Siamo turisti!
Siamo Turisti! (1958)
Già quando io ero bambina a casa mia era ben radicata la cultura dei viaggi, ma questa, se durante la guerra non ebbe modo di estrinsecarsi, difficilmente avrebbe potuto averlo anche nel dopoguerra, viste le ristrettezze dei tempi, se i miei genitori non avessero ideato un modo tutto loro di far turismo: per gli esami di maturità mio padre, che insegnava scienze naturali al liceo classico di Comiso, anziché chiedere di far parte di commissioni operanti nella provincia di residenza (Ragusa), chiedeva di esser nominato in altre province della Sicilia e poi per tutta la durata degli esami prendeva in affitto nella sede assegnatagli una “stanza in famiglia con diritto alla cucina”, dove, oltre a lui, ci stabilivamo anche mamma, mia sorella ed io: la mattina lui andava a scuola e noi tre ci godevamo la vacanza; egli si univa a noi il pomeriggio e nelle intere giornate del sabato, che era giorno in cui non si facevano esami per rispetto agli ebrei, e della domenica.
Grazie a questo espediente potemmo concederci delle vacanze meravigliose a Palermo, Siracusa, Caltanissetta: mamma sottolineava con soddisfazione che, vivendosi, in tali periodi, con l’indennità degli esami, lo stipendio suo e quello di papà rimanevano integri, mentre la nostra cultura si ampliava e noi ci regalavamo delle emozioni uniche, accostandoci alle bellezze naturali e artistiche della nostra isola meravigliosa.
Ma, via via che l’Italia andava sanando le ferite infertele dalla guerra, la Sicilia cominciò a venirci stretta, per cui una bella volta per gli esami di maturità papà, suscitando lo stupore di colleghi e amici, ebbe l’ardire di chiedere Bologna, e successivamente, una volta fatto il primo passo, Modena, Forlì, Belluno, Trento, Torino, Pavia …
Fu così che non solo visitammo varie città dell’Italia settentrionale, ma anche osammo fare qualche puntata all’estero: si partiva, in treno, il venerdì pomeriggio e si rientrava la domenica sera o all’alba del lunedì.
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Quando da Trento partimmo, in treno, per Innsbruck, era la prima volta in assoluto che andavamo all’estero.
Quanti sogni, quante fantasticherie, su quel treno, che non esiterei a definire “il treno dei desideri”! Mamma, che essendo dotata (diversamente dalle sue amiche, che lei accusava di essere “ancorate allo scoglio” ancora più del verghiano padron ‘Ntoni e incapaci di grandi voli della fantasia), di un ardore di conoscenza non dissimile, direi quasi, da quello dell’Ulisse dantesco, vagheggiava viaggi per il mondo intero, allora sicuramente irrealizzabili, affermava, ed anche con convinzione, che quello era solo l’inizio: dopo quel primo viaggio all’estero, sicuramente ne avremmo fatti tanti altri, sempre più lunghi e con mete sempre più ambiziose.
Sembrava davvero che noi avessimo dimenticato i vari problemi che ci assillavano, concentrati com’eravamo sulla gioiosa aspettativa di chissà quali meravigliose esperienze…
E che gioia, per me e per mia sorella, al pensiero di poter fare sfoggio della nostra (presunta) conoscenza del tedesco!
Appena il treno si fermò alla frontiera, mentre ognuno di noi diceva la sua e tutti e quattro stavamo con gli occhi fissi al finestrino, esaltati alla vista di scritte in tedesco, venne a disturbarci, entrando d’autorità nel nostro scompartimento senza neanche chiedercene il permesso, un uomo in divisa, non so se di controllore o di finanziere, il quale non si limitò a chiederci i documenti, ma, parlando concitatamente in tedesco, ci rivolse delle domande, alle quali noi, non avendo capito un bel nulla, reagimmo scoppiando, con incoscienza ed anche, debbo ammetterlo, con maleducazione, in una sonora risata.
Papà comunque, subito dopo, sentendosi investito, da perfetto maschio siculo, della responsabilità di tutelare l’onore della famiglia, per evitare che il “controllore/finanziere” capisse che noi non conoscevamo il tedesco e ci prendesse, quindi, per ignoranti: “Ia… ia…” gli disse, utilizzando l’unica parola tedesca che conosceva; ma il guaio fu che quello aveva chiesto se trasportassimo qualcosa da dichiarare, per cui, sentita tale risposta, cominciò a incalzare con altre domande. Nessuno di noi (neanche io e mia sorella!) capì un tubo, ma nonostante ciò, anzi forse proprio per questo, tutti e quattro, persa ormai completamente la faccia, ancora una volta non riuscimmo a frenare il riso…
Ma c’era poco da ridere: l’uomo in divisa, che aveva proprio l’aria di fare sul serio, ci intimò di aprire le valigie (ne avevamo ben tre, e pesantissime, perché io e mia sorella andavamo in giro sempre con dei libri dietro, per studiare nei tempi morti).
Inutilmente papà, sospettando che fossimo stati presi per contrabbandieri, reagì risentito, dicendo ripetutamente con molto orgoglio “Siamo turisti!”, e poi, per rendere, a suo parere, la sua affermazione più comprensibile, visto che quello, continuando a frugare nelle nostre valigie, dava segno di non aver capito: “Noi essere turisti, essere turisti, noi!”
Poveri turisti! Il nostro primo e tanto vagheggiato approccio col turismo all’estero stava andando proprio male…
Nelle valigie, ovviamente, non fu trovato nulla di compromettente: c’erano solo i nostri poveri panni, dei maglioni “perché in Austria avrebbe potuto essercene bisogno”, le “sudate carte” mie e di mia sorella, e poi un po’ di frutta, qualche panino e qualche bottiglia d’acqua, che ci permettessero, perlomeno la prima sera, di evitare, cenando in camera, la spesa del ristorante.
Dopo il controllo delle valigie fu la volta del controllo dei documenti: ahimè, ancora in tedesco, altre osservazioni molto concitate, di cui ancora una volta noi non capimmo un bel nulla: ma dove era andata a finire la conoscenza del tedesco che sia a me che a mia sorella aveva fruttato, non molto tempo prima, un bel trenta e lode? I nostri documenti, evidentemente, avevano qualcosa di anomalo: con grande difficoltà capimmo che mancavano delle marche da bollo…
Toccò a papà andarle a comprare, mentre il treno era ancora fermo per i controlli; ma, tardando lui a tornare, scese dal treno, per cercarlo, anche mamma; e successivamente, per cercar lei, che tardava a sua volta, abbandonammo il treno anche io e mia sorella…
Ci ritrovammo, alfine, tutti e quattro, provenienti chi da una parte, chi da un’altra, e scaricammo la nostra tensione tramite irrefrenabili risate liberatorie: sembrava, ormai, che, a dispetto della nostra proverbiale serietà, non sapessimo fare altro che ridere.
Ci vide, mentre trafelati arrancavamo verso il treno, l’uomo in divisa, il quale cominciò a gesticolare per farci capire che dovevamo affrettarci se non volevamo perdere il treno.
Meno male che non lo perdemmo, il treno, perché altrimenti papà (poverino!) chissà quanti e quali rimbrotti di mamma si sarebbe dovuto sorbire…
Eravamo tutti e quattro appena tornati ai nostri posti quando il treno, fischiando e sbuffando, ripartì e noi, come se nulla fosse accaduto, riprendemmo i nostri discorsi dal punto in cui li avevamo interrotti per l’irruzione dell’uomo in divisa: quelle avventure non erano minimamente riuscite a scalfire la nostra gioiosa attesa di quel primo salto oltre frontiera, gioiosa attesa che, tra commenti, sogni, fantasticherie, scoperte fatte al finestrino, scoppi di gioia, ci aveva accompagnati sin dall’inizio del viaggio e continuò ad accompagnarci, donandoci momenti di felicità vera, fin quando, a sera, il “treno dei desideri” ci scaricò nella bella Innsbruck, dove altre avventure ci attendevano…
Arrivammo a Innsbruck nel bel mezzo di un temporale, per cui, per raggiungere l’albergo dovemmo sostenere la spesa del taxi, non prevista, ma tuttavia affrontata allegramente.
Non ce la sentimmo, invece, io e mia sorella, dato l’imperversare del temporale, di affrontare allegramente l’idea di dormire in una camera diversa da quella dei nostri genitori, per cui chiedemmo all’ impiegato della reception che ci aveva accolti una camera con un letto matrimoniale e due lettini: non ci sembrava di aver chiesto nulla di strano, e invece… apriti cielo! Il “cucco”, dopo aver inveito come se si fosse trovato davanti a degli accattoni, concluse la sua filippica dicendo, in un penosissimo italiano, che “a casa loro” ognuno dormiva nella propria camera. Fortuna che nel corso di questa disputa la furia del temporale si era placata, cosa che ci indusse non solo ad accettare l’assegnazione di due camere, ma anche, addirittura, a lasciare i bagagli in portineria e andare a cena fuori: ma sì, quel nostro primo we all’estero, ce lo dovevamo godere appieno…
La cena, a base di carne, uova, patate e salse varie, ci andò, però, tutta per traverso quando, al nostro rientro in albergo, in portineria non si trovarono le chiavi delle nostre camere: le avevamo noi, loro dicevano, ma noi negavamo.
A un certo punto, però, vista la loro insistenza, mamma, mia sorella ed io, pensando che, se un colpevole c’era, doveva trattarsi di papà, cominciammo a chiedergli cosa ne avesse fatto, delle chiavi, e, nel contempo, a perquisirlo accuratamente, noncuranti del fatto che la cameriera diceva timidamente di averle consegnate lei “alla signora”.
Fu questa asserzione della cameriera, più volte ripetuta, che dopo un bel po’ indusse me e mia sorella a scagionare papà e, ora col suo appoggio, a riversare sulla “signora” , cioè su mamma, la responsabilità.
Lei, poverina, sedutasi su una poltrona, svuotò la sua borsa, riversandosene sul grembo il contenuto: c’erano le cose più impensabili (cosa di cui papà, forse per un desiderio di rivalsa, prese ad accusarla), ma delle chiavi nemmen l’ombra.
Eravamo, tutti e quattro, talmente agitati, che non ci accorgevamo neanche che la cameriera, mentre faceva la sua asserzione, puntava il dito su di me: ero io la “signora” cui lei faceva riferimento!
Le chiavi, in effetti, erano nella mia borsa…
Recuperate le chiavi, ci avviammo verso le nostre camere, finalmente…
Ma intanto il temporale era ripreso, ancora più violento di prima, per cui noi decidemmo di sistemarci alla meglio tutti e quattro nella matrimoniale, non senza però aver preventivamente disfatto i letti della camera destinata a me e a mia sorella, per dare agli albergatori l’impressione che, “a casa loro”, ognuno avesse dormito nella propria camera: assegnammo a papà la poltrona, per fortuna sufficientemente comoda, e noi donne utilizzammo il lettone, mamma in mezzo ed io e mia sorella ai lati…
Mamma, che aveva una gran paura dei temporali, paura che era riuscita a trasmettere anche a noi figlie, appena fummo a letto ci indusse a recitare tre Ave alla “Madonna dei pericoli”, poi cominciò ad invocare San Giovanni e santa Barbara e, nei momenti particolarmente critici, “l’angelo che dormiva ai piedi di Maria”, recitando vecchie preghiere dialettali, la cui origine si perde nella notte dei tempi: io e mia sorella, tremanti, le facevamo eco, mentre papà, che di tanto in tanto “osava” sottolineare un certo aspetto comico di quelle preghiere, si prendeva i rimbrotti di mamma, che, quando non ne poteva più, non esitava ad interrompere le preghiere per accusarlo di essere blasfemo …
Quando ci addormentammo, era già notte inoltrata.
Oh, poveri turisti per caso! Ma l’indomani ci avrebbero ripagato di tutte quelle tragicomiche avventure un sole radioso, le bellezze di Innsbruck ed anche… l’orgogliosa consapevolezza di essere (perlomeno nei confronti della maggior parte dei siciliani), in fatto di turismo, dei pionieri.