Sei personaggi in cerca del west
Partiamo alle 10.30 da Malpensa con volo Continental Airlines e, dopo uno scalo a New York, arriviamo a Los Angeles alle 18.00 ora locale.
La cosa che più mi colpisce del viaggio sono i controlli serrati a New York: oltre ai passaporti, sono esaminate attentamente le iridi degli occhi e le impronte digitali. Ad ognuno viene chiesto di togliersi anche le scarpe… Per il resto il viaggio è andato benissimo e dopo tante ore tocchiamo il suolo californiano! La prima cosa da fare è andare a recuperare l’auto e subito possiamo saggiare l’organizzazione americana: a distanza di pochi minuti passano, fuori dall’aeroporto, i pulmini delle diverse compagnie di autonoleggio, In un attimo siamo alla National dove ci aspetta la nostra monovolume da 7 posti: una Crysler bordeaux prenotata dall’Italia. Carichiamo i bagagli e prendiamo posto sulla macchina. Oltre al volo e all’auto, dall’Italia abbiamo prenotato la prima notte a Los Angeles, al Crowne Plaza, in zona aeroporto, e lì ci dirigiamo.
Dopo le operazioni di check in, raggiungiamo ognuno la propria camera di quello che sarà l’hotel più lussuoso del viaggio, dove troviamo per noi un cd new age da ascoltare mentre ci addormentiamo e un letto morbidissimo. La prima sorpresa è scoprire che la camera doppia consta di due letti a una piazza e mezza. Quindi, volendo, ci possono dormire quattro persone. Inoltre, il prezzo si intende sempre per camera, non per persona.
Ci diamo appuntamento dopo mezz’ora nella hall. Siamo confusi e affamati e ci incamminiamo verso un Mc Donald’s che abbiamo notato durante il tragitto. Nonostante la stanchezza si faccia sentire, ognuno ha già da raccontare le sue prime impressioni su questo paese, anche se due di noi, Roby e Walle, ci sono già stati e spesso durante questo viaggio ci faranno da ciceroni. Al Mc Donald’s, dove l’odore di fritto è davvero intenso e non c’è un’anima, sperimentiamo, e io personalmente stenterò a ricordarmelo per tutto il viaggio, che i prezzi non sono comprensivi di tasse, quindi al prezzo esposto occorre sempre aggiungere l’8/10%.
Tempo di consumare un “combo”, l’equivalente del nostro “menù” nei fast food, e torniamo in hotel per una lunga dormita. L’appuntamento è per le otto del mattino dopo in reception: domani sarà una giornata impegnativa perché da Los Angeles raggiungeremo, forse, San Francisco percorrendo la famosa Numero Uno.
Forse sarà meglio puntare la sveglia… 19 agosto Avrei dormito volentieri un po’ di più, ma l’eccitazione è tanta. Scendiamo in reception e… Sorpresa! Non l’avrei mai detto ma… A Los Angeles non fa sempre caldo! Non so dire quanti gradi ci saranno, so solo che con la felpa si sta bene! Saliamo in macchina e, sulle note di L.A. Woman a tutto volume, percorriamo le strade ancora deserte di Los Angeles. Andiamo a imboccare la Highway One, la mitica strada costiera che serpeggia lungo il litorale per 130 miglia sino a San Louis Obispo, dove si congiunge con la più veloce Highway 101. Notiamo già le contraddizioni di questo paese: strade immense a tantissime corsie e tralicci in legno, centri commerciali ultra moderni e gomitoli di fili elettrici sulle nostre teste per le strade. Mi guardo intorno e gli esercizi che mi sembra di notare più frequentemente sono fast food di ogni tipo (Mc Donald’s, Wendy’s, Jack in the Pot, Denny’s, Taco Bells e mille altri) e centri estetici per la cura delle unghie! Ne ho visti tantissimi e già dopo i primi giorni Barbara e io abbiamo notato che quasi tutte le donne in California hanno unghie curatissime! La Highway One è davvero spettacolare: dalla costa bassa e sabbiosa dei dintorni di Los Angeles comincia a salire sulle scogliere più alte avvolte nella nebbia, per poi scendere nuovamente e accarezzare di nuovo spiagge sassose e ancora promontori rocciosi. Ci fermiamo qua e là per respirare l’aria gelida che ci circonda e ammirare i colori del mare che è tanto diverso dal nostro. E’ l’oceano e onestamente non invoglia al bagno, anche se ogni tanto notiamo qualche surfista. A un certo punto ci fermiamo in una piazzola dove decine di scoiattoli fanno capolino dai cespugli e si avvicinano ai turisti meravigliati. Abbiamo già sacco un sacco di foto e siamo ancora all’inizio del nostro viaggio! Andrea, come dimostrano le foto che abbiamo visto in seguito, avvista addirittura un elefante marino fra gli scogli.
Raggiungiamo Santa Barbara e sperimentiamo le prime difficoltà con i parcheggi… Non è molto chiaro dove è possibile parcheggiare, anche se intuiamo che una differenza fra il bordo del marciapiede rosso, bianco e verde ci deve pur essere. Una ragazza parcheggia dietro la nostra auto e chiede se abbiamo bisogno di aiuto. Ci spiega che Tow Away significa rimozione forzata, il rosso indica il divieto di parcheggio, il verde parcheggio a tempo, il bianco è ok. Ringraziamo per la gentilezza: da noi non siamo proprio abituati a tanta disponibilità. Gironzoliamo per Santa Barbara che è davvero graziosa e ci fermiamo in un negozio di strumenti musicali a comprare un’armonica per un amico. Dimenticavo: la metà del nostro gruppo di viaggiatori è composta da musicisti.
Ogni paese costiero ha il suo Pier, il molo, e andiamo a farci una passeggiata. A destra e sinistra, in fondo al pontile, ci sono negozi e ristoranti di ogni genere. Prima fregatura americana: 10 dollari per un anellino da piede! Proseguiamo in macchina verso nord: il tragitto è ancora molto lungo e già ci accorgiamo di essere un po’ in ritardo rispetto alla nostra tabella di marcia. D’altronde la distanza fra Los Angeles e San Francisco è di 750 km. I colori della Highway continuano a stupirci (e a me un po’ anche le curve!). Ci fermiamo a mangiare in un paesino piuttosto anonimo, in un fast food dove alcuni sedili in pelle sono sfondati e familiarizziamo con il free refill: qualsiasi bicchiere tu prenda, hai diritto a riempirlo più e più volte. Ognuno sceglie il suo combo, qualcuno prende il caffè (sempre self service) in quei bicchieroni di polistirolo che lo tengono caldo, una sigaretta e si riparte. Durante un’altra sosta, ci fermiamo in uno store sulla strada per comprare dell’acqua e io e Roby assaggiamo dei grilli salati e tostati! Lasciata la costa, percorriamo un buon tratto all’interno del Pfeiffer Big Sur State Park; qui fa ancora più freddo e sembra di stare in alta montagna. Siamo circondati dai boschi e ci fermiamo a fare benzina in un posto davvero suggestivo dove affittano chalet in legno e dove compro un burrocacao all’ananas (!) che mi farà compagnia per tutta la vacanza. Intanto comincia a calare la sera e meditiamo di fermarci più avanti, perché di questo passo a San Francisco non ci arriveremo mai! Ci fermiamo a Santa Cruz e la migliore sistemazione che troviamo è un miniappartamento per sei persone, dove un armadio si trasforma magicamente in letto. Io, Barbara e Walle siamo così stanchi da lavarci e mettervi subito a letto senza cenare; gli altri vanno sul lungomare a mangiare l’immancabile hamburger.
Per il momento la California mi ha colpito piacevolmente. Buona notte! 20 agosto Santa Cruz è la città che dà il nome a una nota marca di chitarre. Dopo aver fatto colazione al Pier e mangiato tanto di uova strapazzate, bacon e patate, andiamo alla ricerca della fabbrica di chitarre che, a quanto pare, non dev’essere poi così conosciuta lì. I passanti, infatti, ci danno indicazioni confuse. Comunque, alla fine, troviamo quella che non è propriamente una fabbrica, bensì un laboratorio. Facciamo solo capolino all’interno dell’atelier, quando un’impiegata sorridente e gioviale ci saluta e invita a entrare. Quando le diciamo che siamo italiani e siamo a Santa Cruz per via delle chitarre, oltre a essere assai meravigliata dalla cosa, ci propone di fare un giro del laboratorio con Richard, che scoprirò dopo essere il proprietario della Santa Cruz Guitar. Come sempre, per la descrizione dell’aspetto musicale della vacanza, cedo la penna a Sergio: La tappa a Santa Cruz è stata anche abbastanza casuale. Sapevo che là era stata fabbricata la mia chitarra, una Santa Cruz Om standard ed il nome di quella città aveva solleticato la mia curiosità da quando scoprii essere una cittadina della California. Per questo motivo ho chiesto ai miei compagni di viaggio una fermata fuori programma. Le Santa Cruz sono chitarre acustiche professionali conosciute in tutto il mondo dai musicisti che cercano prodotti ad alto livello. Anche per questo rimasi sorpreso nel constatare che, in città, in molti non sapessero dove fosse la fabbrica. Un po’ come se a Maranello non sapessero dirti esattamente dove sta la fabbrica della Ferrari. Poi ho capito. Mi aspettavo di trovare una fabbrica invece abbiamo scoperto che la casa delle Santa Cruz è un atelier. Organizzato alla perfezione ma pur sempre un atelier. Appena entrati siamo stati accolti con simpatia e cordialità. All’ingresso intravedo Richard Hoover, il papà delle Santa Cruz , che sta parlando con un fornitore. Sulla sua scrivania ci sono fotografie, carte e ninnoli di varia natura. Di fianco alla scrivania una chitarra identica alla mia. La miglior fotografia di un uomo che ama il lavoro che fa ed i prodotti che crea. Richard in persona ci propone di fare un giro dell’atelier. E’ orgoglioso di vedere questi italiani così incuriositi dalle sue chitarre. Richard ci ha accompagnato a vedere tutte le fasi di costruzione delle sue chitarre. L’eccellenza delle sue chitarre deriva dal fatto che l’approccio è rimasto comunque artigianale. La tecnologia c’è ma è sempre in secondo piano rispetto al lavoro dell’uomo che, personalmente, decide l’intonazione delle tavole, dell’incatenatura delle stesse. Il “suono” e la “voce” delle sue chitarre vengono decise dall’esperienza dei suoi uomini e non da un computer. Quello che maggiormente mi ha colpito è stata la semplicità e la simpatia di Richard e dei suoi dipendenti. Nell’atelier Santa Cruz la gente lavora con serenità, con gioia e consapevolezza artistica di chi sa che sta costruendo un’ opera d’arte, un pezzo di storia. Non voglio appesantire il racconto di Gisella con un polpettone tecnico di liuteria & fingerstyle. Al musicista che desidera avere informazioni tecniche sugli strumenti Santa Cruz segnalo il sito della Santa Cruz (www.Santacruzguitar.Com) e lascio volentieri la mia mail personale (arturo.99@libero.It ). Che dire? Io ho visto un imprenditore di quel calibro indossare una camicia più grande di lui, un bel sorriso e una passione infinita per i suoi”legni”, che continuava a ripetere i nomi di noi sei mentre ci parlava e che ci ha portato nel suo mondo con una grande naturalezza per una mattina intera. Grazie Richard! Dimenticavo, sul Pier di Santa Cruz ci fermiamo a chiacchierare con una coppia di emigranti italiani con cui alla fine facciamo la foto: lui si chiama Giovanni Rossi, ha lasciato la Liguria 60 anni fa e ha una luce negli occhi quando parla dell’Italia da farmi commuovere.
La Highway 101 ci conduce finalmente a San Francisco, dove arriviamo verso le 15. Vogliamo ammirare subito il Golden Gate, ma è paurosamente avvolto dalla nebbia… Peccato…Troviamo alloggio al Beach Motel in una zona non proprio centrale ma da cui con circa 20 minuti di tram ti trovi in Market Street. Assaporiamo l’atmosfera cosmopolita ed europea di San Francisco e percorriamo a piedi vari quartieri, da Chinatown, che comincia sotto il Dragones Gate, con i suoi negozi e ristoranti tipici, a North Beach, il quartiere italiano dove su ogni palo è dipinto il nostro tricolore, sino al Pier 39, la zona del porto e molto turistica. Lì ammiriamo lo spettacolo che rappresentava per me uno dei must di San Francisco: le otarie!!! Sono dei bestioni corpulenti di due metri per 400 kg che hanno occupato spontaneamente negli anni ’90 questa zona, costringendo le barche a attraccare altrove. Stanno tutti ammucchiati sulle passerelle e si crogiolano al sole, ululando di tanto in tanto. Danno l’impressione di gradire il caldo e il fatto di starsene lì ammucchiati! San Francisco mi dà subito l’idea di una città in fermento, non a caso sono nati qui tantissimi movimenti sociali e tanta innovazione. Nel quartiere italiano io e Andrea entriamo in una caffetteria a prenderci un caffè e dei biscotti e la proprietaria, che parla un italiano con forte accento siciliano, ci tratta come se ci conoscessimo da sempre, indicandoci dove prendere lo zucchero e quello strano bastoncino che usano al posto del cucchiaino. Giriamo a lungo a piedi per la città, andando su e giù per le salite e discese con pendenze davvero assurde e ammirando le case vittoriane nel quartiere di Pacific Heights, da cui si ha una veduta stupenda del resto della città sottostante.
La fame comincia a farsi sentire, visto che oggi abbiamo soltanto spiluccato crackers e biscotti. Incappiamo da Hooter’s. Dico “incappiamo” perché l’intenzione era di andare da In and out, fast food suggeritoci da americani, solo che c’era troppa coda. La particolarità di Hooter’s è che le cameriere sono tutte ragazze prosperose sui 20 anni più svestite che vestite. Io e Barbara, infatti, siamo fra le poche donne del locale. Ammetto che si è mangiato bene: sempre hamburger e patatine, ma di ottima qualità.
Ormai è buio. Prendiamo un tram che ci riporta in Market Street, una capatina da Virgin poi saltiamo sull’altro tram che ci conduce al Beach Motel. Le camere sono fatiscenti, ma siamo così stanchi da crollare in un sonno pesante… 21 agosto La giornata è dedicata ancora alla visita di San Francisco. La nebbia che ci avvolge e il freddo sono davvero impressionanti… In macchina percorriamo le vie del centro, inclusa la famosa Lombard Street, che serpeggia in un’infinità di fiori giù per Russian Hill. Facciamo colazione nella zona del porto in un grande caffè, dove oltre a bevande di ogni genere, puoi scegliere pane fresco, brioches, muffins ecc… Rimango colpita quando, alla cassa, mi chiedono il nome. Penso a una bizzarria del luogo. Mi consegnano quanto ordinato e mi dicono di recarmi all’altro bancone per ritirare il caffè. Aspettando il mio caffè, non realizzo assolutamente che la barista stesse pronunciando il mio nome già da qualche secondo. Solo quando si mette letteralmente a urlare Giseeeeeelleeeee a pieni polmoni, stupita le rispondo “sono io!”. Con aria di sufficienza mi consegna il caffè e io torno al mio posto. Che vergogna!!! Insomma, per non far confusione ti chiamano quando la tua ordinazione è pronta. Certo, tu devi saperlo! Prendiamo tutti insieme il Cable Car al capolinea della linea Powell and Hide, rimanendo colpiti da come, al termine della corsa, il tram venga girato a spinte su una pedana che permette appunto, di invertirlo di direzione e fargli compiere il tragitto al contrario. Il sali-scendi ci diverte da matti e in zona Union Square ci dividiamo, dandoci appuntamento alla macchina alle 16. Io, Barbara e Andrea ci dedichiamo a passeggiate interminabili nella zona dello shopping, notando che appena una via più in là ti puoi ritrovare improvvisamente in una strada popolata da outsiders o da matti. Ho visto una quantità di matti e senza tetto in questa città che non mi aspettavo.
Questa contraddizione mi ha colpito parecchio perché due realtà opposte convivono a pochissimi passi, non come da noi dove il centro pulito e opulento dista parecchio dalle periferie disagiate e sporche. Entriamo in un centro commerciale immenso dove devo constatare ancora l’incredibile gentilezza e disponibilità di commessi e promoter che ti chiamano in continuazione per proporti i loro prodotti. Pare che ognuno si dedichi con piacere e disinvoltura anche ai mestieri da noi considerati più umili e questa cosa mi piace molto.
Dopo un po’ ci stanchiamo di girare per negozi, e Barbara e io ci sediamo in una pseudo pizzeria dove ordiniamo una pizza per lei e un’insalata greca per me. Buone! Nonostante abbia chiesto una coca con poco ghiaccio, ricevo un bicchiere di ghiaccio con poca coca! Gironzoliamo ancora un po’ per il centro e ritorniamo al punto di partenza prendendo di nuovo il cable car. Nella zona del porto compio il mio primo acquisto californiano: le All Star blu come quelle che indossavo a 15 anni e nel negozio trovo l’unica commessa poco disponibile di tutto il viaggio. In realtà, ci ho pensato alla fine della vacanza, era una commessa non più svogliata di quelle che trovi in molti dei nostri negozi, solo che ormai ci eravamo già abituati alla giovialità che ti avvolge in California, dove ti senti dire in continuazione “You are welcome!”, “Is everything ok?” , e la sua flemma strideva un po’ con il buonumore generale.
Ci ritroviamo con gli altri, che hanno visitato un negozio di strumenti musicali e saliamo in macchina. Finalmente la nebbia non c’è più e possiamo ammirare il Golden Gate in una bella giornata di sole, prima da sotto e poi dalla parte opposta della baia. E’ davvero immenso e la distesa d’acqua sottostante ti fa sentire proprio piccolo. Salutiamo da qui San Francisco e, nel traffico, ripartiamo in direzione Yosemite Park. Unico rimpianto: non aver assaporato il clam chowder nel bread bowl, ossia una specie di zuppa di vongole e granchio nella pagnotta… Ero sempre troppo sazia per avvicinarmi alla bancarella e comprarlo.
Le strade sono belle anche se trafficate, gli spazi enormi permettono di tenere distinte le due corsie, che in sostanza rimangono due strade separate da decine di metri di verde e il paesaggio che vediamo intorno a noi è un morbido susseguirsi di colline verdi e di alberi da frutta. Molto bello, intanto il sole tramonta e, guardando la cartina, decidiamo di passare la notte a Manteca, un paesino che si trova sulla strada. Ecco, una delle cose che mi ha colpito molto è la quasi totale assenza di indicazioni stradali. Insomma, da noi se sei a Milano ti aspetti di trovare le indicazioni per Como o Pavia… Lì se non hai la cartina stradale sottomano rischi di perderti.
Comunque, arriviamo a Manteca e approdiamo in un motel dove ci dicono di andare a recuperare i gestori al supermarket lì vicino, dove lavorano. Sono indiani, parlano a stento l’inglese ma alla fine ci capiamo e con 40 dollari a camera ci sistemiamo. Peccato, ce ne accorgiamo subito che proprio lì dietro passano a distanza ravvicinata treni merci rumorosi e strombazzanti… Faremo fatica a dormire, pensiamo, ma siamo anche molto affamati e dopo una doccia veloce partiamo a piedi alla ricerca di una steak house. L’unico posto aperto è un ristorante messicano denominato Cancun, semideserto e dalla temperatura glaciale dove si parla spagnolo e l’atmosfera è molto amichevole. Mangiamo bene e a me e Sergio quei sapori riportano alla mente i ricordi lontani del nostro viaggio in Messico.
22 agosto Gli innumerevoli treni hanno disturbato il sonno di tutti … Alle 8 siamo in piedi, anzi, in macchina, direzione Yosemite Park. Finalmente ci siamo lasciati alle spalle il freddo patito a San Francisco e comincia a fare decisamente caldo. pian piano anche il paesaggio cambia e dalla pianura comincia a salire verso la montagna, le strade dritte e lunghe diventano curve e poi tornanti e l’aria è più rarefatta. Il profumo di conifere è molto intenso e, scendendo dalla macchina, notiamo che, a differenza che dalle nostre parti, nonostante l’altitudine, continua a fare caldo. Noto un paesaggio simile alle nostre Alpi e delle ragnatele enormi e spessissime nel sottobosco… Quando arriviamo all’ingresso del parco, siamo tutti concordi nel fare il Pass che, con 80 dollari, dà diritto per un anno intero all’ingresso con l’auto alla maggior parte dei parchi della zona. Al termine del nostro giro avremo ammortizzato ampiamente il costo del pass. Siamo nella Sierra Nevada, la giornata è splendida e la solita vita frenetica sembra lontana anni luce. Continuiamo a salire e la strada diventa tortuosa. Scorgiamo la valle sempre più in basso sotto di noi. Ci fermiamo a immortalare il momento in una piazzola, dove un signore mi dice che se già qui mi sembra bello, più avanti sarà incantevole. La Yosemite Valley, che per oltre 9000 anni è stata popolata da comunità indiane, si estende per7 miglia, tagliate in due dal Merced River. La prima sosta la facciamo accanto a un torrente dove facciamo le prime foto. L’acqua è gelida, ma Sergio e Roberto hanno il coraggio di fare il bagno! Sarebbe da fermarsi 3 o 4 giorni qui e magari fare un bel trekking, ma avendo il tempo contato, ci limitiamo a scoprire i vari scorci passando in macchina e fermandoci qua e là. Parcheggiamo al Carrie Village, dove notiamo che i cartelli segnalano la presenza di orsi. Ovunque raccomandano di non lasciare cibo in macchina onde evitare spiacevoli sorprese. Anche i cestini sono fatti in modo tale da non poter essere aperti dagli orsi, che comunque non vedremo. Ci incamminiamo e vediamo le prime sequoie, sentieri di montagna, ruscelli e un’infinità di scoiattoli. Prendiamo un sentiero infinito e faticoso (forse anche a causa della fame…) alla ricerca del Mirror Lake, che ho letto essere molto bello. In realtà è un posto che va visto al massimo a primavera inoltrata per trovarlo stupendo. Adesso è solo una pozza di acqua marrone… Che delusione, dopo tanto cammino! Ritorniamo al Carrie Village e, dopo esserci rifocillati al Visitor Center, attorniati da scoiattoli a dir poco in soprappeso, risaliamo in macchina. Lo Yosemite Park può essere attraversato e non è necessario uscire, ad esempio rispetto al Bryce Canyon o alla Monument Valley, da dove si è arrivati. Così, lo visitiamo verso est al fine di uscire in direzione del Mono Lake. Ogni angolo è bello, alcuni tratti ricordano le nostre Dolomiti, e a un certo punto troviamo sulla nostra destra un laghetto pieno di canneti che dà un gran senso di pace e dove ognuno ne approfitta per riconciliarsi con la natura e il verde che sembra entrarti nella pelle! Proseguendo ancora un po’, la strada comincia a salire di nuovo e a un certo punto, a Olmsted Point, il paesaggio diventa lunare!!! La roccia che abbiamo tutt’intorno oltre alla strada è chiara e levigata. Qua e là, chissà come, nascono dei piccoli pini. Spettacolare.
Adesso notiamo che comincia la discesa e pian piano il bosco diventa radura… Qualche cerbiatto cammina indisturbato, mentre noi lentamente usciamo dal parco.
Il paesaggio rimane comunque molto suggestivo e in lontananza vediamo uno specchio molto vasto in cui riflettono le vette della Sierra, che scopriamo essere il Mono Lake.
La giornata sta volgendo al termine, così cerchiamo una sistemazione per la notte. Arriviamo in un piccolo paesino che si chiama June Lake. Entriamo in qualche motel e notiamo che anche qui è segnalata la presenza di orsi. Mamma mia! Alla fine troviamo posto al June Lake Motel and Cabins, dove la gentilissima proprietaria ci mostra un appartamentino con 6 posti letto davvero grazioso. I mobili sono in legno chiaro e sembra di essere in Tirolo! Ma che freddo fa??? Dopo esserci sistemati, usciamo per la cena. Abbiamo intravisto una steak house poco lontano e ci incamminiamo. Fa davvero freddo e, saranno le casette di legno illuminate, sarà l’aria frizzante… A me sembra che sia Natale! Entriamo al Coffee Shop Steak House, dove l’atmosfera è calda e accogliente e scegliamo tutti un bel controfiletto più o meno grande, con contorno di verdure a buffet. Si è mangiato davvero bene e questa serata rimarrà fra le migliori del viaggio, anche se il desiderio di Roby di visitare Bodie, un paese fantasma nella zona, crollerà a causa di un signore che si mette a chiacchierare con noi e ci invita a desistere per la strada troppo lunga e tortuosa! Roby si sta ancora mangiando le mani!!! 23 agosto La sveglia è puntata per le 7.15 perché il tragitto oggi è lungo e impegnativo, e io e Sergio ci svegliamo ancora prima perché voglio telefonare ai miei in Italia dalla cabina della Steak House. L’aria è molto fredda e siamo gli unici per la strada. Il paese dorme ancora e la voce dei miei al telefono appare l’unico legame col nostro paese lontano.
Torniamo indietro e ripartiamo. Barbara ieri sera ha visto un orsetto lavatore sulla nostra veranda! Ci dirigiamo in direzione Death Valley. Siamo tutti molto eccitati, nonostante due di noi l’abbiano già vista. Sappiamo che è meglio fare il pieno di benzina, di acqua e di cibo, così ci fermiamo in un paesino sulla strada, dove Walle ne approfitta per comprare una cintura da cow boy!!! Le soste ai distributori di benzina sono diventate ormai un rituale per noi, dove ognuno di noi ha il suo compito: Andrea fa benzina, subito dopo che io e Barbara lanciamo un urlo del tipo:” Ok, puoi procedere!” dall’interno dove abbiamo pagato (si paga prima e quindi conviene sempre esagerare un po’, poi eventualmente i soldi in più te li rendono), Walle pulisce il parabrezza, Sergio si fuma la sigaretta sul ciglio della strada e Roby, all’interno dello store, acquista ogni stranezza (per lo più strisce di carne secca speziata… No comment).
Oggi sperimenteremo una gran calura…La strada dritta e lunghissima che pare non avere fine ci sta portando verso la Valle della Morte, dove il picco del caldo sembra arrivare fino a 56 gradi, in questa stagione. Superato il Lago Powell, ci siamo, ecco il cartello che indica l’inizio del Death Valley National Park, il più vasto degli USA, di cui la Valle della Morte è solo una piccola parte. La cosa che più mi colpisce è la luce lattiginosa che abbiamo intorno, oltre ai colori molto chiari della sabbia e delle rocce. Scendendo per qualche minuto dall’auto gli occhi ti bruciano, un po’ per il caldo che è davvero eccessivo, un po’ per la luce intensa. Sembra di stare in un posto davvero surreale. Ovunque stratificazioni di sabbia bianca e calcare, qualche arbusto solitario che spunta nella desolazione più assoluta, rocce e dune di sabbia un po’ più in là. Sergio si avventura fin sulle dune e dice che l’esperienza è stata indimenticabile, ma io lo guardo preoccupata dal ciglio della strada… Ho la pressione sotto i piedi e il sole mi brucia la pelle. La frase di Ambrose Bierce, “L’orrido è l’alleato del bello”, sembra essere stata scritta qui. Verso l’una ci fermiamo in un posto desolato a mangiare i nostri panini e troviamo riparo dal caldo in un locale dove trangugiamo una coca cola. Siamo tutti un po’ stralunati e spaesati e facciamo quasi fatica a parlare! L’avventura continua e nel pomeriggio percorriamo altre strade che sembrano perdersi nell’orizzonte, arriviamo a Fornace Creek, il centro turistico della valle e ci dirigiamo verso il Badwater Basin, il posto più basso dell’emisfero occidentale sotto il livello del mare (86 metri, per l’esattezza). Qui una distesa di sale si estende all’infinito e i ragazzi si fanno una lunga passeggiata, mentre noi ragazze attendiamo in macchina… Il caldo è ormai insopportabile.
Le ultime due tappe le facciamo incamminandoci in un canyon che sembra condurre in una fornace e a Zabrinskie Point, uno dei posti più belli visti in tutto il viaggio. Quest’ultimo è un punto di osservazione panoramico spettacolare, che si raggiunge dopo una camminata in salita di pochi minuti. Lassù, ti si apre alla vista un’infinità di dune chiare che sembrano fatte di cartapesta e vederlo quando il sole cala è ancora più bello…Se non avessi visto Zabrinskie Point, la Valle della Morte non mi avrebbe lasciato la sensazione di spettacolarità che mi porto dentro.
Uscendo dalla valle, scorgiamo i cottage dove sarebbe bellissimo fermarsi per la notte, ma la tabella di marcia prevede di passare la notte a Las Vegas, quindi… Addio Valle della Morte! Varchiamo il confine con il Nevada e ci fermiamo subito in un saloon per una birra, dove il gestore ci invita a scrivere i nostri nomi sul muro! A sera inoltrata dal buio del deserto cominciamo a scorgere le prime luci che annunciano la vicinanza di Las Vegas… Pian piano il buio si incendia letteralmente delle luci delle macchine che sfrecciano sulla highway e delle insegne della città. Arriviamo sullo Strip e siamo già disorientati dalle migliaia di tubi al neon tutt’intorno. Per la prima volta proviamo emozioni contrastanti perché Las Vegas esalta alcuni di noi, mentre proprio non piace ad altri. Oddio, non che a Las Vegas mi aspettassi di trovare chissà che cosa, ma pensavo ci fosse più festa, un’atmosfera da pazzi, ma non così costruita… Hai l’impressione di vivere in un flipper, dove l’imprevisto non è contemplato, perché tutto è pilotato da un Grande Fratello che ti osserva dall’altro. Pazzesco. Passerelle e scale mobili che ti incanalano quasi senza fartene rendere conto in un hotel stratosferico, slot machine ovunque, gente alienata che gioca con la carta di credito attaccata al colo, ragazzine di tredici anni agghindate come primedonne, leoni in gabbia all’interno degli hotel, negozi zeppi di ogni articolo che puoi desiderare e persino i musicisti che suonano dal vivo sembrano finti. A me Las Vegas ha messo una gran tristezza, però ho capito perfettamente qual è il fascino che riesce a esercitare su altri.
Comunque, pernottiamo all’hotel Excalibur o, come lo chiama Sergio, l’hotel dei Playmobile, quello con il castello con tutte le torrette e ora che ci sistemiamo e facciamo una doccia sono le undici di sera. Ci dividiamo in due gruppi: io, Sergio e Andrea ci dirigiamo verso il Luxor Hotel, anche se notiamo che a quest’ora la maggior parte dei ristoranti (che sono tutti all’interno degli hotel) sono chiusi. Ci tocca cenare in un bar, dove la cameriera che ci segue è davvero anziana, ma comunque gentilissima e sollecita, e ci porta mille bicchieri di coca cola. Giriamo ancora un po’ per i vari hotel, mentre fuori fa ancora molto caldo, e verso l’una e mezza ci ritiriamo in camera.
E’ stata una giornata di intense emozioni e anche Las Vegas con la sua plastica rientra in una di queste!
24 agosto, lunedì Finalmente mi posso svegliare con calma! Me la godo rigirandomi sotto le coperte, mi alzo con calma e parto con Sergio in taxi alla volta del Townsend Square, un centro commerciale costituito da tante casette basse e piazze e fontane. Tutto finto, surely! Però lo consiglio perché trovi veramente tutto quello che puoi cercare. Siamo qui per visitare un negozio di strumenti musicali. Io passo più di un’ora da Abercrombie, negozio consigliatomi da tutte le amiche che sono state negli USA e in circa tre ore riesco a vedere sì e no 5 altri negozi. L’offerta è veramente immensa e sono spettacolari i negozi con articoli per surfisti. Credo che non sia rarissimo cadere in un raptus da shopping a Las Vegas! Mangiamo da In and Out, finalmente! Si tratta di un fast food consigliatoci da Erica, una cantante lirica con cui Sergio ha stretto amicizia in aereo. In effetti è vero, la carne e le patatine sembrano avere una qualità superiore rispetto agli altri fast food.
Raggiungiamo gli altri,che nel frattempo hanno girato per i diversi hotel, fatto shopping sullo Strip e mangiato come re in un self service e ci godiamo insieme lo spettacolo delle fontane dell’Hotel Bellagio.
Giochiamo qualche dollaro alle slot machine e ci avviciniamo alla macchina. Chi non è sensibile ai grandi hotel, allo shopping sfrenato e all’esagerazione non amerà Las Vegas, ma penso sia una città che debba essere vista, perché in ogni caso ti fa riflettere! Viaggiamo per diverse ore in macchina. Ci stiamo dirigendo verso l’Arizona, la prossima tappa importante è il Gran Canyon. Al tramonto, imbocchiamo la famosa Route 66. Oggi è stata soppiantata dalle rete di interstatali, ma la Route 66 in passato serpeggiava collegando Chicago a Los Angeles fin dal 1926 e lungo il suo percorso sorsero locali con insegne al neon, motel e drive in.
Mi sembra di essere in un film tipo Thelma e Louise o Sideway, è bellissimo! Arriviamo a Seligman, dove decidiamo di fermarci per la notte, all’Historic Route 66 Motel. Su ogni porta delle camere del motel c’è scritto “qui ha pernottato…” e noi capitiamo nella stanza dove ha dormito un noto fotografo del National Geografic. Sopra il nostro letto c’è un bel quadro che ritrae una bimba indiana. Mi piace guardare i film in lingua originale e mentre ci prepariamo per andare a cena mi godo un pezzetto de “Il mio grande grosso matrimonio greco”.
Ci spostiamo di poche centinaia di metri per cenare al Roadkill Cafè, un saloon dove ci accomodiamo al tavolone di legno e dove mangiamo carne (chi filetto, chi grilled chicken, chi costine di maiale). Le bevande sono servite in barattoli di marmellata!!! E’ proprio una serata statunitense, mi aspetto di vedere entrare un cow boy da un momento all’altro! 25 agosto, martedì Salutiamo Seligman di buon ora, alla volta del Gran Canyon.
Siamo in Arizona! Ci fermiamo a far colazione a William, paesotto che sembra essere nato proprio per far sostare chi passa di qui in macchina. Qui ne approfittiamo per visitare qualche negozio e io compro un paio di Levi’s minuscoli per il nostro nipotino Edoardo. I prezzi sono ottimi e ovunque vendono cappelli e stivali da cow boy, oltre a pietre colorate e articoli in cuoio. Proseguiamo ancora un bel pezzo e, prima di entrare nell’area del Gran Canyon, ci fermiamo a mangiare da Wendy’s, dove i prezzi sono un po’ più alti, ma mangi meglio (sempre comunque hamburger, s’intende!).
La giornata è brutta, e usciti dal fast food siamo colpiti da un violento temporale che ci costringe a ripararci più di un’ora nello store vicino, dove beviamo caffè e qualcuno naviga in Internet.
Quando il temporale è passato, risaliamo in macchina, ma la giornata rimane comunque piovosa e buia, e non ci permette di goderci a pieno lo spettacolo del Gran Canyon, il più vasto della superficie terrestre. Armati di k-way, ci godiamo lo spettacolo comunque bello. Sotto di noi, a 2000 metri scorre il fiume Colorado. Purtroppo il brutto tempo non ci fa godere a pieno lo spettacolo, anche se alla fine smetterà di piovere. Ammiriamo il Canyon da diversi punti panoramici, ma non ci avventuriamo lungo i sentieri. Mentre ci allontaniamo dal Canyon, notiamo uno straniero sulla strada. A me sembra un cane parecchio smilzo, ma mentre ci avviciniamo devo dare ragione agli altri: abbiamo incontrato un coyote!!! E’ molto spaventato, infatti scappa subito dalla strada, ma è stato bello vederlo.
Il pomeriggio volge al termine, come spesso durante questo viaggio, on the road. In macchina di solito ascoltiamo i cd che ci siamo portati da casa, oppure la radio perché abbiamo sempre trovato ottime programmazioni; poi c’è chi guarda la cartina per capire dove siamo, chi mangia, chi pensa… Ogni tanto facciamo le parole crociate di gruppo… Senza contare che quando guida Andrea per i tragitti più lunghi, spesso crolliamo tutti e cinque in un sonno profondo, dandogli moltissima soddisfazione!!! La meta della sera è Page, paesotto nato in passato per dare una casa a tutti coloro che hanno lavorato alla costruzione di un’immensa diga poco lontana, alta 100 metri sul fiume Colorado e che dà energia a tutta l’Arizona.
Arrivando a Page, che sembra costruita con i mattoncini Lego, noto una gran quantità di chiese… Di ogni tipo: battista, evangelica, mormona, cattolica, protestante… Poco lontano dalla via delle chiese, troviamo un motel dove pernottare. Le camere sono dignitose e pulite e io ne approfitto per assistere alla convention dei Democratici. Mi colpisce la grande spettacolarizzazione degli incontri elettorali. Grandi palchi su cui si alternano vari tipi di umanità: dal giornalista alla casalinga, ognuno racconta di sé, del proprio passato, di ciò che sognano per i loro figli… Il tutto seguito da applausi, lacrime, musica e luci, collegamenti a New York con Hillary e foto di Obama con la moglie e le figlie. C’è sempre molta “famiglia” nei discorsi di tutti, Io e Andrea andiamo alla lavanderia dall’altra parte della strada. Facciamo un bucato di colorati in circa mezz’ora, inclusa l’asciugatura fra tante donne latine che mentre piegano i loro panni si scambiano confidenze e risate. I nostri vestiti sono belli puliti, asciutti e abbastanza stirati. Il tutto ci è costato 3 dollari ed è stato simpatico sperimentare quello che di solito vediamo nei film.
La sera, nonostante ciò sia assolutamente al di fuori dalla mia logica di italiana all’estero, ceniamo da Pizza Hut. Fa caldo e si sta bene anche sui tavoloni all’aperto. Familiarizziamo con un gruppo di italiani: è proprio vero, fra italiani ci si riconosce subito e basta una parola per tirar tardi a chiacchierare.
Terminiamo la serata in un supermarket dove vogliamo comprare un po’ di frutta per fare colazione domani… Sullo stomaco di alcuni di noi la dieta a base di hamburger comincia ad avere strani effetti. Importo speso da Walle e Andrea per colazione a base di frutta: 28 dollari. Frutta in realtà consumata il giorno dopo: 50%. Da dopodomani ricominceremo a far colazione nei fast food! 26 agosto Oggi varcheremo la frontiera con lo Utah e visiteremo lo Zion e il Bryce Canyon. Ho un gran sonno perché in seconda serata in TV davano Sex and the City e volevo togliermi lo sfizio di vederlo anche in lingua originale! Tutta un’altra cosa… Appena varcata la frontiera, ci fermiamo a fare rifornimento in un paesino dove beviamo un caffè (perché la nostra colazione a base di frutta l’abbiamo già consumata!) seduti al tavolo di un bar all’aperto. La giornata è bella e c’è il sole. Il cameriere ci raccomanda di non fumare, anche se siamo all’aperto… Siamo proprio nello Utah, insomma… Notiamo che su alcuni edifici sono affissi dei cartelli che intimano di fumare ad almeno 20 metri da qualsiasi edificio! Ripartiamo e, dopo qualche ora, raggiungiamo una zona davvero bella, un su e giù di colline e rocce colorate. Ci fermiamo ad ammirare un gruppo di bisonti, dei bestioni grandi e grossi che, con la loro peluria incolta, ispirano grande simpatia.
Il primo canyon che ammiriamo è lo Zion. Il colore rosso delle rocce, dapprima delle lastre orizzontali, che poi cominciano a elevarsi verso l’alto, è davvero sconvolgente. Ricorderò questa giornata come un quadro dipinto con soli tre colori: rosso mattone, verde e blu. I colori rispettivamente delle rocce, della vegetazione e del cielo terso. Bellissimo.
Anche qui, un’infinità di scoiattoli ci fa compagnia.
La statale n. 9, che congiunge lo Zion, il Red e il Bryce Canyon è talmente immersa nel rosso delle rocce, da essere rossa anche lei! Insomma, hanno avuto il buon gusto di usare un asfalto di questo colore per non deturpare troppo il paesaggio. Incontriamo sulla strada una cerbiatta con i suoi piccoli e vediamo tanti uccelli… Il Bryce Canyon è l’ultimo che troviamo sul nostro tragitto e che viviamo di più perché ci avventuriamo, dopo averlo ammirato dall’alto, lungo il Navajo Trail. Bisogna immaginare il Bryce Canyon come un anfiteatro di carta pesta rosso con un’infinità di guglie che si elevano verso l’alto… Un sogno. Io l’ho preferito di gran lunga al Gran Canyon, anche se devo ammettere che c’era parecchia gente. E’ anche vero che negli USA gli spazi sono così vasti che il sovraffollamento quasi non si avverte.
Il Navajo Trail è un sentiero che serpeggia nel canyon e lo percorriamo per diverse centinaia di metri, tanto che alla fine i nostri occhi si abituano all’intenso colore rosso… La discesa è davvero suggestiva e a valle troviamo degli alberi altissimi, dove proprio non ce li aspettavamo… Nel frattempo cala la sera e noi ripartiamo.
Percorriamo davvero tanti chilometri per raggiungere il primo paese dove troviamo alloggio, Escalante. In un batter d’occhio si è fatto buio e i pochi locali stanno chiudendo. Per fortuna avvistiamo un Subway, un fast food dove servono panini che ti preparano su misura (scegli tu fra gli ingredienti che vedi nei vari contenitori). Anch’esso sta per chiudere, ma chiudono… un occhio… e ci fanno accomodare. Guardando l’orologio appeso alla parete mi rendo conto del perché sia tutto chiuso: rispetto ai nostri orologi, che segnano le 21, qui siamo un’ora avanti. Sono le 22 e per tutta la giornata noi siamo rimasti un’ora indietro. Dopo questa scoperta, rincasiamo perché non c’è neppure una birreria aperta.
Su Escalante cala la notte, un gattone bianco cerca qualche carezza e noi sei ce ne andiamo a letto… 27 agosto La mattinata è dedicata alla traversata che ci porterà al punto più a nord del nostro viaggio: Moab, base da cui visiteremo il Parco degli Archi. Arriviamo a Moab verso le 13 e, per la prima volta, sperimentiamo il soggiorno in un Motel 6, che si rivela un’ottima scelta di qualità e prezzo. Il caldo è asfissiante… Roby e Barbara si godono la piscina, mentre noi altri andiamo in paese a mangiare. Il locale è carino, si chiama Slick Rock Cafè e prendiamo pesce e pollo grigliato. Avvistiamo anche un possibile saloon dove trascorrere la serata. Il pomeriggio rimane a nostra disposizione perché abbiamo deciso di visitare il parco al tramonto. Quasi tutti ci gettiamo in piscina, anche se è piuttosto piccola, ma intanto ci rilassiamo e rinfreschiamo un po’. Verso le 17 ci dirigiamo in macchina verso il Parco e a questo punto abbiamo bell’e che ammortizzato il costo del nostro pass dei parchi. Quella che inizialmente ci sembra una scelta sbagliata, vale a dire il fatto di visitare il parco così tardi, si rivela una scelta azzeccatissima. Il tramonto trasforma i colori delle rocce, sempre rosso mattone, in ombre e sfumature davvero suggestive… Il cielo cambia colore mille volte e le forme delle rocce, che ricordano archi, ma spesso anche simboli fallici, teste di faraoni e bilanceri, sembrano ancora più nitide. Prendiamo un sentiero che ci conduce sotto un arco immenso dove si respira un’aria di pace incredibile. Siamo soli. Il silenzio è quasi assordante. L’eco delle nostre voci sembra perdersi nella valle. Il suolo è butterato di buchi da cui immaginiamo uscire milioni di animaletti quando l’aria si farà più fresca. Intanto ci accontentiamo di ammirare dei piccoli leprotti che fanno capolino dai cespugli.
Ci allontaniamo in silenzio da questo paradiso e qualcuno di noi medita di tornare domattina ad ammirare l’alba. Ma il parco apre alle 8 e sarebbe troppo tardi. Salutiamo il parco, mentre scorgiamo a distanza un immenso incendio… La sera ci dividiamo in due gruppi: Roby, Barbara e io andiamo a cena da Denny’s (nel saloon avvistato nel pomeriggio non fanno da mangiare…), mentre gli altri in una bella griglieria dove mangeranno la tanto agognata T-bone steack.
28 agosto Questa mattina facciamo colazione da Jack in the Pot. Io opto per la Cinammon Cake Roll, un torta arrotolata alla cannella e immersa nel miele che mi terrà compagnia, nello stomaco, per quasi tutta la giornata. Anche la giornata di oggi è dedicata agli spostamenti. A differenza degli altri, questi ultimi sono più lunghi e meno intervallati da bellezze naturali, quindi trascorriamo buona parte della giornata in macchina per portarci avanti il più possibile. La nostra prossima attrattiva è la Monument Valley, che visiteremo domani, e l’obiettivo geografico è quello di raggiungere Kingsman, da cui domattina ripartiremo. Abbiamo fatto incetta di coupon ieri sera, ossia di buoni sconto che negli USA trovi un po’ ovunque, anche organizzati in vere e proprie riviste, e cercheremo di optare pure a Kingsman per un Motel 6 veramente a buon prezzo (neanche 40 dollari a camera).
Arrivando alla meta, dalla Freeway che stiamo percorrendo, notiamo che quasi tutti i centri sono strutturati in maniera simile rispetto che da noi in Italia. Quasi ogni paese, che a dir la verità ci sembra privo di un centro, ma forse ci sbagliamo, è un intersecarsi di strade con immancabilmente: centri commerciali, chiese, rivenditori di automobili, fast food, motel. Cosa degna di nota: laddove vedi un Motel 6, a brevissima distanza trovi Denny’s. Arriveremo al termine della nostra avventura senza essere smentiti. Quasi sempre poco lontano da un Motel 6 c’è un Motel 8. Mah.
Dopo esserci sistemati, e dopo l’esperienza positiva di ieri sera, proponiamo anche agli altri di provare Denny’s e trascorreremo una piacevolissima serata.
Entrare da Denny’s è già un piacere. Ti chiedono il nome e, se non c’è da attendere, ti accompagnano al tavolo. Famiglie americane cenano in compagnia. Noi siamo seguiti da Gigi, una donna di mezza età che ci mette poco a ispirarci una gran simpatia. Si presenta, notando che siamo stranieri, scandendo alla lettera ogni parola pronunciata e guardando attentamente ognuno di noi sei negli occhi nel prendere le ordinazioni, facendo domande circa i desideri dei nostri palati, con una tale accuratezza da lasciarci sbigottiti. Sembra di essere finiti in una puntata di quei corsi di lingua per principianti che si comprano in edicola. Alcuni di noi si sentono quasi in soggezione a rispondere alle domande della nostra insegnante e ci guardiamo terrorizzati l’un l’altro chiedendoci se alla fine ci darà il voto finale… Mangiamo tutti bene spendendo anche poco (anche se per l’ennesima volta a Walle, l’unico a detestare la carne al sangue, viene propinata la solita bistecca poco cotta!).
Gigi è stato davvero un incontro piacevole, con quell’aria da maestrina e il suo atteggiamento alla fin fine delizioso e accurato. Le lasciamo una bella mancia e lei ringrazia, riconoscente. Ci siamo messi in testa che sia inglese, con quella pronuncia così perfetta, ma in realtà probabilmente è una statunitense dell’East Coast.
Siccome è ancora presto, anche se molo buio, Sergio, Andrea e io decidiamo di andare a bere qualcosa, mentre gli altri fanno un giro al mega supermercato di fronte al Motel. Giriamo in macchina alla ricerca del centro, ma siamo disorientati. Il paese è anche grande, ma si limita a essere un intersecarsi di strade con centri commerciali e fast food che a quest’ora stanno per chiudere.
Finalmente troviamo un locale. Entriamo, decisi a sederci al bancone, ma ci viene detto che stanno chiudendo (nonostante siano le 22). Allora chiedo dove si trova il centro. La ragazza al banco mi guarda stupita chiedendomi :”Che cosa intendi per Centro?”. Insomma, capiamo che qui non c’è l’idea di centro del paese o della città inteso come da noi… Non esiste il concetto di centro, Ci sono fast food, negozi, supermarket e stop.
Quasi sulla strada del ritorno, ormai rassegnati, notiamo qualche tavolino sul marciapiedi e l’insegna di un baretto. Ci fermiamo a farci un Cuba Libre e notiamo che i ragazzi seduti agli altri tavoli ci osservano incuriositi.
Dopo neanche un’ora, le cameriere mettono le sedie sui tavoli vuoti e ritirano il tutto all’interno. Ci alziamo anche noi. Non sono neanche le undici di sera. Che tristezza… Ci ritiriamo. 29 agosto Anche quest’oggi ci alziamo di buon’ora. Siamo tutti un po’ emozionati all’idea di vedere quanto fino a ieri abbiamo ammirato nei film: la Monument Valley. Dopo qualche ora di macchina, cominciamo a scorgere, pur non essendo ancora nel parco, le inconfondibili formazioni rocciose di color mattone che si ergono verso il cielo dalla terra, anch’essa meravigliosamente rossa. Walle ci aiuta a individuare quello che è stato il set di Forrest Gump nella scena in cui lui, stanco di correre, si ferma e decide di ritornare a casa. Ci fermiamo anche noi a scattare qualche foto. Una bandiera statunitense svolazza sulle nostre teste. Un pellerossa vende pietre e oggetti in argento. Risaliti in macchina, dopo aver percorso km di strade che parevano estendersi all’infinito, lunghissime e monotone, arriviamo al bivio che ci indica l’inizio del parco. Una vacca morta è riversa sul ciglio della strada.
Questo ingresso lo paghiamo, perché il parco è gestito dai nativi.
La Monument Valley si visita in macchina oppure a cavallo. Al termine del giro la macchina risulterà completamente ricoperta di sabbia rossa. I 25 km di strada sterrata permettono di ammirare relativamente da vicino i famosi Buttes (le formazioni rocciose) e di girare indisturbati per la valle anche nel mese di agosto. C’è da dire che i paesaggi sono talmente vasti che anche se l’affluenza dei turisti è alta, quasi non te ne accorgi. Qui tutto profuma di film western: il colore della terra, la calura mozzafiato, il silenzio, le mitiche rocce rosse. Le famose “Tre sorelle” ci aprono la strada. Il cielo è incredibilmente blu e ci fermiamo a ogni angolo, segnalato da cartelli di legno che indicano i nomi delle varie attrattive a respirare un po’ di mito.
Alle bancarelle dei nativi, dove Sergio e io compriamo due anelli d’argento che ci ricorderanno per sempre questa bella giornata. Ascoltiamo incantati i loro canti tradizionali che ispirano una gran tristezza.
Si è fatta ora di pranzo; ci fermiamo al primo Burger’s King sulla strada a rifocillarci e a riempire i nostri bicchieri. Siamo disidratati, fa davvero molto caldo.
Rimontiamo in macchina e viaggiamo per tutto il pomeriggio: la nostra prossima destinazione, l’ultimo parco naturale del viaggio, è il Sequoia National Parc, che da qui dista parecchie miglia.
Ascoltando musica country e scambiandoci le nostre opinioni sul viaggio che sta quasi per terminare, ammirando le distese di serre e di alberi di prugne e di mele, giungiamo finalmente nel tardo pomeriggio a Three Rivers, un graziosissimo paese sulla collina da cui già si vedono sulla cima delle montagne di fronte a noi, le grandissime sequoie.
Troviamo sistemazione in un bellissimo longe dove, per la prima volta, oltre al pernottamento, nel prezzo è inclusa anche la prima colazione e ci dedichiamo un po’ di tempo per noi nella piscina dell’hotel, dove c’è anche la vasca idromassaggio. Che spettacolo. Mi sembrano secoli che non mi rilasso un po’. Alcuni di noi leggono, altri giocano a palla, c’è chi dorme e chi fa una capatina all’Internet Point. La sera ci prepariamo e andiamo a cena in un saloon poco distante. Mangiamo in veranda e sotto di noi scorre un ruscello. L’atmosfera è bellissima: è buio e sopra le nostre teste una rete di lucine tipo quelle natalizie dà un po’ di luce. Mangiamo una buonissima zuppa del giorno e carne di vario tipo, dal controfiletto al piatto scelto da Roby che alla fine si rivela essere uno stufato di chissà che cosa! Come sempre Walle riceve la sua bistecca poco cotta!!! All’interno, un gruppo comincia a suonare e la gente, soprattutto donne, si scatena in danze travolgenti. Lanciamo un’occhiata e notiamo che c’è di tutto un po’: anziani al bancone del saloon che bevono boccali di birra, chi gioca a biliardo, giovani che chiacchierano, ragazze scalze che ballano. A differenza dei nostri locali, vediamo che c’è una frequentazione intergenerazionale, gli anziani convivono con i più giovani senza problemi, anzi, ballano anche insieme. Chi balla è lì proprio per divertirsi, sfogarsi e gioire, invece di mostrare il vestito più bello. Mi pare sia più importante la forma dell’apparenza. Dopo poco, complice qualche birra di troppo, anche noi ci uniamo ai loro balli e veniamo accolti con grande calore! Il volume della musica è altissimo ma tutti, anche gli over 80, se ne frgano. E’ una serata indimenticabile, ci siamo davvero fusi con il vero tessuto americano di questi luoghi, io mi sono divertita un mondo, anche se sono stanca e tutta sudata! Che risate, questa sera!
30 agosto Che bello fare colazione in hotel. La sala è piccola e alla fine ci sistemiamo sui tavoli all’aperto, ma la colazione a base di frutta, the, pane e marmellata è ottima! Partiamo alla volta del Sequoia National Park e proprio all’ingresso un cartello giallo raffigurate mamma orsa seguita dai suoi piccoli ci ricorda la presenza di questi amici nel parco. La strada si trasforma in un susseguirsi di tornanti e già le prime sequoie ci sembrano grandissime… In realtà tra poco ne vedremo di ben più grandi.
Parcheggiamo al Visitor Center, dove alcuni di noi comprano i semi di sequoia da piantare in Italia, e proseguiamo a piedi. E’ bellissimo abbracciare questi alberi giganti che ti danno un gran senso di “vita”, sembrao quasi dei grossi animali… estiamo incantati ad ammirare la natura intono a noi, osservando i colori e inalando i profumi che si alzano dal sottobosco.
Prendiamo di nuovo la macchina e ci dirigiamo in direzione General Sherman, la più grande sequoia del parco, nonché l’albero dal volume più grande del mondo. Una lunga passeggiata ci conduce verso il Generale, c’è davvero tanta gente di ogni colore e già da lontano l’albero sembra immenso. Non ci si può avvicinare più di tanto per via delle transenne, ma lo spettacolo è forte lo stesso. Pensare che l’albero ha 3000 anni e il suo diametro è di 11 metri fa un bell’effetto. In realtà una saetta ha bruciato la sua punta, quindi non cresce più in altezza ma solo in larghezza… Trascorriamo tutta la mattina nel parco, girando a piedi e in macchina. Di tanto in tanto si nota una sequoia caduta, a una di queste (bisogna immaginarsela in orizzontale sulla strada) è addirittura stato creato un buco nel tronco per farvi passare le auto! Roby viene punto da una vespa.
Altre foto di rito e poi ci inerpichiamo sulla cima della montagna, da cui si gode uno splendido spettacolo (non fosse altro per le vertigini!) sulla Sierra Nevada.
E’ stata una mattinata unica, all’insegna della natura e della tranquillità. Saliamo in macchina, sono circa le 15 e la fame ci assale. Nello scendere a valle, notiamo un saloon sulla nostra destra e decidiamo di fermarci per rifocillarci. E’ un posto veramente caratteristico, con i vecchi pannelli che indicano i prezzi delle pietanze appesi al muro, un bancone in legno lunghissimo, un insieme di cianfrusaglie abbandonate qua e là, un profumo di vecchio e tanta, tanta gente seduta che beve birra e guarda una partita di football americano incitando i giocatori! Ordiniamo hamburger (uno dei più buoni gustati) e patatine fritte e ci godiamo lo spettacolo che ci circonda. Questi sono i veri United States! Fuori dal saloon vediamo l’unico orso del nostro viaggio, un orso a grandezza naturale intagliato nel legno! Meditiamo addirittura di trattenerci qui a dormire, solo che la donna che ci segue ci informa che è tutto pieno perchè lì vicino c’è un festival di bluegrass, quindi ci lecchiamo i baffi e proseguiamo verso Los Angeles. Peccato, mi sarebbe piaciuto fermarmi qui perché il posto era davvero caratteristico. La strada è lunga e io mi appisolo… Sono stanca e fa ancora caldo… Arriviamo, stanchi morti, a Los Angeles a sera inoltrata. La highway è un intreccio di luci e un sacco di macchine ci sfrecciano accanto. Nessuno di noi parla, siamo davvero stremati dal viaggio e ci indirizziamo verso Santa Monica. In città, dirigendoci verso il mare si sente già odore di salsedine e vediamo tantissime persone che passeggiano. Dopo tanti giorni trascorsi fra deserti e parchi e paesini di quattro anime, mi piace l’idea di essere tornata in città! Cerchiamo un motel, ma Santa Monica è davvero satura, quindi ci spostiamo verso Venice, dove troviamo lo stesso motel dove i ragazzi hanno pernottato cinque anni prima. Il gestore è gentile, prenotiamo 3 camere e ci sistemiamo. Mentre gli altri si fermano in motel, Sergio e io andiamo a fare un giro a Santa Monica. L’atmosfera è davvero bella, la zona pedonale inondata di gente, una ragazzina danza mentre un uomo suona il sassofono, i rami degli alberi sono decorati da lucine blu. E’ quasi mezzanotte e molti locali sono chiusi, ma troviamo un bar dove gustare una zuppa al chili con carne io e patatine fritte lui. La giornata è finita, fra poco stiamo per crollare, quindi riprendiamo la via di casa… 31 agosto Finalmente si può dormire un po’ stamattina, io me la godo! L’appuntamento con gli altri è a mezzogiorno sul lungomare di Venice Beach, quindi ci svegliamo con calma e percorriamo a piedi la strada verso la spiaggia. Ci fermiamo a casa di un signore che ha spostato un sacco di cianfrusaglie in giardino. Gli chiediamo se sta per traslocare e lui ci spiega che di tanto in tanto mette fuori le cose che non gli servono e le vende o regala ai vicini o a chi passa di lì. Curioso! In realtà anche domani a Beverly Hills vedremo qualcosa di analogo: una ragazza che regala, proprio sul marciapiedi davanti casa, un bellissimo tavolino in ferro battuto e un divano bianco. Evidentemente costa di più farli portar via che non regalarli! Boh… Venice Beach è un quartiere bohemien disteso sul mare, dove il tempo a qualche angolo sembra essersi fermato al periodo degli hippie anni sessanta. Casette basse color pastello, piccoli caffè che invitano a entrare, esposizioni d’arte, chiesette minuscole, ma anche odore di salsedine e tanti giovani. Appena si arriva su lungomare, l’atmosfera sonnolenta lasciata nelle stradine laterali lascia spazio a un caotico via vai di gente di ogni tipo a piedi, in bici, in skateboard, a musica a tutto volume, bancarelle, negozietti che vendono di tutto e ogni genere di vagabondo. I colori intorno sono accesi: quelli delle magliette in vendita, degli aquiloni che volteggiano nell’aria, dei cappelli dei rasta che suonano qua e là. In cambio di una foto dei ragazzi ci regalano uno zainetto e una t-shirt. Marketing americano! Ci incontriamo con gli altri e dopo una camminata sul lungomare, curiosando qua e là, ci stendiamo in spiaggia. Siamo di fronte all’oceano e a me pensare che questa è la spiaggia dove Jim Morrison e Ray Manzarek hanno fondato i Door’s fa un certo effetto. Un pomeriggio Jim Morrison, accovacciato sulla sabbia, intravede Ray camminare poco lontano. Avvicinandosi, questi gli chiede: “Hey, non pensavo di vederti qui, non te n’eri andato?”.
“No”, risponde l’altro, aggiungendo: “Sai, scrivo canzoni”.
“Ah sì? Fammi sentire qualcosa, allora!”. Jim pronunciò lentamente, con cura, le prime strofe di Moonlight Drive.
Ray, che ascoltava in silenzio, balzò in piedi:”Hey, sono i migliori fottutissimi versi che abbia mai ascoltato in vita mia. Mettiamo in piedi una rock band e facciamo un milione di dollari!!!” Raccolgo un po’ di sabbia da portare in Italia. Passiamo il pomeriggio a giocare con le onde e a tuffarci come pazzi. Divertente, e poi l’acqua non è mica così fredda come sembrava inizialmente. Certo, non puoi dedicarti a lunghe nuotate e viverlo come da noi, ma è un mare comunque bello nel suo genere. Al ritorno verso casa incappiamo in un grande negozio dell’usato dove Sergio compra una camicia hawaiana. La campagna elettorale per le presidenziali va avanti a pieno ritmo e tutti coloro che interpelliamo ci dicono che voteranno Obama.
La sera la trascorriamo a Santa Monica dove facciamo un po’ di shopping e mangiamo sushi. La spiaggia sottostante il Pier ospita un memoriale dei soldati americani morti in Iraq e in Afganistan. Intorno a noi, una moltitudine di croci bianche. Un cartello riporta che se fossero sistemate croci anche per tutti i morti civili la spiaggia ne sarebbe piena. Questo fa loro onore. Il silenzio fa da sottofondo e nessuno dice una parola. Concludiamo la nottata con un piatto di gamberi sul Pier, da Bubba Gump! Il nostro viaggio sta per finire sta per finire… 01 settembre L’ultima giornata a nostra disposizione coincide con il Bank’s Day, giornata di festa nazionale (e comprendiamo anche perché era così difficile trovare un motel!). Ci dividiamo in due gruppi e Sergio e io andiamo alla ricerca di una… chitarra da acquistare. In media a parità di chitarra qui si riesce a risparmiare circa un terzo rispetto all’Europa. Speriamo solo che i negozi siano aperti! Partiamo verso le 8 e la città è bellissima così assonnata. I lunghi boulevard sono ancora deserti e fa freschino. Ci dirigiamo verso la collina. Percorriamo vialoni immensi e ci fermiamo a fare colazione in quello che scopriamo essere il quartiere ebraico. Il gestore del caffè è molto cordiale e ci conferma che oggi parecchi esercizi sono chiusi, incluso il grande negozio di strumenti lì di fronte.
Cambiamo zona ed è in West Sunset Boulevard che troviamo il Guitar Center che è aperto! Qui Sergio compirà il suo acquisto: una bella Martin che grazie allo sconto che il commesso ci propone (senza che noi chiedessimo nulla) ci costa ancora meno del previsto.
La mattinata è passata, percorriamo l’Holliwood Boulevard che pullula di turisti e dove vedi tutto quello che ti aspetti di trovarci (statue “viventi”, uomini travestiti da pirati, il marciapiedi con le stelle e così via…) e ci intrufoliamo in Holliwood & Highland, un centro commerciale dove trovi un po’ di tutto e dove mangiamo un ottimo sushi.
Tutto il resto non ci affascina più di tanto, riprendiamo la nostra macchina e ci dedichiamo a un lungo quanto piacevole vagabondare per le strade della collina. Il sole scotta e la nostra compilation americana ci fa compagnia dal cd. Beverly Hills non può suscitare un sussulto per chi come me da ragazzina fantasticava sulle vicende di Brandon e Brenda. Alcune ville sono davvero superbe, i boulevard sono quasi dei cunicoli verdi, tanto gli alberi da una parte all’altra della strada si toccano fra loro. Bellissimo. Andiamo su e giù per le colline e ci perdiamo pure a Melrose Place, ma ci divertiamo e abbiamo tempo da perdere.
Ci ritroviamo con gli altri a Santa Monica e ci rendiamo conto che la nostra vacanza sta per finire. Con Andrea ci fermiamo a mangiare fish and chips in un pub che trasmette l’ennesima partita di football americano ed è bello vedere questi omoni che incitano la propria squadra, come se i giocatori potessero sentirli! Ho idea che quello che ho visto in queste due settimane mi mancherà: questa energia che va sempre avanti, un senso della giovialità inaspettato, il messaggio che puoi farcela, che puoi cadere e poi rialzarti per riprovare, un senso della meritocrazia più spiccato che da noi. Insomma, che è un paese relativamente giovane e meno “imbalsamato” non puoi negarlo, lo leggi in tutto ciò che hai intorno, ma forse è proprio questo fattore che lo rende un paese speciale, dove tutto o quasi sembra possibile. “Yes, you can” è un messaggio ben visibile e che qui ti dà una carica particolare, un entusiasmo in più. Rimaniamo comunque consapevoli del fatto che è un paese con grandi contraddizioni e che se nasci bianco, benestante e fortunato la vita per te sarà più semplice… Però non è difficile credere che un paese come questo abbia rappresentato per molti la frontiera dove il sogno poteva diventare realtà.
Io comunque sono stata bene. Mentre ci dirigiamo verso l’aeroporto appoggio le mie scarpe da tennis al tronco di un albero. Mi piace l’idea che uno dei tanti senzatetto le trovi e le indossi. O che le scambino semplicemente per uno di quegli oggetti che uno lascia in strada per ne ha bisogno, quando deve far spazio in casa sua!