Profumi d’africa: madagascar
Come Timbuctu, come Zanzibar, come Mianmar, il fascino di quest’isola parte dal nome scritto sulle targhette delle nostre valigie pronte ad imbarcarsi da Milano per raggiungere un posto che sta aldilà dell’Africa ed dei nostri sogni.
Parti immaginandoti alla scoperta di un’isola ancora incontaminata, selvaggia e affascinante che aspetta solo te per rivelarti i misteri dell’Africa vera e ti ritrovi all’improvviso pigiato come una sardina dentro un vecchio 737 della Madagascar Air strapieno di italiani, tutti diretti verso la stessa destinazione finale: il Venta Club di Nosy Be! L’arrivo a Nosy Be avviene nel cuore della notte, il nostro aereo sorvola una distesa nera di alberi e tocca terra su una striscia di asfalto rubata alla jungla e rischiarata a poco a poco dall’alba che saluta il nostro primo giorno africano.
Il trasferimento dall’aeroporto al villaggio impiega circa 40 minuti durante i quali, dai nostri pulmini iniziamo a scoprire una terra che vive ancora secondo i ritmi della natura: sono le 5 e 30 del mattino e la strada che taglia l‘isola (una delle poche asfaltate) è già affollata di persone che vanno al lavoro, donne che chiacchierano mentre vanno a far spesa o chissà dove, bambini che giocano a rincorrersi, vecchie Renault 4 arrugginite che tossiscono al primo accenno di salita, trattori d’altri tempi con i cassoni affollati da contadini pronti ad una nuova giornata di lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero.
Sprazzi di vita altrui che in un attimo diventano parte di te e, a poco a poco, senti il pulsare del cuore dell’Africa.
Il Venta Club non è molto grande ma ben curato, le camere sono disposte su due ali di un complesso in cemento tipo residence… Peccato, avremmo preferito dei bungalow, sarebbe stato più romantico..
Alle 7 del mattino il sole è già alto e scotta parecchio, il mare sembra lontanissimo dalla spiaggia per effetto delle maree che, come a Zanzibar, ogni 6 ore cambiano, allontanandolo o avvicinandolo alla nostra spiaggia ma questo non è un problema, al massimo bisogna fare una passeggiata di 5 minuti allontanandosi dalla battigia con l’acqua alle caviglie per immergersi tra le onde dell’Oceano Indiano.
All’improvviso ti volti e vedi l’incanto delle due spiagge gemelle che escono dalla jungla di palme e mangrovie puntando verso il largo come una gigantesca punta di freccia.
Gli ombrelloni si distinguono appena, gli altri turisti sono lontani come i pensieri del lavoro, lo sciabordio delle onde copre i rumori della nostra caotica quotidianità ed è allora che assapori il massimo piacere di una vacanza ai confini del mondo.
Qui al Venta si sta bene, la cucina è ottima, c’è sempre qualcosa da fare, ammesso che se ne abbia voglia, ma il desiderio di evadere è tanto e ci mettiamo subito all’opera per organizzare qualche escursione al di fuori dei confini del villaggio.
Per una volta diamo fiducia ai beach boys che in ogni momento della giornata cercano di venderti le loro gite organizzate sfogliandoti sotto il naso un catalogo ormai sgualcito e ingiallito di foto accattivanti.
La scelta non è stata delle più semplici, il Venta ti propone escursioni analoghe al doppio del prezzo chiesto dai beach boys (dai 40 ai 60$ più o meno) ma hai la consapevolezza di essere assistito e coperto da assicurazione. Non dimentichiamoci che non siamo a Londra o Madrid, qui se c’è un’emergenza medica devono portarti in aereo in un ospedale francese che si trova su un’altra isola…
Ognuno faccia le sue considerazioni e scelga secondo coscienza, noi abbiamo voluto dar fiducia a questi ragazzi e devo riconoscere che ci è andata bene. La giornata organizzata con loro è stata molto bella, tutto è filato liscio e siamo ritornati tutti al villaggio arricchiti nell’animo da un’esperienza indimenticabile.
Il tour delle isole che abbiamo scelto, parte dallo sgangherato porto di Hell Ville, la capitale dell’isola, che raggiungiamo via terra in circa 30 minuti di pulmino (o meglio, quello che resta di un pulmino dopo almeno trent’anni di onorato servizio). N.B. Lo stesso giro organizzato dal Venta prevede lo spostamento via mare dal villaggio al porto e ci vogliono almeno 2 ore e mezza.
La giornata è splendida, il sole già alto si rispecchia in un mare liscio come l’olio, sul molo è un via vai di pescatori, vecchi pescherecci arrugginiti aspettano di salpare alla volta dei banchi di gamberetti che stazionano a largo, all’improvviso una vecchia feluca dalla vela ingiallita e rattoppata attraversa le acque del porto con a bordo una ciurma di ragazzini che ci salutano mentre tentiamo tutti di salire sulle nostre barche, carichi di pinne, borsoni e telecamere, possibilmente evitando un clamoroso naufragio alla Titanic.
Pochi minuti di traversata, giocando a rincorrerci e a fotografarci da una barca all’altra, e gettiamo l’ancora sulla spiaggia di Nosy Komba che dista poche miglia dal Hell Ville.
L’isola ospita una comunità di pescatori che, da tempo ormai, ha aperto le sue porte al turista permettendogli di visitare capanne e botteghe artigiane dove vivono e si dedicano alla produzione dell’artigianato locale. Una distesa di tovaglie ricamate sventola fuori dalla case, bambine dal viso dipinto di bianco e oro vendono collanine fatte con i semi delle piante mentre gli uomini intagliano le famose maschere in legno che ognuno di noi ha poi appeso a casa al ritorno del viaggio.
Questa gente non ha nulla, è vestita di stracci e senza scarpe, dorme in posti dove non faremmo dormire neanche il nostro cane eppure i loro visi sono sereni, gli occhi dei bambini sono sempre allegri, vivono di poco ma non ho mai visto uno sguardo di invidia o di disprezzo nei nostri confronti.
La parola d’ordine è contrattare sul prezzo ma non fatevi prendere dalla smania dell’affare a tutti i costi, 5$ risparmiati per una tovaglia che ne costa 20$ non è un’impresa da raccontare agli amici ma per loro vuol dire una settimana di spesa per tutta la famiglia. Non siate venali, non serve a niente e questa gente non se lo merita.
Risaliamo un piccolo stradello polveroso che passa in mezzo alla jungla, un po’ storditi dal gran caldo e da un sibilo acuto, continuo e persistente, che assomiglia tanto al trapano del dentista e si propaga ovunque: sono le cicale, a migliaia penso, che ci accolgono al Maki Park: una sorta di mini zoo dove una piccola colonia di Maki vive in semi libertà.
Il contatto ravvicinato con queste simpatiche scimmiette dalla lunga coda e dal muso affilato ci ha elettrizzato un po’ tutti, basta tenere una banana in mano e ti saltano sulle spalle per prendersi il loro premio! Foto a raffica e scendiamo di nuovo verso il villaggio sulla spiaggia non prima di esserci fermati ad ammirare alcuni camaleonti dai colori più disparati che sono un’altra delle specie caratteristiche del Madagascar.
Riprendiamo il largo carichi di souvenir e ci facciamo portare a Nosy Tanikely dove la spiaggia è bianca e l’acqua limpidissima. Non siamo certo i soli sull’isola, decine di barche sono ormeggiate a riva, e il motivo è che in questo punto c’è la barriera corallina più rigogliosa del nord del Madagascar per cui, infiliate pinne e maschera, ci regaliamo una bella nuotata tra i coralli che circondano l’isola, in compagnia di centinaia di pesci coloratissimi mentre un polipo abbarbicano su di uno scoglio ci osserva sospettoso e una tartaruga marina continua placida la sua nuotata, incurante della nostra presenza.
Come può concludersi una mattinata così avventurosa? Ma naturalmente con la più classica delle mangiate, all’ombra delle mangrovie, gustando le specialità che i beach boys hanno preparato per noi mentre eravamo impegnati a fare snorkeling: spiedini di zebù e barracuda alla brace, frutti esotici a volontà e, immancabile, il brindisi finale a base di rum speziato tipico della zona (ottimo quello allo zenzero ma da provare anche quello aromatizzato alla cannella).
L’esperienza fatta con questi ragazzi non fa che accrescere la voglia di scoprire di più questa terra misteriosa e così, non appena rientrati al Venta organizziamo subito un’altra escursione per l’indomani.
Questa volta il gruppo si è frammentato, alcuni decidono di rilassarsi in spiaggia, altri affittano dei quad per una corsa tra le piantagioni di canna da zucchero fino a raggiungere la vecchia distilleria di rum, io e Ale, in compagnia di alcuni amici, ci facciamo portare da un taxi di nuovo a Hell Ville per fare un giro in città.
A proposito, Hell Ville, per quanto non sia certo un paradiso terrestre, non ha nulla a che vedere con l’inferno, Hell è semplicemente il cognome di un governatore britannico che qui fondò la capitale della colonia inglese del Madagascar e che, con la solita modestia anglosassone, battezzò con il suo nome.
A bordo del taxi assistiamo allo scorrere della strada e della vita a Nosy Be, la musica allegra e tribale di Brenda a esce dalla radio e fa da colonna sonora al nostro viaggio. Il susseguirsi di campi di canna da zucchero ha un fascino ipnotico, la strada, senza segnaletica, è una lingua d’asfalto che passa tra villaggi fatti di bettole fatiscenti e ruscelli dove vediamo gente farsi il bagno e donne intente a fare il bucato. Tutto sembra così naturale pur essendo così paradossalmente diverso dalla nostra vita quotidiana.
Il tassista è un ragazzino che arriva a stento ai pedali ma non corre, non ha fretta, come nessuno da queste parti, per un compenso di 30$ ci porta in città, ci aspetta tutto il pomeriggio e ci riporta indietro quando lo decidiamo noi. Provate a farlo in Italia! Hell Ville non offre particolari attrattive turistiche, il bello consiste nel passeggiare tra le sue strade per capire come vive la gente da queste parti. La città ha il fascino decadente di un’ex colonia, prima inglese e poi francese. Tutto quanto risalente a quegli anni, palazzi, marciapiedi, inferriate è allo sfacelo e attende con pazienza che il tempo finisca la sua opera. Pur tuttavia la città è vitale, le strade sono un brulicare di persone che vanno in ogni direzione, bambini usciti da scuola vestono tutti delle casacche azzurre e riempiono la via con i loro schiamazzi. Qualcuno si ferma a far merenda salendo sugli alberi di mango per mangiare un po’ di frutta senza passare al supermercato. Per le strade c’è puzza di inquinamento, il parco auto risale probabilmente ai tempi di Napoleone ed è curioso che, se ti fermi per 5 minuti sul ciglio del marciapiede qualcuno prontamente si ferma offrendoti un passaggio in cambio di qualche dollaro.
Visitiamo il mercato delle spezie dove, nonostante la buona volontà, non riusciamo a resistere che pochi minuti: l’aria è irrespirabile, un turbinio di odori diversi che vanno dal piccante del curry al dolce del cocco, dallo speziato della cannella al nausenate puzzo della carne macellata. La fuga è immediata! Percorriamo tutto il vialone principale, entrando e uscendo dai numerosi negozi di artigianato locale che espongono tantissimi articoli interessanti, borse di paglia, maschere di legno, quadri naif e l’onnipresente icona del baobab stampata in ogni dove.
Arriviamo al mercato delle tovaglie dove scattiamo una delle foto più belle del nostro viaggio, con Ale che posa tra due ali di tovaglie bianche stese a perdita d’occhio tra lo sguardo divertito delle donne che si occupano della vendita. Il palazzo del governatore è praticamente adiacente al mercato delle tovaglie, si trova su di un promontorio che si affaccia direttamente sul porto visitato il giorno prima. Lì ci fermiamo per l’ultima foto ricordo, seduti ai piedi di due sgangherati cannoni ancora puntati verso il mare che sembrano ricordare gli anni di occupazione militaresca dell’isola e conservano l’ultima aura dell’autorità europea su di un isola che da tempo si è gettata alle spalle il suo passato e che cerca di fare del turismo la sua fonte di ricchezza principale.
Decidiamo di tornare al villaggio quando è già l’imbrunire ma non sono ancora finite le emozioni di questa magica giornata.
Su consiglio del barman del Venta siamo andati tutto il giorno alla ricerca del rum bianco Dzama, il più buono dell’isola, da aromatizzare a casa con la cannella per ritrovare i sapori del Madagascar una volta rientrati in Italia.
Al Venta l’hanno terminato ma i tentativi di reperirlo a Hell Ville sono stati infruttuosi così chiediamo consiglio al nostro tassista di fiducia il quale, dopo un rapido consulto con gli altri tassisti della zona, parte spedito verso il negozio di rum ma, probabilmente a causa del nostro francese ai limiti dell’indecenza, il baby tassista non capisce bene le nostre intenzioni e, sostando ai margini di una piantagione di canna da zucchero in mezzo al nulla ci fa scendere e attraversare un campo coltivato fino ad arrivare ad un casolare dove ci viene proposto di acquistare del rum fatto in casa imbottigliato dentro una vecchia bottiglia d’acqua di plastica. La spacciatrice di rum clandestino ci assicura della sua bontà ma noi preferiamo declinare e, scusandoci per l’irruzione all’ora di cena, ce ne torniamo precipitosamente verso il taxi.
Solo ora il nostro accompagnatore capisce che vogliamo il Dzama originale e ci porta in un bar bettola che ricorda tanto quello della pubblicità dell’Havana Club (ricordate… quella dei peggior bar di Caracas) ma molto in peggio. Anche lì niente rum ma, quando tutto sembra perduto, il ragazzo dietro al bancone ha un’illuminazione e borbotta qualcosa di incomprensibile all’orecchio del tassista.
Noi non capiamo nulla ma lui sembra aver capito tutto e riparte spedito verso la prossima tappa di quella che sta assumendo i connotati di una caccia al tesoro quasi irreale.
Ormai è buio pesto, la strada è praticamente inconfondibile dai campi che la circondano, il traffico è ormai inesistente. Dai finestrini dell’auto assistiamo a scene di vita che non ci saremmo mai aspettati di vedere: all’esterno delle bettole si prepara la cena in calderoni sospesi sui falò che rischiarano questa buia notte africana, l’unico proprietario di una televisione lo ha appoggiato sul davanzale di una finestra e rivolto all’esterno dove almeno una ventina di ragazzini segue il programma seduti a terra.
All’improvviso il taxi svolta verso il nulla, lasciamo la strada asfaltata per prendere un vialetto polveroso con delle buche enormi e, dopo una decina di minuti in cui tentiamo invano di comunicare con l’autista, arriviamo al centro di una bidonville davvero inquietante.
Saremo a non più di 10 km dal nostro villaggio ma la distanza reale tra questi due posti è di almeno 200 anni, siamo gli unici bianchi che si vedono in giro. Il taxi procede a passo d’uomo tra due ali di capanne dalle cui finestre decine di occhi ci osservano quasi increduli nel vedere dei turisti sulla soglia di casa. Un brivido di angoscia ci assale quando realizziamo che nessuno sa che siamo lì e, cosa non da poco, neanche noi sappiamo dove siamo… Il taxi si ferma ai margini dell’unica palazzina di cemento di tutto il villaggio e l’autista ci fa cenno di scendere.
Scambio di occhiate tra di noi e decidiamo di scoprire dove siamo capitati; un senso di liberazione ci prende quando scopriamo di essere dentro un minimarket dove si vende di tutto, dai rullini fotografici ai biscotti, dalle buste del famoso cacao dell’isola alle tanto agognate bottiglie di rum bianco Dzama.
Ma non è finita lì, il gestore del minimarket è un italiano di Viareggio che ci accoglie con un banalissimo “salve ragazzi, che vi serve?” come se fosse il barista della stazione di Milano.
Per un attimo restiamo increduli, incapaci di comprendere l’assoluta irrazionalità di quella scena e poi scoppiamo in una fragorosa risata che riecheggia in quel misero locale divenuto all’improvviso Ambasciata d’Italia. Il gestore ci racconta delle vicende che l’hanno portato a gestire un negozio in mezzo ad un villaggio di baracche immerso nella jungla mentre noi facciamo incetta di rum e cacao anche per gli amici rimasti al Venta e, alla fine, ci scappa anche un bello sconto in nome delle comuni radici italiche secondo quella classica e misteriosa alchimia che ci rende insofferenti e campanilisti a casa nostra e tutti figli di un’unica madre una volta varcati i confini del Bel Paese. Mistero…
Sarà strano forse, ma questa notte buia come la pece, il silenzio dei campi illuminati solo dalle stelle, la strada che scorre appena rischiarata dalla luce tremula dei fari dell’auto, l’odore di ylang ylang che aleggia nell’aria sono tra i ricordi più belli e più vivi della nostra vacanza e ancor oggi, se chiudo gli occhi, riesco a rivivere quelle sensazioni di euforia, complicità e mistero che aleggiavano all’interno del vecchio taxi di ritorno da Hell Ville.
Andateci tutti in Madagascar e tornerete più ricchi di quando siete partiti perché, come di solito dico ai miei amici, un viaggio in Africa non è solo un viaggio nello spazio ma soprattutto un viaggio nel tempo.
Qui solo possiamo riscoprire le nostre origini e, forse, apprezzare di più ciò che abbiamo a casa e che spesso diamo per scontato.
Il mal d’Africa esiste davvero, è quella struggente nostalgia di tramonti infuocati sul mare, del profumo delle orchidee selvatiche, dei sorrisi dei bambini per le strade, dello sciabordio delle onde dell’oceano…
Il mal d’Africa è chiudere gli occhi e desiderare di essere ancora laggiù.
BUON VIAGGIO A TUTTI!! Emiliano e Alessandra