Quaderni dal Nuovo Mondo

QUADERNO PRIMO Viaggiare I sinonimi di viaggiare sono tanti, e nessuno ne soddisfa pienamente il senso: esplorare, visitare, scoprire, assaggiare, sperimentare, socializzare. In questo caso, viaggiare è sinonimo di raccontare. Raccontare – per quanto mi sarà possibile – i colori, gli odori, i suoni, gli spazi sconfinati, le pareti di...
Scritto da: david33
quaderni dal nuovo mondo
Partenza il: 21/07/2007
Ritorno il: 06/08/2007
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
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QUADERNO PRIMO Viaggiare I sinonimi di viaggiare sono tanti, e nessuno ne soddisfa pienamente il senso: esplorare, visitare, scoprire, assaggiare, sperimentare, socializzare. In questo caso, viaggiare è sinonimo di raccontare. Raccontare – per quanto mi sarà possibile – i colori, gli odori, i suoni, gli spazi sconfinati, le pareti di cemento e acciaio, lo sventolio delle bandiere, lo sferragliare dei vagoni.

Ma viaggiare significa anche farsi delle domande su ciò che si è visto, per riportare tutto ad una più chiara comprensione, e perché non rimanga nella memoria come uno statico fondale da cartolina.

Mi proverò, con queste pagine, di far rivivere il Nuovo Mondo che mi ha accolto e che mi ha trascinato in pazze avventure. Mi proverò di riportarvelo come un luogo pienamente familiare; perché dopotutto non è che una stanza del nostro grande appartamento comune che non avevamo mai guardato.

“Smoking is not allowed…” Transitare per un grande aeroporto internazionale può offrire all’occhio attento una fantastica rassegna sulla meravigliosa varietà del genere umano.

La strada verso il Nuovo Mondo mi ha portato in due tra gli scali più affollati dell’emisfero occidentale: il britannicissimo Heatrow e l’aeroporto O’Hare di Chicago. In questi luoghi si resta schiacciati dall’enormità delle folle di passeggeri che ogni giorno percorrono i corridoi, si riforniscono ai duty free, salgono e scendono dalle navette. La perfetta razionalizzazione degli spazi e dei percorsi assume le sembianze di un colossale labirinto – a volte così bene che, per cambiare terminal, bisogna affrontare un corridoio lungo trecento metri, girare a destra, giù per le scale mobili, poi a sinistra, ancora dritto fino alla serpentina del metal-detector; poi tutti a bordo di un autobus che gareggia con i trenini portabagagli nel ventre dell’aerostazione; giù dall’autobus, su per le scale mobili, poi a destra, prendere il corridoio e la terza porta a sinistra; a ritmo di salsa giù per le scale per un nuovo metal-detector; infine dopo (soli) quarantacinque minuti, si raggiunge con un raggiante sorriso – o con la pelle squamosa per il sudore, se siete in ritardo – l’agognato cancello d’imbarco, dove una elegantissima signorina con un risolino da capogiro è pronta a divorare il vostro biglietto nell’apposita macchinetta.

Mentre siedo nella poltroncina di legno asettico nell’atrio faraonico dello scalo attendendo la partenza del mio volo – tra appena quattro ore – mi guardo intorno. In fondo, vicino ad un pilastro, un Rambo travestito da poliziotto (o è un poliziotto travestito da Rambo?) che trasuda palestra da ogni parte e gesticola con i colleghi. Accanto a me siede una coppia dal vago aspetto texano-australiano con una valigia stracolma di sigarette – hanno rapinato il duty free o sono contrabbandieri?… Smoking is not allowed in the terminal. Una voce maschile irrompe dal nulla e s’impone sul brusio incessante come il verbo di una divinità, mentre scandisce ogni lettera con un accento impeccabile. Poi si dissolve, giusto il tempo per un sobbalzo al cuore.

Davanti a me sfila una donnetta austeramente impettita come un manico di scopa, con una gonna infiorata e una valigia in tinta. Su un sedile più in là colossi americani smisuratamente larghi assaltano cibi improponibili perfino per le bestie di uno zoo.

Smoking is not allowed in the terminal. Ancora il verbo divino.

Sposto lo sguardo da un’altra parte e svelo una di quelle bellezze esotiche, calde, pensose; un fuoco d’Arabia nel mondanissimo Occidente. Alla valigia il talloncino Emirates. Lei appunto quieta, assorta in lettura, con leggera eleganza muove le pagine. I capelli cadono come una cascata di tenebre su un fianco del suo viso reclinato. Le labbra carnose, gli occhi flessuosi, piegati in un’espressione di apparente alterigia. Indossa uno scialle fittamente arabescato. Viaggia da sola? Probabile. Posa il libro sulle ginocchia e si guarda intorno, attenta.

Smoking is not allowed in the terminal.

Due suore, stravolte come dopo un pellegrinaggio sulle ginocchia, sopraggiungono e si indirizzano al bar. Per caso, anch’io sono alla cerca di qualcosa da mettere nello stomaco e ci sediamo al bancone uno di fianco all’altro. Vengono da New Orleans – dicono alla barista (una vera camionista); due suore volanti, insomma. Fanno rifornimento con fish&chips e succhi di frutta – molto americane; io, invece, spilucco un’insalatina annaffiata con nulla (ho dimenticato di comprare l’acqua, e non ho voglia di chiederla alla camionista). Mentre cerco di far scivolare nello stomaco i tronchi di lattuga, torno al mio posto.

La coppia texano-australiana è sparita. Al suo posto arriva un ragazzo con un mazzo di fogli in mano che inizia a leggere con attenzione – e con qualche sbadiglio. Per la serie “affari nostri” getto l’occhio con noncuranza e scopro trattasi di una parte teatrale. Oh, un collega.

Poco dopo, non so come, mi ritrovo a parlare con lui. È molto gentile. Scopro che è di Washington e che la prossima settimana metterà in scena a New York il brano che sta studiando. Credo che chiamino il suo volo, perché inizia a raccogliere le sue cose. Prima di andarsene, scrive sul sacchetto dei panini che ha con sé – in verità assomiglia più al sacchetto del vomito degli aerei – quello che mi spiega essere il nome di un festival di teatro nella capitale statunitense. Se avremo tempo sarà un piacere assistere a qualche spettacolo. Ben gentile.

Mi alzo per fare un giro, mentre il nume dell’aviazione ripete per l’ennesima volta l’undicesimo comandamento: Smoking is not allowed…

Il mondo dall’alto Tra i pochi pregi che riconosco ad un viaggio aereo c’è l’ebbrezza del volo d’uccello, che colpisce soprattutto chi, come me, non è abituato a questo genere di esperienze. Non riesco comunque a capire quei passeggeri che, avendo l’onore di sedere accanto al finestrino, restano imbalsamati per ore intere a dormire o a guardare il film di turno.

Tornando a me, invece, vorrei annotare con particolare cura due dei paesaggi più meravigliosi che ho veduto dagli oblò del baraccone volante su cui mi sono imbarcato per il Nuovo Mondo: la catena alpina e l’isola di Groenlandia.

Le Alpi sono di per sé già affascinanti. Se a questo si aggiunge la luce del primo mattino e la visione “a volo d’uccello”, lo scenario che si mostra agli occhi è incomparabile: le giogaie e i costoni paion limo scagliato e plasmato con maestosa bravura da un fattore irrazionale in figure di ineffabile foggia. L’ovatta delle nuvole si sparge sulle vette e si sfilaccia nelle valli; il latte ghiacciato delle lingue moreniche disegna forme irregolari; i laghi in cui il cielo si mira allo specchio sembrano preziose forme d’agata abbandonate da un mercante distratto.

Seimila chilometri più in là, intontito dal sonno, mi affaccio al vetro. Una vision si svela, fra le nubi, irreale sogno. Una calotta bianca, da cui – relitti – s’alzano stracci di montagne. Da tal eterea quota nessuno dir saprebbe ove vanno morendo colossali le morene e dove ondeggiano le cristalline acque dei laghi, e i glaciali marosi d’Atlantico.

QUADERNO SECONDO

Welcome to the United States Benvenuti negli Stati Uniti – se riuscite ad entrare. Sì, perché il primo esaurimento nervoso che dovete affrontare se non siete cittadini statunitensi – e se avete una coincidenza che parte in un’ora e mezza – è la dogana.

Non entrerò nel merito della questione (confine tra libertà individuali e sicurezza nazionale, la mia abitudine ai trattati di Schengen [viva l’Unione Europea!]); mi basti dire che persino gli Svizzeri sono meno puntigliosi.

È pur vero che nessuno nel mondo odia la Svizzera (ehm, quasi…), mentre la cartina degli Stati Uniti è usata come bersaglio nei poligoni di Al-Qaheda, e che nessuno ha tirato giù il centro finanziario nazionale a Berna con un aereo.

Ad ogni modo, il risultato delle complessità burocratiche è che la dogana statunitense – almeno, quella dell’aeroporto di Chicago – somiglia molto da vicino ad un girone dantesco.

Dopo essere rimasti anchilosati per otto lunghissime ore su un sedile con un metro cubo di spazio e senza la possibilità di muoversi – il vicino ha dormito quasi tutto il tempo – la cosa più piacevole che possa capitare è senz’altro di finire imbottigliati in una folla accodata verso l’ignoto. Fa caldo, e una voce che sembra quella di Schwarzenegger in Terminator emette parole incomprensibili. Lentamente iniziamo a muoverci.

Una famiglia di americani di fianco a me ironizza su Bush e sulle leggi anti-terrorismo. L’affare si complica: da un’altra scala arriva una truppa di indiani (indiani dell’India, intendo). Più in là si affolla un plotone di giapponesi. Ora ci sono proprio tutti.

Un signore pakistano lamenta che è la prima volta a cui assiste ad una calca del genere. Fantastico. Quindici metri e trenta minuti più tardi, nuova sorpresa: i cittadini statunitensi devono prendere la fila di destra (la più scorrevole); tutti gli altri quella di sinistra (praticamente immobile: Bolgia dei Rassegnati, Inferno Canto XXXV).

Più passa il tempo – maggiore il numero di minuti andati in fumo, inesorabilmente più vicina la partenza del mio prossimo aereo – sempre più frequenti le crisi di panico e la sudorazione.

Alla fine la decisione risolutiva. Con una mossa non proprio atletica (stavo per tirare giù il nastro della serpentina) mi defilo dalla torma dei dannati e con noncuranza italica mi infilo in quella dei privilegiati US-Citizens, confondendomi in un gruppo di nipponici capitati lì per sbaglio.

In pochi secondi sono già davanti al banco dei doganieri. Nuovo imprevisto: a sorpresa devo compilare un modulo per richiedere il visto d’ingresso (in Italia la versione ufficiale affermava che era tutto a posto). Ma a scrivere ci si sbriga in fretta, e pochi minuti più tardi (Deo gratias) posso finalmente riabbracciare il mio diletto bagaglio (che scoprirò più tardi essere stato ispezionato dall’Autorità competente).

Sono negli States, infine! Ma che fatica! Ora vai con i mondiali di atletica! Corsa ad ostacoli tra i passeggeri, marcia fino alla stazione del trenino che mi porterà all’altro terminal, maratona dal trenino al nuovo check-in; per concludere, quattrocento piani fino al cancello d’imbarco. Auto-rianimazione conclusiva prima del nuovo decollo.

El Nuevo Mexico (Monsoni e mongolfiere) – Can we have a map of New Mexico? – Absolutely no. This is a top-secret information… – Possiamo avere una mappa del Nuovo Messico? – Assolutamente no. È un’informazione segreta.

Questa la candida risposta dataci da un sorridente nero allampanato che pare uscito da una piantagione di cotone, ritto di dietro al banco dell’ufficio turistico.

Come inizio non c’è male. In effetti, lo Stato del Nuovo Messico non si ostenta chiaramente al visitatore; al contrario nasconde i suoi segreti e i suoi tesori nelle valli e nei canyon, dietro le mesas, sulla cima delle montagne.

Un paese come l’Italia si palesa e si fa vedere; il Nuovo Messico deve essere scoperto, indagato, setacciato palmo a palmo. Gli itinerari battuti dalla maggioranza dei turisti – quasi tutti statunitensi – non possono fornire un’idea sufficientemente completa della regione.

Il meglio è affidarsi alle guide locali; nel mio caso, ai parenti.

Prima di tutto un po’ di storia: nel 1540, il conquistador spagnolo Coronado si avventurò nei territori dell’attuale Nuovo Messico seguendo il corso del Rio Grande, il maggiore fiume della regione. Facente parte prima del dominio spagnolo, poi della Repubblica messicana, il territorio del Nuovo Messico passò agli Stati Uniti entro il 1848. Nel 1912, infine, ne fu deciso lo smembramento e la costituzione dei due stati di Nuovo Messico e Arizona. Da quanto detto, non stupisce che la cultura locale (esclusi gli indiani) sia in continuità con quella messicana. Lo dimostra il fatto che la cucina preveda l’impiego abbondante di peperoncino, rosso e verde.

Come talvolta accade, non sempre la città più importante è anche la capitale. Albuquerque dista almeno cento chilometri dai palazzi governativi della più frugale Santa Fe, e ne ha almeno il decuplo degli abitanti – circa seicentomila. Per quello che mi è possibile dire da turista, è una città che non ha un centro ben localizzato: a poca distanza dalla riva settentrionale del Rio Grande, lungo la famosa Route 66 (di cui si parlerà più avanti), sorge il centro storico (Old Town) – che corrisponde grossomodo al nucleo dell’insediamento spagnolo fondato nel 1706 – e la zona dei musei – tra cui quello di scienze naturali e il Centro culturale ispanico; circa un chilometro più a est, sempre lungo la storica 66, si innalzano i grattacieli del distretto finanziario, gli edifici dell’Università e i locali d’intrattenimento (Downtown).

Per un viaggiatore del Vecchio Mondo i centri urbani americani in generale appaiono smisuratamente estesi. Albuquerque non fa eccezione: da un capo all’altro occupa una superficie che stimo essere circa doppia rispetto ad una città europea con lo stesso numero di abitanti. Il perché è presto detto, dacché ogni famiglia ha la sua casa indipendente con giardino, alberi ornamentali e garage con una o più macchine – che all’occhio d’oltreatlantico appaiono in genere più simili a piccoli pullman (per la serie “il gigantismo americano”…).

La mia guida nei prossimi giorni sarà Marc – che è anche mio cugino. Scopro che la municipalità sta tentando di convincere i residenti a trasferirsi in centro per risolvere i problemi di dispersione urbana. In realtà, mi spiega, molte famiglie con figli desiderano avere maggiore spazio, e disertano gli appartamentini della Downtown.

Ovunque giardini ben curati, cespugli sfoltiti col tagliaunghie, spartitraffico eleganti, immondizia rara; per il momento l’impressione è che gli abitanti godano di un dignitoso benessere, in accordo con il sogno americano. Marc, invece, mi ammonisce che il Nuovo Messico è, secondo le statistiche, lo stato più povero dell’Unione. Presto ne avrò qualche prova. L’automobile privata è praticamente padrona della strada; pochissime le moto, praticamente fantasmi i mezzi pubblici, poco frequentati nonostante gli sforzi dell’amministrazione. Del resto sospetto che attraversare una città così vasta con l’autobus possa essere seriamente debilitante.

Ad ogni incrocio si incontrano fast-food delle più disparate catene; e soprattutto centri commerciali, dozzine di centri commerciali – dalla città mercato che vende anche le case prefabbricate ai magazzini “Tutto per il campeggio” o “La casa degli animali”. Tutto questo ovviamente a scapito dei piccoli negozi, ricorda Marc – e, aggiungo io, di tradizioni contadine come il mercato. Ne ho una prova visitando un cosiddetto mercatino rionale (che, non ho compreso il perché, si trova nel quartiere più ricco di Albuquerque, tra ville faraoniche…): ci sono più banchi nel mercato settimanale del mio paese. L’unica nota di colore un’orchestrina dal vivo che suona musica anni ’70 e ’80.

All’alba non è raro, alzando gli occhi in direzione della città, distinguere le forme affusolate dei balloons – le mongolfiere – che si stagliano nel cielo diafano. E non è un caso che proprio qui, in Ottobre, si tenga un vero e proprio festival di palloni aerostatici, con centinaia di equipaggi provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti e del globo.

Rispetto all’Europa, in questo Paese la Natura è soverchiante rispetto alle opere dell’uomo. Tanto per cominciare chi pensa al Nuovo Messico come ad un deserto si sbaglia, e anche di grosso. A oriente della città di Albuquerque si erge uno dei monti più alti dello Stato: il monte Sandia (che in realtà si chiama Sandia Peak), circa tremila metri, un bastione monumentale che sorveglia il quieto scorrere del Rio Grande. Per salire sulla sua sommità si può imboccare una delle agevoli strade che risalgono lungo il versante est, oppure… imbarcarsi sulla Sandia Tramway (parola che nasconde il più banale “funivia”), la più lunga del mondo.

Comunque vi si ascende, sta il fatto che, una volta in cima, il paesaggio è completamente mutato: temperatura mite, pini ponderosa (che, a detta di qualcuno, profumano di vaniglia o di scotch…), querce, ginepri, spruce ed abeti americani; d’inverno – tanto per dare l’idea – qui è in funzione una stazione sciistica.

Ben altro paesaggio attende il visitatore ignaro appena lasciatisi alle spalle i sobborghi della metropoli. Il territorio del Nuovo Messico si compone di creste montuose medio-basse disposte da nord a sud soprattutto ad occidente del fiume Rio Grande – che costituiscono gli estremi lembi delle Montagne Rocciose –da bassi monti spianati dall’erosione, per lo più di natura vulcanica, da mesas e tavolati isolati. Tutto lo spazio nel mezzo di queste formazioni è costituito da quella che potrei definire come un’immensa pianura, che in realtà si flette spesso in morbide curve.

In questi infiniti spazi le strade rettilinee si perdono all’orizzonte come nella migliore tradizione del Far West. Nulla più di questa visione trasmette il significato di vastità, nulla più di questi interminati spazi, per dirla insieme a Leopardi.

La vegetazione è rada, ma non è ancora – a mio avviso – definibile “desertica”. La flora si compone di bassi cespugli: cholla e fichi d’india, creosoto e piante di yucca.

Alla piccola pianta nel deserto Piccola pianta, e tenerella giaci tu, e ti sollazzi al vento qui nel ventre all’estate bella, qui dove osa il falco ferace.

Se’ piccola, tu, e vezzosa appari; ma sì tiranneggi la piana, erba graziosa, che di te il quieto lezzo io sento.

Piccola pianta, a me davanti tu siedi, siora del deserto, e sull’ampio vasto attorno: a me il tuo dì futuro è certo.

Tu piccola pianta, tu cara, tu beata, nella tua minuzia primeggi la piana assolata.

In luglio, poi, l’apparenza di deserto è del tutto inficiata da un generale verdeggiare della vegetazione. È questo, infatti, insieme al primissimo agosto, il periodo delle piogge, caratterizzato da violenti temporali provenienti dal Golfo del Messico (localmente definiti monsoon) che si abbattono a macchia di leopardo a partire dal primo pomeriggio.

Lo Stato è attraversato nelle due direzioni nord-sud ed est-ovest da due importanti autostrade (interstatali è la definizione corretta): rispettivamente la I-25 – la Panamericana, che corre dal Venezuela al Canada – e la I-40. Parallela a quest’ultima si snoda, per centinaia di chilometri, una strada a due carreggiate apparentemente anonima. Si tratta in realtà della Route 66, una delle principali arterie degli USA prima dell’avvento delle freeways, che collega ancora oggi Chicago e Los Angeles – più di 3200 chilometri, dispiegandosi attraverso ben otto stati dell’Unione. Fatte le dovute ricerche, apprendo che fu resa famosa dal film Furore di John Steinbeck. Per quanto riguarda il tratto nuovo-messicano, la 66 attraversa, come si è già detto, il centro di Albuquerque in senso est-ovest (assumendo la denominazione di Central Avenue).

È opinione oltreatlantica che gli americani siano affetti da manie di gigantismo. Ovviamente i tir – o trucks, come vengono chiamati – non fanno eccezione e anzi ne offrono il più chiaro esempio. Tuttavia, dopo aver realizzato l’entità delle distanze in questa terra, capisco che i trucks sono in realtà perfettamente proporzionati alle caratteristiche del viaggio: viaggi lunghi o lunghissimi (attraversare l’Unione non è una passeggiata) richiedono grandi scorte di carburante e dunque grandi serbatoi; lunghi viaggi necessitano di maggiore comfort e di un posto letto, soprattutto in zone dove i centri abitati sono a decine di chilometri l’uno dall’altro. Da qui il vano-letto della motrice (che a questo punto è più simile ad una roulotte).

Mi ritaglio un po’ di spazio per parlare degli statunitensi (anche detti americani – non capisco poi perché). Siccome nella società occidentale conta molto l’apparenza, inizierò con l’aspetto fisico. Il problema obesità in questo Paese si tocca davvero con mano – invece di chili in eccesso, si dovrebbe parlare di quintali… Del resto il fenomeno non stupisce dopo aver assistito ad una sfilata di very American food: hamburger, bistecche monumentali, patatine, salse e salsette che farebbero strappare i capelli a qualunque nutrizionista. Sul campo delle bevande, insieme alla Coca Cola, l’altro monumento della cucina americana è ovviamente il caffé (ah,‘cquanto è bono, per riprendere una celebre battuta). Il bicchierone da mezzo litro imperversa soprattutto nelle città, anche nelle versioni cappuccino e caffèlatte.

Quanto al carattere, è un dato che gli americani siano molto più pragmatici dei loro antichi progenitori d’oltreoceano e, di conseguenza, molto più spontanei e informali. Molto più frequentemente che altrove è possibile intraprendere una conversazione con perfetti sconosciuti – addirittura fermare le persone per la strada e accarezzare il loro cane senza che queste facciano una piega; e con piacere si apprezza come la spontaneità democratica si converta in una squisita gentilezza che ti fa sentire sempre allo stesso livello del tuo interlocutore. Nella vita quotidiana, insomma, sono banditi i formalismi tanto cari al Vecchio Continente.

Una menzione merita infine il famigerato muro con il Messico, che da parte statunitense si pensa di erigere per sbarrare la strada all’immigrazione clandestina di molte migliaia di poveri e derelitti dal sud. Alcuni tronconi sono già stati innalzati, altri sono in progetto. Inutile dire che una parte di questa barriera transita per il Nuovo Messico. E inutile dire che una riflessione è d’obbligo.

Dopo Berlino, si sperava che le barriere (almeno quelle fisiche) tra i popoli della Terra fossero destinati a cadere, che si trattasse di retaggi di un passato incivile e segregazionista. Ora invece, al principio del XXI secolo, si propone di cementare più di mille chilometri di confine per contrastare quella che io penso sia la giusta “ricerca della felicità” (uso le parole della Dichiarazione d’Indipendenza, anno 1776) di migliaia di uomini e donne che vivono la fame e la miseria nel loro paese. È giusto negare a tanti questo “inalienabile diritto” (ancora la Dichiarazione, secondo capoverso) quando poi si scopre che nell’Unione vivono e lavorano più di quaranta milioni di immigrati irregolari? Orgoglio nativo Un altro problema di questo paese, e dell’Unione in generale – che io ritengo non sia per nulla risolto – è quello del rapporto con gli indiani.

Nel Nuovo Messico vivono gli appartenenti alle tribù Navajo, Apache (solo per ricordare le principali) e i discendenti degli antichi popoli Hohokam, Hopi e Pueblo, questi ultimi presenti sul territorio fin dalla metà del primo millennio dopo Cristo. Prima dell’avvento dell’uomo bianco queste popolazioni si organizzavano in comunità di villaggio definite poi dagli spagnoli pueblos.

Nel 1680 i pueblos si resero protagonisti di una vera e propria rivolta armata contro i dominatori ispanici che furono cacciati dalla regione, salvo poi tornare dodici anni più tardi, con gravi ritorsioni sui nativi.

Ciascun pueblo è retto da un autogoverno tribale e amministra autonomamente le forze di polizia e i servizi educativi. I terreni intorno al villaggio – che a volte coprono estensioni enormi, per decine e decine di ettari – costituiscono la riserva indiana, separata dai terreni statali da discrete – ma evidenti – recinzioni con tanto di filo spinato.

Verrebbe da pensare che il governo si preoccupi di preservare le riserve dagli interessi dei non-appartenenti alla tribù. Ma, da ignorante, mi domando: che interessi si possono avere su decine di chilometri quadrati di territorio quasi desertico? Queste recinzioni inspiegabili mi fanno venire alla mente considerazioni simili a quelle sopradette sul muro con il Messico.

E viene da pensare a una beffa, se si considera che i nativi – che sono i legittimi proprietari di queste terre sconfinate – sono confinati entro un perimetro cintato. L’esistenza non è facile, nelle riserve – se non altro, è un po’ misera. Il volto moderno dei pueblos mostra questa condizione di ristrettezza: case prefabbricate, relitti di veicoli e capanne di lamiera. I discendenti dei valorosi popoli nativi non incarnano, in sincerità, i modelli del passato: l’obesità è dilagante, i fuoristrada mastodontici su cui si muovono anche. I villaggi si mantengono attraverso la produzione di oggetti artigianali da vendere ai turisti – vasellame, monili, stoffe – e…Con il gioco d’azzardo. Sì, perché ogni riserva indiana – nello Stato del Nuovo Messico, almeno – amministra il suo casinò, con il risultato di decine di case da gioco sparse nella regione, in genere lungo le autostrade e le strade di grande comunicazione.

Per la legge, gli indiani sono i soli autorizzati a gestire il gioco d’azzardo. Un’altra beffa ai danni di questa popolazione, mi viene da dire. Una delle attività più indegne di questo mondo, penso; assolutamente immeritevole per un popolo che possiede una così grande dignità. E la dimostra, specialmente nei luoghi in cui il suo spirito sopravvive ancora.

Ácoma è uno di questi.

Ácoma, la “città del cielo”, arroccata su una mesa nel mezzo d’un canyon mangiato dal sole e battuto dal vento. Acoma, la segreta, custode di miti e tradizioni millenarie. Acoma, l’inespugnabile, un ponte tra il dio Sole e la materna terra.

Un popolo giunto da terre lontane conquistò la cima della mesa e pose la prima pietra di questa città misteriosa e ostile. Nel nostro tempo misteriosa non lo è più tanto, ma resta in genere “ostile” al visitatore: le visite sono permesse solo in compagnia della guida locale e solo nei luoghi prefissati; fotografie, filmati e disegni della città o degli abitanti sono strettamente proibiti. Giusta misura per proteggere la privatezza dei nativi – e preservare il loro tesoro dalle speculazioni. Se proprio non volete andarvene senza una foto di questa meraviglia avete due possibilità: passare dal bookshop nel centro culturale alla fine dell’escursione oppure pagare dieci dollari per un permesso fotografico.

Haàku (forse preparare, che allude a luogo predestinato) è il nome originale di questo insediamento, accessibile unicamente tramite una breve ma ripida strada, oppure per un più tradizionale (e pericoloso) passaggio scavato nella parete della mesa.

Le case – di una sobrietà essenziale, costruite con fango e paglia – sono letteralmente edificate una sopra l’altra. Per accedere a quella più in alto si passa dal tetto di quelle antistanti, tramite gigantesche scale di legno, le quali, oltre all’evidente scopo funzionale, nascondono all’occhio ignaro una sottile simbologia (sette gradini, da quel che capisco come le sette tribù originarie), richiamata dalla stessa architettura (le case su livelli di tre, le strade orientate lungo l’asse est-ovest), in un gioco di rimandi che si dipana fino alla cattolicissima missione di San Esteban, costruita ovviamente dagli spagnoli.

Nonostante la metà degli abitanti di Acoma professi il cattolicesimo – a sentire la guida – si tratta in realtà di una commistione del verbo cristiano con le altrettanto antiche tradizioni non scritte degli antenati. Così, ad esempio, le decorazioni interne della chiesa prevedono raffigurazioni del triangolo (anche per gli indiani il 3 ha un valore speciale) e dell’uccello sacro (in inglese thunderbird) accanto ad apostoli ed evangelisti.

E la stessa costruzione è, in controtendenza, rivolta con la facciata ad est, là dove sorge il dio Sole – spiega la guida.

Insomma, non sono bastati quattrocento anni, la cattolicizzazione forzata dei conquistadores prima, né lo sterminio dei pionieri poi per piegare la forza spirituale di questa comunità, e con essa la sua dignità. Certo, non ovunque è andata così, ma qui ad Acoma sembra di leggere una mezza vittoria sull’invasore.

Ad ogni passo si respirano fascino e leggenda. Gli abitanti compaiono sentendoci arrivare per mostrarci i banchetti di vasellame artigiano che dà meritata fama a questo pueblo – alcuni pezzi sono davvero dei piccoli capolavori.

Sul bordo della mesa giacciono colorate latrine di plastica – unica soluzione, in un posto dove non ci sono naturalmente le fogne, ma neppure acqua corrente o energia elettrica.

Questo luogo ha il raro privilegio di essere pienamente connaturato al suo ambiente; si compie cioè una sintesi tra la mesa, il pueblo e la valle circostante. Per riprendere parole usate in un altro contesto, Acoma e il sito in cui sorge non possono essere pensati come distinti. Acoma è la mesa e la mesa è Acoma.

E il paesaggio nasconde un mistero e una leggenda vecchia come le rocce di queste montagne. Si narra che il popolo fondatore di Acoma, alla ricerca delle terra promessa (Haàku, appunto), si stabilì dapprima su un’altura ora nota come Mesa incantata (visibile dal pueblo). Una notte, si scatenò un violento temporale che fece crollare la via d’accesso al villaggio, e coloro che vi si trovavano in quel momento, non potendo più discendere, morirono. I superstiti, allora, decisero di spostarsi nel luogo in cui oggi sorge Haàku (in spagnolo Ácoma), il luogo predestinato.

Meno avvincente ma in ugual modo interessante è il pueblo di Taos. Alle pendici del monte Wheeler (Wheeler Peak), la più alta cima dello Stato, lungo il torrente Red Willow si sviluppò secoli or sono questa comunità.

La storia del nostro popolo e la storia di questo luogo sono una sola storia, recita la locandina. I fuoristrada con cui si muovono gli indiani e le folle di turisti rompono un poco l’incanto, ma il pueblo conserva il suo fascino.

Le abitazioni sono di fango, come ad Acoma. Qui, però, si vanno addensando in due aree ai lati opposti del torrente, costruendo una sorta di condominio, non so se volutamente in corrispondenza dei kiva, le aree rituali strettamente interdette al profano piede degli stranieri. Quando arriviamo, in cima ad entrambi i “condomini” si aggirano inquieti alcuni anziani con la veste tradizionale, che scrutano il cielo minaccioso e la montagna cupa sotto l’assedio delle nuvole, e vanno gridando di tempo in tempo la stessa monotona frase. È una formula propiziatoria? Stiamo assistendo ad un rito religioso o stanno semplicemente comunicando con gli abitanti del villaggio? Scopriamo che sta per avere luogo una danza tradizionale, e in effetti le donne lasciano le loro abitazioni con l’abito lungo della tradizione e si dirigono verso i rispettivi “condomini”.

Un fulmine squarcia l’aria con sorpresa dei presenti. Mi sorge un dubbio: non si tratterà mica di una danza della pioggia? A vedere come si mette il tempo, direi che potrebbe riuscire benissimo. Pura coincidenza o no, cinque minuti dopo i primi dubbi scoppia il diluvio. Per fortuna in quel momento abbiamo già raggiunto la macchina.

In the middle of Nowhere Spazi interminabili, estensioni immensurabili, dimensioni inimmaginabili. Il Nuovo Mondo offre all’occhio europeo – solitamente ostacolato da barriere geologiche o artificiali di ogni genere in un continente piuttosto ridotto – la possibilità di volteggiare senza confini in ogni direzione dello spazio senza incontrare ostacolo. Ne segue un senso di decisa piccolezza e di timoroso spaesamento, che colpisce inaspettatamente anche i locali.

Quattro del pomeriggio. Una leggera pioggia cade sul Nuovo Messico nord-occidentale. Io e Marc ci siamo lasciati il peggio alle spalle (un monsoon da capogiro). Siamo diretti verso il villaggio di Antonito, in Colorado, appena oltre confine, e intanto cerchiamo un luogo dove campeggiare, tempo permettendo.

Mentre la pioggia lentamente scema, alla nostra sinistra la comparsa di una recinzione segnala la presenza di una riserva naturale: è la Carson National Forest. Pochi chilometri più avanti c’è un ingresso. Marc vuole tentare, sperando di trovare un luogo in cui piantare la tenda, e imbocchiamo una strada sconnessa che si inoltra all’interno, sorvegliati dalla modesta altezza del monte San Antonio.

La differenza tra National Park e National Forest, spiega Marc, è che nel secondo caso tutto è lasciato allo stato selvaggio, senza la presenza di rangers. La strada in effetti non è proprio un tapis-roulant, ma si può viaggiare. Attorno a noi il vento spazza incommensurabili distese d’erba, interrotte solo dalle montagne lontane. Seguiamo le indicazioni per una misteriosa Laguna Larga. Ancora qualche chilometro e la strada diventa un percorso ad ostacoli, con fosse tettoniche e valli scavate nel fango. Due casotti isolati, recinzioni per il bestiame, un cavallo dimenticato…E il nulla. Dopo un’ora di gimcana Laguna Larga ancora non si vede.

La strada – o meglio, quello che ne rimane – termina in una boscaglia dove stazionano altri campeggiatori. Sembrerebbe il posto giusto. Ma non piace né a me né a Marc, ciascuno per motivi diversi. A lui non convincono i campeggiatori; io invece percepisco un’inspiegabile ostilità del luogo, una irrazionale contrarietà; soffro un senso d’isolamento.

In effetti, siamo davvero in the middle of nowhere – nel mezzo del nulla, a decine di chilometri dal primo centro abitato. In altre occasioni la cosa mi ha fatto piacere, ma questa volta mi sento vagamente turbato.

Decidiamo di tornare sulla nostra strada. Ci aspetta un’altra ora, prima di rivedere la strada principale. Nel middle of nowhere le distanze sono smisurate. Piccolo errore che ci costerà caro: ad un bivio decidiamo di prendere un’altra strada per uscire dalla National Forest. Peccato che, se la prima si era rivelata di difficile percorrenza, questa è addirittura micidiale, per la presenza di rocce in mezzo alla carreggiata. Impattiamo infatti con tre di queste “macigni”, apparentemente senza danni.

Intorno a noi il vento possente scuote le erbe sul versante del monte San Antonio. Con mia grande soddisfazione finalmente rivedo alcuni trucks che avanzano sulla strada principale. Rinunciamo al campeggio e giungiamo ad Antonito, Colorado, la nostra meta.

Qui una deliziosa scoperta: uno dei macigni di cui sopra ha lacerato quello che credo sia il serbatoio dell’olio. Momento di panico – fra l’altro la macchina è a noleggio. Dopo aver consultato invano in via telefonica alcuni meccanici consigliati da un ambiguo gestore di bed&breakfast, ripariamo nell’unico motel del paese. Qui Marc, telefonando per ricevere assistenza, afferma che “ci troviamo ad Antonito, in the middle of nowhere”. In effetti, il paese conta sì e no trecento abitanti, una chiesetta coloniale, un unico minimarket, due night club abbandonati – e nessun meccanico.

La città più vicina (nonché centro abitato più prossimo) è a venticinque miglia (circa quaranta chilometri). Siamo davvero in the middle of nowhere. Però mi sembra strano che a dirlo sia un americano: dopotutto qui nel West tutto è in the middle of nowhere… Ad ogni modo, l’assistenza fornisce conforto psicologico e materiale. Ad Alamosa (la suddetta città più vicina) hanno quasi certamente una macchina per noi in cambio di quella rotta. Basterà recarsi laggiù domattina. Non resta che rilassarci e goderci la serata, qui nel motel in the middle of nowhere.

Selvaggio Ovest Antonito è il capolinea di una ferrovia a vapore tuttora funzionante per usi turistici, la Cumbres & Toltec Scenic Railroad. Non saremmo mai venuti in questo luogo sperduto se non per sperimentare un viaggio vecchio stile. Perciò al mattino – dopo che Marc si è recato ad Alamosa, ha proceduto al cambio di vettura ed è tornato, emulando le imprese di Schumacher – ci imbarchiamo sui vagoni rosso acceso già affollati di turisti.

Che avventura! Ora so cosa provavano i viaggiatori del lontano West: fumo, sobbalzi e paesaggi spettacolari. Per non parlare dei residui di carbone espulsi dalla macchina che ricadono dappertutto – anche negli occhi. La linea è in tutto e per tutto quella originale; la velocità non supera le quindici miglia orarie (25 km/h) e ci vogliono due ore per percorrere quasi trenta chilometri, ma nell’insieme non c’è nulla di noioso. Semmai è stancante: al ritorno la nostra vettura sembra un vagone-letto (anche Marc ed io siamo finiti fra le braccia di Morfeo).

Il treno si infila in una valle amena, con vedute emozionanti, canyon verticali – e gallerie asfissianti, specie per chi si trova sul carro scoperto.

La stazione intermedia, che reca l’oscuro nome di Osier e in cui tutti i passeggeri devono scendere per rifocillarsi, è ancora una volta in the middle of nowhere (v. Capitolo precedente): oltre al fabbricato e alla mensa non c’è assolutamente nulla d’intorno, salvo erba ed alberi.

Siamo in Colorado, dopotutto. Questo è davvero il selvaggio Ovest che tanto è stato raccontato; e dopo tanti anni selvaggio lo è ancora, disagevole e spettacolare. Credo che salire su questa magnifica carcassa sferragliante mi abbia dato un minimo cenno dell’atmosfera di quei tempi, tra cow-boy, nobildonne ingonnettate, pericolosi fuorilegge e indiani.

L’avventura finisce abbastanza presto. A bordo del nostro nuovo veicolo prendiamo la strada del ritorno per Albuquerque.

Ad un certo punto ascoltiamo la colonna sonora di un film francese lungo un rettilineo che si perde nella steppa americana, verso l’orizzonte di montagne imparruccate dai cumulonembi…Niente di più lontano dalla Francia… Più avanti Marc mi indica un gigantesco arcobaleno che sembra proteggere il monte Wheeler.

Signore e signori, questo è il Nuovo Messico.

QUADERNO TERZO

Pizze e pazzi Washington DC, ore sei della sera. Il mio accompagnatore riceve la telefonata di una vecchia amica che abita in città. Non si vedono da molto tempo e decidono di cogliere l’occasione per una cena. E cosa c’è di meglio per una rimpatriata di una pizza? Ore sette e quarantacinque. Storditi dall’afa imperante – che sghignazza in ogni angolo – raggiungiamo il nostro obiettivo: la Pizzeria Paradiso, un minuscolo locale al primo piano di un palazzuccio ottocentesco. Il luogo è tanto stipato di clienti che chi giunge senza prenotazione è preferibile porti con sé un sacco a pelo.

L’amica del mio accompagnatore è in ritardo (è una donna, dopotutto). Nell’attesa la mia attenzione cade su alcune cornici che adornano la parete all’ingresso. Rifinita in bei colori rosso, nero e arancio che contornano la sagoma di una Margherita, campeggia la dicitura: 2004 WASHINGTONIAN RESTAURANT AWARD. Non serve una laurea in Filologia germanica per capire che si tratta di un riconoscimento culinario. Accanto, un diploma dello stesso formato: 2004 WASHINGTONIAN BEST BARGAIN AWARD. Non ho la più pallida idea di cosa sia un Bargain, ma l’espressione suona prestigiosa e dà dignità al locale. In basso, una sfilza di talloncini arancio carota: ZAGAT RATED 2005, 2006, 2007.

Accidenti! Siamo capitati nel posto giusto; finalmente si mangerà bene.

La vecchia amica finalmente arriva e ci accomodiamo. Passando davanti al bancone dei pizzaioli scopro che non hanno nulla d’europeo – figuriamoci di italiano. Sediamo e, mentre i due si raccontano gli ultimi fatti di vita, do una scorsa al menù. Sconcerto: si può ordinare una pizza da otto pollici oppure una da dodici pollici. Che diavolo significa? Non devo mica comprare un televisore! La pizza da otto pollici ha pressoché le dimensioni di un normale piatto fondo e costa la modica cifra di 9 virgola 95 dollari, vale a dire circa 7 virgola 60 euro, cioè uno sproposito. Rivado con lo sguardo ai riconoscimenti appesi all’ingresso. Pazienza, per una buona pizza sono anche disposto a pagare qualcosa di più.

Ordiniamo la pizza da otto pollici. Nel frattempo l’atrio sembra un centro di prima accoglienza per immigrati.

Finalmente arriva la pizza e… Ho sempre avuto il pensiero che gli Americani (salvo eccezioni) non capiscano nulla di cibo. Ora ne ho la certezza. Ergo, ho anche la prova che un critico culinario americano – per il fatto di esserlo – non sia in grado di svolgere il suo lavoro per incapacità manifesta. Tanto peggio se il cibo in esame è quello italiano, l’Olimpo della gastronomia, l’Eliso dei buongustai; in questo caso il numero di incompetenti moltiplica esponenzialmente. La pizza – se così la vogliamo chiamare – è effettivamente otto pollici, non uno di più non uno di meno. La pasta è poco cotta, e iceberg di pomodoro quasi crudo emergono dal mare di mozzarella fusa. Per essere chiaro: è più buona la pizza preparata dalla mia panettiera piemontese. Il colpo di grazia alla mia sensibilità italica viene inferto dall’amica del mio accompagnatore, che si fa portare la pepiera per guarnire adeguatamente la sua Margherita: orrore! Vorrei avere davanti gli esperti – se così è possibile definirli – del Washingtonian e dello Zagat. Primo, per prenderli a sberle; secondo, per pagare loro un viaggio a Napoli, così magari comprendono la differenza che intercorre tra una pizza e un ammasso-inconsistente-e-insapore-spacciato-per-pizza; terzo, per rinchiuderli in clinica perché è evidente che nessuno sano di mente può rilasciare degli attestati di merito a questa pizzeria.

Sarei tentato di chiedere i danni per tentato omicidio e di trascinare il caso fino alla Corte Suprema, ma non voglio rovinare la serata ai due amiconi.

Mentre usciamo dalla Pizzeria Paradiso il mio sguardo torna alle targhe magniloquenti affisse all’ingresso. Ridacchio divertito pensando a quando scriverò questo capitolo e a quanto sono fortunato a vivere in Italia, l’Eden degli chef, dove anche i pizzaioli egiziani sanno come si prepara una Margherita, eppure non ricevono i diplomi dal Washingtonian.

All’ombra del Campidoglio Nel corso del mio viaggio credo di aver trovato una risposta al dilagante e sviscerale nazionalismo statunitense (al cui confronto impallidiscono persino britannici ed elvetici). Gli emigranti che sbarcavano nel Nuovo Mondo sfuggivano da rispettive patrie in cui soffrivano di fame e di stenti, da cui si sentivano sfruttati e abbandonati. In America hanno trovato un paese che li ha più o meno accolti bene, e ha permesso loro di realizzare pienamente quello che sognavano d’essere. Naturale perciò la gratitudine degli immigrati verso la loro nuova terra, e il conseguente profondo senso patriottico.

Nella capitale dell’Unione, qui nel Distretto della Columbia, il nazionalismo è (ovviamente) di casa in modo particolare. In altre nazioni ai presidenti defunti si dedicano delle semplici targhe di bronzo, oppure statue a grandezza naturale. Qui – stante inoltre il gigantismo americano – si passa direttamente ai templi modello pantheon (vedi il memoriale a Jefferson) e dorico periptero (memoriale a Lincoln), e agli obelischi faraonici (è il caso di dirlo, con i 170 metri di altezza del Monumento a Washington).

Qui, all’ombra del Campidoglio, sono i presidenti i veri eroi nazionali – c’è anche una statua bronzea di cinque metri di Roosevelt accanto alla sua fedele, avveduta e diletta…Cagnolina.

E il regime repubblicano presidenziale trova la sua massima celebrazione proprio qui nei suoi simboli monumentali. Fra questi proprio il Campidoglio, uno degli edifici più famosi al mondo, con la sua cupola bianca lucente visibile a chilometri di distanza.

E Washington, proprio perché capitale federale della più potente democrazia del mondo, è una città che implicitamente ha paura. Lo si vede nelle barricate in cemento che circondano i principali edifici pubblici, negli sbarramenti mobili e nel dispiegamento di forze di polizia. I controlli di sicurezza sono rigorosi e onnipresenti – persino all’ufficio turistico (!) nei pressi della Casa Bianca.

Washington DC è una capitale moderna ed elegante, con un efficiente sistema di trasporti e un’estesa rete della metropolitana (made in Italy, aggiungerei – costruzione Ansaldo Breda). Una città che dimostra il melting pot americano, esteriormente, soprattutto in fatto di costruzioni – che spaziano dallo pseudo-francese XIX secolo al classicismo di nuovo millennio, dall’essenzialismo anglosassone al vetro-acciaio-ismo modernista.

Il clima, soprattutto quello estivo, è quanto di peggio possa capitare – a meno che non sia vostra deliberata intenzione e vostro smodato piacere lessarvi al vapore: poco o per nulla ventilato, torrido, con un’umidità che ti permette di nuotare per le strade. Una delizia, ve l’assicuro… Qui a Washington può capitare, per ottenere il pass di visita al Congresso, di essere ammessi nell’ufficio di uno dei candidati alla Casa Bianca; oppure di mangiare in un locale allietato dalla musica di un cantante nero seduto su un trespolo; incappare nell’ambasciata dell’Unione Europea; trovare una libreria aperta 24 ore su 24; ma anche imbattersi negli “accampati della biblioteca di West End”, cioè i barboni che dormono placidamente all’ingresso della biblioteca di quartiere, intrattenendosi di giorno con interminabili discussioni (fanno le veci di tutti i “colleghi” – e sono tanti – che vagabondano per la città); o nel lustrascarpe della diciannovesima strada. Sì, un lustrascarpe nero a Washington DC, nell’anno 2007.

Philadelphia Express Negli Stati Uniti il trasporto ferroviario non si può dire economico. Facendo due conti, un biglietto costa più del doppio rispetto all’Italia.

Ciononostante, coprirò la distanza Washington-New York su rotaia, con tappa a Filadelfia (o Philadelphia che dir si voglia) per una rapida visita alla città.

Quando entriamo sotto le grandi volte della Union Station di Washington sulla mia faccia si stampa un punto interrogativo. Al posto delle indicazioni dei binari, i cartelli riportano le locazioni di enigmatici gates. Gates? Non avremo sbagliato a scendere dalla metropolitana? Non è che questo è l’aeroporto? I miei dubbi aumentano quando, arrivati in corrispondenza del nostro gate, rivedo il salottino d’attesa uguale e identico a quelli negli aeroporti di Londra e Chicago. Controllo il mio biglietto. L’Amtrak è anche una compagnia aerea? Il peggio deve ancora venire. Quando è il momento, un addetto apre la porta del gate e invita a farsi avanti i passeggeri…Della business class (orrore!). Controllati i biglietti, oltre a ripetere come un pappagallo la nostra destinazione – forse teme che possiamo dimenticarla – ci indica una rampa di scale verso il basso. Mi domando se sotto troverò un Boeing 747 pronto al decollo… Invece il treno esiste davvero. Semplicemente in questo Paese il viaggio aereo è talmente maggioritario che anche gli altri mezzi di trasporto applicano le stesse regole. A riprova di ciò, i sedili sono orientati tutti dalla stessa parte, i finestrini non possono essere aperti, l’aria condizionata è al massimo – sui treni italiani per fortuna è sempre guasta – e soprattutto nella tasca del sedile si può rintracciare un utilissimo opuscolo che illustra la posizione delle uscite e le vie di fuga. Manca solo un’hostess in gonna e tacchi alti che sorridendo agiti le braccia per indicare la posizione delle ritirate. Follie americane.

Partiamo, infine. Dopo un momento di panico – non ricordavo che qui i treni viaggiano sulla destra – inizio a godermi il panorama che scorre sempre più veloce.

Se c’è un motivo per cui amo il treno – e detesto l’aereo – è perché lungo i binari si dipana la vera essenza di un luogo; affiorano impetuose tutte le sue bellezze, ma anche le brutture e le contraddizioni. Impossibile farlo da dodicimila metri sopra il suolo.

Lasciato il fasto repubblicano di Washington DC per i rigogliosi boschi del Maryland, la successiva tappa è Baltimora, annunciata da una serie impressionante di case-tugurio, tutte praticamente uguali. Intonaci scrostati, strade sconnesse e polverose, tetti riparati con fogli di lamiera. Nei piccoli giardini segnati dall’incuria si muove solo qualche nero (me lo aspettavo, a dire la verità). Mentre la ferrovia attraversa questi quartieri-ghetto, l’immondizia abbandonata lungo i binari aumenta notevolmente, arrivando a comprendere intere collezioni di pneumatici sotto le arcate dei ponti. Insieme agli indiani, anche i neri sono una categoria che non se la passa proprio tanto bene, nei ricchissimi Stati Uniti d’America.

La scena si ripete quando il convoglio inizia a rallentare in vista della città di Filadelfia. Qui nuovi sono solamente i complessi industriali lungo la linea, silenti e in degrado.

Tra tutte le città che ho visto nel Nuovo Mondo (quattro), Filadelfia offre il contrasto più stridente tra i grattacieli sfavillanti del centro finanziario e l’eleganza dei quartieri storici, e lo stato di abbandono – o comunque di generale incuria – in cui versa il resto della città. Case fatiscenti, vicoli da favela, strutture arrugginite. Lungi da me affermare che non si tratti di una città dinamica e produttiva e caratteristica; ma l’impressione che comunica al viaggiatore europeo (per lo meno, a me) è di un sotterraneo disagio.

Lasciata la storica città dell’indipendenza nel primo pomeriggio, con un nuovo treno proseguiamo verso la Grande mela nel territorio del Delaware.

Ad un certo punto, stordito dalla sonnolenza, mi immergo in riflessioni filosofiche. Che cosa fanno quelle persone che scivolano davanti ai miei occhi, come gocce d’acqua sul vetro? Staranno guardando il treno che passa? E cosa pensano mentre i vagoni sfilano con un sordo rimbombo? Quel trio di operai accanto ai ruderi di un grande complesso industriale sta forse meditando sul numero di ruspe necessarie per abbattere la struttura; oppure fanno già i piani per il supermercato che vi dovrà sorgere – o forse saranno nuovi capannoni. E quella ragazzina che raccoglie la sua bicicletta lungo la massicciata? Come è arrivata qui? Magari da un buco nella recinzione lungo la via per la quale scorrazza ogni giorno. Potrebbe essere andata a curiosare tra le file di vagoni ricoverati sui fasci, oppure in quel deposito disfatto che s’intravede là dietro. Forse soffre anche lei la calura estiva, oppure sta sorridendo e pensa al tempo di vacanze che ancora le rimane per poter viaggiare sulla sua bicicletta, mostrando la faccia al vento.

Mentre il convoglio attraversa la grigia Newark, scorgo un gruppo di palloncini che volteggia nel cielo, accanto ai grandi palazzi d’uffici. Che fanno là? Forse là in basso c’è un parco giochi, e nel parco giochi un bimbo con la mamma. E il bimbo ha pregato la mamma di comprargli i palloncini colorati da quel venditore vicino l’altalena. Ma quando li ha avuti in mano si è sentito triste, perché stava impedendo ai palloncini di essere felici. Allora ha aperto la mano, e ha reso loro la libertà, e ha riso vedendoli salire rapidamente verso l’azzurro cielo. Forse la mamma non si è arrabbiata.

E lì, in uno degli ultimi piani dei grattacieli di vetro, probabilmente un impiegatuccio ha scorto i palloncini dalla sua scrivania, e ha sospeso il suo lavoro per guardarli fluttuare. Gli avranno portato alla mente il figliuolo che lo attende a casa? Non vedrà l’ora che sia sera, per poterlo stringere teneramente fra le braccia.

Fili invisibili ci uniscono – ce lo ha mostrato Virginia Woolf. Il mondo è una grande rete. E intanto il treno getta un fischio e prosegue la sua corsa, instancabile, irruente.

Cheesecake alla (Grande) mela New York può essere considerata uno dei più fulgidi esempi di città totale o di quella che potrei definire mass-society city, città della società di massa. Non che le città non siano già esempi della società di massa, ma qui il fenomeno si fa notare particolarmente. La chiamo totale perché non la definirei propriamente una metropoli accogliente: è una città che ti incalza, che ti scuote, che ti stordisce con le mille luci delle insegne e dei teatri, che ti spinge ad agire, in qualunque modo.

È una metropoli gigantesca, il cui centro storico si distribuisce su un’area inimmaginabile per qualunque altro centro urbano, e che costringe il visitatore ad uno sfinente tour de force in taxi, in metropolitana o a piedi, sui marciapiedi accalcati.

Eppure New York ha qualcosa che seduce e coinvolge; è, a modo suo, casereccia, amichevole. Le prime cose che balzano agli occhi quando si mette piede a Nuova York sono essenzialmente due: la prima è l’orda di taxi gialli (cabs) nelle strade, che strombazzano e sfrecciano da ogni parte come schegge impazzite; la seconda è la mancanza del 13° piano. Non credevo che ancora nel XXI secolo si potesse essere così superstiziosi, eppure è un dato che nei palazzi newyorkesi – almeno, in quelli che ho visto – scartino dal 12° al 14° piano.

Devo confessare che l’arrivo a New York non è stato motivo di una grande emozione. È stato un po’ come andare a trovare una vecchia amica, in verità, di cui si conoscono già un poco i pregi e i difetti, un’amica già veduta da tempo in fotografia; un’amica, per di più, che ha conosciuto l’Uomo ragno e Superman, Godzilla e King Kong, invasioni aliene e cadute di meteoriti, mutamenti climatici e pazzi terroristi (immaginari o tristemente concreti). Però mi ha fatto piacere andare a trovarla, perché ho veduto realmente cosa significa dire “New York”, e ho provato a respirare il senso di questa megalopoli da diciotto milioni di abitanti che tanto affascina il mondo, e da cui tanto è amata (non per nulla il ricordino più gettonato è una maglietta bianca I love NY).

La verticalità per cui questa città è famosa lascia realmente sbigottito chi provenga da luoghi le cui abitazioni non superano il nono piano, e molti – me compreso – sentono il bisogno di piantarsi in mezzo al marciapiede per restare ciondoloni con la testa rivolta in alto.

Se poi si pone attenzione, ci si accorge che il numero di piani dei grattacieli quasi eguaglia il numero di razze e di culture che qui si incontrano e dialogano, volenti o nolenti, ogni giorno. Arabi, indiani, europei, afro-americani, africani-africani, ispanici, giapponesi,… Anche gastronomicamente parlando, Nuova York è certamente una città cosmopolita – il viaggiatore esigente può scegliere fra un’infinta gamma di possibilità, dagli sfilatini afghani alla carne aromatica dello Zimbabwe. Nei negozi, poi, si fa notare la massiccia presenza di cheesecake: cheesecake alla fragola, ai mirtilli, alle pesche, alle prugne…Insomma, a qualunque cosa. Sembra un’istituzione al pari di Lady Liberty (come i locali chiamano la famosa Statua), degli hot-dog e dei teatri di Broadway. E che delizia! A proposito di teatri: non penso d’essere il primo a dirlo, ma New York è una città che non va mai a dormire. Il mattino è dominio delle orde di impiegati, il pomeriggio feudo delle torme di turisti esauriti dalle visite mattutine, la notte colonia del popolo che si riversa nei teatri, nelle discoteche o nei bar. E quando questi ultimi vanno a nanna è già l’alba.

Una passeggiata serale rivela la psichedelica danza di luci, che piroettano giù dai grattacieli e si addensano soprattutto nei pressi di Times Square, dove folle di stranieri contemplano inebetiti le pubblicità della Coca Cola o degli M&Ms proiettate su maxi-schermi da seicento pollici. Ben più interessanti sono le molteplici pubblicità dei musical che ogni sera, lungo la celeberrima Broadway, richiamano folle di spettatori.

Mi è impossibile figurarmi il morale di questa metropoli nei giorni immediatamente successivi l’11 settembre 2001. Sottozero, sicuramente. Chissà quanti spettri avranno affollato i marciapiedi, con gli sguardi sbigottiti rivolti al vuoto, mentre sfioravano i corrimano ancora coperti di polvere, e calpestavano i fogli un tempo ordinatamente impilati duecento metri più in alto.

Oggi, se non si conoscesse la storia, venendo a Ground Zero si penserebbe ad un altro pezzo di città che cresce. E invero il gigantesco “vuoto” è ora coperto dalle istallazioni del cantiere da cui sorgerà la Freedom Tower, il più alto grattacielo degli Stati Uniti, 1776 piedi di cemento e acciaio. A molti – me compreso – sembra un’inutile sparata, piuttosto che uno scatto d’orgoglio. Il rinnovato futuro che attende questa zona di Manhattan non cancella le perplessità e i dubbi di alcuni sul corso degli avvenimenti quel lontano giorno di settembre. Davanti al cantiere, infatti, un gruppo di volontari distribuisce ai passanti provocatori volantini che pongono scomodi interrogativi (Perché i video sull’attacco al Pentagono non sono mai stati visionati? Perché la BBC e la CNN hanno riportato il crollo delle torri prima che questo avvenisse?…) e invocano nuove indagini.

Un altro mistero della storia consegnato alla posterità, che forse animerà i dibattiti almeno per il prossimo cinquantennio.

Mentre l’aereo si stacca dalla pista rivedo all’orizzonte i grattacieli di Manhattan che sfidano la notte e mi pongo un quesito. New York è tanto amata e celebrata perché è la più grande città del mondo occidentale, perché è una città dinamica e festosa (non dico bella perché non lo è – semmai è intrigante), perché è la capitale finanziaria mondiale? Per tutte queste cose insieme? O perché col suo cosmopolitismo è a suo modo un piccolo ritaglio del mondo, con le sue gioie e le sue frustrazioni? Un’altra questione che il Nuovo Continente mi sussurra all’orecchio, e che si aggiunge alle altre che mi sono posto lungo la strada. Per scioglierle completamente, forse sarebbe utile tornare.



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