Sao Mateus, Brasile.
Pare che da queste parti sia considerato un evento da non perdere. Dal numero di turisti che vi affluiscono, anche dalle regioni vicine e dai prezzi degli alloggi, ne ho la conferma.
Per la cronaca resisto un paio d’interminabili giorni, di più non ce la faccio e pertanto mi trasferisco con armi e bagagli a Sao Mateus. Il carnevale in sintesi: un baruglio dannado, come si usa dire da queste parti.
Conosco Maciel De Aguiar, Inizia la sua carriera a Rio de Janeiro, si trasferisce giovanissimo nella “Cidade Maravilhosa” per continuare gli studi. Erano gli anni della dittatura militare. In quel periodo scrive dei tanti suoi amici incarcerati, torturati, deportati o uccisi, di quelli scomparsi, delle lotte nelle piazze, ma scrive anche poesie e brevi racconti. Purtroppo molto di quel materiale è andato perduto, ma quello che sono riuscito a recuperare l’ho condensato in quattro volumi” mi dice Maciel.
Ritornato a Sao Mateus, scrive e pubblica un libro su Pelè “Rei do Futebol” e uno sull’architetto Oscar Niemeyer, il progettista di Brasilia, due opere importanti tradotte in varie lingue e vendute in molti paesi del mondo. “Sono i guadagni di questi due volumi, racconta Maciel, che mi garantiscono una certa tranquillità economica e così posso dedicarmi a quello che è, almeno da quarant’anni, il mio interesse principale: lo studio e la ricerca delle storie dei negri nella Valle do Cricarè, sono decine i libri che ho scritto sull’argomento; sono tutte storie reali, di schiavi, dei loro discendenti, uomini e donne ignorati, peggio cancellati dalla storia ufficiale”.
“Un lavoro non facile perché si tratta di ripercorrere il passato all’interno di un universo nascosto, magico, dove tutto si tramanda solo oralmente da generazioni, non esistono scritti sull’argomento”, aggiunge. Con Maciel, che mi accompagna lungo le vie del centro storico, arriviamo al “Largo do Chafariz” la piazza prospiciente l’antico porto. E’ una piazza piuttosto grande circondata da antichi edifici, il fiume le passa accanto, da un lato. Al centro un piccolo monumento. Ci avviciniamo a esso, una placca di marmo riporta la seguente scritta:
“alle prostitute che preservarono e difesero questo sito storico, la riconoscenza e la gratitudine del popolo….febbraio 1981”.
Rimango sorpreso e incuriosito, Maciel mi chiede: “Claudio, conosci un altro posto al mondo dove ci sia un monumento alle prostitute?” “Assolutamente no, rispondo, è valsa la pena venire qua anche solo per questo, non avrei mai potuto immagine che esistesse da qualche parte una cosa del genere”. “Questa piazza era storicamente la parte più vitale della città, sin da quando vi approdavano le navi cariche di schiavi provenienti dall’Africa, trecento anni addietro!”. “La maggior parte delle attività economiche si svolgeva in quest’area, gli edifici che vedi e che si affacciano sulla piazza erano abitati da notabili, commercianti, proprietari terrieri, dai ricchi della città; ed è ovvio che, dove c’è denaro ci siano anche locali riservati al divertimento, allo svago”. “Negli ultimi decenni, però, continua Maciel, la città si sviluppò nella parte alta e così iniziò il progressivo degrado del nucleo storico, rimasero solo i bordelli”. “Appunto solo i bordelli e… le donne che vi lavoravano”. “Per non perdere la clientela, soprattutto quella più danarosa, abituata ai lussi, bisognava mantenere e salvaguardare gli edifici adibiti a tale attività e dato che nessuno se ne sarebbe certamente occupato, ci pensarono loro, le prostitute”. “Certamente lo fecero per garantire la loro fonte di reddito, ma cosa importa? “A loro si deve riconoscenza per quanto hanno fatto” E’ merito loro se gran parte di questi edifici storici sono ancora in piedi.
Maria da Ajuda dos Santos, da tutti conosciuta come Neném Preta non ha mai abbandonato questa piazza; gestisce un piccolo bar, l’unico. Era una delle tante ragazze che all’epoca prestava, per così dire, la sua opera nei bordelli della piazza. Desidero conoscerla, farmi raccontare la sua storia. Maciel le ha dedicato un libro. Il primo mattino del giorno seguente, con telecamera e macchina fotografica sono di fronte al suo bar, ad attenderla. Un passante m’informa che Neném non ha orari e apre quando vuole, normalmente verso le dieci. Aspetterò, non c’è alcun problema, nel frattempo mi guardo in giro e cerco di immaginare come doveva essere la vita nella piazza e lungo il porto antistante, quando attraccavano le navi cariche di schiavi, immagino a come avvenivano le aste per la loro vendita, a come si svolgeva il rito delle punizioni sulla pubblica piazza. Scorgo in lontananza una figura femminile longilinea, indossa un copricapo, il portamento è elegante, cammina nella mia direzione. Sono certo che è lei, Neném. Sono colpito dal suo aspetto, nonostante l’età emana grande fascino, la immagino giovane, bella, molto bella. Mi guarda, sorride, nel frattempo apre la porta del suo piccolo bar e inizia a sistemare sedie e tavolini all’esterno, io mi avvicino, mi presento: “Vengo dall’Italia signora Neném, qualcuno mi ha raccontato le vicende di questa piazza e del suo monumento, forse, aggiungo, lei potrebbe raccontarmi qualche cosa di più al riguardo e magari anche la sua di storia”.
Lei, un po’ sorpresa, mi sorride nuovamente: “Davvero sei italiano?” “Ne ho conosciuto uno molti, troppi anni fa, è stato l’uomo più importante della mia vita” aggiunge.
Fa caldo, mi siedo al tavolo e ordino una birra. Neném termina di sbrigare le sue faccende e viene a sedersi vicino a me, la osservo attentamente, ha davvero grande fascino. “Mio nonno era uno schiavo, sono nata nel trentanove in una tenuta agricola a Nanuque, non lontano da qui, eravamo otto figli, tra fratelli e sorelle; una vita difficile, anche se il cibo non ci mancava. Per noi, bambine, le uniche possibilità di poter andare a scuola, di studiare, erano quelle di andare a servizio presso qualche famiglia benestante nelle grandi città. Io fui mandata a Vittoria, avevo solo undici anni. I primi tempi tutto scorreva liscio, senza problemi, stavo bene. Un giorno, un tragico giorno, improvvisamente tutto mutò: fui aggredita e violentata dal figlio del padrone di casa. Ero poco più che una bambina!” Poco più che una bambina, ripete Neném. “Negra, discendente di schiavi, mi fu imposto il silenzio assoluto, anche con i miei familiari. Da quel momento la mia vita cambiò radicalmente; me ne andai di lì e ritornai a casa. Sono rimasta per qualche tempo in famiglia, poi un giorno, assieme ad un’amica siamo partite per San Mateus, questa volta fu per sempre.” “Dimenticavo di dirti una cosa importante,” aggiunge Neném: “dopo essere ritornata in famiglia, sono rimasta incinta per ben due volte! Non avevo molto da scegliere e fu così che iniziò la mia… nuova vita, qui, in questa piazza, dentro queste case. Da subito, ero molto richiesta dai clienti, sai Claudio, non dovrei dirlo, ma ero piuttosto carina. Tutto andava per il meglio. Continuò così per alcuni anni, anzi, migliorò, divenni la responsabile del locale, mi chiamavano: “La regina dei cabaret del porto”. Un giorno… l’incontro che cambiò la mia vita. Si chiamava Broseghini, un fazendeiro, italiano, come te. Accadde tutto molto in fretta, qualche incontro, poi un giorno mi disse: “Voglio averti solo per me, penserò io alle tue necessità, la casa, il cibo, a tutto, ma in cambio dovrai essere solo mia e di nessun altro”. Sapevo che quell’uomo era sposato, con figli. Ero certa che non avrebbe mai abbandonato la sua famiglia, ma non so perché sentivo che non stava mentendo, che era sincero e avrebbe mantenuto le promesse. Accettai. Non avevo più vent’anni e non potevo continuare a lungo a fare questa vita. Quasi subito andai a vivere nella nuova casa, poco lontano, solo pochi passi da dove lavoravo. Da quel momento fui solo sua e di nessun altro. Non potevo perdere quest’opportunità, e poi, ero innamorata. Era sempre così gentile, rispettoso, un vero gentiluomo. Ero contenta. “Qualche tempo dopo rimasi incinta”. Da lui ebbi due figli, una femmina, che non c’è più, e un maschio, paraplegico, che vive con me. I problemi certo non mancavano, ma sono una donna forte e so far fronte alle cose, ma un giorno, accadde l’inevitabile. Bruseghini è ricoverato in ospedale, deve essere operato; è necessario togliere una proiettile dalla coscia, ricordo di una vecchia storia. L’intervento apparentemente semplice si complica. Bruseghin muore. Rimango sola, con un figlio paralitico da mantenere. Anche questa volta, però, grazie alle buone relazioni che ero riuscita a crearmi negli anni, con tutti, mi assumono in Comune. Guadagnavo poco, ma lo stipendio era sicuro e così riuscivo a far fronte alle necessità della mia famiglia. Passarono venticinque anni, poi sono andata in pensione. Anche se avevo superato i sessant’anni, non riuscivo a starmene in casa senza far niente, così decisi di ricominciare con una nuova attività e ho aperto questo piccolo locale, proprio questo! Nella piazza del vecchio porto. Quanto tempo è passato, quanti ricordi. Oggi, mi guardo attorno, vedo questi edifici, restaurati, belli, osservo i turisti ammirare questa piazza, fermarsi a leggere, incuriositi, la scritta incisa sulla placca di marmo. Claudio, mi sento orgogliosa.
Grazie Nenèm!