Ritorno in Liberia

E' interessante ritornare in un posto dopo nove mesi. Si vede ciò che è cambiato e ciò che è rimasto tale e quale, e se ciò che uno ha fatto è servito a qualcosa o perlomeno ha avuto un seguito. Arrivo all'aeroporto di Monrovia, e c'è una confusione inenarrabile nello spazio ristrettissimo del ritiro bagagli. La mia valigia pesa trentatrè...
Partenza il: 15/09/2004
Ritorno il: 26/09/2004
Viaggiatori: da solo
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E’ interessante ritornare in un posto dopo nove mesi. Si vede ciò che è cambiato e ciò che è rimasto tale e quale, e se ciò che uno ha fatto è servito a qualcosa o perlomeno ha avuto un seguito.

Arrivo all’aeroporto di Monrovia, e c’è una confusione inenarrabile nello spazio ristrettissimo del ritiro bagagli. La mia valigia pesa trentatrè chili, c’è dentro un’intera biblioteca medica. L’autista mi porta alla “blue house”, che l’altra volta si chiamava “blue cheese”. Grande novità: adesso la sera c’è l’elettricità fino alle dieci! Vi trovo Marie, dottoressa americana di origine asiatica molto bellina, e Yanti, ginecologa indonesiana. Ne l’una ne l’altra sono particolarmente loquaci. Inoltre c’è Christophe, il logista svizzero molto simpatico, e Ann, un’infermiera kenyota accogliente.

Giovedì, venerdì e sabato li passo all’Ospedale Benson, dove le cose sono migliorate, soprattutto adesso c’è l’elettricità, e c’è una stanza separata per donare il sangue. Professionalmente, ho avuto una grossa soddisfazione: mentre due dipendenti del laboratorio sono stati mandati via, i quattro che ho assunto io in dicembre sono sempre lì, lavorano bene e i miei colleghi ne sono soddisfatti.

Monrovia non è cambiata molto, continuano a non esserci ne acqua ne elettricità (chi le vuole, come noi, usa un generatore e una cisterna), ma è aumentato il traffico e sono diminuiti i posti di blocco dei caschi blu. Si vedono meno i fori dei proiettili nei muri, spesso stuccati. Per il resto, che dire? E’ sempre una grande città in riva al mare, con edifici rotti e cadenti, e inondazioni quando piove. I quartieri di mercato sono un tale casino che ci si mette ore ad attraversarli in auto.

Sabato pomeriggio con Christophe e Ann siamo andati su una spiaggia oltre il porto dove i pescatori arrivano con le reti, e si può subito comperare il pesce. Un sobborgo, una serie di baracche sulla spiaggia, una folla, delle carcasse di navi arrugginite, veri relitti, lasciati lì a degradarsi, e delle barche di legno a remi, con dei pescatori che trascinano con gran fatica delle immense reti a riva. Subito ci vengono proposte delle enormi cernie da cinque chili almeno e un barracuda di due metri, ma Christophe da cretino dice di aspettare che i pescatori finiscano di tirare la rete a terra. Io da ancora più cretino accetto, e quando finalmente la rete è arrivata, dentro ci sono solo pescetti, e le donne con le cernie e il barracuda sono scomparsi, accidenti! Pazienza, compriamo sei “pesci-cassava” abbastanza grossi, e la sera a casa li cucino sul barbecue (due in forno) con olio di oliva, aglio e prezzemolo, ottimi. Era il compleanno di Ann e avevamo ospiti dalle altre sezioni.

Lunedì mattina partenza per Nimba. Mi vengono a prendere a Benson, e ci stipiamo in un’automobile carica all’inverosimile: i quattro espatriati di Nimba, Carmen, Massimo, Cyrille e Barbara, due infermiere, una paziente col bambino, l’autista, io, delle cassette di bibite, scatoloni di cibarie, la biblioteca medica, un microscopio, bagagli vari. Ci fermiamo a comperare spiedini e pannocchie, ma siccome pare non abbiamo tempo per fermarci, li mangiamo in quelle condizioni sputacchiando ossicini. Intanto la paziente allatta il suo bambino, ma è difficile dargli abbastanza latte con un seno solo, l’altro lo ha perso per un ascesso non curato a causa della guerra. Dopo quattro ore di mal di schiena, male al sedere e gambe intorpidite, arriviamo a Ganta, dove sostituiamo le cassette di bottiglie vuote con delle piene, e passiamo da un ospedale missionario tenuto da due suore italiane; lì si occupano solo di tubercolosi e lebbra. Quindi ripartiamo, e dopo un’ora di sterrato tra foresta e piantagioni di caucciù arriviamo a Saclepeia.

L’ospedale costruito da MSF è interamente fatto di teli tenuti da pali di legno, ma un intelligente sistema di drenaggio impedisce gli allagamenti e i reparti sono ben organizzati. Ci sono le corsie, l’ambulatorio, la farmacia, il centro di nutrizione terapeutico, la cucina e l’obitorio; io dovrò installare un laboratorio. L’ospedale è di fianco a un campo profughi, ma la cittadina di Saclepeia è una normale cittadina (un paesone) africana. Gli espatriati di MSF vivono in una casa molto carina con un giardino, anche se i confort sono relativi, per esempio la doccia si fa a secchiate.

Martedì lo passo in ospedale, e installo il “laboratorio”. Ho una grande tenda a disposizione, e apriamo uno spazio per dare luce davanti al microscopio, mettiamo due tavoli belli solidi e un grande contenitore d’acqua con un rubinetto. Un tecnico di laboratorio locale è stato identificato, e l’ho messo alla prova. Apriti cielo, subito dai reparti hanno cominciato ad arrivare richieste di esami di sangue, urina, feci. E così abbiamo potuto identificare che vari disturbi intestinali sono dovuti a Schistosoma mansoni, un orrendo parassita che se non curato provoca danni gravissimi al fegato. Questi parassiti non entrano nell’organismo dalla bocca, ma attraverso la pelle dall’acqua dove la gente va a lavarsi o a fare il bucato.

L’indomanil ‘auto ritorna a Ganta, per portare due pazienti all’ospedale avventista per essere operati. Ne approfitto per venire anch’io e visitare i laboratori di quell’ospedale e di quello delle suore. In quest’ultimo, benché piccolo e poco equipaggiato, ho potuto verificare che fanno ottimi vetrini di sputo per la diagnosi della Tuberculosi. Nel giardino dell’ospedale fa effetto vedere i pazienti di lebbra, alcuni con mani e piedi ridotti a moncherini. Poco impressionato invece dal laboratorio del centro trasfusionale dell’ospedale avventista, non sono nemmeno capaci di leggere le istruzioni del test per l’epatite B. Abbiamo anche fatto un giro per Ganta, numerosi sono gli edifici ridotti a colabrodo da colpi di arma da fuoco; fa effetto pensare che è successo un anno e mezzo fa.

Tornato a Saclepeia, dopo aver finito di sistemare un laboratorio degno del Massachussets General Hospital, ho girato un po’ l’ospedale. L’ambulatorio il mattino vede due operatori sanitari seduti vicino a un grande tavolo; il resto della tenda è stipata da pazienti in attesa di consultazione; la maggioranza sono mamme con un bambino che, a meno che siano molto malati, appena capiscono che gli si pungerà il dito per il test della malaria, comincino ad urlare. Più in là, sotto una tenda con più luce, ci sono le mamme con i bambini denutriti, è il “Therapeutic Feeding Centre”, quelli piangono di meno, sono troppo deboli.

Giovedì torno a Monrovia, anche questa volta la macchina è strapiena, ma ho la fortuna di essere seduto davanti, dietro ci sono un bambino gravissimo, i suoi genitori, un’infermiera e una levatrice. Il bambino geme debolmente, e viene tenuto con la testa in giù affinché, credo, il sangue affluisca al cervello. Barbara mi da istruzioni in caso muoia per strada, e ci mettiamo in moto con il sottoscritto particolarmente rassicurato, e dopo cinque faticose ore arriviamo a Benson, dove il bambino è stato salvato, grazie all’artemisina, questo nuovo farmaco naturale contro la malaria.

Ancora due giorni a Benson, ultime raccomandazioni ai tecnici, soprattutto spero che non facciano errori con il test per l’epatite C, un po’ complicato. Pagato il mio tributo con tre sacchi pediatrici di sangue (sono zero negativo), passaggio dal commerciante maliano di arte africana dove compero un enorme tamburo, varie collane e un coccodrillo schiaccianoci, barbecue da MSF-Francia, e la domenica ritorno a Ginevra con un volo vuoto fino a Dakar e stipatissimo dopo.



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