Sciamani

Quello che propongo non è un racconto di viaggio, ma forse a qualche Tpc potrebbe interessare; si rifà alle mie esperienze di vita sulle Ande, a contatto con le popolazioni spesso dimenticate del Perù. E' la storia vera, raccontata da chi l'ha vissuta, ma, naturalmente, abbastanza difficile da "digerire" per noi occidentali e comunque, ritengo,...
Scritto da: Gabriele Poli
sciamani
Ascolta i podcast
 
Quello che propongo non è un racconto di viaggio, ma forse a qualche Tpc potrebbe interessare; si rifà alle mie esperienze di vita sulle Ande, a contatto con le popolazioni spesso dimenticate del Perù. E’ la storia vera, raccontata da chi l’ha vissuta, ma, naturalmente, abbastanza difficile da “digerire” per noi occidentali e comunque, ritengo, simpatica e interessante. Grazie per la vostra attenzione:-) “Una notte il signor Miguel si dirigeva verso casa, dopo aver trascorso alcune ore in compagnia di amici. Lungo la strada incontrò uno stagno che, attraversandolo, gli avrebbe fatto risparmiare molto cammino. Cercando di saltare un fossato nei pressi dell’acquitrino e pensando di giungere facilmente dal lato opposto, cadde pesantemente nell’acqua del laghetto, in quel punto coperta da un’ingannevole vegetazione, e provò una grande sensazione di vuoto in tutto il corpo, la vista gli si annebbiò; immaginò che sarebbe presto morto, visto che già le alghe l’avevano avvolto dalla testa ai piedi e gli impedivano di guadagnare la riva. Erano all’incirca le dieci della notte e, a quell’ora, non passava nessuno per di là. Miguel gridò disperatamente, ma tutto fu inutile, dal momento che non c’era anima viva che potesse sentirlo. Raccogliendo le ultime forze, lo sciagurato uomo riuscì, alla fine, ad arrampicarsi sulla riva ed in quell’istante fu investito da un’improvvisa corrente d’aria gelida che percorse il suo corpo, facendolo svenire. In qualche modo, senza rendersene conto, giunse a casa dopo le tre del mattino e, da allora, la sua vita cambiò tragicamente. Il poveraccio s’ammalò, fu preso da vertigini talmente violente da non poter reggersi in piedi e non fu più in grado di lavorare, visto che il mondo pareva girargli attorno vorticosamente, e dovette rimanere a letto tutto il tempo. Le mattine, inoltre, si svegliava con nausee molto forti, che passavano solamente con il trascorrere delle ore e per tale motivo, spesso, non mangiava con conseguente notevole perdita di peso. Lo stato in cui Miguel si trovava, impensierì la moglie che non tralasciò nulla per ottenere la guarigione del consorte. I coniugi, accompagnati da conoscenti e parenti, visitarono ospedali e cliniche per richiedere consulti da parte di medici specialisti. Si recarono all’appuntamento con un neurologo che ricettò al paziente alcune pastiglie, il cui effetto fu di fargli addormentare la lingua e null’altro; consultarono un professionista specializzato in malattie dello stomaco, il quale, pure, gli ordinò una quantità di pillole che, almeno, ebbero il potere di calmare in parte la nausea ed i dolori addominali che a volte lo assalivano. Durante tutto questo tempo, l’ammalato fu sottoposto ad una serie di analisi e radiografie che non contribuivano in alcuna maniera a chiarire l’origine del male. La famiglia decise, così, di consultare un neurologo rinomato, uno dei migliori in circolazione, che, dopo aver visitato il paziente varie volte ed essersi fatto pagare profumatamente, spedì il malcapitato ad un altro collega, specialista in malattie interne, ma tutto fu inutile. Otto mesi di sofferenze, corse verso gli ospedali della provincia, visite, analisi, elettroencefalogrammi, prelievi, tentativi di cura, medicinali, spese onerose, ma sempre dolore, frustrazione, disperazione e, alla fine, rassegnazione. Un giorno, la famiglia ricevette la visita di un parente che, saputo della malattia del congiunto, propose a Miguel di rivolgersi ad un curandero di sua conoscenza, del quale si diceva un gran bene. L’uomo, giunto oramai allo sconforto, accettò, come ultima speme, la proposta del cugino. L’indomani, l’ammalato fu trasportato dai familiari fino all’abitazione dello sciamano, conosciuto con il nome di “Fratello Tomàs”. Egli parlava in una strana lingua, un misto di quechua e spagnolo, ed era assistito da un ragazzino indio che fungeva da traduttore. Lo sventurato infermo narrò la sua storia e descrisse i sintomi della malattia allo stregone; quest’ultimo, al termine dell’esposizione, prese un pugno di foglie di coca da una piccola borsa multicolore e le lasciò ricadere sul piano di un tavolo, quindi chiese ad ognuno dei presenti di raccogliere cinque foglie a testa e di disporle di fronte a lui. L’Hermano Tomàs, dopo aver abbondantemente bevuto sorsate di liquore da una bottiglia che teneva al suo fianco, iniziò ad esaminare, uno per volta, i mucchietti di coca, sollevando le foglie per lasciarle di seguito ricascare disordinatamente. Compiuto il rituale, tracannò un’altro sorso di bevanda, quindi chiuse gli occhi ed iniziò una profonda meditazione che durò alcuni minuti. Terminato il raccoglimento, il curandero invitò i presenti a recitare tre “Padre Nostro”, dopo di che, intonò una supplica in quechua che si protrasse per almeno mezz’ora. Il guaritore, di seguito, passò ad analizzare, a leggere per meglio dire, le foglie sparse sul tavolo ed emise la diagnosi. Miguel soffriva di “Mal de Susto” ed era stato “imprigionato dalla terra”. Fu fissato un nuovo appuntamento per il successivo venerdì, al fine curare una volta per tutte il malato. Il curandero raccomandò i familiari di reperire alcune cose essenziali per la terapia, quali una ciocca di capelli dell’infermo, uno scampolo di tela della camicia che indossava la notte dell’incidente, un suo pantalone, un altro pezzo di tela di un colore qualsiasi, mezzo chilo di coca, una bottiglia d’acquavite e sigarette di marca “Inca”. Il venerdì, verso le dieci della sera, l’Hermano Tomàs giunse a casa dell’infermo, accompagnato dal solito ragazzo. Il guaritore, alto e magro in modo impressionante, era vestito di un poncho multicolore, un berretto dello stesso colore e sandali di gomma realizzati artigianalmente. Entrato in cortile, prese le cose che aveva chiesto e si ritirò da solo in un luogo appartato. Passarono circa dieci minuti, dopo di che il curandero si avvicinò ai presenti recando in mano un rudimentale bambolotto, costruito con i materiali che gli erano stati procurati e chiese alla moglie di Miguel un filo di lana, con il quale legò il pupazzo per il collo. La comitiva si diresse verso lo stagno per individuare il luogo esatto dell’infortunio; davanti camminava lo stregone che trascinava per lo spago il fantoccio e dietro l’infermo, sorretto dai familiari, che seguiva esattamente le tracce lasciate dal pupazzo. Lungo tutto il tragitto, l’Hermano Tomàs continuò incessantemente a mormorare le sue orazioni in quechua, ma, giunti che furono alla meta, il curandero iniziò a recitare il Padre Nostro in spagnolo ed il suo corpo si mise a tremare violentemente, come se lo stessero colpendo con delle sferzate e dalla gola gli uscì un ululato che fece rizzare i capelli ai presenti. Smise per qualche momento i suoi spaventosi lamenti, accese una sigaretta, dalla quale aspirava grandi boccate di fumo che esalava a fauci spalancate, bevve di seguito tre volte dalla bottiglia di liquore appesa al suo fianco, e poi proseguì le proprie preghiere, prima il Padre Nostro e successivamente una supplica alle sirene che vivono in tutti gli stagni. Improvvisamente, lo sciamano cadde in estasi, inginocchiato al suolo e tutti i presenti sentirono un rumore sordo provenire dal centro del laghetto e videro delle bolle sollevarsi dall’acqua, come se qualcosa volesse risalire dal fondo. Una raffica di vento sferzò le persone e, in quel momento, il curandero si svegliò dal sonno ipnotico, alzò il viso con aria compiaciuta, afferrò il burattino che aveva lasciato da un lato e lo mise nell’acquitrino con una pietra legata alle estremità; mentre lo immergeva nell’acqua, recitò altre orazioni, poi chiamò presso di sé l’ammalato e lo fece inginocchiare sul bordo della palude, raccolse un fascio di rami, che aveva in precedenza legato assieme a formare una frusta, chiese al paziente di chiudere gli occhi, mormorò un’altra breve preghiera ed iniziò a colpire l’acqua varie volte con lo scudiscio. Ordinò, poi, a Miguel di riaprire gli occhi e, sferzando ancora la superficie dello stagno, gridò all’infermo di alzarsi ed il comando fu talmente categorico, che una forza nuova s’impossessò del corpo sofferente, infondendogli coraggio e sicurezza. Miguel, da allora e dopo mesi di angosce, vive in armonia con la sua famiglia, ha ripreso il lavoro e non è mai più ricorso all’aiuto di medici, né per lui né per i familiari; la fiducia nella medicina andina ha preso il sopravvento. http://www.magiedelleande.it


    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche