San Gil e Barichara
Ci dirigiamo agli sportelli delle compagnie. Ci offrono bus che partono ‘ahorita’ con un prezzo che comincia a scendere con solo qualche espressione dubbiosa. Alla fine scegliamo quello che sembra convincerci di più, l’Autoboy (boy sta per Boyacá, che è un departamento colombiano, non c’entra niente la parola inglese).
In effetti aspettiamo ‘solo’ mezz’ora. E’ un minibus di un bel colore giallo, in teoria più veloce dei vecchi autobus di grandi dimensioni. All’uscita il controllore del terminal appone un adesivo per sigillare la portiera. “Qué bien”, pensiamo, confidando che sul tragitto non si fermino continuamente a caricare e scaricare gente. Illusione, come sempre.
Ci mettiamo un’ora ad uscire da Bogotá, poi al ‘Portal del Norte’ siamo già fermi per riempire i posti vuoti. Sui marciapiedi ci sono vari cartelli ben ordinati col simbolo di un autobus che carica passeggeri sbarrato; c’è anche un poliziotto, che non può fare altro che fischiare per acelerare la fila imponente di utobus tutti belli in fila per caricare passeggeri…
Il viaggo prosegue verso nord, attraverso la ‘sabana’ o altipiano cundi-boyacense. Il cielo comincia a riempirisi di nuvoloni neri, che a Tunja, la capitale di Boyacá, si rovesciano sotto forma di una pioggerella fitta ed insistente, che acuisce il freddo (siamo a 2.800 metri) e rende più penoso il senso di stordimento e di stanchezza. Il departamento di Santander segna l’inizio della discesa verso le vallate sui 1.000 metri. La temperatura aumenta, ma la pioggia continua. Il viaggio prosegue lentamente, fra continue soste, finché alle 14:30 ci fermiamo per mangiare. Non abbiamo molta fame, visto che per ingannare l’attesa ci eravamo finiti un pezzo di pane con una tavoletta di cioccolata boliviana, regalo della suocera.
Ci vogliono altre due ore di snervante viaggio per arrivare a San Gil, sotto una noiosa pioggia. Non abbiamo idea di dove ci troviamo. Chiediamo un po’ in giro e ritorniamo un po’ indietro verso il nuovo terminal. Ci dicono che c’è un bus che parte mezz’ora dopo per Barichara. Va beh. Saliamo sul minubus vuoto, che va al terminal del centro. Qui si riempie ben bene e finalmente parte, inerpicandosi sulle colline boscose che circondano San Gil. Il viaggio dura 40 minuti. Quando arriviamo nella Piazza principale di Barichara ormai è buio. Tolgo la guida dallo zaino e ci dirigiamo attraverso la Piazza desolata verso un Hotel. L’Hotel non è male, però è tutto pieno per il ponte festivo. Ci mostrano l’unica camera che è rimasta, in una specie di sottoscala. E’ bellina, ben arredata però praticamente un buco claustrofobico. Usciamo a cercarne un’altra. Superata la Cattedrale ci sorprende un black-out, forse a causa del temporale. Alla luce della torcia ci rechiamo ad un altro Hotel. Stessa storia: è tutto pieno, però è rimasta una camera. Risulta essere troppo cara. La signora dell’Hotel ci dice che in fondo all’isolato c’è una ‘tienda’ che affitta camere. Scendiamo l’isolato, mentre magicamente ritorna la luce. La tienda è chiusa. Proviamo a bussare. Ci apre una signora, che ci dice che effettivamente ha delle stanze in affitto. Guadiamo la stradina selciata che a causa della pendenza si è trasformata in un torrente impetuoso. La signora apre un porta, che risulta essere un’antica casona coloniale con 5 stanze, tre delle quali con bagno e le altre due con un bagno fuori. Non c’è nessuno. L’indomani sarebbero venute due persone che avevano riservato una doppia con bagno. Ci prendiamo una tripla con bagno e ci godiamo quella casona tutta per noi. C’è una cucina e uno splendido patio con un mango che troneggia in mezzo al prato racchiuso da due ali dell’edificio. Bellissimo.
Sfacciamo gli zaini e ci godiamo la notte oscura seduti su due sedie a sdraio, sotto il tetto con le travi e le tegole a vista, con le pareti di bianca calce ed il pavimento di mattonelle di cotto.
Usciamo per cercare qualcosa da mangiare. E’ venerdì sera, però il paese è pressoché deserto. Le stradine pavimentate con grandi pietre rettangolari, che conformano una scacchiera perfettamente regolare su cui si affacciano casette bianche, con porte e stipiti verdi o azzurri ed i tetti spioventi di tegole, sono miseramente vuote. E la pioggerella rende l’atmosfera un po’ spettrale. Saliamo fino alla Chiesetta di Santa Barbara, però non c’è il clima ideale per fare del turismo. Rimandiamo tutto al giorno dopo. Ci fermiamo in una tienda a comprare un po’ di frutta e ce ne andiamo a dormire., sotto un tetto altissimo in cui svettano le travi curve.
La mattina dopo ci sorprende un sole delizioso.
Una doccia con acqua fredda (l’unico che c’è) ci risveglia. Andiamo a fare colazione in un locale che avevamo intravisto la notte prima. Prendiamo due arepas santandereanas di mais giallo, grandi come una pizza; un tamal (farina di mais con pollo cotta dentro una foglia di banano), un pezzo di cacio di capra e due cioccolate in tazza. Il paese non si è ancora riempito di turisti. Passiamo la mattina a zonzo per le stradine di Barichara, contemplando la bella architettura delle casette che l’hanno convertita in monumento nazionale. Mangiamo in uno dei molti ristorantini. Mia moglie, come sempre, ha notevoli problemi per trovare un piatto vegetariano. In Colombia è impossibile non mangiare carne: ne mangiano fino a tre volte al giorno, colazione, pranzo e cena. Generalmente prende in piatto del giorno, senza la zuppa, perché è fatta con carne, e dalla ‘bandeja’ toglie la carne e mangia solo il contorno: riso, insalata, yucca, platano fritto. I cuochi, impietositi, generalmente le danno abbondanza di contorni per sopperire la mancanza della carne. Bisogna sapere che in Sudamerica per carne si intende il manzo. Infatti bisogna specificare né carne né pollo. Come se il pollo non fosse carne…
Dopo mangiato ne approfittiamo per un sonnellino. Notiamo che sono arrivati gli altri ospiti: c’è il lucchetto sulla porta della loro camera, però loro non ci sono. Verso le tre ci rimettiamo in cammino e decidiamo percorrere il ‘camino de herradura’ che congiunge Barichara con Guane. E’ l’antico cammino di pietra, di origine precolombiana e ristrutturato alla fine del 1800. La nuova strada asfaltata lo incrocia in tre punti. Per il resto è un meraviglioso esempio di ‘camino real’, un percorso diretto fiancheggiato da muretti di pietra, che si snoda tra campi coltivati salendo e scendendo tra molti ruscelli. E’ il paradiso per un naturalista: la vegetazione è rigogliosa ed è pieno di uccelli dai colori più strani; riusciamo a vedere anche un pappagallino verde e molti colibrì. Purtroppo il cielo comincia minacciosamente ad annuvolarsi a quando eravamo quasi arrivati si scatena un temporale. Troviamo rifugio in una casa abbandonata, indecisi sul da farsi. Dopo dieci minuti passa una contadina con 7 mucche. In un accento quasi incomprensibile ci dice che mancheranno 20 minuti per arrivare a Guane, però sono sufficienti per bagnarci fino al midollo. Sono quasi le 5 e c’è il rischio che diventi buio e che parta l’ultimo autobus per rotornare a Barichara. La gentile signora ci fa da guida tra i campi per raggiungere la strada asfaltata. Quando arriviamo sulla strada smette di piovere: acc. Malediz, porc… Potevamo aspettare, però chi si sarebbe immaginato che smetteva così presto? Va beh, ci rimettiamo in marcia verso Guane. Arriviamo giusto quando ste per partire il bus. Facciamo in tempo a fare una foto della cattedrale, di prendere un ghiacciolo e ce ne torniamo. Non pensavamo di metterci tanto, ci avevano detto che ci voleva un’ora. Però tra le soste e la pioggia avevamo impiegato quasi due ore e mezza.
Torniamo alla casa per cambiarci e ci rendiamo conto con disappunto che sono arrivati altri ospiti che occupano la camera da sei: un’intera famiglia con tra bambini piccoli! La notte andiamo a mangiare in un’elegante pizzeria a un isolato dalla chiesa di Santa Barbara. Siamo stanche: andiamo a letto presto, non prima di aver staccato l’antenna dal televisore della sala e di trafugare il telecomando. Non vogliamo che i bambini perstiferi ci rovinino il sonno. A scanso di equivoci ci mettiamo anche i tappi nelle orecchie.
La mattina, come sempre, è soleggiata. Facciamo colazione in una panetteria e prendiamo un bus per San Gil. Usciamo disorientati dal terminal del centro e arriviamo casualmente alla Piazza principale, attraversando il quartiere del mercato, affollatissino la domenica mattina. Chiedendo in giro ci consigliano di andare nella zona degli hotel, nei pressi del ponte su cui passa la strada per Bucaramanga, la capitale di Santander. Hotel Riposo, il nome è tutto un programma: è nuovissimo, un’ottima opzione.
Lasciamo le nostre cose e prendiamo un bus per Bucaramanga. Dopo 45 minuti scendiamo all’altezza del Cañón del Chicamocha, dove sei mesi prima hanno inaugurato il Parque Nacional Chicamocha (Panachi). Offre ai visitatori negozi di artigianato, ristoranti, un piccolo museo della cultura Guane, il monumento della santandereanidad, un allevamento di struzzi ed un altro di capre, un cavo da cui lanciarsi per 400 metri prima di impattare contro un materasso, e soprattutto un magnifico mirador del Cañón. Ci passiamo tutto il giorno. Verso le 4 ci mettiamo sulla strada sperando che passi un bus diretto a San Gil, ma sono tutti pieni. Cominciamo a deciderci di fare l’autostop, quando finalmente un bus si ferma.
La notte, quando usciamo dall’hotel, notiamo che ha cominciato a piovere. E’ domenica ed è tutto chiuso. Andiamo a letto senza cena.
La mattina dopo visitiamo il Parque el Gallineral, un magnifico pezzo di selva racchiusa tra il río Fonce e i tre bracci del río Curití che vi si immettono. La caratteristica del parco sono le maestose ceiba piene di rampicanti aerei simili a barbe; i gallineral, un tipo di alberi che da il nome al parco; le heliconie; le rapide del Curití attraversate da due ponti. C’è anche una piscina di acqua del río, però in questa stagione è piuttosto fangosa. Sembra di essere nel mezzo della giungla, non è pensabile che fuori transitino macchine e camion.
Nel pomeriggio andiamo alla cascata Juan-Curí. Pero quando arriviamo, indovinate: comincia a piovere! Dalla strada notiamo la cascata di 50 metri, uno spettacolo incredibile. Però all’ingresso che dicono che nel pomeriggio non si può entrare per pericolo che il livello dell’acqua aumenti; inoltre il sentiero è pieno di fango e non riusciremmo ad andare e tornare. Morale: ce ne dobbiamo tornare, senza aver avuto la possibilità di farci una nuotata.
Quando arriviamo a San Gil smette di piovere. E’ troppo.
Visto che non c’è più il tempo di fare niente, decidiamo ritornare a Bogotá