Siviglia 2
Infatti ti sfilano davanti i padiglioni dell’Exposicion Iberoamericana del 1929, che sono magnifici palazzi di svariati stili (fondamentalmente decò) ognuno dedicato ad un Paese (Messico, Guatemala ecc) circondati da giardini di limoni e mandarini. E poi, sorpassando qualche carrozzella, s’incontra l’Università, che una volta era la fabbrica di tabacco in cui lavorava la Carmen, l’eroina di Bizet. Alla Cattedrale si scende dal taxi, si svolta subito a destra per Calle Alemanes, ci si siede in uno dei tanti locali che hanno i tavolini fuori, ci si guarda attorno e già si può capire tutto – o quasi – di Siviglia.
Infatti basta guardare in alto e osservare la Cattedrale e soprattutto la torre del suo campanile per capire che monumenti così grandiosi, fragorosi, esteticamente lussuriosi, non possono che essere stati messi lì per celebrare grandi conflitti. Basta guardare il campanile, cioè la Giralda, per capire che una volta era il minareto di una moschea, successivamente distrutta per far posto alla cattedrale cristiana.
“Lasciateci fare un monumento per cui i posteri ci diranno che siamo stati pazzi” pare abbiano detto i preti cattolici, prima di far costruire la chiesa più grande del mondo dopo San Pietro a Roma e San Paolo a Londra. Sotto alle sue pietre gotico-rinascimentali dovevano schiacciare il ricordo di secoli durante i quali Siviglia era stata una splendida capitale araba, in cui Cristiani, Mussulmani ed Ebrei avevano vissuto in armonia. Poi venne la Reconquista Cristiana, vennero i Re Cattolici, l’Inquisizione, le persecuzioni e la decadenza. E così la Cattedrale è un poderoso monumento e, nello stesso tempo, una immensa pietra tombale che ha seppellito per sempre la vocazione multirazziale e mediterranea di Siviglia e della Andalusia in generale.^ Se poi, sempre stando seduti al tavolino, abbassiamo lo sguardo, vediamo le stradine del Barrio Santa Cruz, il vecchio quartiere Ebraico.
E vediamo il cuore della Siviglia turistica, tocchiamo con mano il suo maggior fascino estetico: stradine contorte, con belle case, piene di gente, piene di locali affollati a tutte le ore del giorno e della notte. E si capisce allora il significato di due parole che certamente abbiamo sentito dire anche prima di partire per la Spagna: “movida” e “tapas”. La movida è questa incredibile tendenza spagnola a far festa, incontrarsi, spostarsi da un locale all’altro, socializzare, chiacchierare, mostrarsi. Quanto alla Tapa probabilmente ci siamo già dentro: è il locale tipico di qui. Letteralmente vuole dire “apparecchiatura” per uno spuntino, è un posto a metà fra un bar, un’osteria e una trattoria. Per gli abitanti di Siviglia è un più di un luogo, è un modo di incontrarsi e di nutrirsi. Ci sono Tapas di tutti i tipi, eleganti o malfamate, moderne o vecchie. Ci sono quelle dedicate alla corrida (con le pareti piene di teste di tori e foto di toreri) oppure dedicate al calcio (con le pareti piene di foto di giocatori e di palloni), ma tutte hanno in comune un bancone lungo di legno, sul quale i baristi scrivono il conto con il gesso. Si sta in piedi e si mangia un assaggino e si beve un bicchiere. Si mangia coda di toro in umido oppure gamberetti fritti e si beve vino tinto del verano, oppure sangria o manzanilla.
E, mettendo insieme l’attività frenetica della gente alla squisitezza superba della cucina moltiplicata per la qualità dei vini, si capisce bene quale sia il risultato: Siviglia è una città dove si vive, e si vive molto allegramente. Magari è una città dove si è molto sofferto (il sangue sparso dall’Inquisizione, gli eccessi della Guerra Civile, i tori decapitati, le foto dei toreri incornati) ma, forse proprio per questo, è una città che sa godere.^ Ma le cose che si possono capire stando fermi, sempre seduti al nostro famoso tavolino al Barrio Santa Cruz, non sono finite.
Vi si avvicinerà una gitana, con la scusa di leggervi la mano e di offrirvi un ramo di rosmarino portafortuna. E intanto, magari, nel vostro stesso locale o in quello a fianco o addirittura in mezzo alla strada, qualcuno avrà cominciato a cantare e ballare il flamenco. E qui fa capolino un’altra delle contraddizioni dell’Andalusia: i Gitani, appunto. Erano (e sono) una delle etnie culturali fondanti della regione. Il flamenco l’hanno inventato loro e poi è diventato l’emblema dell’Andalusia, lo ballano tutti, persone di qualsiasi età o condizione fisica e sociale, a tutte le ore. Ma i Gitani, al contrario, sono stati allontanati, ghettizzati nelle periferie, espropriati dei loro lavori artigianali e ridotti a fare i lustrascarpe o poco più. Li vedi e capisci che sono a casa loro, eppure non lo sono più.
Poi (sempre seduti al tavolino) provate ad ascoltare il rumore che fanno le gomme delle macchine che passano (per fortuna ne passano poche perché il centro di Siviglia è chiuso al traffico): sembrano le scarpe di gomma di uno che cammina su un pavimento tirato a cera. Allora forse penserete d’aver capito che a Siviglia sono così raffinati che danno la cera per strada. No, non è così: la cera è quella delle migliaia di candele accese che i sivigliani hanno portato in processione per la la Settimana Santa, durante la quale pare che avvengano cose incredibili.
Adesso però basta stare seduti: se le bevande e la stanchezza del viaggio ve lo consentono, fate almeno due passi, così, giusto per avere conferma di alcune delle intuizioni che avete appena avuto. Passeggiate fino a Plaza Santa Cruz, una piazzetta magnifica coi giardini e gli agrumi, i fiori rossi e le case bianche e gialle. All’angolo c’è il balcone che, secondo la tradizione, fu quello di Rosina e del Barbiere di Siviglia. Poco più in là c’è l’acquedotto arabo e poi un magnifico giardino con palme e ficus giganti che spuntano dalla sabbia gialla dei viali pieni di gente che passeggia con un bicchiere in mano e discute di toreri. Movida, tapas, arabi, melodrammi, corride: come volevasi dimostrare! E, con l’animo colmo di tutte queste aspettative, forse è già l’ora di andarvene a letto.^ A meno che non siate arrivati a Siviglia proprio il giorno in cui si inaugura la Feria de Abril, cioè dopo Pasqua.
E’ stato il nostro caso (non a caso), e in questo caso dimenticatevi il letto: il bello comincia quando fa notte.
Per arrivare nella zona della Feria, che sta un poco discosta dal centro, abbiamo dovuto camminare un bel po’, perchè è tale la calca di persone che non ci sono nè taxi nè tantomeno autobus che riescano a passare. E’ come andare all’Olimpico prima di Lazio Roma, ma molto di più. E poi, nel nostro caso, pioveva. Per la Feria piove sempre, da cent’anni. Noi, col fango dei viali fino alle caviglie, ci lamentavamo, ma i sivigliani no: per loro che avevano dovuto subire mesi di siccità, la pioggia era la festa nella festa.
Centinaia di migliaia di persone si erano radunate sotto l’acqua, davanti ad un enorme Arco di Trionfo tipo quello parigino. Questo però era una scenografia di legno, tutto colorato e pieno di lampadine spente. Alle undici si sera (che per Siviglia è più o meno l’ora dell’aperitivo) le lampadine si sono accese e il recito della Feria si è aperto. Le migliaia di molecole umane che componevano il grande corpo della folla si sono improvvisamente consolidate e schiacciate tra di loro e la gran massa liquida di corpi e di ombrelli, abbondantemente innaffiata dalla pioggia, è transitata come un’onda di piena sotto il gran ponte dell’Arco della Feria. Noi ci siamo letteralmente lasciati trasportare, badando solo di non cadere perchè allora sarebbero stati davvero guai seri. Abbiamo galleggiato tra la folla fin dentro al recinto, dove ci aspettava una specie di Festa Mondiale dell’Unità. Infatti, lungo i vialoni squadrati come quelli di un accampamento romano, erano state montate, una attaccata all’altra, le “casetas”, le casette. Che sono più o meno come gli stand di una Fiera nostrana, ma molto più colorate. Ogni caseta è una specie di piccola tenda da circo rettangolare, lunga magari un 12 o 20 metri e larga 6 o 10. Sotto alla tenda, che a volte è una baracca di lusso o un vero e proprio stand fatto di pannelli rigidi, comunque tutta addobbata, colorata e illuminata in stili che vanno dal neo-rococò al simil-Aiazzone, ci sono dei tavolini con le sedie, una pista da ballo e un angolo-cottura. ^ A parte i gitani che, anche in questo caso, fanno razza a sè e organizzano alcune casetas aperte al pubblico, ognuna di queste casette è rigorosamente privata, con tanto di guardia all’ingresso che controlla gli inviti. Una caseta può essere allestita da un singolo, da una famiglia, da un gruppo di amici o magari da una Ditta. E ogni padrone-di-casa fa i suoi inviti: nelle casetas si mangia, si beve, si balla, si chiacchiera, si fanno pubbliche relazioni: insomma, si fa festa. Per più d’una settimana, notte e giorno… Avere una propria caseta per la Feria è un must per le famiglie-bene di Siviglia, e qualcuno per pagarsela si indebita clamorosamente. Noi abbiamo passeggiato lungo le file di casetas, dalle quali provenivano urla, suoni e canti. In ognuna si ballava, sevillana o flamenco. Alcune erano ospitali e abbastanza aperte ai passanti, altre rigorosamente chiuse, ma comunque, tramite i buoni auspici di qualche conoscente, siamo riusciti a entrare in diverse casetas dove non ci hanno fatto mancare niente… Ritrovare l’albergo è stata dura! Il giorno dopo, invece, le strade di Siviglia sembravano il set di un film di Zorro: non c’erano altro che cavalli e carrozze a due o a quattro ruote, coperte o scoperte, tirate da due, quattro o anche sei cavalli. Le carrozze erano piene di senoritas che inalberavano delle mantillas maestose, di bambine che sembravano proprio la bambolina spagnola che mia suocera tiene sul copriletto e di uomini vestiti appunto col cappello di Zorro e del Tenente Garcia. Si trattava della sfilata storica e del Concorso delle carrozze che si sarebbe tenuto di lì a poco nella Plaza de Toro.
La Plaza, forse la più antica della Spagna, è uno spettacolo in sé: è a metà fra il Colosseo e San Siro, ma i suoi colori sono inimitabili. Tanto rosso, tanto giallo dell’albèro (che è una tipo particolare di sabbia) e poi l’azzurro del cielo (infatti a Siviglia piove solo il giorno dell’inaugurazione della Feria, poi basta). E anche lì, seduti tra una folla di intenditori che approvavano o disapprovavano ogni singolo finimento dei cavalli e sottolineavano la sfilza dei nomi e degli altisonanti cognomi dei nobili che possono permettersi di mantenere carrozze e cavalli magnifici solo per farli sfilare un giorno all’anno, si può credere di capire qualcosa d’altro dell’Andalusia. Ti viene il sospetto che effettivamente i sivigliani (e magari gli spagnoli in generale) siano fieri della propria storia, legati alle proprie radici e ad un senso di appartenenza nazionale, nonchè alla tradizione di una nobiltà monarchica. Nulla a che vedere col nostro senso tutto italiano del relativo, con la nostra capacità di auto-sminuirci, prendendo sempre le distanze dai sentimenti forti e ricacciando le tradizioni ingombranti del passato nel recinto inoffensivo del folclore. Gli spagnoli, insomma, si prendono molto più sul serio di noi. Non per niente loro continuano a coltivare ossessivamente e collettivamente il culto e la tradizione della Corrida.^ Qualcuno dei nostri amici ci aveva sconsigliato di andarci, per non subire uno spettacolo inutilmente sanguinoso. Ma noi, invece, ci siamo andati. Poi uno può pensarne ciò che vuole, ma indubbiamente val la pena di vedere una corrida. E’ evidente che è un fenomeno molto sentito dalla stragrande maggioranza della gente. E’ una tradizione vera: gli spagnoli diventano matti per la corrida.
I toreri arrivano alla Plaza de toro a piedi, entrano tra due ali di folla che li saluta. I tre che abbiamo visto noi avevano facce tirate e preoccupate, soprattutto uno, che poi guarda caso sarebbe stato incornato. I posti che avevamo comperato erano ovviamente i peggiori: in alto nel loggione, dietro alle colonne. L’orchestra dal vivo, con gli ottoni retorici, trasmette un certo qual sapore da Circo. Entrano i toreri con i vestiti trapuntati e le calze rosa, seguiti da un codazzo di assistenti. Poi entra il toro, che durante i quattro anni della sua vita semi-brada non ha mai visto da vicino un uomo e adesso, improvvisamente, ne vede diecimila urlanti. E comincia la corrida.
Per me-Patrizio è stato come vedere una partita di baseball: le regole rimangono misteriose e non si capisce bene quando e se la gente urla di gioia o di disappunto. Ho notato con un brivido che la gente non è molto tenera coi toreri, gli urla dietro di tutto. Frasi del tipo “Tuo padre sì che era bravo, tu torna a scuola che non vali niente!” dotate di indubbia crudeltà psico-edipica, soprattutto se urlate ad un torero figlio d’arte (e quindi presumibilmente complessato) che sta per rischiare la vita. E infatti il primo toro ha quasi subito incornato alla pancia il suo torero, che poi si è esibito in una scena raccapricciante: tenendosi il ventre con le mani insanguinate faceva la scena di voler continuare la corrida per vendicarsi del toro, intanto che i suoi peones, fingendo di trattenerlo, lo portavano in infermeria. Per fortuna la colonna che avevo di fronte e soprattutto la mia miopia mi hanno impedito di vedere bene.. Comunque al toro sono state somministrate altre banderillas, che hanno il compito di lacerargli i legamenti del collo e di fargli perdere forza. Se un toro incorna il torero non ha vinto niente: semplicemente deve essere ucciso dal torero successivo. Che poi ad ucciderlo ci ha messo un’infinità, sbagliando più volte il colpo di grazia (l’estocada) con la spada ricurva, mentre la folla rumoreggiava di disappunto: un vero macello.
Ho pensato bene di uscire dalla Plaza de Toros e di andare a farmi un bicchierino in una delle Tapas…^ Invece per me-Syusy, che ho visto la corrida assieme ad un’amica italiana, Eva Florencia, la cosa è stata diversa. Eva è nata a Firenze ma a 18 anni è scappata in Spagna per imparare a fare la torera: e infatti ci è riuscita. Adesso, dopo il ritiro di Cristina Sanchez, è praticamente l’unica vera torera di Spagna. Eva mi spiegava tutte le fasi della corrida, mi ha spiegato i riferimenti storici tra i Banderilleros e gli antichi giochi circensi coi tori, quelli dipinti sui vasi greci. Mi ha raccontato la vera funzione della muleta, il cui colore rosso non serve in realtà a nulla (il toro non vede i colori) ma conta il movimento che fa il torero per deviare da sè l’attenzione del toro. Mi ha spiegato che le prime corride si facevano a cavallo (di qui i picadores che a cavallo cercano di colpire con la pica il toro che gli si avventa contro).
E mi ha spiegato soprattutto la psicologia del toro: un animale che non è da compiangere perchè, a differenza dei suoi colleghi vitelli d’allevamento che ci forniscono la carne che comperiamo in macelleria, ha vissuto pienamente libero per 4 o 5 anni in una bellissima campagna, facendo in tempo a sentirsi “animale”. E così, una volta nell’arena, sviluppa tutta la sua aggressività e il suo coraggio e la sua capacità di vender cara la pelle. E questa sua psicologia il matador deve conoscerla, deve capire quando il toro “impara” che dietro allo straccio rosso in realtà c’è un uomo. E il torero, che è l’eroe perchè rappresenta l’Uomo di fronte alla Bestia, deve sapersi mettere di fronte al toro così come ognuno deve sapersi mettere di fronte alla morte. E questo rischio, per assurdo, è una esaltazione della vita. Mi è quasi sembrato di capire Hemingway…
Insomma, io-Syusy penso che il giudizio sulla corrida dovrebbe saper andare anche al di là del senso di pietà per l’animale (e per l’uomo).
Beh, io-Patrizio, da bravo turista (per forza superficiale) mi tengo invece il mio giudizio (soggettivo e relativo) di totale estraneità.
Ma è questo il bello del turismo, un continuo assaggiare pietanze e sensazioni straordinarie…
Syusy Blady & Patrizio Roversi