Sarajevo mon amour
Devo ancora ringraziare questa persona e presto lo farò.
È iniziato tutto così. Almeno per me. Grazie a un libro che mi ha consigliato una persona molto importante per me, anche se le nostre vite si sono intrecciate solo per poco. Ma quel che basta per farmi capire l’inestimabile valore che hanno alcune persone.
Sarajevo…
Sarajevo 2012 è una città che rinasce. Che vuole rinascere, rinascere dalle proprie rovine.
Mi manca l’aroma dei cevapi che si respirava fin dalle prime luci dell’alba, quando aprivi la finestra al mattino e saliva inarrestabile quell’intenso profumo che ti avvolgeva per tutta la giornata, insieme al rumore del metallo battuto dagli artigiani. Incessantemente, ad ogni ora. Tu passavi e li vedevi lì, seduti nelle loro piccole botteghe, che lavoravano incuranti dei turisti.
Gente buona quella di questa città.
Gente umile, come quei camerieri che volevano a tutti i costi alzarci loro i coperchi di quei piatti così strani per noi, anche quando, affamata come pochi, cercavo di velocizzare la cosa facendo da sola.
Gente cordiale, come quel professore conosciuto alla moschea, che ci ha parlato dei suoi viaggi e della sua vita, ormai stanco e anziano. Seduto sui gradini, aggrappato al suo bastone. O come quel ragazzo biondo, di cui non ricordo il nome, ma di cui ricordo lo sguardo, che ci ha accompagnato lungo la strada e che si chiedeva come mai avessimo deciso di venire proprio nella sua città.
Gente che spera. Con un sorriso per tutti. Che vive la quotidianità ritrovata, anche se forse quotidianità più non lo è. Perché nella guerra ci hai perso tutto: una casa, un fratello, un amico. Forse anche te stesso.
Brucia il sole di Sarajevo. Brucia così tanto che anche ogni singola edicola ha con sé un distributore di bibite fresche. Che poi tanto fresche non sono. Ma forse bruciava di più negli anni ’90 quando non c’era l’acqua, perché la guerra te l’aveva portata via. E lavavi i panni nelle acque della Miljacka e viaggiavi con le taniche per far rifornimento. Se non ti uccidevano prima.
Tante le salite fatte. E’ tutta una salita Sarajevo. Ma quando arrivi in cima, la vista non ha eguali.
E non vorresti più scendere. Lassù trovi la pace. E il silenzio.
Abbracci la città con un unico sguardo. In tutta la sua bellezza e tristezza.
Ricordo ancora lo strano percorso che ci ha portato a fermarci a quella panoramica lassù, in alto. Nel posto giusto al momento giusto. E siamo state lì, senza il bisogno di parlare, solo con il canto dei muezzin che ci cullava. Uno di seguito all’altro. O l’ultimo giorno, quando siamo salite fino a quel cimitero ebraico, dove non c’era nessuno a piangere i propri morti. Ma solo resti di tombe, cadute. Prigioniere dell’incuria del tempo.
Cani e gatti sono stati i nostri silenziosi compagni di viaggio. Ce ne sono ovunque in questa città. Magri. Che riposano vicino alle moschee o che girano senza una meta precisa. Sembra che abbiano perso anche loro la strada. Come le persone.
Dopo 16 anni non sono più sporche di sangue le strade di Sarajevo. Sono sporche di rose. Le rose sono il ricordo del sangue. Disegni floreali sull’asfalto che sfidano la memoria del tempo e cha a loro volta sono memoria del tempo che fu. Le trovi in quei luoghi in cui le granate lanciate macchiarono le vie di rosso, dal tanto sangue che ne scorreva.
Un cimitero unico è questa città: abbiamo camminato sopra 11.000 morti.
E ne abbiamo visto il ricordo che riaffiora dalla terra nelle sue diverse forme: le croci bianche per i cristiani, le lapidi in rovina per gli ebrei e quelle numerosissime dei musulmani. Parte integrante del paesaggio e sua indissolubile essenza. I muri delle case crivellati dai proiettili col tempo verranno sistemati e prenderanno nuova forma. Ma quelle no, resteranno lì. A ricordare per non dimenticare.
L’ultima immagine che ho di Sarajevo è quella da un finestrino di una macchina, con il taxista che canticchiava una melodia triste, mentre guardavo, forse per un’ultima volta, le ferite che l’uomo è capace di infliggere a se stesso.
Domani inizia un altro giorno per me e con esso un altro viaggio.
Cambia lo sfondo, cambiano i protagonisti e cambieranno le sensazioni.
Ma l’importante è lasciare aperta la porta del cuore e lasciarsi formare e plasmare da ogni singolo stimolo, ogni singola percezione. Che fanno di me la persona che sono oggi. E che sarò domani.