po’ smesso di fare I tour. Pero’ oggi non ha lezioni da fare quindi va bene. Mi passa a prendere in albergo. Meglio di cosi’.

Esco a fare due passi. La zona e’ bella e piena di agenzia di pubblicita’, college universitari, televisioni, studi fotografici. Riesco anche a fare riparare gratis la macchina fotografica. A Milano mi avevano chiesto 200 mila lire per due viti.

Torno in albergo ed arrivano contemporaneamente il tipo della Hertz con la mia macchina a noleggio ed Andrew. Giustamente mi chiedono la patente che non ho portato con me per paura di perderla. Dico che non ce l’ho. Due telefonate e mi rispondono che va bene anche senza patente. No comment.

Il tour di Capetown inizia in macchina di Andrew, una opel corsa un po’ ‘doggy’, come dice lui. Ovvero ci vivono I suoi due cani, infatti mi rendo conto che la tappezzeria in realta’ e’ un tappeto di peli, che iniziano a volare per la macchina man mano che prendiamo velocita’ ed il vento entra dal finestrino. Uno allergico sarebbe morto; io lo sto diventando.

Il giro inizia dal Distric Six, il distretto in cui convivevano pacificamente praticamente tutte le razze e che negli anni 40 era diventato il cuore pulsante di Capetown, animato dalla musica Jazz ma troppo vicino al cuore della citta’, che veniva ‘infettata’ dal suo ritmo vitale. Nel 1966 il distretto ciene dichiarato zona bianca e gli abitanti sfollati. Le ruspe abbattono tutte le case ad eccezione di chiese e moschee (mai toccare I preti) e da allora la cosa sorprendente e’ che nessuno ha mai piu’ ricostruito nulla, nonostante nel 2000 siano state restituite le terre agli occupanti originari. Cosi’ rimane uno spazio vuoto nel cuore della citta’, monumento alla stupidita’ umana. In questa citta’ la geografia e’ determinata dagli eventi sociali.

Con I cimeli rimasti dalla distruzione e qualche fotografia e’ stato realizzato il museo del distretto. Dentro c’e’ una scolaresca femminile che ascolta una lezione. Noto che sono tutte bianche. Andrew mi spiega che e’ illegale oggi segregare le classi per razza. Ma si tratta della scuola migliore di CPT, per cui la selezione e’ fatta automaticamente dal censo. Mi chiedo quante generazioni ci vorranno prima che la composizione di quella classe rifletta le proporzioni della popolazione attuale (80% neri).

All’interno del museo il tronco dell’albero sotto al quale venivano fatte le aste degli schiavi e le targhe delle vie di District Six cancellate dalle ruspe. A quanto pare le teneva a casa sua il funzionario del comune che sorvegliava lo sgombero.

Andrew mi offre anche un te’ al museo. E’ gentile e parla bene. E’ pero’ un po’ introverso, quindi mi sembra di capire che I suoi tour non hanno molto successo perche’ non riescie a farsi promuovere adeguatamente. In effetti ha stoffa ma si fa un po’ fatica a seguirlo certe volte. Mi spiega che cosa sta studiando: tra le altre cose la vita di un antropologo/geografo tedesco che studiava la morfologia delle lingue africane in chiave razziale. Dice che e’ divertente vedere come si ingegnava a raffigurare I suoni particolari che da noi non esistono tipo schiocchi e baci, che invece formano parte delle lingue bantu (c.D. Sucking stops).

Il giro e’ interessante ma mi accorgo che della Capetown ‘storica’ e’ rimasto poco. I palazzi moderni hanno spazzato via l’architettura coloniale e quei pochi rimasti sono gradevoli ma non mi impressionano. Noto la residenza del presidente della repubblica dove Mandela si reco’ di nascosto ancora prigioniero per trattare la revisione della costituzione.

Al ritorno passiamo da Bokaap, il quartiere della citta’ dove vivevano gli schiavi importati dall’est, Cape Malay principalmente. Belle casette colorate in maniera vivace. Andrew mi fa notare un ristorante dove ha mangiato e me lo raccomanda per la sera.

Mi faccio riaccompagnare in albergo con un po’ di anticipo perche’ dovro’ prendere la macchina per la prima volta per andare al Waterfront. La mia visita a Robben Island e’ programmata alle 2.45. La macchina e’ OK e mi trovo bene a guidare. Il mio istinto da italiano esteta mi fa pensare con questa Nissan Almera che cosa rappresento in termini di collocazione sociale. Non e’ neanche bianca, quindi non sembra noleggiata. Probabilmente un membro della middle class a pieno titolo. Come da noi girare in BMW. Arrivo in meno di quanto pensassi.

C’e’ un forte vento anche se le acque dentro il porto non sono agitate. Il comandante del catamarano a motore che ci portera’ sull’isola ci fa notare che il mare e’ molto mosso, io non ci faccio caso. Figuriamoci se mi faccio spaventare per 20 minuti di traversata. Non sono mica come uno di questi giapponesi seduti davanti a me.

Dopo 5 minuti di traversata iniziamo a ballare. Non ho mai visto nulla del genere in vita mia. Il mare sara’ forza 6/7, il catamarano fa dei voli tremendi, sembra risucchiato dal mare in certi momenti. Le onde sembrano montagne preceduti da baratri profondissimi che ci fanno sembrare su un otto volante. Seguiamo una rotta a zig zag per evitare di prendere le onde enormi sulle fiancate, ma ad ogni volo tutto il catamarano urla. I bambini ridono, ma il confine tra queste risa isteriche e il pianto mi sembra molto labile. Dietro di me una donna di colore di butta sul pavimento per non guardare avanti. Inizia la distribuzione dei sacchetti per il vomito. Il figlio della coppietta di africani seduti accanto a me succhia il pollice beato nella sua cesta. Le spiego cosa penso delle risate. Traduce in bantu al marito e ci mettiamo tutti e tre a ridere.

Per fortuna arriviamo sani e salvi. La traversata e’ stata breve ma intensa e mi e’ venuto un leggero mal di testa. Saliamo su due autobus scassati. Dietro di me un papa’ argentino con I suoi tre figli. Uno dei bambini si lamenta in spagnolo dell’odore di pollo fritto che arriva dal fondo dell’autobus, dove si e’ sistemata una comitiva di africani. Davanti a me un’altra famiglia direi olandese con due figli adolescenti. Mi chiedo se io al posto loro avrei avuto la stessa determinazione nel farlo: penso che nessuno di loro e’ madrelingua inglese, e l’intero giro non ha senso se non si comprendono I fatti nascosti dietro a quegli edifici all’apparenza normali.

Iniziamo a girare per l’isola ed un giovane africano dall’aspetto energico ed intelligente inizia a parlare. Parla a bassa voce, e fa fatica a farsi sentire tra il brusio e le risate. Nonostante il clamore continua a parlare con tono basso ma sicuro e lentamente si crea un clima di attenzione che lascia presagire l’intensita’ delle prossime ore. Ho delle aspettative molto alte. Ripenso ai bambini.

La prima parte della visita e’ un’introduzione generale alle strutture presenti sull’isola. Vediamo le prime celle di isolamento, le prime strutture militari e la cava di pietra dove parte dei detenuti lavoravano dalle 5 alle 4. Fa molto caldo, immagino cosa deve essere stato lavorare in questo posto. Al centro della cava, di forma circolare, una caverna scavata dall’uomo nella roccia faceva funzione di riparo, toilette e stanza da pranzo per un centinaio di persone. Sara’ un cubo di tre metri per lato. All’entrata della cava un mucchietto di pietre posate ad una ad una dai sopravvissuti quando l’isola e’ stata restituita alla vita civile.

Il resto della visita scorre abbastanza normalmente, il focus e’ sulla personalita’ dei diversi leader detenuti sull’isola e su come l’isola in se’ avesse funzionato da catalizzatore per la crescente sensibilita’ politica dei neri nel corso degli anni. In effetti devo dire che conversare con queste persone spesso e’ una piacevole sorpresa e la loro passione politica e’ visibile ad occhio nudo.

La seconda parte inizia con la presa in consegna del gruppo da parte della guida ‘anziana’. Mi sono allontanato per fotografare qualcosa e mi accorgo che si e’ creato un cerchio intorno ad un signore di mezza eta’ vestito in maniera rispettabile (per gli standard sudafricani). Il briefing inizia con le norme di buona educazione, tipo cellulari e telecamere. Apprendo con piacere che si puo’ scattare foto senza problemi. La guida parla molto lentamente con una pronuncia africana molto forte. Segue un suo ritmo particolare, intrecciando informazioni personali a comunicazioni quasi formali. Il clima pero’ non e’ formale, c’e’ rispetto ma non distacco. Dice di avere passato 13 anni sull’isola come prigioniero di guerra accusato di atti terroristici contro il governo del sudafrica. E’ stato catturato in Angola e trasportato ferito sull’isola. Ci spieghera’ le fasi salienti della prigionia sull’isola e la giornata tipo del detenuto. Praticamente tutte le guide che lavorano a Robben Island sono ex detenuti: non e’ difficile intuire la funzione terapeutica dei loro racconti.

La visita si svolge per tappe, ognuna delle quali avviene in un punto particolare della prigione: ora il refettorio, ora le celle di punizione, ora il dormitorio. Ad ogni sosta il gruppo si siede intorno all’uomo che racconta ed il silenzio e’ totale. La prima tappa racconta dell’’accettazione’ sull’isola e della etichettatura per appartenenza razziale. Serve anche alla guida per rompere il ghiaccio con il gruppo. Saremo 50/60 persone. Ad ognuna chiede non il nome ma la nazionalita’, e con ognuna cerca di stabilire un legame basato su qualche fatto. Ovviamente la battuta per gli italiani riguarda la mafia. Non approfondisco ma mi fa sorridere il pensiero di un sudafricano che ha paura della mafia. Tra I presenti comunque mi colpiscono I bambini argentini, che capiscono e parlano un inglese perfetto, ed un professore americano che vive a Taiwan che a guardarlo e’ l’emblema dell’americano medio: completino nike, panza e telecamere appese dappertutto.

Mi riescie difficile adesso ricordare tutte le cose che la guida ci ha raccontato quel pomeriggio. In parte perche’ ne ha raccontate tante; in parte perche’ la visita si basa in larghissima misura sulla narrazione in prima persona e forse avrei dovuto prendere degli appunti. Si tratta comunque di cose largamente presenti nell’immaginario collettivo, se solo uno ha visto mezz’ora di documentario su qualche campo di concentramento. Spesso I prigionieri non sapevano per quanto tempo sarebbero rimasti. All’arrivo venivano divisi in due gruppi: neri e colored. I primi ricevevano una tenuta a maniche e calzoni corti; il secondi avevano maniche lunghe e un materasso diverso, se non ricordo male. Fin dall’inizio l’isola e’ stata nel mirino della Croce Rossa Internazionale per gli abusi sui carcerati. Tra le punizioni che ricordo quella di bere la sciacquatura delle pentole al posto dell’acqua (rifiutata fin quando la sete non ti constringeva a ripensarci) e l’essere appesi a testa in giu’ da un albero. Era permesso scrivere lettere di massimo centoventi parole. Superare il limite di una parola significava perdere la lettera. Superare di due implicava la revoca per sempre del diritto di scrivere. Ovviamente nessuno ti diceva quando avevi superato il limite e anche se protestavi perche’ avevi contato le parole cento volte non c’era appello. La posta in entrata veniva regolarmente censurata e non erano infrequenti casi in cui arrivavano soltanto due striscie di carta, una che diceva “Dear …” e l’altra con I saluti. Mentre raccontava questa cosa gli ho visto brillare gli occhi dietro gli occhiali da sole. In sala mensa l’uomo si siede su uno sgabellino e noi tutti intorno su delle panche. Uno dei bambini argentini e’ seduto accanto a lui. L’uomo lo abbraccia ed e’ contento di questa cosa. Anche il bambino sembra a suo agio. Il padre con gli altri due figli gli fa qualche foto da lontano. Anche il cibo era differenziato tra colored e black. Questi ultimi avevano diritto a razioni piu’ ridotte degli altri. Il dormitorio a vedersi sembrava quasi normale (a parte che si dormiva per terra) se non fosse che in una stanza che sara’ stata 10 metri per 6 ci dormivano in … 300! Quando ti coricavi dovevi stare su un fianco, sempre lo stesso, per tutta la notte. Ho anche visto la cella di Mandela, e ho notato che stranamente non l’hanno indicata in nessun modo particolare. Alla fine del racconto sul cibo, in pieno pathos narrativo l’americano alza la mano. Ci giriamo tutti a guardarlo: “Excuse me sir, can I just ask you a question? The coffee in the morning was black coffee or cappuccino?”. Risatone generale. L’americano si conferma un soggettone. Anche l’uomo ride.

Finiamo il giro dell’isola con qualche foto ai pinguini e con tanta amarezza dentro. Io sono contento di tornare a Cape Town per spararmi la mia prima vera serata in citta’.

Per cena scelgo dalla guida un ristorante di Bokaap che guarda caso e’ proprio quello consigliato da Andrew, la mia guida della mattina. Avevo voglia di qualcosa di speziato perche’ oggi in uno dei miei giri ero rimasto colpito dall’intensita’ degli aromi che uscivano da un negozietto in centro. Temo di faticare ad arrivarci ma in macchina e’ un attimo. Mi accorgo inoltre di avere scelto un’assicurazione con una franchigia di 7000 rand (700 euro) in caso di danno o furto. Mi incazzo ma non me ne importa niente, parcheggio davanti al ristorante sul marciapiede. Intorno e’ abbastanza buio, ma c’e’ un taxi che aspetta, buon segno, penso.

Entro nonostante il posto sembri vuoto. In effetti ci sono soltanto due ragazzi in un tavolo di fronte a me, ma non me ne importa niente. Il gestore e’ gentile e mi ispira fiducia, quindi lascio fare a lui. Mangiato benissimo e pagato 56 rand (ovvero 5.60 Euro circa).

Ritrovo (con sorpresa) la macchina intatta all’uscita e decido di impratichirmi con il centro della citta’, che comunque mi sembra ricco di locali. Identifico un paio di vie critiche. Alla fine, per evitare di passare la serata in macchina mi affido alla guida: opto per una serata diversa al Drum Café’. Oggi e’ mercoledi’ e stando alla guida dovrebbe esserci la ‘drumming session’. Non ho ben capito in cosa consiste ma ho voglia di ritmo quindi mi dirigo verso il posto. Fatico ancora una volta meno del previsto a trovarlo. Mi sento un po’ capetonian mentre strizzo l’occhio al ragazzo del parcheggio. Sembra simpatico. Qui sembrano tutti simpatici, anche quando in mano stingono il dispositivo da elettroshock.

All’entrata pago 30 rand (3 Euro). La ragazza mi chiede se voglio un tamburo. Mi guardo intorno e vedo tutti seduti con un tamburo in mano. Altri 20 rand. Penso che e’ un furto, po realizzo che in tutto sono 10mila lire. Le rispondo di si e mi incammino verso la parte centrale del locale, dove una 50ina di persone e’ seduta ad emiciclo intorno ad un palchetto con questi tamburi tra le gambe. Dopo qualche minuto appare un biondino a torso nudo seguito da un paio di africani con dei tamburi piu’ grandi del normale. Inizia la lezione collettiva di tamburo: avevo intuito bene. Mi preparo alla figura di merda immaginando la predisposizione naturale dei locali ma ben presto mi accorgo che sono quasi tutti bianchi. Infatti all’inizio e’ un po’ il caos, pero’ il tipo sul palco ci sa fare. Cerca di farci imparare una ‘canzone’ e per fare questo la spezza in brani associati a frasi in cui gli accenti scandiscono il ritmo. Tipo ‘and this is the end of the song’. Il metodo e’ efficace e presto si crea una bella atmosfera con un sacco di energia rilasciata dal nostro picchiare collettivo accompagnato dai due fuoriclasse africani sul palco. Mi diverto un casino.

CAPETOWN, 28 MARZO 2002 Si sta per concludere un’altra giornata intensa. Me ne accorgo dalla fatica che faccio a centrare I tasti del PC mentre mi sforzo di scrivere queste righe prima che I dettagli mi sfuggano. E’ iniziata con una falsa partenza, sveglia alle 7.30, colazione e incertezza sul da farsi. Sul telefonino il messaggio di Jacky che mi avverte che il mio lancio e’ prenotato domani alle 11, telefonare per confermare. Cazzo alle 11. Non so se mi sento pronto. Scruto il cielo fuori dalla finestra, e’ nuvoloso. Cosa si vedra’ in mezzo alle nuvole? In compenso le bandiere dell’albergo sotto di me non si muovono. Almeno non rischio di finire in mezzo al mare a fare la gioia di qualche squaletto. A proposito, volendo si puo’ fare il bagno in mezzo agli squali sulla spiaggia, protetti da una gabbia di acciaio. Magari poi provo.

Decido di mettere in moto la giornata (sono gia’ le nove!) con un paio di telefonate ai walking tours. Cape Flats si potrebbe fare gia’ oggi pomeriggio o sabato, non domani che e’ festa. Cerco di ignorare il messaggio di Jacky sul telefonino ma non ce la faccio. Ormai mi sono sputtanato, l’ho detto a tutti, non posso tirarmi indietro. Allora chiamo. Pare che sia possibile lanciarsi oggi, le condizioni lo permettono, pero’ la mattina e’ gia’ piena e allora se ne parla alle 2. Cosa faccio da ora alle due? Decido di andare a vedere I giardini botanici di Kirstenbosch. Dovrebbero essere ad una ventina di minuti di macchina dall’albergo, stando alle spiegazioni confuse della receptionist. Mi metto in macchina e la bella giornata mi rimette di buon umore. Mi compiaccio della mia padronanza della strada, che da urbana si fa sempre piu’ collinare e gradevole man mano che lambisco il fianco di Table Mountain. Continuo a salire e dopo poco sto parcheggiando davanti alla biglietteria. Mi rilasso immediatamente: si respira un aria familiare, sembra di essere in una bella zona di una bella citta europea. Posso abbassare la guardia ed abbandonare finalmente il senso di attenzione/tensione che mi accompagna normalmente mentre giro per la citta’. Poche macchine ferme, e’ un giorno feriale. Il giro dei giardini e’ piacevole: scatto qualche foto canonica, provando anche qualche autoscatto acrobatico, giro a passo veloce quando tutti camminano placidamente: che in effetti sarebbe la cosa giusta da fare, data la pace e la bellezza del posto. Unica nota stonata il rumore della superstrada in sottofondo. Anche questo e’ inquinamento.

Vedo dei bei giardini e prati inglesi, una sezione dedicata al consumo intelligente d’acqua per il giardinaggio (!), guinnifel che passeggiano placidi. Colpiscono la mia attenzione: il Fynbos, giardino studiato per attirare una fauna ricca ed eterogenea che deve essere bruciato ogni 10 anni per rigenerarsi; Il Von Rieebek Hedge, il filare di mandorli che il fondatore aveva piantato a fine ‘700 per difendere l’insediamento olandese dai bovari che gia’ pascolavano sulle pendici del monte; un bel giardinetto dedicato alle piante aromatiche con odori particolari che mi fanno pensare che tutto deriva dalla natura, anche il sapore delle Big Babol.

Mi rimetto in macchina di corsa, sono in ritardo dopo una puntata allo shop (meritevole). Ritiro il mio voucher all’ufficio del turismo e mi metto in viaggio alla volta del posto sotto un sole bellissimo. Almeno le condizioni meteo sembrano ideali. Sembrano, chissa’ che succede lassu’.

Il posto si trova nei pressi della centrale nucleare di Capetown. Sul momento non ci faccio caso ma quando ci passo vicino mi rendo conto che sopra di me e’ tutto un intreccio di cavi dell’alta tensione. Bene, penso.

Il posto e’ una specie di garage buio disseminato di teli di plastica su cui due ragazzotti arrotolano paracadute aperti. In un angolo un gruppo di persone (tra cui diverse ragazze) guarda un video che sembra girato da una webcam a bordo di un aereo. Sono tutti bianchi. Sullo sfondo si vede un piper bianco e rosso che rulla su una pista in mezzo ai cespugli. Mi avvicino a quello che sembra un banco di accettazione per leggere la scritta NO CREDIT CARDS. Bene, io ho solo carte di credito. E dire che avevo chiesto all’ufficio del turismo e mi avevano detto che non c’era problema. Cerco di negoziare una forma alternativa di pagamento senza successo. Tale Chris mi consiglia di andare a prelevare ad una stazione di servizio a 10 minuti di macchina. Puzza terribilmente di alcol. Mi metto in macchina e per tutto il viaggio penso alla legge dei grandi numeri ed a quanto sto sfidando il caso. La stazione di servizio esiste veramente ma il bancomat non mi accetta la carta. Ne ho un’altra ma non ci spero che funzioni. Se non funziona vado a casa e non se ne parla piu’. Invece ecco che esce il mio mazzetto (mazzone!) di Rand che mi metto in tasca mentre mi guardo intorno ma e’ tutto OK.

Non faccio in tempo a parcheggiare davanti all’hangar che Chris mi chiama da lontano facendomi cenno di sbrigarmi. Perche’ sto correndo? “You are the next”. Mi infilo una tuta arancione, lascio chiavi della macchina e cellulare su un tavolo ed un biondone (Pier?) mi mette addosso un’imbragatura che fa male alle palle. In mano ho un foglio di carta in cui declino ogni responsabilita’ ed in cui devo indicare il telefono di un Next of Kin (prima di allora lo avevo visto scritto soltanto nei videogiochi di guerra quando muori e suona la musica da cerimonia funebre). Ultimi attimi per ripensarci. Mentre scrivo il numero di casa dei miei indugio sul nome da indicare, scrivendo un generico LOMBARDI, come se non volessi assegnare a nessuno della mia famiglia l’ingrato compito di rispondere ad una telefonata dal sudafrica di un tipo mezzo ubriaco che spiega cosa e’ successo a Paolo Lombardi. Non so perche’ ma mi ritrovo seduto sul retro del Piper che avevo visto prima. Dentro non c’e’ nulla: un pavimento di gommapiuma ed una parete di compensato (!) in fondo. D’ora in poi non avro’ piu’ paura a volare su un aereo di linea. Non c’e’ il portellone. Siamo seduti per terra ed io sono quell piu’ vicino all’uscita, quindi saro anche il primo a lanciarmi. Mi tengo con una mano al bordo della fusoliera. Il decollo e’ veloce ed e’ bello vedere la pista dal timone di coda dell’aereo. Sarebbe stata una bella foto. Ma chi ci pensa alle foto adesso. Siamo in quattro a bordo piu’ il pilota, senza volto ne’ voce. Io ed un tedesco al nostro primo lancio piu’ I due istruttori. Mentre iniziamo a salire cerco di decifrare la spiegazione dell’istruttore. Capisco a spezzoni: non si sente niente. Mi sembra di capire che dovro’ mettere il piede sul carrello e poi lasciare fare a lui. Nel frattempo continuamo a salire e I dettagli del terreno si fanno sempre piu’ piccoli. Seguo la progressione verticale dall’altimetro al polso dell’istruttore. 3000 piedi, dobbiamo arrivare a 9000. La temperatura inizia a rinfrescare: non ci avevo pensato. Sono in bermuda e maglietta. Un termometro sul cruscotto indica 5 gradi, e ne dobbiamo fare ancora di strada. Le onde dell’oceano sono sempre piu’ piccole. Si inizia a vedere la citta ai piedi di Table Mountain. Vedo oltre la montagna I sobborghi che vanno verso sud, verso il capo di buona speranza. Vedo anche della altre montagne sullo sfondo che non riconosco. 6000 piedi. E’ ora di prepararsi: l’istruttore mi fa inginocchiare mentre aggancia I mollettoni della mia imbragatura alla sua. “Top Left: GO! Top Right: GO! Bottom Left: GO! Bottom Right GO!”. Ormai non penso piu’ che tornare indietro sia possibile. Sono rassegnato. E preoccupato di non riuscire a capire cosa mi dira’ l’istruttore al momento di uscire dall’aereo. Che succede se sbaglio qualcosa? Incredibile che a 5 centimetri da me ci sia il vuoto. Sto tremando dal freddo: fuori ci sono –5 gradi. 8000 piedi. Ci siamo. L’altro istruttore, alla mia destra, ride e mi fa capire che il tedesco ha paura. A me non sembra ne abbia piu’ di me. Forse gli do’ l’impressione di stare male e cerca di sdrammatizzare per paura che gli vomiti addosso. Pollice in alto?. Pollice in alto. “OK Paolo, let’s go”. Penso che non mi piacerebbe morire con un perfetto sconosciuto. Almeno fosse Maci. Mette il piede sul carrello e mi dice di fare lo stesso. Incredibile: siamo in piedi tra il carrello e l’ala, come in un film di James Bond, a 9000 piedi di altezza. Davanti a me il timone di coda: ecco cosa potrebbe succedere. Non ci avevo pensato. Se urtiamo il timone siamo fottuti. Mentre penso questa precisa cosa sento una pressione che mi spinge verso il basso. Stiamo precipitando nel vuoto. Non c’e’ niente che ci frena: scendiamo verso la terra a velocita’ incredibile. Paura folle. L’istruttore mi urla nelle orecchie di allargare le braccia. Eseguo meccanicamente, ma sono troppo concentrato a cercare di eseguire le funzioni biologiche essenziali: respirare e far battere il cuore. E’ come se ci fosse una lotta in atto tra se’ razionale ed irrazionale, dove il primo cerca di far capire al secondo che quello che sto facendo e’ inspiegabilmente assurdo e pericoloso. Talmente assurdo che a questo punto niente ha piu’ senso, neanche respirare. Per fortuna l’istinto di sopravvivenza si impossessa di me e mi fa capire che non esiste spiegazione razionale: stiamo volando e basta. La terra si fa sempre piu’ grande e mi sembra che anche la nostra velocita’ aumenti. Sento un fischio, una specie di allarme prolungato. Inaspettatamente l’istruttore mi mette un braccio intorno alla vita ed uno in faccia, sugli occhiali protettivi. Non faccio in tempo a chiedermi perche’ che mi sento proiettato verso l’alto come sotto l’effetto di una spinta incredibile. Stiamo risalendo? Possibile? Tutto traballa, se sopravvivo a questo e’ fatta. Lentamente ci stabilizziamo. Ci fermiamo. Letteralmente sembra di essere fermi a mezzaria. Guardo sotto, oddio c’e’ ancora il vuoto. E’ peggio di prima: siamo sospesi nel vuoto. I miei piedi ciondolano nel vuoto. La mancanza della velocita’ lascia spazio ai pensieri: adesso mi rendo conto pienamente di dove mi trovo. Scendiamo placidamente, ed alla mia sinistra vedo l’altro paracadute sopra di noi. L’istruttore mi dice di afferrare le maniglie delle cinghie che tiene in mano per regolare la traiettoria. Non vorra’ farmi guidare? Invece si, mi dice di tirare quella di sinistra, eseguo e ci ritroviamo orizzontali. Ecco adesso ci avvitiamo e finisce cosi’. Tiro quella di destra e giriamo dall’altra parte. Questo mi fa paura ma continua lui a farlo per me. La terra e’ sempre piu’ grande, adesso vedo la pista da cui siamo decollati. Mi indica un punto piu’ chiaro dicendomi che e’ dove atterreremo. Vedo degli alberi. Il Capannone. Saranno ancora 500 metri e mi sento gia’ a terra: mi illudo che se anche cadessi da quest’altezza non succederebbe niente. Lui inizia a fischiare forte e due ragazzini escono dal capannone e corrono verso di noi. Mentre mi ritrovo a correre sulla sabbia li vedo che raccolgono il paracadute che si sgonfia. Penso che non lo rifarei ancora.

Guido verso Capetown e le gambe mi tremano un po’. Mi sembra di non essere quello di prima.

L’adrenalina mi spinge a fare qualcos’altro prima della fine della giornata. Decido di andare a Table Mountain in funivia, sta tramontando e potrei scattare delle belle foto. Inconsciamente ho scelto ancora di tornare in cielo.

L’ascesa in funivia e’ inaspettatamente emozionante. Ne ho fatte di funivie in montagna ma il senso di vertigine di questa non l’ho mai provato. Eppure ormai dovrei esserci abituato … Le rocce della montagna, vecchie di 560 milioni di anni, sono bellissime viste da vicino.

Scatto diverse foto dal tramonto alla sera. Chissa’ se verranno. Freddo porco.

Torno in albergo e mi sparo una doccia bollente. Stasera mi sparo un bel ristorante africano.

La scelta cade su Mama Africa. Mi intriga la musica dal vivo, che in effetti e’ il plus del locale, altrimenti troppo turistico. Mi rompe I coglioni una africana ubriaca mentre aspetto il tavolo perche’ vuole che le offra una birra. Non ne ho voglia e mi accorgo di avere dimenticato la carta di credito in albergo (normalmente giro senza portafogli dietro). Torno a prenderlo (in macchina e’ una volata) ed il tavolo e’ pronto. Mangio discretamente della carne locale tipo Impala, Kudu, Struzzo e … coccodrillo! Quest’ultimo fantastico.

Faccio per uscire (sono a pezzi) ed il gruppone di africani ha ripreso a suonare davanti al bar. Mi fermo a sbirciare e noto che ci sono le solite inglesi ubriache che ballano. Si tratta di una musica tutta basata su percussioni, e gli strumenti sono tutti artigianali (tipo uno xilofono realizzato con pezzi di legno di lunghezze diverse). I ragazzi ruotano agli strumenti. Arriva la volta di un ragazzino magro che prende in mano il tamburo e rovescia la sua insospettata energia su un assolo di tamburo che e’ una delle performance musicali piu’ spettacolari che abbia mai visto. Sempra che abbia 10 mani questo Jimi Hendrix del tamburo. Il locale e’ prevalentemente frequentato da bianchi afrikaans, che sono tutti in ostaggio del gruppo. Sembrano assolutamente soggiogati, ed in effetti e’ energia allo stato puro, sembra salire dalle viscere della terra. Mi sembra di intuire come l’africa ha cambiato queste persone facendogli perdere (in parte) la loro identita’ europea. Gli e’ entrata dentro. Vado a casa contento.

CAPETOWN, 29 MARZO 2002 Oggi e’ venerdi’ santo (Good Friday). Immagino che la citta’ sia deserta e decido di puntare al Capo di Buona Speranza. Mi metto in macchina intorno alle nove, e noto con piacere che non ci sono code di nessun tipo, nonostante I messaggi allarmistici sentiti alla radio. La giornata e’ stupenda, con un bel cielo azzurro, sole e poco vento. I chilometri scorrono veloci anche se qualche lavoro sulla strada mi costringe a delle deviazioni impreviste ma gradevoli. Vedo diverse spiaggie capetoniane ed alcune anche molto belle. Mi sorprende Llandudno, sopratutto se paragonata a quella gallese! Passo attraverso una serie di paesi di pescatori e di sobborghi turistici tutto sommato gradevoli. Si respira un’aria di armonia, il contrasto bianchi/neri, ricchi/poveri e’ un po’ attenuato. Faccio Tappa a Boulders Beach, dove si possono osservare I pinguini africani, o meglio il 10% sopravvissuto alla razzia delle uova da parte dell’uomo. Immagino una bella foto in mezzo agli animaletti ma in realta’ una transenna ci separa (fortunatamente) dal pezzo di spiaggia dove si trovano I pinguini. Apprendo che la colorazione meta’ nera e meta’ bianca non e’ casuale ma serve per mimetizzarsi verso l’alto e verso il basso (mentre nuotano a pancia in giu’). Scatto qualche foto d’ordinanza, ma il contesto e’ disturbato dalla quantita’ di gente. Non tantissima in verita’, ma il posto meriterebbe di essere visto in completa solitudine. La riserva, curiosamente, si trova in mezzo ad una serie di abitazioni a ridosso della costa.

Arrivo al parco nazionale di Cape Point intorno a mezzogiorno. C’e’ un po’ di traffico in entrata ed ai parcheggi ma niente di impossibile sopratutto se paragonato con gli standard europei durante un giorno di festa come oggi. Mi dirigo verso la punta estrema del parco, immagino che la strada porti dritto al Capo di Buona Speranza, che e’ la meta principale di oggi. Ignoro I cartelli che avvertono della presenza di babbuini e della loro pericolosita’ se scoprono che c’e’ del cibo in giro.

Il paesaggio e’ di tipo bushveld, ovvero qualcosa di simile alla nostra macchia mediterranea. Delle piante che somigliano a margherite selvatiche emanano un odore strano, molto intenso.

Parcheggio la macchina, un babbuino salta sul tetto di un furgone di fronte a me. E’ una bella foto, provo a scattare alzando furtivamente il vetro del finestrino per paura che il babbuino si accanisca contro la macchina fotografica. Il ferrovecchio si inceppa al momento dello scatto ed il babbuino va via veloce come era arrivato.

Il sentiero che conduce al capo passa attraverso una spiaggia bianchissima molto bella. Non distante c’e’ un punto panoramico segnalato sul percorso, mi sembra ideale per scattare qualche foto. Mi dirigo li’.

La scena e’ spettacolare. Davanti a me un orizzonte infinito di cielo e mare. Guardo in direzione del polo sud, immaginando che si possa vedere da qua. E’ un po’ come dire di vedere il polo nord da Roma. Sotto di me l’oceano, o meglio gli oceani (sono nel punto esatto di congiunzione tra l’atlantico e l’’indiano) si incontrano in onde altissime che si infrangono sulla scogliera. Immagino lo spettacolo che si presento’ a Diaz quando doppio’ il capo per la prima volta. C’e’ una pace incredibile, sono lontano dalla folla e mi godo lo spettacolo appollaiato su una roccia.

Non ho voglia di mischiarmi alle masse turistiche (quanti spagnoli e quanti pochi italiani) e quindi decido di fare rotta per Stellenbosch, capitale delle Winelands (terre del vino) sudafricane. Osservo la cartina: il percorso si snoda attraverso un pezzo di costa che non ho ancora coperto. Mi dispiace soltanto di passare la bella giornata in macchina.

La strada e’ gradevole, guido con il finestrino abbassato per fare entrare un po’ di aria fresca e sole. Sarebbe stato bellissimo girare con una cabrio oggi.

L’entrata nella regione delle Winelands e’ unmistakable. Il paesaggio cambia bruscamente sia nella geologia (da montuoso costiero a collinare interno) che nell’urbanistica (da sobborghi di mare abbastanza normali a bellissime residenze di campagna e vegetazione curatissima). Il sole diventa pomeridiano, ed essendo fine dell’estate tutto assume una colorazione calda che mette in armonia con il creato. Sembrerebbe un paese felice. Sulla strada noto queste Winery bellissime, imponenti. Nulla a che vedere con le cantine sociali italiane (dal punto di vista delle costruzioni). I vigneti si estendono a perdita d’occhio. Faccio un giro rapido del paese di Stellenbosch. Noto che c’e’ un quartiere ghetto attaccato a questa bella cittadina universitaria (!). Sembra tutto molto bello, curato e sicuro anche. Direi una Chester sudafricana, con il plus dei vigneti e dell’universita’. Purtroppo e’ tardi per fare il giro di una winery, peccato. Mi fermo pero’ in un complesso molto grande in cui le famiglie fanno pic nic. C’e’ anche una specie di winery ma mi sembra iperturistica. Il Coffee shop in compenso e’ fantastico, si vende il pane e degli affettati gia’ pronti da portarsi sul prato. Scelgo una succo di frutta e un pezzo di torta e mi dirigo anch’io sul prato per godermi il tramonto insieme alle famigliole sudafricane, che sembrano uscite da un quadretto di inizio secolo, e comitive allegre di africani che si divertono in maniera diversa, piu’ collettiva. Fanno dei giochi di gruppo e si sbellicano dalle risate. Le interazioni dei bianchi sono invece piu’ garbate. Non mi sfiora neanche l’idea di vedere un gruppo misto africani/bianchi.

La mia infallibile guida mi segnala un paio di posti in paese dove potrei anche accedere ad internet. Non mi dispiacerebbe leggere qualche notizia fresca (saranno 10 giorni che non leggo un giornale o vedo un telegiornale). Mi metto in marcia per il paese ma immediatamente mi fermo su un lato della strada per fare qualche foto ad una winery molto bella. Noto a 10 metri di distanza un paio di persone che fanno l’autostop. Si avvicinano verso di me ma mi sembrano persone per bene. Mi rendo conto di essere anch’io vittima di un riflesso condizionato per cui black = cattivo e white = buono. Decido di superarlo e rimango a scattare. Anzi, vado oltre ed accetto di dargli un passaggio. Magari scambiamo quattro chiacchiere, mi sento un po’ solo ed ho voglia di conoscere la gente del posto. Salgono in due, un altro arriva di corsa e chiede di salire anche luii. Chiedo se sono amici e mi rispondono di si, quindi prendo anche lui a bordo.

Scherzano tra di loro in bantu, quindi non li capisco. Scambio quattro chiacchiere con quello che mi sta seduto accanto ma mi sembra di poche parole. O forse e’ solo troppo stupito del passaggio che gli sto dando. In effetti la strada e’ piena di autostoppisti (tutti africani), anche se in realta’ non si tratta di autostoppisti tout court: il sistema piu’ diffuso di trasporto in sudafrica e’ costituito da minibus collettivi che si prendono al volo con una segnaletica particolare che indica la direzione e la distanza da percorrere. Una specie di servizio di quasi-linea, molto piu’ flessibile. Non ci ho mai visto un bianco dentro pero’. Vedo che gli altri neri al bordo della strada, alla vista di un bianco che guida una macchina piena di neri, sollevano il pollice con poca convinzione. Mi diverto a stupirli ma non c’e’ piu’ spazio in macchina. Il mio passeggero intanto mi spiega che tornano dal lavoro e che I treni non passano perche’ e’ festa. Dopo qualche chilometro devo girare a destra e quindi le nostre strade si separano. Dopo che sono scesi istintivamente mi giro a cercare la felpa che avevo lasciato sul sedile posteriore e non la vedo. Cazzo e adesso? Guardo meglio, e’ dietro ai poggiatesta. Sono contento di quello che ho fatto.

Parcheggio in paese per la prima volta con la sensazione di essere al sicuro. Purtroppo molti posti sono chiusi, ma il locale che cerco e’ aperto ed e’ anche carino. Un baretto con internet e giardino. Mi fermo a guardare posta e notizie.

All’uscita decido di girovagare un po’ a piedi per il paese. Faccio quattro passi sbirciando I pochi ristoranti aperti, pieni di tedeschi. Sono indeciso se fermarmi a cena o tornare a Capetown. Decido che la serata in provincia, per quanto gradevole, non fa per me, e mi rimetto in macchina per Capetown.

Decido di saltare la cena. Sono troppo stanco per uscire ancora, ed il clima pseudo festivo mi intristisce. Sono contento che domani e’ sabato. E mi devo svegliare presto per prenotare il giro dei Cape Flats. Mi addormento davanti alla tele.

CAPETOWN, 30 MARZO 2002 Oggi e’ sabato. L’istinto occidentale mi ricorda che e’ giorno di shopping, quindi valuto l’alternativa commerciale. Sbircio tra le tende, un altra bella giornata. Decido che intanto mi sparo il giro dei Cape Flats, poi vedro’ se andare in spiaggia o fare qualche acquisto.

Mi viene a prendere Sam con l’immancabile minivan bianco. A bordo c’e’ gia’ qualcuno, tra cui un ragazzo olandese con una profonda ferita sotto l’occhio (mi domando se e’ il caso di chiedergli) ed una mamma + figlia americane (con tratti somatici asiatici, direi filippine). Stanno bene insieme. La figlia (Helen) mi chiede com’e’ il mio albergo. Le rispondo buono ma mi accorgo che non so quanto si paga a notte. E’ il bello del rand svalutato.

Il giro copre in parte alcuni itinerari che ho gia’ fatto con Andrew, la mia prima guida. Sam pero’ parla bene, e’ molto preparato ed ha due occhi che sprizzano intelligenza. Decido di prendere qualche appunto.

Tra le cose che mi hanno colpito: la scusa usata dai bianchi per creare il quartiere di BoKaap (quello delle case colorate): la peste che pero’ in realta’ era stata portata dagli inglesi con il loro bestiame (sempre loro!). Giriamo per district, penso di essere preparatissimo ma imparo altre cose. Con il Group Areas Act (1960?) il governo impone a tutti I cittadini non bianchi di non spostarsi dall’area loro assegnata. Per uscire dai quartieri ghetto occorre un permesso particolare. Tutti devono portare dietro un documento di riconoscimento con un sistema di codifica che permette di risalire alla razza. Ancora una volta I colored sono in posizione privilegiata rispetto ai black, in termini di permessi, alloggi istruzione. Talvolta e’ difficile distinguere I due gruppi, allora si ricorre al pencil test: alla persona di dubbia appartenenza razziale viene messa tra I capelli una matita: se rimane sul capo la razza e’ black, altrimenti colored. Chiaramente l’ultimo arbitro di questo metodo scientifico e’ il funzionario bianco che emette il documento di indentita’. I giapponesi vengono definiti bianchi, a detta di Sam perche’ potenziali investitori nel paese. Chi veniva trovato in una zona sbagliata senza permesso veniva classificato come cheap labour e doveva lavorare gratis per chiunque lo chiedesse. Tutto questo non nel 1800, ma a meta’ degli anni ’60.

La tesi di Sam sulla distruzione di District Six, il quartiere misto in cui convivevano pacificamente tutte le razze ed in cui la lingua universale era il Jazz e’ che era un esempio di integrazione possibile e quindi pericoloso, destabilizzante. Mi sembra un po’ artigianale come spiegazione ma comunque mi sembra credibile dato il contesto. Le aree demolite a forza di ruspe (vedi anche 27 Marzo) rimangono vuote anche perche’ non e’ facile mettere d’accordo la gente sulla base di pezzi di carta e niente altro.

Un barbone mi attacca bottone chiedendomi dei soldi. Ha fatto il militare in marina e ha visto la germania ai tempi della guerra. Ha detto che gli e’ piaciuta molto.

Ci spostiamo verso I Cape Flats, le township di Capetown alimentate dal flusso immigratorio inarrestabile, sia interno (dalle homelands, ovvero le nostre campagne) che esterno (paesi africani confinanti). Difficile dire quante persone vivano nei Flats oggi. Diversi milioni, ma non esiste una statistica ufficiale, o meglio esiste ma non vale niente.

Visitiamo una casa-dormitorio, tre letti per tre famiglie nella stessa stanza. La cucina e’ alimentata a paraffina (venduta nei distributori di benzina). Poi, nella stessa township, visitiamo uno Shebeen, parola irlandese (!) che sta per bevanda alcolica illegale. Si tratta di una catapecchia senza finestre, 4 metri per 3, in cui sono seduti in cerchio una decina di neri di mezza eta’. C’e’ un forte odore di roba fermentata. Noto in un angolo un barile colmo di un liquido schiumoso, sembrerebbe mosto chiaro. Una donna enorme riempie una brocca di metallo del liquido e la mette al centro della capanna. Nel frattempo ci sediamo anche noi salutati dai presenti calorosamente. Sam ci spiega che la bevanda e’ fatta con mais fermentato e che una volta era illegale produrla e consumarla. Oggi’ e legale e per la donna e’ una fonte di business. Si paga una membership fee di 20 centesimi e si e’ liberi di bere quanto si vuole nel corso della giornata. C’e’ un registro apposta. Ci viene dato l’onore del primo sorso (collettivo ma tra bianchi). Assaggio anch’io ignorando la carica batterica del recipiente metallico e sperando nelle decine di vaccinazioni che ho fatto prima di venire. Almeno serviranno a qualcosa. Sembra birra ma meno saporita.

Tappa successiva in uno squatter camp dove incontriamo dei bambini bellissimi. Una bambina vestita di azzurro mi chiede di prenderla in braccio. Scatto delle belle foto, spero che verranno.

Una delle persone del gruppo (saremo in 6 circa) e’ una signora di mezza eta’ che a prima vista sembrerebbe inglese. Poi spiega di venire dal Botswana dove si e’ rifugiata fuggendo dallo Zimbabwe. Dice che gli africani sono very philosophical people. They accept everything.

Finisco il giro con Sam con una vigorosa stretta di mano alla maniera zulu, che lui apprezza. Mi piace l’orgoglio che dimostra nel fare quello che fa.

A questo punto devo decidere tra shopping e spiaggia. C’e’ il sole. Vado in spiaggia.

Mi dirigo verso I sobborghi ricchi della citta’. In particolare scelgo Clifton e la spiaggia di Camps Bay. Diverse macchine parcheggiate ma gli efficientissimi parcheggiatori abusivi ci mettono meno di un minuto a trovarmi un posto. La spiaggia e’ spezzata in 4 insenature, ognuna delle quali frequentata da un gruppo particolare. La 1 e la 2 sono per figoni e modelle. La 3 per gay e lesbiche. La 4 per famiglie. Scelgo la 3 perche’ e’ la piu’ bella ma sotto e’ veramente pieno di froci. Nulla in contrario pero’ che cazzo, speravo in qualche eccezione (femminile). L’acqua e’ ghiacciata a dire poco. Rimango fin quasi al tramonto che promette di essere fantastico.

Questa sera c’e’ un evento inaspettato ma graditissimo: la prima serata del North Sea Jazz Festival. Non sto nella pelle anche perche’ ci sono diversi artisti africani che non conosco ed uno francese che conosco (Eric Truffaz). Mi metto in macchina leggermente in ritardo e mi accorgo della folla che assedia il Good Hope Center. Ancora una volta trovare parcheggio (abusivo) non e’ difficile. Salto la fila lunghissima aggirandola e mi ritrovo dentro una specie di fiera. Il viale all’entrata e’ una serie di bancarelle che vendono cibi per tutti I gusti e razze. Indiano, africano, occidentale. Scelgo per un marocchino che mi sembra di qualita’ superiore (ma qui e’ difficile giudicare dall’aspetto) e perche’ mi andrebbe un cous cous. Scelta azzeccata.

La musica si svolge in quattro angoli diversi, male insonorizzati l’uno dall’altro. Gli artisti africani sono popolarissimi ma non riesco a farmi coinvolgere. Mi sembrano un po’ dei venditti ultima maniera, fatte le dovute proporzioni. Mi piace invece l’orchestra del Concertgebow di Amsterdam ed Il quartetto di von Thielemans. Non vedo l’ora pero’ che arrivi il turno di Truffaz. Ancora una volta mi stupisco della facilita’ con cui riesco a trovare posto, anche se seduto per terra. O forse sono io che ho imparato ad adattarmi.

Il pubblico, per la prima volta, riflette almeno parzialmente le proporzioni della popolazione (I bianchi sono iperrappresentati per via dei diversi turisti, sopratutto francesi, presenti). Tra I diversi africani presenti si distinguono gli appartenenti ai ceti medi. Tante donne bellissime e, finalmente, assolutamente originali nella loro eleganza indigena. L’uso del colore ed il contrasto con la pelle e’ affascinante. Ancora una volta penso che non si puo’ rimanere indifferenti. Penso ancora ai bianchi in ostaggio della loro bellezza, come al Mama Africa di fronte al suonatore di tamburo (vedi 28 Marzo).

Non sono tranquillo per la macchina. Non mi e’ piaciuta la faccia del parcheggiatore, che era un ragazzino gia’ ubriaco. Mi viene in mente la franchigia di 7000 rand. Che palle.

Quando arriva il turno Truffaz sono molto stanco ed un po’ ubriaco. Pero’ sono in primissima fila, aggrappato alla transenna. Medito di ripiegare su una posizione piu’ defilata prima che lo spettacolo inizi ma quando mi giro dietro di me c’e’ gia’ parecchia gente e allora decido di rimanere dove sono almeno per un po’.

Mi stupisce la figura di Eric Truffaz: lo scambieresti tranquillamente per un concessionario Renault. Invece I suoni che fa uscire da quella cazzo di tromba sono semplicemente incantevoli. Per non parlare degli altri membri del quartetto, uno meglio dell’altro. L’atmosfera mi ricorda il deserto adesso. E’ diverso da quando l’ascoltavo a milano. Li’ mi ricordava un paesaggio marino d’inverno. Qualche coglione francese urla vive la france.

La stanchezza va via rapidamente. Incredibile il potere della musica. Si sente che qui siamo una spanna su tutti gli altri, nonostante l’affluenza non sia paragonabile a quella degli africani. Del resto e’ gia’ quasi l’una di notte ed il palco e’ uno dei piu’ piccoli. A sorpresa Eric introduce un cantante. Il nome e’ inconsueto, mi aspetto una donna ma non immagino che tipo di voce si possa sposare con quella musica. Viene fuori un musulmano vestito di arancione. Saluta il pubblico tradizionalmente (Salam Aleikum) ed un coro di voci risponde calorosamente wa-aleikum-as-salam. Dimenticavo, in sudafrica ci sono anche diversi musulmani.

Praticamente si tratta du un muezzin prestato al jazz. La sua voce non fa altro che rinforzare l’idea di deserto al tramonto. Mi viene voglia di vedere il marocco, il nord dell’africa.

Torno a casa stanco ma felice. Sono stato al Jazz Festival di Capetown. E la macchina e li’, intatta. Del parcheggiatore non c’e’ traccia. Ero pronto a dargli 20 rand.

CAPETOWN/JOHANNESBURG, 31 MARZO 2002 Ed alla fine e’ arrivato il momento di partire. Mi dispiace ma sono anche contento di avere fatto tutto quello che ho fatto. Mentre guido per le strade deserte della domenica mattina (uguale in tutto il mondo, penso – ma io del mondo ho visto poco) penso che in questa citta’ mi piacerebbe tornarci con amici e parenti vari. Mi immagino a fare da padrone di casa. Mi viene pero’ in mente un avvertimento della guida che parla di sassi lanciati sull’autostrada per costringere le macchine a fermarsi e rapinare I passeggeri. Sono proprio nel pezzo incriminato. Ma non ho nessuna voglia di stressarmi. Lancio un’occhiata svogliata ai cavalcavia e faccio un po’ piu’ di attenzione ai pedoni che attraversano le carreggiate correndo ma non troppo. Li sfioro a 120 all’ora, birilli umani. Mi compiaccio ancora una volta di come arrivo in fretta e senza sbavature in aeroporto. Lascio la macchina alla Hertz, efficientissimi: basta dargli le chiavi e fanno tutto loro. Per formalita’ chiedo una fattura che non leggero’ mai. Poi rifletto che hanno il numero di carta di credito e possono fare quello che vogliono.

Il viaggio per Johannesburg dura due ore. Il volo della British e’ pieno anche in business class. Ultimi a salire una famiglia di bianchi che con fare arrogante chiedono a diverse persone, tra cui me, di spostarsi per farli stare insieme. Mi sposto controvoglia e me ne pento dopo cinque minuti. Penso pero’ alla logistica della giornata. L’obiettivo minimo e’ di riuscire a fare un giro di Soweto. Ho gia’ telefonato alla guida che mi ha confermato, con mia sorpresa, di potere organizzare un pick up all’aeroporto. Devo pero’ organizzarmi bene perche’ non voglio guastare la vacanza con una rapina all’ultimo momento. Jo’burg e’ tra l’altro il posto piu’ pericoloso da questo punto di vista. La check list antirapina della guida e’ impressionante. Ed io ho con me I documenti ed I biglietti. Devo trovare un modo per lasciare la roba in aeroporto e girare a cuor leggero. Al massimo rischiero’ la macchina fotografica e qualche rand: e’ un rischio calcolato e ragionevole.

All’arrivo in aeroporto mi sento piu’ sicuro di quando ero arrivato due settimane fa. Non mi impressionano piu’ I porter che ti assalgono per spingerti il carrello. Adesso l’aeroporto mi sembra un posto sicuro. Noto pero’ che I tassisti sono piu’ insistenti che nel resto del paese. Decido di puntare sulla lounge della British. La trovo a fatica (ho pochi minuti a disposizione prima del rendez-vous con la guida – ma bastera’ la mia parola ed il mio nome, nessun recapito o altro per assicurarmi una prenotazione per il giro?) ma chiude tra un’ora. La hostess mi consiglia di rivolgermi alla reception dell’hotel intercontinental, che mi accontenta nonostante non abbia neanche la camera da loro. In Europa te lo sognavi. Tutto procede perfettamente. Mi porto dietro in un’altra borsa comprata per l’occasione (4 euro) la macchina fotografica e la guida. Il resto e’ in albergo. Mi precipito a telefonare alla guida che mi risponde di avere gia’ mandato qualcuno a prendermi! Non ci posso credere ma dopo cinque minuti mi ritrovo in macchina con Joshua sfrecciando sull’autostrada per Jo’burg.

Joshua, stranamente, e’ un tipo taciturno. O meglio parla soltanto su interrogazione. Inizia a spiegarmi qualcosina sulla storia di Jo’burg ma sostanzialmente nulla di particolarmente nuovo o interessante. La citta’ e’ cresciuta sull’onda dei diamanti prima e dell’oro dopo, attirando gente da tutto il mondo. Il centro della citta’ e’ in ostaggio dei criminali e lentamente tutte le strutture si stanno spostando verso la periferia, condannando a morte la citta ‘storica’.

Noto delle specie di colline artificiali, tipo le discariche che crescono a strati in Italia. Mi spiega Joshua che sono I detriti delle miniere. Penso a quanti neri si sono spezzati la schiena a 200 metri di profondita’.

Lo spirito e la storia della citta’ di miniera e’ evidente dal numero di casino’ che si vedono dall’autostrada. Come pure e’ evidente che qui il crimine non scherza. Filo spinato elettrificato ad ogni casa. E dal bottone dell’alzacristalli che schiaccio per fare entrare un po’ d’aria esce un suono come di un allarme. Joshua mi spiega che e’ un dispositivo anti-hijiacking che mette in funzione la tracciatura satellitare e poi lo disinserisce toccando qualcosa sotto il cruscotto.

Arriviamo al primo rendez vous con il minivan che ci portera’ in giro per Soweto. Dentro ci sono tue persone di mezza eta’, marito e moglie, spagnoli. Mi ricordano I miei zii. Parlano bene inglese, strano per degli spagnoli di quell’eta’. Conversiamo amabilmente ma rabbrividisco all’idea di dove stanno: un bellissimo albergo costruito nel mezzo del nulla con sembianze da edificio ottocentesco di citta’ europea. Una copia perfetta, infatti chiedo se e’ realmente antico. No e’ tutto finto. Con casino’ dentro e divieto tassativo di uscire per strada.

Il secondo rendez vous e’ con una coppia di inglesi. Due ragazzi giovani, lei di Ipswich lui di Manchester. Lei e’ una cavallona impressionante con capelli viola che fanno pendant con il top rosa, che lascia l’ombelico scoperto. Lui capello lungo e faccia da pornodivo. Tutti uguali sti inglesi: non si spaventano davanti a nulla, neanche davanti alla prospettiva di essere stuprate in un ghetto. Gli spiego che lavoro a Liverpool, rispondono con un OK disinteressato. Ci sono abituato, non mi stupisco.

A questo punto iniziamo il giro. Joshua inizia a parlare di scatto, assumendo un tono ufficiale e monotono che rende difficile seguire il contenuto di quello che spiega. Mi sembrano cose scontate. Non vedo l’ora di entrare nel ghetto.

Ci fermiamo davanti all’ospedale piu’ grande del mondo (dice lui) dal nome di Baragwanath o qualcosa del genere. Penso a qualche indiano, del resto anche Gandhi e’ stato in sudafrica. In realta’ viene dal cognome gallese (sempre loro!) del fondatore, e vuol dire pane e farina, probabilmente dai traffici che faceva a quel tempo. Gli africani ci guardano come se fossimo mosche bianche, ma in fondo non siamo neanche tanto osservati. Ormai sono abituato a vedere le solite scene di desolazione ma anche di vitalita’: ecco, rispetto alle altre townships mi sembra che Soweto sia piu’ vivace.Come se fosse consapevole della sua storia importante e volesse mantenere la reputazione.

Giriamo l’ennesimo squatter camp. Joshua negozia con due guide locali il resto del tour: saranno loro a farci vedere il campo. Uno dei due ha bevuto, l’altro parla un inglese perfetto. Un terzo ragazzino mi affianca ed inizia la solita conversazione impegnativa su Africa ed Europa. Hanno il mito dell’inghilterra. Ormai pero’ sono abituato a questo tipo di conversazioni e riesco a portarla avanti senza perdere il contatto con le cose cha ha iniziato a spiegare la guida locale che parla bene inglese.

Mentre giriamo per le baracche la coppia di spagnoli inizia a rimanere indietro. Ci fermiamo diverse volte ad aspettarli. Lui ha tirato fuori un cappellino di bambu’ piegevole a forma di imbuto, religiosamente conservato in un sacchetto di plastica trasparente, che ci attira le risate di tutto il campo. Gli inglesi non ci fanno caso ma iniziano a chiedergli ‘do you like it?’. Che bastardi.

La nostra guida locale ci fa entrare in una baracca dopo avere contrattato con la padrona di casa, la quale protesta dicendo che si e’ appena trasferita e non ha fatto in tempo ancora a fare ordine, mentre spedisce la figlia a sistemare la ‘camera da letto’. Dentro la baracca in lamiera ci saranno 45 gradi e puzza di paraffina. Entriamo tutti tranne I due spagnoli. Sul tavolo una bottiglia di Coca da 1 litro e mezzo di vetro, intatta. Sudiamo come delle bestie ma la conversazione e’ inaspettatamente interessante grazie al fatto che la padrona di ‘casa’ capisce e parla inglese mentre la ragazza inglese fa delle domande interessanti che non mi aspettavo. Una di queste, sporgendosi per incontrare lo sguardo della figlia che sta immobile su un lato della casa con il viso nascosto da un panno steso in mezzo alla stanza: ‘are you angry?’. No I am not. Ripenso alla signora del Botswana. They are very philosophical people.

All’uscita lasciamo qualche soldo e strappiamo un bel sorriso a mamma e figlia. Nel frattempo il marito spagnolo si e’ ferito il braccio su un qualcosa mentre faceva una foto. Ha tutto l’avambraccio insanguinato. La moglie lo cerca di disinfettare con una salviettina mentre litigano ad alta voce.

Il giro della beverly hills di Soweto non rivela le emozioni che mi aspettavo dal vedere la casa di Mandela e di Tutu. Sono ambedue circondate da muri che non fanno vedere niente. Pero’ noto le casette con il prato inglese. Ci fermiamo a prendere qualcosa da bere in un posto con una bellissima ombra. Il marito spagnolo chiede un te’ caliente. Glielo portano in un servizio di porcellana che esibisce con orgoglio davanti agli inglesi: ‘like the queen’. Si becca di nuovo la domanda della ragazza: ‘so you didn’t like soweto?’. Mi chiedo anch’io che cazzo sono venuti a fare.

Chiacchiero con gli inglesi che adesso, dopo un paio di birre, sono piu’ simpatici. La ragazza e’ un po’ logo, ma e’ tutto OK. Quando scende dal minivan mi saluta affettuosamente, per gli standard inglesi. Le guardo l’ombelico per l’ultima volta. Non e’ male.

Non riesco ad organizzare il seguito del pomeriggio come speravo, e’ troppo tardi per trovare uno di quei bus turistici che fanno il giro della citta’ e sono l’unica alternativa sicura per vedere Jo’burg. In piu’ il Museum of Africa e’ chiuso. Non mi resta che andare in aeroporto, e mentre Joshua mette una cassetta di musica africana batto il ritmo sulla portiera guardando il sole che tramonta sull’albergo degli spagnoli. Mi sento orgoglioso delle cose che ho fatto, e mi chiedo se queste due settimane mi cambieranno dentro. Spero intimamente di si.

Aeroporto. Ultimo shopping. Lounge. Scaletta per salire sul Jumbo. Vedo la croce del sud per l’ultima volta che appare pallida ma visibile in cielo. Messaggi di buona pasqua sul cellulare. Chi ci pensava che e’ Pasqua?



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