Scacco americano in cinque mosse

Mettiamo caso che il vostro viaggio di nozze sia l’unico momento della vostra vita in cui possiate rimanere fuori da casa per almeno due settimane perché poi sarà tutto casa-lavoro-figli-lavoro-casa-palestra-figli-pensione-nipoti e non abbiate mai più dico mai un lasso di tempo del genere da spendere in vacanza. Bene! E’ il momento giusto...
Scritto da: acaruss
scacco americano in cinque mosse
Partenza il: 28/08/2006
Ritorno il: 11/09/2006
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 3500 €
Mettiamo caso che il vostro viaggio di nozze sia l’unico momento della vostra vita in cui possiate rimanere fuori da casa per almeno due settimane perché poi sarà tutto casa-lavoro-figli-lavoro-casa-palestra-figli-pensione-nipoti e non abbiate mai più dico mai un lasso di tempo del genere da spendere in vacanza. Bene! E’ il momento giusto per andare negli Stati Uniti. Ed è quello che abbiamo fatto.

1° – 3° Giorno: New York Capisci che è fatta quanto un tizio enorme, nero, con un basco in testa ti spinge dentro un taxi. Devi abituarti alla città di New York, non solo al fuso orario. Devi abituarti ai suoi abitanti.

Che non hanno alcuna intenzione di renderti la vita facile. Dopo che per un’ora sei stato in fila all’immigration e prima di farti uscire allo scoperto dai garage del JFK Airport hai dovuto guardare contro un mirino rosso che ti ha schedato davanti ad una poliziotta nera che cercava di farti capire che dovevi immergere il dito nel timbro e poi premere forte. Benvenuto in America straniero.

Benvenuto, ma non pretendere troppo. Non pretendere di riconoscere New York dai film che hai visto fino ad oggi, dalle fotografie, dai telegiornali. Capirai la città solo una volta tornato a casa, quando inquadreranno Times Square e saprai che non è una piazza vera e propria. E’ piuttosto un crocicchio di strade ordinate sbudellate dalla diagonale di Broadway, l’antico sentiero indiano oggi patria delle migliori compagnie teatrali del mondo. Bene. Times Square è un pullulare di scritte, marchi, luci che al tramonto ti rendono pazzo e felice. Sigle che significano essere nel cuore del mondo delle favole. TRL MTV HardRockCafé Yahoo McDonald’s sono ovunque e non è pubblicità, è quasi una predica religiosa agli occhi dei profani. Benvenuti in America. Questa è New York, che se non fosse per le macchine e i grattacieli spaventosi sarebbe una specie di pianura padana tranquilla dove passeggiare per ore senza stancarsi. Non una salita, non una discesa. Manhattan è l’isolotto fatto a fette. Dove il grande coltello ha separato le Avenues, i lunghi viali longitudinali dalle Streets, le strade latitudinali che vanno ad intersecarsi in un gioco simmetrico. Ti basta ricordarti i numeri ed ogni numero sembra che ti ricordi qualcosa. La Quinta Avenue, la quarantaduesima strada. Se hai tre giorni a disposizione come noi non puoi pretendere. Non puoi pretendere che nei negozi, nei self-service, nei fast food ti salutino, ti ringrazino. Non è importante che tu sia un turista o un cittadino. Loro sono solo dei lavoratori. Trovi american bar gestiti da cinesi, ristoranti cinesi gestiti da vietnamiti, catene italiane gestite da portoricani, perché questo è il Tutto del Mondo che si realizza. Le macchine attraversano con un ordine impeccabile, i pedoni pure. E tu che per goderne appieno chiami i taxi al volo e ti ritrovi su delle Triumph enormi che ti portano a Battery Park, dove puoi imbarcarti per la Statua. Ti portano a Central Park, dove puoi respirare pace e amore nel ricordo di John Lennon. Ti portano sul ponte di Brooklyn che tu credevi fosse un altro, ti riportano sulla quarantaduesima e non puoi fare a meno di salire al museo delle cere di Madame Tussaud dove incontri miti morti e viventi, dove ti spaventi nell’area dell’orrore perché Freddie e Jason ti vogliono sgozzare. Questa è New York e non si adatterà mai a te. Questa è New York ed è la splendida città che ti aspettavi di incontrare e che adesso non vedi l’ora di rivedere al telegiornale una volta tornati a casa.

4° – 6 ° Giorno: Phoenix – Grand Canyon – Monument Valley – Bryce Canyon Fortunatamente non ci sono solo scritte che luccicano.

In un Paese sterminato che può vantare un’infinità di scenari a nostra disposizione, può succedere che ti ritrovi nel deserto rosso a riflettere sulla grandezza incomparabile delle terre emerse. Grand Canyon, Monument Valley e Bryce Canyon. Questo è il triduo di preghiera che non puoi, non devi evitare.

Ricordati che sei al cospetto della Natura e che l’uomo si è semplicemente limitato a mantenerla così com’era, lasciando incontaminato quello che era incontaminato e trasformando tutto in grossi, favolosi parchi naturali, che rispondono e ringraziano sputando fuori moneta sonante.

Il primo è il Grand Canyon, Arizona e purtroppo ci capitiamo quando ancora non è stata inaugurata quella specie di vetrina sull’abisso che oggi offre al pubblico uno spettacolo indimenticabile. Quindi ti aggiri per circa 3,5 km. A piedi, fino a dove puoi arrivare in poco tempo. Se hai però un certo quantitativo di dollari puoi permetterti di farti guidare sopra un elicottero alla scoperta degli scavi che ha fatto nel tempo il Colorado river e riesci a goderne sicuramente più di noi, che abbiamo visto solo un orizzonte interminabile di rocce ed alberi, troppo grande per l’occhio, troppo grande per l’uomo. Poi ti può capitare che ti infilino sopra a delle jeep sbolognate che saltellano e puzzano di benzina sulla sabbia rossa. Benvenuto nella giurisdizione Navajo. Questo è lo Utah, questa è la Monument Valley. Questa è terra indiana. Sì, la stessa che John Ford ha eletto come sua seconda casa, la stessa di Ombre rosse ed altre centinaia di western movies. E tu sei piccolo sotto la roccia delle Tre sorelle, sei un niente che si aggira sperduto con la sua minuscola fotocamera per capire il John Ford point, per ascoltare un indiano vero che canta parole d’amore ed altri che passano a cavallo insieme ai turisti e ti indicano orgogliosi la roccia sacra.

Per concludere il tuo tour spirituale l’ultima visita che ti meriti è però il Bryce Canyon. Niente di più sacro. Una chiesa cucita a mano da Dio e dagli agenti atmosferici che regala alla tua vista guglie inarrivabili, sentieri arancioni e feritoie incomparabili dalle quali vedi spuntare un sole che ti sembra diverso. E’ quello che ha fatto la neve in migliaia di anni. Il peccato più grosso che si può commettere è quello di non avere troppo tempo a disposizione, non poter rallentare le tabelle di marcia per trattenerti qui per un anno, una vita, due vite.

5° – 7° Giorno: Las Vegas Senza punti e senza virgole. Il ritmo di Las Vegas è questo.

Roba che non capita tutti i giorni di essere catapultati all’inferno e ad ogni passo boccheggiare e cercare di capire subito dove inizia la città che non esiste la città dove i semafori per i pedoni sono inchiodati sul rosso e fuori stai in apnea e vedi ogni tanto passare uno zoppo e una donna con gli occhi rigati di rosso e una vecchia col suo abito da sera di vent’anni prima e ti chiedi dove inizia la città dove finisce se ogni casino è una città a sè senza orologio che ti afferra alle caviglie e ti costringe a guardare a tenere gli occhi sbarrati come Alex di arancia meccanica perché tu vuoi essere come tutti loro che giocano alle slot che vincono che perdono e bestemmiano che rigiocano che bevono che guardano il culo delle cameriere e il livello dei casino si capisce dal culo delle cameriere dal sorriso dalle rughe e ti dici ecco sono al Sahara e qui devo giocare perché una notte almeno nella sua vita Elvis ha dormito qui ha giocato ha vinto ha perso e bestemmiato e ti dicono sì ma se hai provato il Sahara non sai cosa ti perdi se non vai all’MGM dove c’è un leone vero che ti cammina sul vetro sulla testa e si mette in posa per la foto anche se sembra un animale drogato un toro da corrida e di giorno ti accorgi che Las Vegas non esiste se non in quel tintinnio vorace della gente che vince che perde e bestemmia e ti chiedi che ne sarà della notte se il giorno è una continua irrequieta rievocazione della notte e poi finalmente la notte arriva e ti dimentichi di aver trascorso otto ore di deserto e non fai in tempo a voltarti che c’è un cielo cattivo che si sta riempiendo di luci gialle e perforanti rosse avvolgenti e fioriscono sui marciapiedi ragazzini con i baffi appena accennati che fanno tac tac sui loro cartoncini-invito tac tac ed entri gratis allo strip-tease tac tac ti giri di scatto e fai già parte del privé tac tac e puoi fare due tiri omaggio alle slot mentre il vulcano del Mirage prende fuoco e la Roma del Ceasar si illumina a giorno e le gondole gondolano su Venice e poi ti portano a Freemont e ti invitano a tirare su la testa perché sta scorrendo un nastro di suoni gesti e luci manco a dirlo mentre sotto i tuoi occhi scorrono fiumi di donne obese con bottiglie di birra semivuote cicche predicatori che mettono in guardia contro il peccato nella città del peccato e poi tornano a casa in autostop coi loro cartelli-monito con le loro facce deconcentrate dal va e vieni di signorine d’alto bordo pianisti feroci jaguar limousine ferrari finchè viene il momento dello spettacolo del Bellagio e allora tutti sul lago a vedere il gioco di luci danzanti che poi è quello che ti aspetti di trovare in America a pochi metri da un hotel che si chiama Paris e ha un enorme tour Eiffel in bella vista come la statua della libertà del New York New York perché l’America ha già tutti gli altri continenti a portata di mano anche se di cartapesta stucco e cemento e allora perché andare in giro per il mondo se Las Vegas è il mondo? 8° – 10° Giorno: Yosemite National Park – Mariposa E’ una tappa obbligata per chi va e torna dallo Yosemite Park, in California. Soprattutto per tutti quelli delusi dal mancato avvistamento di orsi nella “Terra degli Orsi” (una guida esperta ne ha visto tre in circa diciassette anni). Mariposa County non è solo una tipica cittadina americana; è piuttosto un dado multifacce con tutti i prototipi statunitensi in bella vista. Ed è il posto ideale per noi, che amiamo viaggiare i volti delle persone.

Sbarcati dal pullman veniamo ghermiti da un manipolo di fruttivendoli, convincenti come testimoni di Geova, che ci invitano all’assaggio e all’acquisto di mele, prugne e miele californiano. Sembrano famiglie ma sono delle microimprese. Mentre ad un centinaio di metri una ragazza crede che basti battere forte sul tamburo per avere i dollari dei turisti o per sembrare una vera hippy. C’è un negozietto di antiquariato dove non resistiamo all’acquisto di Hotel California degli Eagles, forse perché adoriamo queste contestualizzazioni musicali. Più avanti è un fiorire di botteghe accoglienti, curiose, ricche di oggetti introvabili e per la maggior parte dei casi inutili. Immaginatevi una vagonata di cartelli per indicare le varie stanze della casa e renderla in qualche modo più kitsch.

Anche se l’apoteosi del kitsch è nel vicino parco comunale, dove l’amministrazione ha previsto una serata di spettacolo. Davanti a noi finalmente una classica immagine americana, di quelle che ci aspettavamo di trovare. C’è un uomo sul palco allestito per l’occasione. Ha una camicia chiara con la bandiera a stelle e strisce cucita sul taschino e l’immancabile cappello-cowboy. Sua moglie, alle sue spalle, cura la parte tecnica, lanciando ogni volta una base diversa. Davanti a loro, sul prato, due anziani che pomiciano e una signora in sedia a rotelle, oltre che, ovviamente, noi due. Questo è cinema alternativo, altro che Hollywood. Per decenza ascoltiamo i primi tre brani, vecchie ballate country che forse nemmeno i repubblicani conoscono più. Poi ci dirigiamo verso l’hotel, il Miners Inn, dove si servono Steak fumanti e birra e dove si fa Karaoke-cowboy. Però abbiamo ancora voglia di volti americani e ci infiliamo nel primo fast-food per concludere degnamente la serata. Lo stretto corridoio è un viavai di ragazzini ciondolanti, troppo alti per le loro canottiere, forse vacanzieri, forse indigeni. Impietosamente, davanti ai nostri stomaci italiani, infieriscono sulle patate fritte con ettolitri di maionese e ketchup e fiumi di gassosa, quella che bevono le nonne. Finalmente ebbri di una giornata speciale rientriamo in camera per sentire dai muri sottili tutto quello che gli altri, anche per stanotte, hanno ancora da dirsi.

11° – 13° Giorno: San Francisco E’ già da un po’ che ti trovi in California, il quinto fatturato al mondo, lo stato dell’oro. Quello che secondo un sondaggio racchiude i più antipatici (a Los Angeles) e i più simpatici d’America (a San Francisco).

Per fortuna il pullman ha come ultima fermata questa stravagante metropoli della trasgressione. Dove la stagione dell’amore ha lasciato i segni. I Figli dei fiori, la libertà sessuale, il variopinto mercato della droga sono facce di una stessa medaglia bitorzoluta, costruita su quarantasette colline.

San Francisco è il microcosmo più affascinante che ti può capitare in America. Dimentica però il deserto, il suo clima. Qua fa un freddo boia e siamo ai primi di settembre. Dal porto soffia un vento che ti porta via, ti spinge e ti invita a non stare fermo. E’ un grosso aiuto, perché hai bisogno di vedere il più possibile. Hai bisogno del profumo di mare che si respira al porto in ogni molo (pier), che diventa un microvillaggio a parte. Ed il molo 39, consigliato da ogni guida turistica che si rispetti, è un ottimo inizio di serata. Se hai già fatto un giro sui cable-cars significa che lentamente, ma inesorabilmente San Francisco ti sta contagiando, insieme alle risate isteriche degli autisti.

Girare di notte in gruppo è un’altra bella ed inevitabile sensazione, perché puoi vedere le luci della baia che si accende, le grandi pagode della più grande Chinatown d’America ed un numero impressionante di salite e discese ripide. Scale e controscale, San Francisco spezza il respiro. Come a Lombard Street, la strada dei fiori, quella nella quale ogni film d’azione che si rispetti ci fa capitare un bell’inseguimento.

Oppure sali sulla Coit Tower, una torretta fallica che in teoria dovrebbe rappresentare la manichetta di un pompiere e guarda negli occhi la città, guarda Alcatraz in lontananza, con le sue tristi mura. Oppure infilati sul primo battello che fa il giro della baia, ma non dimenticare la giacca a vento e quando passi sotto il ponte arancione potrai dire: sono stato a San Francisco. Quella delle ville vittoriane, del quartiere gay di Castro, della cittadella finanziaria.

Ma non permettere che la tua marcia verso Union Square o verso chissà dove sia solo uno spostamento turistico, un mero inseguimento della cartina. Soffermati a guardare cosa cresce intorno.

Potresti sconvolgerti nell’incontrare ogni cento metri gli occhi, il volto scavato, le mani corrose di un clochard che non ha più nemmeno la forza di chiederti un centesimo, che biascica qualcosa e forse non ricorda esattamente dove si trova. Troppo alcool, troppa droga, troppa sfortuna l’hanno distrutto e non è riuscito a rimanere nel cerchio degli eletti che adesso gli passano davanti senza nemmeno riuscire a vederlo.

Anche questa è California, anche questa è America.



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