Rajasthan in libertà
9 maggio: Atterrati a Delhi abbiamo preso un taxi prepagato e ci siamo fatti portare all’Inter State Bus Terminal, sicuri che in quella che ci è stata venduta come la principale stazione dei bus di Delhi dovevano “Per Forza” partire bus per Agra. Invece, con nostro grande disappunto, non è così. La ragazza in biglietteria ci scrive su un foglietto il nome della stazione giusta e lì ci facciamo portare con il nostro primo (di molti) motorisciò. Sarai Kale Khan è la stazione dalla quale partono i bus per Agra e per le principali città del Rajasthan. “Local Bus” senza aria condizionata, sul quale gli indiani viaggiano stipati uno sull’altro, senza accusare particolari disagi. Noi invece li accusiamo, anche perché abbiamo due zaini “king size” tra le gambe e otto ore di volo sulla groppa. Non immaginavamo che il nostro viaggio sarebbe iniziato su un mezzo così “sgarrupato”, ma ora ci sentiamo solo molto fortunati se questo bus ci porterà ad Agra in meno di 5 o 6 ore ore. (Curiosità 1: Il motorisciò. Anzi il Rickshaw, come lo chiamano gli indiani. È il più diffuso, popolare, economico, semplice e inevitabile mezzo di spostamento nei centri indiani. Consiste in un’Apecar modificata e il prezzo medio di una corsa è 50 rupie, meno di un euro. L’autista di motorisciò a volte è anche una guida improvvisata e si offre di farvi fare dei Sightseeing. Se ne trovate uno dall’aria affidabile e non troppo insistente (sono rari ma ci sono…) potete accettare, a patto di concordare in anticipo il prezzo e non farvi portare in negozi e bazar (dove l’amico ha una lauta commissione). Esiste anche la versione Ciclorisciò, delle bici con rimorchio “trainate” da un indiano, di solito macilento. Su questi Massi e io abbiamo avuto un confronto di opinioni; lui sosteneva che per queste persone il Ciclorisciò è uno strumento di lavoro e fonte di guadagno. Io però sono in difficoltà psicologica all’idea che un essere umano debba faticare per trasportarmi. Ne abbiamo preso uno solo, ci siamo offerti di scendere durante una salita e gli abbiamo lasciato una lauta mancia. Sarà anche lavoro ma questa è una delle mille cose dell’India che mettono in difficoltà la coscienza e la capacità di comprensione) A pochi metri dalla partenza del bus salgono venditori di giornali, acqua, cocco, tovaglie, cipolle, portafogli. Siamo gli unici visi pallidi tra un mare di indiani; questa condizione ci diventerà presto molto familiare… La temperatura alle 10 di mattina supera già i 35 gradi, cosa che amplifica gli odori, la stanchezza e l’insofferenza. Lasciamo la regione dell’Haryana ed entraimo nell’Uttar Pradesh, costeggiando panorami deprimenti. I piccoli agglomerati urbani sono caotici, caratterizzati da costruzioni semidistrutte, ma nelle quali la gente sembra vivere e lavorare normalmente, merci di ogni genere vendute su carretti o direttamente in terra; su tutto una povertà avvilente (che comunque ci aspettavamo) e un territorio privo di qualunque attrattiva naturale (cosa che invece ci coglie alla sprovvista). I sari delle donne sono una nota di colore che però non riesce a rendere lo scenario più allegro. Speriamo che il Rajasthan ci riservi sorprese più piacevoli. Arriviamo ad Agra dopo 5 ore e 250 chilometri. (Curiosità 2: Il Traffico. Sulle superfici polverose e frastagliate delle strade indiane (a meno che non siamo autostrade) circolano bus, auto, moto, risciò, carri trainati da cavalli o cammelli, camion (bellissimi i camion dipinti coi colori sgargianti e l’immancabile scritta Blow Horn!), pedoni e creature di ogni genere. I mezzi dotati di clacson lo suonano senza soluzione di continuità. I sorpassi sono bipartisan, indifferentemente da sinistra o da destra (basta annunciarsi col clacson) e non è infrequente la guida contromano. Che dire? E’ un’opinione personale ma un paese che non conosce il codice della strada non dovrebbe possedere la bomba atomica…) Agra è una città con poche attrattive ma ospita il famoso Taj Mahal. Il nostro albergo è vicinissimo all’edificio nella circoscrittissima zona interdetta ad auto e risciò (provvedimento palliativo per non affumicare troppo il candido monumento con le emissioni). E’ semplice, spoglio ma confortevole e ha un incantevole giardino, dove si può fare colazione o godersi un po’ di frescura pomeridiana. Qui per la prima volta ci rilassiamo, ci facciamo una doccia (l’acqua calda non c’è ma in queste condizioni non è un problema). 10 maggio: Tra imponentissime misure di sicurezza (che comprendono il palpaggiamento diretto e il metal detector), visitiamo il Taj Mahal. Qui scopriamo che nella maggior parte dei monumenti indiani i turisti stranieri pagano molto più degli indiani (e possiamo accettarlo) e spesso c’è un extra per la macchina fotografica (questo invece sembra una cavolata…). Nel biglietto d’ingresso però è compresa anche una bottiglietta d’acqua (siamo sempre a quasi 40 gradi) e due sacchetti copriscarpe per entrare all’interno del mausoleo. Al pomeriggio visitiamo l’Agra Fort e Fatehpur Sikri, una piccola città abbandonata dove l’imperatore moghul Akbar (lo sentirete nominare spesso se visiterete l’India settentrionale) ha costruito un imponente complesso di palazzi, con “depandance” per ognuna delle sue re mogli.
10 maggio: Per la gita a Fatehpur Sikri ci siamo concessi il lusso di una macchina con aria condizionata. Il panorama che scorre fuori dai finestrini della macchina (per lo più campagna) è più piacevole della strada Delhi-Agra, che invece somiglia molto all’Afghanistan bombardato. Pian piano iniziamo ad interagire con gli indigeni. Sono gentili ma un po’ maschilisti; tendono a rivolgersi prevalentemente a Massi e a me ci vuole un po’ prima di ottenere la loro attenzione. In ogni caso il “Madame” con cui mi apostrofano mi infastidisce infinitamente meno di quando in Italia mi chiamano Signora. La più grossa difficoltà nell’interazione con gli indiani è la loro insistenza nel volerti appioppare acqua, cibo, risciò, tour, souvenir, memory card, hotel; dopo un po’ non ci si fa più caso ma all’inizio è faticoso. Ceniamo in un ristorante con terrazza. Come molti locali di Agra, non ha la licenza per gli alcolici, eppure servono lo stesso la birra (l’immancabile Kingfisher), che portano in una teiera e bisogna bere in una mug da caffelatte. A parte questo, la vista sul Taj Mahal e su Agra, con la sua distesa di case scrostate sui cui tetti i bambini fanno volare gli aquiloni, è la prima vera emozione che l’India ci regala.
11 maggio: Giornata di spostamenti. Viaggiamo sulla più tipica delle macchine indiane: la Tata Indica, una vetturetta simile alla Palio. Entriamo nel Rajasthan e finalmente incontriamo un panorama simile a quello che ci aspettavamo; campagna, colline, altipiani di terra rossa color ocra. La vegetazione è variegata e c’è qualche capanna di paglia. Anche i villaggi che incontriamo lungo la strada sono meno tristi degli insediamenti “inurbani” che abbiamo lasciato nell’Uttar Pradesh. In neanche 5 ore raggiungiamo Saway Madhopur una cittadina senza nessuna attrattiva che però pullula di alberghi di ottimo livello. Questo perchè Sawai ospita il Ranthambore National Park, che ha trasformato questo paesello nel nulla in un luogo di attrazione turistica. Il nostro hotel è bellissimo; un edificio in stile neorajastano con decorazioni a conchiglia, un bellissimo prato e la piscina circondata da alberi. Cosa ancora più bella, siamo gli unici a godercelo…
(Curiosità 3: L’India fuori stagione. Il periodo nel quale abbiamo scelto di viaggiare non è il migliore dal punto di vista meteorologico perché le temperature sono alte e possono tranquillamente sfiorare i 40 gradi. Tuttavia il caldo che abbiamo sofferto è stato quasi sempre sopportabile, anche perché il clima è secco (il Rajasthan è una regione praticamente desertica), abbiamo bevuto come cammelli (fino a 6 litri di acqua in due) Un paio di vantaggi; l’assenza di altri turisti e i prezzi stracciati che ci hanno permesso di dormire in posti bellissimi. Sicuramente certi servizi sono ridotti, alcuni hotel non aprono il ristorante o la piscina (lo so, state pensando che non è per andare in piscina che avete scelto un viaggio in India, ma vi assicuro che a quelle temperature e dopo spostamenti così faticosi, un tuffo in piscina a volte è provvidenziale…) e i cacciatori di turisti si accaniscono con ancora più virulenza sui pochi che trovano. Ma per la mia esperienza posso dire che gli aspetti positivi superano quelli negativi; tutto sta a quanto si sopporta il caldo.
12 maggio: La mattina la passiamo a rilassarci in piscina, nel pomeriggio visitiamo il Ranthambore National Park. Avrei voluto capire qualcosa di botanica, anche solo per identificare tutte le stranissime piante e gli alberi che ho visto. Il parco, sovrastato da un forte del X secolo, è affascinante; abbiamo intravisto una delle 40 tigri che lo abitano, ma abbiamo incontrato soprattutto scimmie, antilopi, il chinkara (la tipica gazzella indiana) uccelli, piccoli maiali selvatici, qualche coccodrillo, tutti perfettamente a proprio agio tra i resti di antichi templi, padiglioni di caccia in rovina e laghetti. Gli alberi con le liane, tra le quali saltellano gli entelli, scimmie sacre agli Indù – sono l’ultimo dettaglio per farci sentire ancora più nel Libro della Giungla. La nostra prossima tappa è Udaipur, che raggiungeremo in treno, con partenza a mezzanotte. Ma passare di notte in una stazione indiana è un’esperienza che merita di spendere qualche parola..
12/13 maggio: Dunque abbiamo fatto tutto come guida comanda. Ovunque c’è scritto che bisogna visitare l’India con tutti i mezzi pubblici; così stanotte andiamo a Udaipur in treno. Come si può immaginare, le stazioni indiane sono qualcosa di inimmaginabile. La povera gente che viaggia in seconda classe sta come in un carro bestiame. Ancora peggio stanno quelli nelle carrozze “sleeper” che sono accalcati l’uno sull’altro come polli di batteria. E ancora (più) peggio stanno quei tanti che dormono sui marciapiedi della stazione e non hanno neanche un treno da prendere. 13 maggio: Nonostante i primi attimi di stordimento, la notte in treno è andata abbastanza bene. A parte un losco figuro che metteva con insistenza la testa nello scompartimento e mi guardava. Ho dovuto chiamare Massimiliano tre volte prima che si svegliasse. C’è di che star tranquilli…
Udaipur è una città piccola, sulle sponde del lago Pichola, incasinata (come tutto in India) ma bellissima. Qui parecchi anni fa è stato girato il film “007 Operazione Octopussy”, e gli udaipuresi ancora ne parlano. Ci sono mille bottegucce che sono una gioia per gli occhi (e per lo shopping). (Curiosità 4: L’artigianato indiano. Il più grosso limite dell’artigianato indiano è che la maggior parte di esso è già sbarcato da anni sulle bancarelle dei mercatini. Potrei comprarmi una gonna o un paio di orecchini del Rajasthan e dire tranquillamente che li ho presi in montagnola a Bologna. Del resto i commercianti indiani farebbero passare la voglia di shopping anche a Sophie Kinsella. Se non compi nulla fanno la lagna, se compri qualcosa perché non lo compri più grande, se lo compri più grande perché non ne compri due…Una palla. Per il momento abbiamo comprato solo qualche miniatura da incorniciare nella nuova casa).
A Udaipur ci siamo coccolati e fatti coccolare. Il 15 era il nostro anniversario, per festeggiarlo abbiamo dormito in una bellissima “haveli”, cioè uno gli antichi palazzi fatti costruire dai mercanti. Abbiamo visitato il CityPalace, il tempio Jagdish, abbiamo girato il mercato (un’esperienza multisensoriale fantastica) e ci siamo fatti fare il massaggio ayurvedico. A Udaipur abbiamo incontrato anche due elefanti, sormontati dall’inevitabile “santone” di 35 chilogrammi di peso e dall’ugualmente inevitabile seguace, che appunto “segue” a piedi per chiedere soldi ai turisti che fotografano l’animale… 15 maggio. Sveglia all’alba e partenza per Jodhpur. A Udaipur siamo stati così bene che avremmo voglia di rimanere, ma la strada è ancora lunga, bisogna che si parta. Il bus era decisamente meglio di quello per Agra. Oddìo… Un po’ meglio. Di primo acchito Jodhpur è stata deludente. Traffico, smog, casino. Inoltre ci sono pochi degli animali che già ci siamo abituati a vedere ovunque per strada. Ma tanto bruttina è Jodhpur tanto belli sono i suoi dintorni. Il forte Mehrangarh subito fuori dalla città è veramente maestoso e bello, così come il mausoleo Jaswant Thada e l’Umaid Palace (dove ancora risiede l’attuale maharaja…,però noi non l’abbiamo incontrato durante la nostra visita. Forse era fuori a fare delle compere) (Curiosità 5: I Maharaja. I Maharaja (la cui legittima moglie si chiama Maharani) esistono ancora. Naturalmente non hanno più potere politico ma sono ancora molto-molto ricchi. Il loro mestiere è la beneficenza, le attività culturali, l’amministrazione e la promozione (anche attraverso fondazioni) del loro smisurato patrimonio. Molti dei palazzi e dei forti che abbiamo visitato sono ancora di loro proprietà) Nel centro di Jodhpur abbiamo girato poco, stroncate le nostre buone intenzione dai nugoli di noiosi che vogliono attaccare bottone con noi e poi trascinarci nella bottega dello zio, del padre, del fratello. Questa discutibile tattica di direct marketing è inevitabile in tutta l’India ma a Jodhpur i commercianti sono noiosi come tafani. Abbiamo cenato entrambe le sere all’“On The rocks” un ristorante turistico e con poca anima, ma gradevole, pulito e con del buon cibo. L’eccesso di spezie della cucina indiana inizia a fare i suoi nefasti effetti sul nostro apparato gastrointestinale. Tra poco partiremo per Jaisalmer, la città “d’oro” nel deserto del Thar ai confini col Pakistan. Le nostre aspettative sono alte e fortunatamente questa volta non andranno deluse.
17 maggio: Abbiamo raggiunto Jaisalmer con un pullman di media categoria. C’è spazio almeno per i piedi ma il viaggio è lungo e, anche se partiamo sempre all’alba, presto il caldo ci raggiunge in questo veicolo che non conosce aria condizionata. All’arrivo siamo travolti da un esercito di albergatori, intermediatori, tassisti, autisti, rickshawmen, che ci travolgono per metterci in mano depliant, biglietti da visita o solo cartoncini con scritto a mano il nome e l’indirizzo dell’albergo che ci stanno offrendo. È un assalto in piena regola; non ci permettono quasi nemmeno di scendere dal bus. Stravolti, ci lasciamo agguantare da uno a caso ci facciamo portare nell’hotel che abbiamo scelto. Come immaginavamo, Jaisalmer è bellissima. Nel piccolo centro, circondato da mura, case e templi sono attaccati l’una sull’altra, le fotografie non vengono bene, ma girare tra le viuzze è un’esperienza fantastica. Qui abbiamo fatto un po’ di shopping: una camicetta, un paio di pantaloni (che torneranno molto utili per il resto del viaggio), cavigliere coi sonagli e due piccoli tappeti. Per strada incontriamo di nuovo mucche e maialini. Una capretta ha anche tentato di incornarmi; per fortuna era ancora piccola…
Di fronte ai primi segni di cedimento del nostro organismo, provato dall’eccesso di spezie indiane, abbiamo mangiato in uno del molti ristoranti italiani (arredati però in stile indiano) con vista sul forte: la cucina era pessima, almeno dal punto di vista dell’”italianità”, però il locale era molto romantico e suggestivo. Durante la serata la luce è saltata un paio di volte (la cosa in India è assolutamente normale) e questo ci ha fatto ancora di più godere la vista del Forte e di Jaisalmer. 18 maggio: Abbiamo visitato il Forte, il più antico tra quelli che abbiamo incontrato finora, supportati dall’utile servizio di audioguide, che si iniziano a trovare in tutti i principali palazzi del Rajasthan. Abbiamo visitato anche un tempio giainista, una dottrina religiosa abbastanza diffusa in India, una sorta di induismo integralista che persegue ossessivamente l’ideale della purezza; all’entrata del tempio c’è un cartello vieta l’ingresso alle donne mestruate! Dopodichè è stato inevitabile la gita in cammello nel deserto, un’esperienza decisamente turistica. Io ero attratta dal deserto, meno dal cammello, ma nel complesso è stato affascinante. Abbiamo raggiunto il deserto in jeep, con una guida veramente gentile e un autista simpatico. I villaggi nel deserto sono bellissimi con le loro piccole casette di sabbia, alcune delle quali decorate, i cammelli parcheggiati davanti all’entrata e le donne che con anfore sulla testa che vanno al pozzo a prendere l’acqua. È impressionante quante persone vivano ancora così isolate dal mondo. Accompagnati da un giovane cammelliere, abbiamo fatto un giro di due ore circa, dopodichè ci hanno lasciato sulle dune al tramonto, a guardare la luna piena che avanzava nel cielo e a rotolarci nella sabbia come due bambini. Il deserto ha un’energia magica; anche a distanza di mesi, guardare la foto che mi ritrae tra le dune, mi comunica un indescrivibile senso di pace.
Nel frattempo la guida, l’autista e il cammelliere ci preparavano la cena, su un fuoco acceso per terra e con utensili di fortuna: riso, verdure e pane indiano preparato e cotto sul momento. Era buono, tutto molto piccante e, tra le stoviglie lavate con la sabbia e le mani zozze del cammelliere, anche molto poco igienico. Ma ormai ci era chiaro, l’India non è un paese per schizzinosi.
(Curiosità 6: Problemi idrici a Jailsalmer. A Jaisalmer abbiamo fatto i turisti responsabili. Questo perché l’antico centro fortificato è al limite del collasso idrico, a causa dei troppi alberghi e ristoranti costruiti recentemente. I canali delle fogne smaltiscono una quantità d’acqua, dodici volte superiore alle loro possibilità, e la pressione esercitata dalla rete fognaria, mette a rischio le fondamenta del Forte. Dal 1993 ad oggi sono crollate già tre bastioni del XIII secolo. Sapendo questo e con la complicità dei prezzi stracciati, abbiamo soggiornato in un albergo-palazzo fuori dal centro, di proprietà del maharajà in persona. Una fantastica soluzione “di ripiego”.
20 maggio. Di nuovo sul treno, questa volta per un viaggio di 12 ore che ci porterà a Jaipur, il “capoluogo di regione” del Rajasthan. Il convoglio che fa la tratta Jaisalmer-Jaipur ha solo la seconda classe; quindi l’intimità è poca ma l’aria condizionata funziona anche troppo. All’alba arriviamo a Jaipur insonnoliti e infreddoliti. Subito alla stazione ci abborda Kahn, che sarà il nostro risciòmen e guida per i prossimi due giorni. Un po’ insistente e chicchierone, ci fa vedere il suo “quadernino delle referenze” (ogni guida ne ha uno) dove turisti da tutto il mondo garantiscono per la sua serietà e professionalità. Ci fa anche vedere una foto con alcune ragazze inglesi. Ci garantisce che una di quelle è la sua ragazza. Chissà se ci sta prendendo in giro o se la bionda inglese ha preso in giro lui…
La città cosiddetta “rosa” del Rajasthan è bella ma grande e caotica. Ha 300.000 abitanti e si vede! Il traffico è pazzesco. Abbiamo visto il Hawa Mahal, una sorta di edificio ad alveare di 5 piani, riservato alle donne e abbiamo visitato il City Palace, con le sue porte dipinti, i grandi vasi d’argento e il museo dei tessuti e degli abiti dei marajà. Abbiamo visto la città dall’alto del minareto, ma purtroppo non siamo riusciti a gironzolare le viuzze del centro, con i suoi bazar delle attività artigianali, perchè la nostra guida ci ha un po’ sballottati a suo piacimento. Noi, che iniziamo ad essere stanchi, l’abbiamo un po’ lasciato fare. In compenso Khan ci ha portato al Galta, il tempio delle scimmie, un luogo molto suggestivo popolato da decine e decine di macachi. Non possiamo resistere; compriamo per loro due sacchetti di arachidi. Sono abituate al contatto con l’uomo e vengono a prendere le noccioline direttamente dalla mano. I cuccioli hanno occhi grandi e dei musetti grinzosi dolcissimi. A Jaipur facciamo una gita fuori porta ad Amber, sede di un forte molto famoso, che però troviamo con “lavori in corso” e zigzaghiamo tra turisti indiani e muratori. L’edificio è grandioso ma un po’ spoglio. Abbiamo visto tanti di quei forti, palazzi, stanze principesche che ormai ci siamo abituati ad uno standard…Da maraja. In questi giorni dobbiamo scegliere cosa fare per quel che resta del viaggio. Abbiamo tenuto aperta la possibilità di andare con un volo interno fino a Varanasi. A Jaipur decidiamo di lasciar perdere. Sicuramente sarebbe stata un’esperienza interessante e “forte” ma i primi giorni eravamo ancora un po’ frastornati e intimiditi da questo strano paese, ora cominciamo a essere stanchi. Città sacra per città sacra, ripieghiamo per una gita in giornata a Pushkar, Varanasi ci avrà un’altra volta.
22 maggio: Noleggiamo un macchina, rigorosamente con l’autista, e ci facciamo portare fino a Puskar, la città famosa per la fiera dei cammelli, che però non è in questo periodo. Arrampicata tra i monti, piccola e tutta raccolta intorno a un laghetto, Pushkar la città è centro di pellegrinaggio per hindù e per turisti vetero-sballoni. Un tripudio di templi (oltre 400), santoni, negozietti, note di sitar, ristoranti, odore di incenso, odore di canna, preghiere, stranezze (ho visto una vacca con cinque zampe che il proprietario esibiva come oggetto di venerazione), Pushkar sintetizza tutto il meglio e tutto il peggio dell’India. Il nostro autista ci scarica obbligatoriamente con una guida che non riusciamo a rifiutare e che ci porta dritti dritti nelle fauci di un gruppo di santoni-spillasoldi. Anche questi non ci lasciano andare finché non diamo un’offerta in denaro. Non avremmo dovuto cedere ma non vedevamo via d’uscita. Da quando siamo a Pushkar passiamo da un “sequestro” all’altro…Nonostante questo contrattempo, facciamo di tutto per non farci rovinare la gita. Visitiamo il tempio di Brahma, il creatore dell’universo e una delle divinità più importanti dell’Hinduismo. Gironzoliamo per i negozietti, Massi cerca una maglietta souvenir, compriamo cosmetici ayurvedici. A fine giornata ci facciamo riportare a Jaipur, nell’albergo che abbiamo trovato quasi a caso ma che si è rivelato un vero angolo di paradiso. 23 maggio: Il nostro primo bus con l’aria condizionata. Lo prendiamo per arrivare da Jaipur a Delhi. Qui spenderemo i tre giorni che ci restano della nostra vacanza in India. Delhi è una vera metropoli asiatica; sul motorisciò che ci porta in albergo dobbiamo mettere la mascherina antismog che ripararci approssimativamente dai gas di scarico e dall’odore che viene dai bidoni della spazzatura. Inoltre lo smog rende il caldo più insopportabile. Appena arrivati scopriamo che il viaggiare “easy” e rilassato che abbiamo conosciuto nel Rajasthan, qui non è possibile. Gli alberghi a volte non hanno camere libere e i prezzi sono alle stelle. Abbandoniamo l’idea di restare nei dintorni di Connaught Place, il cuore pulsante della città nuova, con ristoranti, negozi, cinema e hotel e, su pressioni dell’autista di risciò, ci facciamo portare in un albergo del quartiere Paharganj: ricordate il nome di questo quartiere ed evitatelo! L’albergo era triste ma tutto sommato abbastanza confortevole, il quartiere fuori un incubo di strade impraticabili, polvere, rumore a tutte le ore del giorno e della notte. Per dormire bene a Delhi meglio organizzarsi prima. Negli ultimi due giorni che abbiamo passato in India abbiamo visitato il grandissimo Red Fort, con il bel parco interno nel quale passeggiare e i casermoni inglesi (le tracce del passato coloniale dell’India sono discrete ma onnipresenti).
Alla moschea Jama Masjid non si limitano a coprire come al solito gli “indecenti” pantaloni corti di Massimiliano ma mettono anche a me una specie di accappatoio di tessuto pungente. Eppure non ero molto scollacciata…Sarà per colpa dell’”accappatoio” che non ho un ricordo piacevole della moschea.
È molto bella invece la parte sud della città, verso l’India Gate; qui ci sono grandi viali e torna protagonista il verde. Abbiamo visitato il memorial di Gandhi e il museo a lui dedicato. Ci siamo riparati dal caldo nella galleria nazionale di arte moderna, vicino all’India Gate, e ci siamo sdraiati nel parco, mentre i ragazzi che giocavano a cricket facevano di tutto per entrare nell’inquadratura delle nostre foto…Chissà poi perchè. Abbiamo fatto gli ultimi acquisti uno degli empori statali dove è possibile trovare oggetti provenienti da tutti gli stati dell’India a prezzi ragionevoli, ma che fatica arrivarci! Attenzione, perchè al contrario degli autisti rajastahani, che si sono fatti le ossa sui turisti, quelli di Delhi non masticano tanto l’inglese e nemmeno lo capiscono. Ci si sono messi in tre per capire che volevano andare al “state emporium” e alla fine ci hanno portato allo “stadium”. Ci vuol pazienza…All’Emporio (che dallo stadio abbiamo dovuto raggiungere a piedi) ho comprato una statuetta di terracotta di Ganesh, il dio con la testa di elefante. È un personaggio molto rappresentato in India e, al contrario delle divinità hindù, a volte un po’ inquietanti, è un dio allegro e portafortuna, pieno di “buone vibrazioni”. Impossibile soggiornare in India senza affezionarsi a Ganesh.
In Connaught Place tornavamo ogni sera per cenare e guardare un po’ di vetrine che ci hanno pian piano riabituato all’idea che esiste un occidente alla quale, volente o nolente, presto saremmo dovuti tornare. Ma non abbiamo potuto lasciare l’India senza assaggiare un Mc Veg…
(L’ultima curiosità: La cucina indiana. Abbiamo scelto di mangiare quasi sempre nei ristoranti locali, qualche volta in locali un po’ turistici altre i posti più genuini. Abbiamo assaggiato tutte le varietà di pollo (tikka, masala, biryani, afghani). È semplice ma delizioso il riso in bianco con il cumino, ottime le patate con gli spinaci mentre ho trovato i legumi quasi sempre troppo speziati. Abbiamo bevuto svariate bottiglie di Kingfisher, la birra locale che si trova ovunque. Non è buona ma è leggera e va giù bene col caldo. Purtroppo non ho avuto il coraggio di prendere un “samosa” (il fagottino ripieno di carne o verdure che sta alla cucina indiana come la pizza a quella italiana) o un dolce fritto dalle molte bancarelle che li vendevano per strada. Troppe mosche attorno al cibo, troppa sporcizia; mi sono un po’ vergognata ma non ce l’ho fatta. Massimiliano, che è goloso di frutta, una volta ha preso una macedonia che però è stata foriera di problemi intestinali. Meglio evitare. Buono il lassi dolce, avrei voluto bere più tè, ma era praticamente impossibile farselo portare senza latte. Per riposare il palato dalle spezie, due volta abbiamo mangiato italiano; a Jaisalmer, bello il ristorante ma la cucina era discutibile, mentre a Jaipur su una scrostata terrazza a lume di candela, abbiamo mangiato spaghetti col tonno, come avrebbe potuto prepararli uno studente fuorisede: semplici, abbondanti e buonissimi. A Delhi abbiamo deciso di scoprire cosa si serve al McDonald di un paese che non mangia nè mucche nè maiali e predica il vegetarianesimo. Dopo una fila inenarrabile abbiamo scoparto che serve l’hamburger di pollo (povero pollo, non è animele sacro a nessun culto) e una polpetta di verdure e legumi, detta appunto McVeg, ideate per gli indiani e servita sono in India. Buffo come questo popolo abbia accettato usanze e abitudini da tutto il mondo, adattandole però tutte al proprio gusto. È senza dubbio la caratteristica più forte e bella degli indiani.
Le foto del nostro viaggio sono all’indirizzo: http://www.Flickr.Com/photos/rossanaturale E se andate in India non dimenticate: – Caramelle per i molti bambini che vi inseguiranno – Asciugamani e almeno un lenzuolo; negli alberghi di media categoria non sono compresi o sono inutilizzabili.
– una pashmina o una felpa; quando c’è, l’aria condizionata, può essere impietosa.
– in caso di piedi delicati, un paio di calzini da mettersi in tutti i templi e le moschee, dove dovrete sistematicamente lasciare le scarpe all’entrata. Il marmo al sole raggiunge temperature altissime!