Praga: Magie d’inverno!

Una capitale da sogno, sospesa nel tempo. Coacervo d'arte, storia e leggenda che incanta e richiama i viaggiatori in cerca delle sue tante verità...
Scritto da: Bilbix
praga: magie d'inverno!
Partenza il: 02/01/2010
Ritorno il: 06/01/2010
Viaggiatori: 4
Spesa: 1000 €
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Premessa

Se è vero che ogni viaggio avviene anzitutto interiormente e comincia assai prima di preparare la valigia, come proiezione o anelito dell’anima verso una dimensione tutta da scoprire, o magari già presente in noi stessi, ma da ritrovare nella realtà quale luogo ideale che soddisfi una qualche esigenza, nota o estemporanea che sia; oppur semplicemente risponde ad un moto del cuore che porta al largo per poi avvicinarci vieppiù alle coste del nostro io più recondito; se tutto ciò è fondato, allora debbo ammettere che questo viaggio per Praga è partito davvero da molto lontano. Il desiderio di visitarla è cresciuto nel tempo, alimentato dall’eco degli innumerevoli racconti di genti che l’avevano vissuta, calpestata, respirata ed apprezzata, descrivendola come una chimera; e ciò ha ulteriormente corroborato le già robuste curiosità personali veicolate soprattutto da tv e cinema: mezzi che sempre ne divulgano e decantano l’irripetibile beltà declinandola in mille rivoli di straordinaria suggestione romantica e romanzesca insieme. E dopo oltre dieci anni il sogno si è finalmente avverato, in tempi e modi un po’ impulsivi, un po’ casuali, frutto di felici coincidenze che ne han permesso la realizzazione durante gli ultimi scampoli del dolce clima natalizio, che ancora vestiva la capitale della repubblica ceca all’indomani del capodanno 2010; nel bel mezzo di un gelido inverno.

Praga: Magie d’Inverno

La Karlova, la Nerudova, la Celetnà, la collina di Petřín, Vinohrady e la Torre della Televisione di Žižkov, sono solo alcuni dei magici luoghi che insieme a tanti altri formano uno straordinario agglomerato di storia e fiaba: Praga; una città magnifica quasi uscita da un libro fantastico pensato e scritto dal genio di innumerevoli menti illuminate e sopraffine; tante penne, tutte diverse, tutte meravigliosamente complici della bellezza e del fascino senza tempo di questa incantevole capitale europea, la più ben conservata del vecchio continente, conosciuta anche come la Città d’Oro. Tanta dunque era la voglia di andarci e la brama di conoscerla che, tra il serio ed il faceto, a pochi mesi dal rientro dalla Provenza feci la proposta indecente ai miei consueti compagni d’avventure, che dopo qualche logica titubanza d’ordine economico si sono nuovamente fatti travolgere dal mio medesimo pensiero vagabondo. Ed allor fu stretto il patto. Si decolla verso nuovi orizzonti approfittando del piccolo ponte dell’Epifania; ponte in realtà forzatamente costruito con qualche giorno di ferie, che non poteva esser speso meglio. Partenza il due gennaio, rientro il sei. Circa quattro giorni pieni per visitare un luogo che ne merita perlomeno il doppio, ma la promessa di un ritorno è comunque d’obbligo in un posto come quello. Stavolta ci siamo affidati ad un tour operator locale, la Present Viaggi, per l’organizzazione del volo, un charter A/R diretto da Cagliari, e per la sistemazione. La formula roulette, ci ha inoltre favorito permettendoci di spendere un po’ meno e di alloggiare in un albergo centralissimo situato proprio accanto alla Náměstí Republiky, ovvero la piazza della Repubblica, a due passi dalla Torre delle Polveri, dalla piazza della città vecchia e dalla piazza di san Venceslao. Avevamo, insomma, tutto a portata di mano, tutto ai nostri piedi, intorno a noi e già dentro di noi. L’avventura inizia subito, ossia all’aeroporto di Elmas, intasato di macchine parcheggiate. Sembrava ci fossimo dati appuntamento tutti quanti lì a quell’ora del primo pomeriggio, e proprio non si riusciva a trovare un buco dove lasciare in custodia la vettura per quei quattro giorni; tutto esaurito! Presso l’autosilo multipiano, ultima chance rimasta, ci dicono di pazientare. Dovrebbero arrivare degli aerei e dunque c’è speranza che qualche posto si liberi. Ma per quanto tempo? L’orario incombe minaccioso e di movimento se ne vede zero. Fortuna vuole che dovremmo essere i secondi eletti all’ingresso, solo un’auto infatti ci precede nella fila; ed altrettanto fato fa sì che numerosi passeggeri provenienti da ogni angolo dell’Isola e diretti in quel di Praga (praticamente mezzo aereo!) sopraggiungano là ad aspettare fiduciosi che si compia il miracolo, e che prodigiosamente si moltiplichi per almeno cinque volte, tante quante sono le macchine accodate alla sbarra. Infine, dopo quaranta minuti buoni d’attesa (e meno male che siamo arrivati con largo anticipo!) Sesamo si apre e, uno ad uno, riusciamo a collocarci tutti alla meno peggio, guidati ai nostri lidi dall’addetto di turno che finalmente assume un volto dopo averlo per parecchio tempo immaginato mentre lo si pregava a più riprese via citofono. Problema risolto; alleluja! Voliamo verso nord-est per due ore o poco più lasciando la Sardegna alla volta della Repubblica Ceca. Bella e pungente Praga ci accoglie all’uscita del terminal. Pungente di un freddo penetrante e secco che sulle prime pare addirittura innocuo. Quattro gradi sotto zero ed una ragazza sorridente e genuinamente praghese, sui trent’anni, ci danno il benvenuto, assieme alla prima, immancabile fregatura (minima però) dovuta al cambio monetario. Nonostante ci avessero avvisato di comprare la valuta locale attraverso la guida, oppure in albergo, noi ci fidiamo del botteghino del terminal (comunque buono, ma assai meno dei precedenti), senza peraltro esagerare nella quantità di denaro richiesta: esattamente centoventi euro a testa, che alla fine ci è bastata al centesimo. La corona ceca vale poco rispetto all’euro, così ci riempiono di banconote dal formato pretenzioso ma che in realtà somigliano tanto alla nostra cara e vecchia lira: migliaia di soldi e zeri che tradotti in potere d’acquisto sono poco più che miseria! Ad ogni modo, l’avventura è cominciata e la città ci viene incontro, metro dopo metro, coperta di bianco e ridente, già dalla sua annebbiata periferia la cui visuale, complice il buio, risulta offuscata ed intrigante. La nostra carovana intanto pullula e freme dando sfogo alle prime, tipiche ed irrimediabili ciarle da gita scolastica effettuata su autobus da gran turismo, che ci catturano affabilmente, insieme alla squillante voce di Eva che ci spiega come comportarci e cosa evitare durante le nostre peregrinazioni fai-da-te in centro. La città è accogliente, ci dice, ma altrettanto famosa per i suoi audaci quanto abili borseggiatori che, del tutto inattesi dal popolo dei turisti col naso all’insù, giocano spesso loro dei gran brutti tiri. Mai quindi perdere di vista, o di tatto, una borsetta, o il portafoglio, o qualsiasi cosa di valore si abbia addosso mentre si ammira, ad esempio, il famoso orologio astronomico nella piazza della città vecchia, il quale coi suoi rintocchi fa danzare ogni ora gli apostoli, mentre la morte, rappresentata da uno scheletro dal riso sardonico, suona una campanella attivando l’intero meccanismo, metafora nemmeno tanto velata di una fine che avanza inesorabile ricordandoci che ogni ora passata è un’ora in meno di vita, e i diversi personaggi che rifiutano la cosa facendo segno di no con la testa. Tutto straordinariamente evocativo e particolare, e quindi idoneo a distrarci, a tal punto da perdere di vista noi stessi e le nostre ricchezze prêt-àporter. Prestar dunque molta attenzione. Ma Praga non è solo questo, ci rassicura la guida, e comincia a sciorinare i vari tour che l’agenzia propone alla nostra discrezione e al nostro interesse, prenotabili già dall’arrivo sì da organizzarci al meglio le poche giornate a disposizione. Arriviamo al City Centre di sera. Un piccolo vestibolo munito di belle nicchie a specchio colme di possibili souvenir in esposizione, ci accoglie e ci contiene per una buona mezzora, ovvero il tempo necessario a far sì che la receptionist, insieme ad Eva, procedesse pian pianino a scorrere i nominativi del gruppo nell’interminabile appello che sempre precede la consegna delle chiavi, con contestuale verifica degli abbinamenti già effettuati a monte. Nel frattempo riusciamo ad entrare. Un breve e stretto corridoio conduce all’ascensore, mentre le scale arrivano praticamente alla porta principale. Il ricevimento è posto all’interno, sul lato sinistro, ma si scorge attraverso un’apposita apertura sul muro, temporaneamente ricoperta d’ogni genere di opuscoli illustrativi contenenti le più disparate informazioni sulla città e i suoi svaghi, mentre girato l’angolo si arriva al piccolo bancone che domina la discreta hall, piacevolmente arredata con divanetti e vetrine ben guarnite. Nell’insieme l’ambiente si presenta sobrio, carino ed accogliente. Ci vengono assegnate due camere doppie, come da prenotazione, ma situate su due piani diversi: ampie, luminose, pulite e con un bel bagno; unico appunto il letto che, personalmente, ho trovato un tantino scomodo. Il loro modo di sistemare lenzuola e coperte è infatti alquanto particolare; pareva di avere sopra un sacco a pelo rivoltato e non rimboccato: insomma uno strazio che dovevo sistemare ogni sera a modo mio, per riuscire a prender sonno. Completate queste dovute formalità ci buttiamo immediatamente in strada e ci dirigiamo, cartina alla mano, ma anche un po’ a naso, verso il centro storico (sul quale praticamente già camminavamo) puntando sulla prima piazza a vista, ovvero la piazza della Repubblica. Il primo monumento che ci si presenta dinanzi, quasi di nascosto, all’improvviso tra un passo e l’altro, appena superata la suddetta piazza coi suoi grandi magazzini abbelliti da estrose luminarie e l’immancabile albero natalizio, è la Torre delle Polveri, una delle antiche porte cittadine poi usata come deposito di polvere da sparo, da cui prese il nome. Subito la immortaliamo inaugurando la straordinaria attività dei nostri prodigi digitali da taschino. Poco oltre, la via Celetnà, elegante arteria commerciale ridondante d’ogni genere d’artigianato locale, tra cui gli sfavillanti cristalli di Boemia, ci conduce alla piazza della città vecchia, sulla quale spiccano decisamente le due torri della chiesa del Týn, splendidamente valorizzate dall’illuminazione artificiale. Suggestive ed imponenti, in realtà catturano l’attenzione già prima di giungere alla piazza, sulla quale troneggiano maestose col loro stile gotico dominante, evocativo d’atmosfere noir e dal fascino sorprendente. Ogni curiosità verrà appagata al meglio l’indomani quando la guida ce ne svelerà segreti e dettagli, tra i quali sta il ‘mistero’ della sua facciata, apparentemente inesistente, ma che in realtà è semplicemente occultata alla vista da una serie di edifici dalle belle facciate architettoniche che le sono stati costruiti davanti in epoche successive. Ma intanto un’altra sorpresa accende i nostri occhi di puerile stupore: un immenso albero di natale (il migliore visto finora in vita mia) si stagliava magnifico a giganteggiare nell’ombelico della città, donde emanava una prorompente e meravigliosa fulgidezza. Era circondato da un piccolo villaggio fatto di numerosi chalets in legno che ospitavano i caratteristici mercatini, assai pittoreschi; e non distante stava una sorta di ponticello, dalla cui passerella si poteva ammirarne meglio la grandiosità, nonché avere uno sguardo d’insieme sull’intera piazza in festa. Non un angolo dell’abete era privo di luce, non un singolo ago, si può dire! Lucciole d’ogni foggia e dimensione riempivano i rami dipingendoli d’ogni variante cromatica possibile, e cascate di bagliori scintillanti come stelle cadenti piovevano a tratti da lampadine particolari aventi forma di ghiaccioli, nascoste tra le fronde, che davano un effetto neve straordinario; una portentosa stella bianca e azzurra ne coronava la cima rifinendolo come un gioiello: una vera opera d’arte che ha fatto bella mostra di sé fino alla penultima sera della nostra permanenza. L’indomani mattina, ahinoi!, abbiamo assistito di passaggio al suo definitivo smantellamento; era la vigilia dell’Epifania. Durante quella nostra avanscoperta notturna incontriamo casualmente altre due simpatiche ‘compagne d’aereo’, così decidiamo di cenare assieme in uno dei tanti ristoranti che adornano la piazza della città vecchia, proprio all’ombra del mitico orologio astronomico. La cenetta piuttosto semplice, a base di pollo, insalate e salse varie si consuma piacevolmente in un ambiente dal sapore storico e artistico; una serata allegra e divertente vissuta nel cuore della Mitteleuropa. Dopo aver concluso il primo pasto ceco, forse non propriamente tipico direi, a mo’ di passeggiatina digestiva ci spingiamo un po’ oltre nella nostra perlustrazione alla ricerca di qualche altro simbolo della Città d’Oro, che ci avviluppa di ingenua, autentica bellezza. Ed allora proseguiamo oltre il locale, a scendere verso la Karlova, per percorrerla tutta e perderci nell’intreccio di viuzze che conducono al ponte Carlo sul limite del quale ammiriamo per la prima volta il castello ed il suo quartiere, che si ergono imponenti sul colle oltre la riva del fiume, immersi nel buio di quell’ora ormai tarda. Ripromettendoci numerosi passaggi presso quelle strade nei giorni a seguire, facciamo dietrofront verso l’hotel, per andare incontro alla prima giornata interamente praghese che ci avrebbe aspettato di lì a poche ore. Praga è sinonimo di mille cose e si è sempre prestata a meravigliosa scenografia di tante belle pellicole cinematografiche: da Mission Impossible a Perdiamoci di vista col nostro amatissimo Carlo Verdone. E’ poi una delle capitali europee della musica, qui Mozart diede la prima del suo celeberrimo Don Giovanni; ed è ancora conosciuta e ricordata per la sua sanguinosa primavera e per un suo eroe moderno, uno studente morto nel lontano 19 gennaio del 1969 in nome dei sempre verdi ideali di libertà, e divenuto simbolo della resistenza anti-sovietica: Jan Palach, ricordato da una targa commemorativa posta a ridosso della piazza San Venceslao che in realtà più che una piazza è un grandioso, larghissimo boulevard in cui sfilano palazzi d’epoca, delimitato all’apice dal maestoso edificio che ospita il Museo Nazionale. Al centro del vialone, su un’isola pedonale, sta un antico vagone tranviario dentro il quale è stato ricavato un bar, meta di turisti e curiosi, e presso il quale Eva propone di fare una breve pausa. Immortaliamo l’improbabile monumento e decidiamo però di indirizzarci verso il vicino Cafè austriaco, splendido locale rivestito interamente in legno, con quadri, lampadari e decori dal gusto epocale, dove assaggiamo il caffè viennese assieme ad un dolce. Dio preservi sempre il nostro amato espresso! Non ci sono paragoni. Il tour che abbiamo fatto in giro per la città vecchia in quel primo giorno ci ha portati a scoprire poco alla volta molte sfaccettature della secolare storia praghese, che la guida snocciolava con incredibile padronanza culturale e lessicale durante la lunga maratona, e con dovizia di particolari. Ne cito una fra le tante: lo sviluppo della città sotto Carlo IV. L’odierna città vecchia, o Stare Mesto, è in realtà la zona moderna voluta da Carlo qualche secolo fa per espandere un borgo che acquisiva importanza e popolazione, e necessitava pertanto di nuovi spazi che superassero gli ormai angusti limiti dei vecchi quartieri che si concentravano unicamente a ridosso del castello, in quello che oggi è conosciuto meglio come Quartiere Piccolo o Malá Strana. Ci sono poi gli aneddoti, tra cui la bella storia dell’orologio astronomico dei cui ingranaggi e del loro particolare funzionamento pare fosse a conoscenza solo colui che lo aveva realizzato, un certo Hanuš mastro orologiaio operante nel lontano 1490, reso cieco per ordine dei consiglieri della città di Praga onde evitare che ‘esportasse’ il suo capolavoro anche altrove; ed egli per dispetto a ciò fermò l’orologio e lo riattivò soltanto quando il Consiglio della città lo supplicò di farlo, e come ricompensa ebbe il permesso di continuare a fare il suo mestiere! Storielle quasi leggendarie, dalle tante versioni, che fanno di Praga un luogo ancor più incantato. Con Eva, la nostra bravissima guida e interprete, camminiamo lungo il ponte Carlo ma lo lasciamo poco prima di arrivare all’altra estremità, scendendo da una scaletta attraverso la quale giungiamo all’isoletta di Kampa, dove sta ancora un antico mulino risistemato, vittima anch’esso dell’ultima alluvione che ha riportato tristemente alla ribalta la capitale ceca pochi anni or sono, e che ha colpito questa zona in modo particolare. Le vie che percorriamo ora, carine e ordinate, si presentavano allora allagate ed invase dai detriti fluviali; in alcuni punti è ancora visibile il livello raggiunto dall’acqua. Uno dei ristoranti più rinomati della città, celebre per la buona e tipica cucina locale che serviva, e dove Eva stessa aveva organizzato, come ci raccontò, il suo banchetto di nozze, è andato distrutto, ed ora al suo posto, forse da ciò che ne è rimasto, hanno creato una sorta di pub-birreria. Ripassato il fiume quasi senza accorgercene, dopo pochi passi ci troviamo dinanzi all’ultima tappa dell’escursione guidata di quella mattina: la basilica dedicata a Santa Maria della Vittoria, cui si affianca il convento dei Carmelitani Scalzi che dà anche il nome alla strada su cui si erige, ovvero la Karmelitská, che abbiamo in parte percorso. Ma la chiesa è più nota all’universo mondo per il celebre ospite che ivi dimora ormai da diversi secoli: il Bambin Gesù, una statuetta di cera che pare riproduca fedelmente il volto del Santo Bambino a cui tante famiglie, cristiane e non, sono devote. Si narra ch’Egli fosse apparso ad un monaco, in sogno, sollecitando preghiere. Il religioso decise allora di plasmarne una statua che ne raffigurasse la dolcezza e la bellezza, per rendergli omaggio e condividerla coi suoi fratelli, non riuscendo però mai nell’impresa. Il risultato dei suoi sforzi non corrispondeva mai all’immagine impressa nella sua mente e nel suo cuore. Finché in tarda età, il Bambino gli fece dono di una seconda apparizione, come premio per la sua dedizione totale, onde permettergli di completare finalmente l’opera. Posò per lui finché egli ebbe a concludere il suo piccolo capolavoro, stavolta perfetto, senza nemmeno sapere come le sue mani fossero riuscite a realizzarlo: il viso di cera corrispondeva appieno al Sacro Volto che aveva di fronte. Il ‘monaco-artigiano’, soddisfatto e grato, ma anche molto stanco, depose gli arnesi da lavoro e si riposò tra le braccia di quel Divino Amore che lo accolse così nell’eternità sublime. Altre storie di Praga… . Il Bambinello viene invocato ogniqualvolta ci siano controversie o problematiche legate al focolare domestico, e gli innumerevoli ex-voto che circondano l’ampia nicchia che lo ospita, testimoniano proprio la grande fede dei popoli, nonché l’efficacia dei suoi divini interventi. Il museo dei suoi preziosissimi vestitini è una chicca da non perdere, insieme alla sua storia che ha lontane origini spagnole. Recandosi poi alla toilette è possibile percorrere qualche andito del convento e rendersi conto della fervente attività svolta dai frati, attraverso le foto, i disegni e gli innumerevoli oggetti ricevuti in dono da parrocchie e persone d’ogni nazionalità, esposti alle pareti e lungo i corridoi. All’uscita, Eva termina di darci le ultime delucidazioni e ci saluta sulle scale della piccola basilica, lasciandoci liberi per il resto della giornata. Così, ritornati verso il ponte Carlo, decidiamo di inerpicarci sul campanile della chiesa di san Nicola, poco distante; e da lassù, dopo centinaia di gradini, ammiriamo il panorama della città, ammantata di bianco candore. Una trapunta di neve copriva ogni tetto lasciando intravedere a sprazzi il rosso delle tegole; ed i colori pastello delle facciate apparivano là in mezzo, svaporati dalla nebbiolina che tutto sfumava. Dal cielo bigio si libravano nell’aria algida innumerevoli puntini immacolati in una soave danza dal sapore antico. E Praga si vestiva di poesia: melanconica e a tratti struggente; un luogo sospeso nel tempo, tra cielo e terra, fra passato e presente. Ponti, torri, castelli, guglie, anse del fiume e palazzi barocchi, circondati e quasi cullati dalle colline dattorno, si disegnavano evanescenti oltre la coltre leggera che in parte li celava ai nostri sguardi indiscreti, che dall’alto di quella torre campanaria, fulcro del quartiere piccolo, indugiavano avidi su ogni minimo dettaglio. Ridiscesi tentiamo la visita alla basilica, ma purtroppo la troviamo già chiusa. Non erano neanche le quattro del pomeriggio ma qui l’accesso ai monumenti segue orari piuttosto limitati e rigorosi. Decidiamo allora di rimandare all’indomani, poiché proprio non vogliamo perdercela, e pian pianino ci riavviamo all’hotel ripercorrendo il ponte Carlo, sul quale cerchiamo di ammirare con più calma le numerose statue barocche (per la maggior parte copie degli originali giustamente custoditi nei musei) raffiguranti santi e martiri locali, nonché una bellissima Crocifissione di Cristo. E dico cerchiamo poiché mancava poco che ci aggiungessero ad esse, anche senza piedistallo, mentre, stoicamente, tentavamo di immortalarci in vari punti, bardati come pinguini, a quattro gradi sotto zero o forse più, e per giunta sferzati da un venticello di tramontana pungente come non mai. Obbligatoria una fermata per una cioccolata calda onde riprendere possesso del nostro corpo gelato, già vittima di una lunga attesa sul medesimo ponte, quando qualche ora prima una signora della comitiva, colta da improvvise esigenze fisiologiche, non faceva più ritorno. Jole aveva perso sensibilità alle dita delle mani ed io, a dispetto degli scarponi da trekking e dei calzettoni, avvertivo il freddo penetrarmi nei piedi ed impossessarsi poco alla volta di ogni terminazione nervosa. In hotel doccia e relax in attesa di ritornare all’ombra dell’orologio astronomico, eletto all’unanimità quale punto ufficiale e prediletto di ritrovo del nostro gruppo. Là ci avrebbe aspettato una collega di Eva per condurci al battello sul quale avremmo cenato ammirando in notturna, tra una portata e l’altra, i tanti gioielli della capitale ceca, da una posizione davvero privilegiata: la sua fonte di vita e ricchezza, la sua via commerciale d’eccellenza, nonché perla di bellezza che ne cinge la vita: la Moldava. Quella sera nevicava e perfino i pavimenti stradali risultavano alquanto sdrucciolevoli. Bisognava fare quindi molta attenzione a come camminare e a dove mettere i piedi, specialmente lungo la scalinata che portava all’imbarcadero. La cena in battello, organizzata a buffet, abbondava in assaggi d’ogni sorta: antipasti, insalate, primi e secondi piatti, frutta e dolci stuzzicanti. Ricordo in particolare l’ottima minestra di verdure di cui feci anche il bis. Durante il tragitto suggestive immagini di monumenti illuminati artificialmente ci accompagnano mentre portate e chiacchiere si susseguono allegramente. Ma presto ci accorgiamo che qualcosa non va per il verso giusto. Il battello rallenta, incespica, si ferma; poi riprende a scivolare sull’acqua e nuovamente frena, incede a stento, ed infine si paralizza. La Moldava attraversando Praga presenta alcuni dislivelli facilmente superabili da un ingegnoso sistema di chiuse; è quindi normale aspettare qualche minuto nei corridoi di passaggio, mentre si procede lungo la via fluviale. Tuttavia la nostra imbarcazione va ben oltre il rispetto dei consueti tempi d’attesa; si incaglia tra i muri dell’angusto canale, occupandolo per un intervallo decisamente maggiore del previsto. Le cose comunque si accomodano, la marcia riprende e tutto sembra passato; finché, dopo aver invertito la rotta, il battello perde progressivamente le forze fino a cedere definitivamente le armi; e proprio nel bel mezzo del fiume! Nel frattempo, a bordo, tutto procede normalmente e, nel gaudio generale e distratto, tali avvenimenti, diciamo tecnici, passano inosservati, mentre il sottoscritto, tra il serio ed il faceto, avanza qualche perplessità ai propri commensali, che, increduli, la buttano sul ridere. Fintanto che dal finestrino avvistiamo un’altra imbarcazione, più imponente della nostra, farsi minacciosamente vicina, ed infine appoggiarcisi quasi addosso per l’intera sua lunghezza, quasi volesse effettuare un arrembaggio in pieno stile piratesco. Numerosi volti di turisti come noi, seguivano la manovra con identica perplessità, dalle più alte vetrate. Divertito, ribadisco che presto avremmo dovuto abbandonare la nave per saltare sul signorile scafo che veniva pietosamente a salvarci da possibile naufragio; sembrava quasi un film, fortunatamente comico. Jole sgrana gli occhi, e ancora poco convinta, ride e mi dice di smetterla. Ma quasi contemporaneamente i nostri soccorritori gettano delle corde per tenere ferma la barca ed infine sistemano la passerella che sarebbe servita al nostro trasbordo. Noi ci godiamo l’intera manovra in prima fila. Infine la guida interrompe la trasmissione ed annuncia un guasto al motore che ci costringe a cambiare battello. Schiamazzi, fischi, risate e commenti variegati piovono da ogni bocca. E meno male che avevamo almeno completato la cena! Dunque siamo pregati di prepararci, raccogliere le nostre masserizie e trasferirci a migliori destini. Ci accomodiamo dunque nei nuovi ambienti, chi euforico e chi scocciato, ma col comun denominatore dei pellegrini scampati a sicuro pericolo, e per giunta grondanti di cappotti ed accessori vari, presentandoci sotto una luce sicuramente poco nobile allo sguardo in parte divertito in parte sconcertato degli originari clienti. Logicamente ci tocca occupare i pochi posti rimasti a disposizione, per fortuna sufficienti a contenerci tutti, e ad accontentarci delle file mediane, distanti dalle panoramiche vetrate laterali. Ma del resto, non si poteva pretendere di più. Eccetto, forse, il rimborso della gita, decisamente poco riuscita! L’ingresso della nostra carovana ha segnato irrimediabilmente la fine dell’idillio e della pace per i poveri clienti del battello chic, alquanto diversi dai personaggi un po’ bislacchi che popolavano il nostro carretto, i quali ora erano entrati in una sorta di delirio post-traumatico scatenando una tale confusione da rasentare il delirio. Questi novelli sopravvissuti, non sufficientemente appagati dall’aver invaso giocoforza i territori altrui, improvvisavano presentazioni non richieste accompagnandole ad inverosimili interviste, formavano trenini viventi come fossero al matrimonio del migliore amico e cantavano a squarciagola svariate canzoni della più nobile tradizione regional-popolare italiana (da Romagna mia a Nel blu dipinto di blu, tanto per citarne alcune) imponendola ad un pubblico sempre più allibito e magari non proprio propenso, almeno nelle oriunde intenzioni, a sorbirsi tale ingloriosa, e tipicamente italica, vivacità. Il miracolo vero è stato che non ci abbiano ributtati nel fiume! Per scampare alla probabile lapidazione e godere qualche istante delle delizie moldaviane guadagno la via verso il ponte esterno dove tuttavia risulta pressoché impossibile stare per più di cinque minuti. Nevicava e tirava un vento gelido, proibitivo. Ero il solo, a parte un’altra coppietta di pionieri, ad essersi arrischiato a buscarne una polmonite per scattare almeno qualche foto veloce. Tutto comunque finisce bene e l’avventura è di quelle indimenticabili. Rientrando in hotel adocchiamo un pub a pochi passi dalla piazza della Repubblica e decidiamo di concludere lì la serata. L’ambiente è piuttosto carino, con illuminazione soft tendente al buio totale, ed ancora semideserto. Ci sediamo a un tavolo e consumiamo qualche bibita; tra una chiacchiera e l’altra siamo catturati da un gruppo di giovani del posto che sorseggiano un cocktail da un enorme contenitore di vetro, una sorta di bicchierone posto al centro del tavolo, da cui partivano lunghissime cannucce colorate, una per ogni bocca assetata. Dopo aver ascoltato un po’ di musica e conversato sulle abitudini locali che avevamo sottocchio, veniamo sopraffatti dalla stanchezza e facciamo rotta verso il letto. Incredibile ma anche la nostra prima giornata interamente praghese, vissuta intensamente, volgeva al termine. La mattinata seguente, dopo aver fatto colazione in hotel, chiediamo informazioni su come raggiungere il castello. Ci dicono che il tram sosta proprio a due passi dall’ingresso dell’albergo. Ci procuriamo i biglietti presso l’edicola della piazza e via verso i quartieri alti. Lungo la Mariánské hradby, il bel viale che costeggia i giardini reali, è uno spettacolo continuo di neve e coltri bianche; e in lontananza, la foschia sempre più rarefatta, lentamente cede il posto ad un sole blando assai gradito. Arriviamo a Pražský hrad, la fermata indicataci, dalla quale si accede agilmente al borgo del castello, in ceco: Hradčany. La visuale della città da quassù è davvero fiabesca, avviluppata com’è da nebbie vaporose e sprazzi di luce intermittenti: le sue guglie, il suo biancore, il suo candido torpore: tutto è magico, tutto è sogno. Scendiamo dal tram e ci avviamo lungo la U Prašného Mostu, ovvero la stradetta che conduce al cuore storico della città, dominato dalla cattedrale di san Vito; la Praga più antica sta per schiudercisi innanzi. Ma prima i miei amici, con occhio di lince, avvistano un’insegna della Lavazza a pochi passi da noi, lungo il cammino; e dunque, considerata l’ora mattutina, è tappa obbligata per un caffè decente che, mi dicono, risulta essere proprio buono, all’italiana. Le foto si sprecano lungo la via e sul ponte d’accesso, al termine del quale alcune guardie, serie e dignitose nelle loro pesanti divise, pare ci attendano, immobili, poco fuori i rispettivi gabbiotti; infine arriviamo alla biglietteria. Anche qui è possibile fare un biglietto cumulativo che permette la visita dei cinque siti fondamentali del quartiere suddivisi nelle tre corti interne: il palazzo reale e il museo sulla storia del castello di Praga, la cattedrale di san Vito, la basilica di san Giorgio e il suo monastero, il Vicolo d’Oro e la torre guardiana, denominata anch’essa ‘torre delle polveri’, che ospita tra l’altro un’esposizione di fotografie d’epoca legate alla guerra, uniformi, medaglie e quant’altro. Sul finire del colle si può godere di una bella visuale su quella che fu la vigna di san Venceslao; la zona difatti è magnifica anche perché immersa nel verde. Volendo, poi, si può ridiscendere a piedi verso la Malostranská percorrendo la famosa scalinata panoramica, che noi però non facciamo. La nostra prima tappa è proprio la cattedrale gotica, che domina tra l’altro le tipiche vedute praghesi: un gioiello la cui bellezza è davvero straordinaria. Al suo interno, gli effetti ottici dovuti alla luce che filtra dalle vetrate superiori lungo le alte navate, sono grandiosi, soprattutto sui dipinti dell’altare maggiore. Ed altrettanto degni di nota sono i mosaici che decorano l’originario ingresso principale della chiesa, meglio noto come Porta d’Oro. Anche il museo del palazzo reale è interessante poiché oltre ad esporre numerosi oggetti d’arte e reperti di valenza storica, tra cui antichi cristalli, modelli in scala di alcuni monumenti del borgo, in particolare della cattedrale, e perfino dei sarcofagi in marmo, visitandolo si può ammirare la struttura antica dell’edificio. Bella anche san Giorgio, ma il Vicolo d’Oro è un qualcosa di unico. La stradina, che ospitava i gendarmi al servizio del re, è fatta di casette a due piani, dai colori pastello, assai pittoresche. In una di esse amava rifugiarsi, e vi dimorò persino, Franz Kafka il quale cercava il silenzio e la pace per assecondare meglio le sue tante ispirazioni volte a comporre i celebri scritti che tutti noi oggi conosciamo. Ora in quel luogo c’è una cartolibreria a lui dedicata, ricolma delle sue opere; io ho acquistato la raccolta de Il Medico di Campagna, come souvenir, insieme alla mia immancabile tazza, presa però in un altro negozietto lì vicino. Il primo piano di una buona parte delle variopinte casette è percorso da un lungo corridoio che le unisce e che ospita un museo di uniformi, monete ed armi in uso nell’epoca castellana, alla fine del quale è possibile cimentarsi, con poche corone, al tiro con la balestra. Alla fine del Vicolo si erge la leggendaria torre di Dalibor, dentro la quale stanno le vecchie celle e le camere delle torture, a cui si accede attraverso una stretta gradinata; dall’altro lato vari camminamenti conducono ad una magnifica terrazza da cui sbizzarrirsi in mille peripezie fotografiche: Praga è ai nostri piedi in tutto il suo fulgore, irradiata d’immacolato splendore. Ponti, guglie, chiese, e torri, e palazzi, riempiono la valle, e su su fino al quartiere di Vinohrady e alla Torre della Televisione è un susseguirsi di tesori architettonici e atmosfere suggestive ed evocative. Non per nulla è stata eletta più volte quale location ideale di numerosi film d’epoca, specie di quelli ambientati nella Vienna asburgica, quivi ‘ricostruita’ proprio per la bellezza intonsa del suo centro storico, l’unico a non aver subito gli irreparabili danni delle due guerre mondiali. Le ricchezze che Praga racchiude sono dunque uniche ed irripetibili, tanto da aver meritato l’inclusione nella lista dell’UNESCO in qualità di patrimonio mondiale dell’umanità. Dopo aver consumato le nostre macchine digitali e colmato gli occhi di cotanta meraviglia, ci fermiamo al bar della terrazza per la pausa pranzo e per un po’ di relax. All’uscita dal locale sostiamo qualche minuto presso un casotto in cui sfornavano un dolce tipico, dal nome particolare, che già avevamo adocchiato in Piazza della Città Vecchia tra le baite posticce dei mercatini, ripromettendoci di fermarci di passaggio per assaggiarlo, ma senza averne ancora avuto il tempo. Attraente alla vista ed all’olfatto il Trdelník, ovvero un impasto cotto alla brace su un bastone di legno o acciaio chiamato Trdlo (da cui prende il nome), e poi passato su una polvere di nocciole e zucchero, è in realtà una ricetta pasticcera di origine transilvana, importata in Slovacchia grazie ai capricci di un conte ungherese in pensione il cui cuoco diede origine all’attuale tradizione, perfezionata presso la slovacca città di Skalica, ed in seguito approdata a Praga per addolcire la gola dei turisti tra i quali è oggi diventato assai popolare. L’effetto finale è una sorta di rotolo di pane dolce dalla tradizionale forma cava, più o meno larga, abbastanza gradevole, ma non eccessivamente entusiasmante. Per lo meno per i nostri palati probabilmente già sazi o forse avvezzi ad altro tipo di leccornie. Ce ne siamo divisi uno in tre, giusto per ‘testare il prodotto’ che ha mediamente superato la prova, senza infamia né lode. Il pomeriggio che ci attende è altrettanto denso di incontri, cultura e curiosità. Innanzitutto vogliamo visitare la basilica dedicata alla Madonna di Loreto, col suo bel monastero, sita in una larga piazza della zona del castello, sulla quale troneggia un mastodontico palazzo burocratico che a tutta prima pare un altro edificio reale. Purtroppo la troviamo già chiusa perché è tardi, si fa per dire; e non miglior fortuna ci arride giungendo presso il vicino monastero di Strahov. Dispiaciuti, non ci perdiamo d’animo e decidiamo di ritornare senz’altro a vederle l’indomani. Proseguendo lungo i vetusti muraglioni del convento e spingendoci fin verso lo sbocco di quell’area quasi pedonale, ci affacciamo su una zona più trafficata e, poco prima di tornare indietro, svoltato l’angolo, leggiamo un segnale stradale che propone la scritta Petřín e la direzione verso la vetta del colle. Lasciandoci trasportare dalla curiosità ci avviamo per l’irta stradella alberata, ancor del tutto ignari del fatto che ci avrebbe condotto ad uno dei luoghi più suggestivi e visitati dell’urbe: la collina di Petřín, per l’appunto.

Proseguendo lento pede a ridosso delle alte mura troviamo dapprima uno slargo alla destra del quale si erige un traliccio piuttosto importante; ci domandiamo se sia l’antenna panoramica visitabile ma l’atmosfera deserta ed isolata che lo circonda non ci sprona a raggiungerlo; così, un po’ incerti, tiriamo innanzi. E dopo qualche altro passo ecco che appare sulla sinistra, a breve distanza, luminescente, un nitido e familiare profilo dorato che fa capolino tra gli alberi scarni bucando la notte: una torre Eiffel in miniatura, quella che effettivamente cercavamo, sul bordo della collina, sospesa sopra la città. Il passo si fa più veloce e la stanchezza sembra nuovamente dileguarsi per far posto all’entusiasmo insito in ogni nuova scoperta. Prima però ci concediamo una pausa ludica dal sapore infantile: un dondolo a quattro posti, con struttura in ferro e due panche di legno, l’una di fronte all’altra, ammiccava dal prato ricoperto di neve e ghiaccio, lungo la via d’accesso alla torre. Nonostante il freddo ci trastulliamo divertiti e spensierati per diversi minuti, avviluppati in quel regno fatato e senza tempo; novelli felici fanciulli all’interno di un mondo dal sapore antico in bilico tra realtà e chimera. Poi via, verso la torre, verso la sua sommità. Poche decine di gradini esterni incastonati nella struttura di metallo, e dunque all’aria aperta, permettono la scalata. C’è un primo piano che ospita al suo interno foto ed informazioni sulla torre e la sua storia, e dà già un’idea del panorama che si può godere da questa posizione strategica. Un ulteriore sforzo e si giunge all’apice. Il belvedere è eccezionale, lascia senza fiato, così come il freddo pungente di quella sera di gennaio. Inoltre la torre oscilla, come qualsiasi struttura in ferro di quelle dimensioni che si rispetti; basta poggiarsi su qualche suo pilone, o sulle ringhiere, per gli immancabili clic, per percepirne chiaramente i leggeri movimenti, ancor più sollecitati dal vento. E’ indescrivibile definirne l’effetto su di noi, già ubriachi di gioia e storditi dall’estasi travolgente di questo luogo davvero fuori dal comune, oltre che dai parecchi chilometri macinati fino a quel momento. Sotto la torre un seminterrato ospita le toilettes e, per caso, cercando quelle, scopro anche alcune piccole sale che radunano numerosi oggetti di notevole importanza storica. Leggendo qualche didascalia scopro trattarsi di un piccolo museo dedicato ad un luminare praghese, un uomo di scienza e ricercatore che con la sua attività ha evidentemente dato lustro alla sua terra natia. Molti tra quei cimeli, macchinari ed utensili erano stati da lui inventati, scoperti, o utilizzati a beneficio dell’intera umanità. La discesa dal colle avviene attraverso la funicolare che porta direttamente al centro di Malá Strana, sulla via Újezd, lungo la quale cominciamo a notare svariati ristoranti che propongono menù tipici, mischiati agli onnipresenti locali internazionali ed etnici. L’ora serale ci invita a tavola così come i tanti profumini che si spargono all’intorno. Ci dirigiamo verso il cuore del quartiere piccolo, superiamo la chiesa di san Nicola e saliamo lungo la via Nerudova, una delle strade più belle della città dal punto di vista architettonico, percorrendola per intero fino a riapprodare sul piazzale antistante all’ingresso del palazzo reale. Lungo il cammino veniamo attratti dalle numerose lavagnette poste in prossimità dei tanti punti di ristoro della zona, allo scopo di evidenziare all’occhio del turista o del passante i preziosi consigli di anonimi chefs, sicuramente meritevoli d’attenzione. Ne leggiamo alcune per cominciare a farci un’idea di quella che sarà a breve la nostra lauta cena, e adocchiamo un piatto che unanimemente ci ispira: il goulash. Nel giro di qualche secondo dal ristorante escono due ragazze e, gentilmente, ci invitano ad entrare, facendoci notare i prezzi vantaggiosi dell’offerta serale. Noi sorridiamo ma, ancora non pienamente convinti, decidiamo di passare oltre per valutare qualche altra proposta, prima di prendere una decisione definitiva. Le due tipe cambiano atteggiamento, si fanno scure in volto e tornano indignate nei loro ambienti richiudendosi dietro la porta con un botto e parlottando tra loro concitatamente con incomprensibili proposizioni. Le avevamo offese? Mah! Ci guardiamo basiti; non era certo nostra intenzione, e del resto non avevamo pronunciato una perentoria rinuncia. Più semplicemente volevamo prender tempo e pensarci ancora un po’ su, considerato che era ancora presto e non si aveva alcuna premura. Quindi proseguiamo, e prima di giungere al castello cadiamo vittime della stessa, identica scena, sulla soglia di un altro ristorante, mentre siamo intenti ad indagarne i menù. Decidiamo allora di non sostare più dinanzi alle estrose locandine onde evitare di destare illusioni o peggio, rischiare qualche incidente diplomatico con gli abitanti del luogo. Infine, persuasi che la prima impressione sia sempre la migliore, torniamo sui nostri passi e scegliamo il primo locale. Una sottile ed infida punta di timor reverenziale ci coglie mentre ne varchiamo l’uscio e rivediamo, promettente, l’offerta del piatto del giorno da noi desiderato spiccare ancora netta, là sulla vetrina. Come temuto, il nostro ingresso è tutt’altro che trionfale, e lo dimostra il sorriso forzato dipinto sui volti delle due signorine di poc’anzi, per nulla liete di rivederci e colme solo di un’ostentata quanto dovuta cortesia nei confronti di clienti non più benvenuti, bensì presi di mira dal ‘rifiuto’ precedente: reato di lesa maestà la cui successiva conversione poco aveva attutito l’affronto da esse subìto; affronto che ora ci avrebbero fatto pagare con gli interessi. E difatti, come volevasi dimostrare, in ogni modo possibile ci fecero capire che eravamo assai poco graditi. Lo sdegno, il trattamento di sufficienza che ci riservarono, non si sa bene se davvero per quel motivo oppure perché insito nell’indole di quella gente (ma escludo decisamente la seconda), durarono per tutta la cena, fino alla fine. Più che due cameriere, sembrava avessimo due guardie carcerarie che, se solo avessero potuto, probabilmente i piatti ce li avrebbero tirati addosso belli carichi, invece che servirceli sul tavolo, con fare ben poco delicato, direi. Dev’esser consuetudine dei cechi mangiare in fretta, o forse abitudine dei clienti che si trovano a servire di sbrigarsi in poco tempo. Ma noi italiani, si sa, siamo caciaroni e loquaci, specie davanti al cibo; siamo il popolo che sta a tavola più volentieri che in qualsiasi altro luogo al mondo; ed a tavola ci scambiamo opinioni, ci incontriamo, ci scontriamo, ci confidiamo, ci combiniamo affari, legati al denaro o al cuore, e via discorrendo. Il tutto condito da quintalate di aggettivi, dettagli, pettegolezzi, e chi più ne ha più ne metta: insomma, per dirlo alla Ferilli: Quanto ce piace de chiacchierà! Ma ai cechi evidentemente no, e men che meno alle nostre aguzzine quella sera! Amavano il silenzio, loro; ed ancor più la velocità. E noi che, screanzati!, abbiamo chiesto persino il bis di quel goulash divinamente buono! Perché la cucina, onore al merito, sempre!, era davvero ottima, e su quella siam cascati proprio bene, non pentendoci affatto della scelta, anzi; straordinaria anche nel rapporto qualità/prezzo. Ma quanto al modus operandi del personale coi clienti, beh, le care esercenti (o semplici cameriere che fossero) hanno molto da imparare. Non si faceva in tempo a finire di vuotare il piatto che subito eran pronte a tirartelo via da sotto la forchetta e a chiederti, con fare sbrigativo e un po’ seccato, se gradivi dell’altro. Non trascorreva un solo minuto senza che ci tormentassero come le peggiori delle vespe avvelenate. Passavano e ripassavano col giusto pretesto di servire altri avventori, lanciandoci occhiate torve, o quanto meno oblique, e parlottando tra loro. Ci controllavano al microsecondo e chissà quante ce ne dicevano in quella lingua ostrogota! Durante la degustazione delle pietanze non smettevano di fissarci sprezzanti, come a dire: ‘ma ancora non avete terminato?’ E poi subito a ritirare e portare velocemente il seguito: due tornado scatenati, due anime in pena punte da invisibili tarantole assassine. Ma nonostante non vedessero l’ora di buttarci fuori, noi, da buoni sardi un po’ caparbi, siamo stati gli ultimi ad abbandonare quella nave, sempre più ‘scossa’ dalla loro disperazione. (Due tedeschi arrivati dopo di noi, nel giro di farsi un segno di croce avevano già finito. Fulminei! Ignote le ragioni di tanta fretta; o per loro era normale amministrazione?). A dire il vero, il motivo di cotanto attaccamento a quelle sedie era anche un altro, più personale ed egoistico potremmo dire, o meglio, più legato alla nostra sopravvivenza!: dovevamo riprendere pieno possesso del nostro corpo prima di riaffrontare l’impari lotta col rigore del generale inverno che regnava di fuori, e per il quale nulla pareva sufficiente; non gli scarponi, non i guanti e le sciarpe da chilo, non le calze armate di pura lana vergine e nemmeno le palandrane polari! Il gelo riusciva comunque a farsi strada fino al più intimo avamposto e le ossa ne trasmettevano gli amari risultati al cervello, già in via di ibernazione. (Ci sono delle foto in cui sembriamo sceicchi arabi in permesso premio, tanto siamo intabarrati! Giusto il viso emerge timidamente dalle coltri per il classico sorriso di circostanza che un domani ci potrà assicurare d’esser stati veramente sul posto). Tornando alla bella cena, la scena clou arrivò al dolce. Jole un po’ stanca dalla doppia porzione di carne aveva deciso di riposarsi un attimo prima di assaporare il suo dessert. E dunque non aveva neanche cominciato ad assaggiarlo, presa tra l’altro dalle ciance, che dopo appena pochi minuti una delle due madame Dobermann, spazientita dall’attesa, aveva deciso di punto in bianco di portarglielo via, pensando, probabilmente, che la pausa fosse dovuta ad un mancato gradimento. Ma chi t’ha chiesto niente, dico io? Ed allora si avvicina, con un savoir-faire davvero raro, chiedendole se avesse finito ma già con le mani sul piatto, pronta a sfilarglielo da sotto il naso. Vani i nostri tentativi di spiegare il breve stacco, accolti da un’espressione cupa ed incredula, oltre che visibilmente stizzita. La povera Jole ha dovuto quasi contenderle il piatto agganciandolo con le mani, per salvarlo tenacemente dalle sue grinfie; a momenti lo perdeva. Mah! Scene assurde degne del miglior film comico, a conclusione di una cena che per il resto è stata veramente ottima. Dopotutto anche questi episodi fanno parte del… folclore locale, e paese che vai… ‘stranezze’ che trovi. Già, stranezze, visto che in questo caso non si può certo parlare di usanze, in quanto, grazie al cielo, non tutti i cechi sono così rudi. Il ponte Carlo ci ha riabbracciato lungo la via del ritorno verso l’hotel, facendosi nuovamente immortalare, come un divo, sotto una luce ancora diversa. Il giorno appresso avevamo un nuovo appuntamento con Eva per la visita guidata della zona ebraica. Com’ella stessa ci aveva spiegato all’arrivo, mentre ci forniva le varie informazioni sul nostro soggiorno in città, questo tour, proposto dall’agenzia insieme ad altri, era stato cancellato per via del poco interesse che aveva suscitato nei gruppi di turisti che ci avevano preceduto, i quali avevano evidentemente preferito fare o vedere altro. Noi, compatti, l’abbiamo fatto ripristinare coinvolgendo parecchie altre persone del nostro volo, onde raggiungere quel minimo di partecipanti richiesto per poterlo svolgere. E nessuno se n’è pentito. Il giro costava venticinque euro a testa e comprendeva la visita di tre sinagoghe e del cimitero, tutti situati nella parte della città vecchia che prima ospitava il labirintico ghetto, poi soppiantato da architetture più moderne. Abbiamo così trascorso la mattinata immersi in quella parte di passato recente, e ben poco glorioso, della città. Praga vantava una grande comunità ebraica testimoniata dalle tante sinagoghe rimaste attive al suo interno, oggi per la più parte amministrate, dopo alterne vicissitudini, da un’organizzazione non statale facente capo al museo ebraico, uno dei più importanti e ricchi d’Europa. Anche gli ebrei della comunità praghese, come quelli dell’intero continente europeo, ai tempi della seconda guerra mondiale avevano subito l’olocausto. La sinagoga Pinkas ne dà cruda testimonianza riportando sulle sue pareti i nomi e le date di nascita e morte di ben ottantamila perseguitati. Sgomenta vedere i muri tappezzati di nominativi e date scritti in rosso, beige e nero, quasi fosse una particolarissima carta da parati. La stessa sinagoga espone poi nelle sale superiori molti disegni e lettere, prevalentemente di bambini, anime innocenti che sfogavano così le loro angosce in quel periodo, a perenne memoria di un tempo atroce che si spera non si ripeta mai più. Scioccante! Straordinaria invece la semplicità della sinagoga Josefov (nome dato anche all’intero quartiere ebraico in omaggio al re Giuseppe II che ne migliorò le condizioni di vita), nella quale tra l’altro si possono ammirare numerosi oggetti, tra cui abiti e libri sacri, utilizzati dagli ebrei per le loro cerimonie, specie per quelle più significative come i matrimoni o i funerali. Ricordo in particolare la Sefer Torah, ovvero una grossa pergamena contenente le Sacre Scritture, ed esattamente i primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco) avvolta in dei ‘mattarelli dorati’ (mi si passi il termine) utili a srotolarla con cura per la lettura ed a riporla nei dovuti modi; e la lunga asta che finisce con una manina col dito indice puntato, chiamata Jad, che serve a tenere il segno durante la lettura di tali testi, poiché è vietato toccarli a mani nude ma al contempo è proibitivo, o quanto meno arduo, seguirli solo con gli occhi, vista la densità delle righe nelle pagine e la particolarità dei caratteri utilizzati. Eva spiegava tutto mirabilmente, con dovizia di particolari ed un evidente trasporto emotivo dovuto sicuramente alla sua naturale passione per quel tema, che a suo tempo l’aveva spinta a scriverci sopra la tesi di laurea, ma anche al fatto non secondario che il marito appartiene a quella religione. La sua preparazione ridonda di numerosissimi dettagli che snocciola con stupefacente padronanza. Molto interessante e suggestiva la visita al cimitero ebraico: le lapidi di diverse dimensioni sembravano poggiate appena nella terra e stavano un po’ diritte e un po’ distorte, in parte ricoperte di neve, a dimostrare il lento, inesorabile scorrere del tempo materiale. Regnava una quiete sospesa mentre, assorti, facevamo il giro tutt’attorno ad esse, e poi passavamo nel mezzo, attraversando un sentiero reso in parte viscido dall’umidità, e notando così più da vicino certi particolari che Eva sottolineava laddove avessero una loro specifica ragione o significatività. Per esempio la presenza di qualche simbolo evocativo, o le differenziazioni tra le steli dovuta all’importanza del personaggio che vi è sepolto sotto: un semplice fedele piuttosto che un rabbino. Ed ancora il rito dei sassolini posati su di esse quali omaggi portati da familiari o amici dei defunti venuti in visita; praticamente il ‘correlativo’ dei nostri fiori. Differenze a parte, le tombe nel loro insieme sono davvero essenziali se paragonate al fasto di certe nostre cappelle funerarie. Bellissime le decorazioni della sinagoga spagnola, l’ultima che visitiamo in ordine cronologico e sicuramente la più appariscente. Eva ci saluta e noi ci avviamo ad un ristorante viciniori per consumare un pasto frugale ma nutriente. Il locale è carino ed accogliente, rivestito in legno e con tanti quadri alle pareti. L’atmosfera che si respira è un po’ retrò, sa di romanzo dei primi del novecento. E, dulcis in fundo, scopriamo che il posto è anche una rinomata enoteca dove si conservano e si vendono numerose bottiglie di vino pregiato. Fruendo delle toilettes situate al piano di sotto ci è stato possibile visitarne i diversi ambienti legati al tema del vino, ma non solo: bottiglie, calici, quadri, ritratti; tanti oggetti intrisi di storia, di letteratura e magari di leggenda. Nel pomeriggio ci dirigiamo di fretta alla chiesa di San Nicola per ammirarne la barocca opulenza che grida da ogni angolo dell’edificio. Gli interni sono qualcosa di preziosissimo e straordinario: marmi rosa, un pulpito decoratissimo colmo di angioletti dorati e abbellimenti vari. E’ permesso salire quasi al livello della volta per apprezzare quel tripudio di meravigliosi ornamenti anche dall’alto. Risalita la Nerudova, siamo di nuovo al castello per procedere alla visita della basilica di Loreto, finalmente aperta, che giriamo in lungo e in largo. Anche qui si trova ricostruita la casa di Maria di Nazareth; c’è un bel chiostro ed un museo ricco di oggetti sacri, tra cui ostensori di inenarrabile bellezza e preziosità: da rimanere a bocca aperta. All’uscita ci attende una sorpresa: una processione in costume che, alla vigilia della festa dell’Epifania, ricorda la venuta dei Magi ad adorare il Bambinello e ad omaggiarlo coi tre famosi doni. Così, investiti da un inaspettato folclore locale, ci posizioniamo vicini alle transenne e ci gustiamo l’arrivo dei Re orientali, riccamente adorni secondo l’uso di tempi lontani, e trasportati da autentici cammelli bardati a festa. Attorno a loro una gran folla di popolani, in abiti d’epoca, scendevano allegramente verso un palco posto in fondo allo slargo, di fronte al convento, e trasformato per l’occasione nella santa capanna di Betlemme, dove la Sacra Famiglia stava, in devoto raccoglimento. Passata la ‘sfilata’ proseguiamo la nostra inarrestabile marcia alla scoperta di alcuni degli altri tesori di quell’immenso scrigno rivelato che è Praga: una città che non avrebbe finito di stupirci; nemmeno in quel lungo ed ultimo pomeriggio. Primo fra tutti il monastero di Strahov con le sue due straordinarie ed antiche biblioteche. Purtroppo troviamo la più importante completamente smontata a causa dei lavori di ristrutturazione, e dunque con ponteggi, scansie e tavole appoggiate ovunque e libri a zonzo per i corridoi od esuli in altri lidi; fatto che ci lascia l’amaro in bocca. Possiamo invece ammirare l’altra, più contenuta, ma solo dal di fuori, affacciandoci appena oltre la cordicella che ne delimita l’ingresso; e questa non delude le aspettative. Ad una mia curiosità circa la fruibilità di un tale patrimonio, l’addetta ci spiega che i libri non si possono visionare se non dietro apposita autorizzazione giustificata da un qualche palese motivo di studio. Chiunque può però ‘sfogliarli’ via internet, collegandosi e navigando nell’apposito sito. Anche la chiesa del monastero è bella ma la possiamo vedere solo esternamente, poiché è tardi e la troviamo già chiusa. All’uscita dalla biblioteca chiediamo lumi su come arrivare alla cosiddetta Casa Danzante, ovvero un edificio dalla particolarissima architettura che nell’immaginario del suo creatore doveva richiamare una coppia di ballerini, poi identificata in Ginger e Fred, altro nome col quale la struttura è stata battezzata. Un tram ci conduce a destinazione dopo una decina di minuti, utili a riprendere fiato. Scendiamo però una fermata prima del dovuto, piccolo errore che in cambio ci concede di ammirare da vicino l’imponente edificio del Teatro Centrale, già visto in lontananza dal battello e dal ponte, e che spicca nello skyline praghese per la sua straordinaria cupola: alta, di forma più o meno rettangolare ma leggermente arrotondata nei bordi, e sormontata da una corona dorata. La Casa Danzante ci impressiona in positivo e nella notte, illuminata e bizzarra, la immortaliamo più e più volte per avere la certezza di non sbagliare il colpo: scatti forsennati alla ricerca di quello perfetto che meglio possa cogliere l’essenza del soggetto abnorme che avevamo davanti e che spesso trovavamo lungo strada, riprodotto in miriadi di cartoline e gadgets della città. Un palazzo dalla stranissima architettura: due strutture appoggiate l’una all’altra come sul punto di cadere, la prima, tondeggiante e sinuosa, quasi inchinata sulla seconda, proprio come una dama che s’affida al suo cavaliere durante un’allegra danza, o un ballo di società. Non saremmo certo potuti tornare l’indomani a riprenderla! Rientriamo lemme lemme verso l’hotel attraversando un’arteria che ci riporta verso la piazza san Venceslao e da qui, proseguendo per la via commerciale Na Příkopě risaliamo verso la Torre delle Polveri, quasi a casa, nella zona che ormai è diventata nostra, ci è entrata dentro, nella mente, nell’anima, nel cuore. L’ora tarda non ci concede l’agognata pausa che ci eravamo prefissati, così, all’unanimità, decidiamo di avviarci direttamente all’ultima meta in programma, dove avremmo anche consumato romanticamente il nostro ultimo pasto praghese, in attesa di un prossimo ritorno in una nuova e più mite stagione di gioia. Poche persone del nostro gruppo si sono avventurate al di fuori del perimetro centrale della città, la cosiddetta zona uno; noi siamo stati tra quelli e devo dire che ne è valsa davvero la pena. La Torre della Televisione sta in Praga quattro, a Žižkov, poco oltre la collina di Vinohrady, (che tradotto significa vigneti, la coltura che un tempo caratterizzava l’area e che in seguito ha ceduto il posto all’odierno quartiere residenziale, assai elegante e senz’altro meritevole di una passeggiata), apparentemente distante dal centro ma in realtà a sole sei fermate di tram dalla piazza della Repubblica, e quindi dal nostro hotel. Con un’ulteriore decina di minuti di cammino, si arriva alla sua base, dove si trova la biglietteria, il banco informazioni ricco di opuscoli e gli ascensori per l’accesso. Costo dell’ingresso: centocinquanta corone ceche ad personam. La torre è in realtà formata da tre altissimi cilindri di cemento, uno dei quali sormontato dall’antenna delle telecomunicazioni, in mezzo ai quali stanno, come incastonate, a diversa altezza, le cabine che ospitano gli ambienti visitabili. Ad una più attenta osservazione si possono poi notare alcuni monelli che tentano l’arrampicata alla vetta, in realtà statue di bimbi che decorano simpaticamente i piloni della struttura stessa rendendola quasi più leggiadra. Davvero eccezionale il colpo d’occhio notturno sulla Città d’Oro; rapisce i sensi, guidati a ritrovare i simboli ormai noti attraverso le specifiche mappe messe a disposizione dei visitatori in apposite teche larghe quasi quanto le meraviglie che si possono abbracciare con lo sguardo, a ben novantatré metri da terra. Dinanzi a siffatto miraggio non vogliamo più scendere, ed allora decidiamo di godercelo fino all’ultimo minuto approfittando del ristorante ubicato appena trenta metri più in basso, nella cabina che ospita anche il bar, lounge. I due ambienti stanno sospesi sulla città e la dominano da due diversi versanti; sono entrambi raffinati ed accoglienti, e sapientemente valorizzati da un’illuminazione morbida ed efficace. La cena ci sorprende piacevolmente; è una cena di classe, garbata, gustosa, e per di più servita con eleganza da una sommelier d’eccezione, particolarmente carina e gentile. Consumiamo così fino all’ultima corona che ci è rimasta in tasca. Indescrivibili le emozioni ed il benessere provati a quelle altezze, sospesi tra cielo e terra, tra l’aurea città che brillava sotto di noi ed il firmamento stellato che luccicava sopra, avvolti in un mondo fatato, quasi irreale. Il pensiero dell’indomani era lontano, a tratti ci sfiorava e poi svaniva di nuovo nei baluginii di quella notte fiabesca; era come un leggero ronzio, un petulante, fastidioso ed invisibile insetto che in sordina punzecchiava per ricordarci l’imminente rientro alla quotidianità. Ma la serata era ancora là, tutta nostra, e ce la siamo goduta fino in fondo. Arrivederci Praga!, luogo di sogno e di leggende, gemma fuori dal tempo e tuttavia proiettata verso un futuro radioso più che meritato. A rivederci presto!; magari in una fresca e rinnovata primavera, vestita di verde, ammantata d’azzurro e di sole, lontana dalle agonie del passato, ed unicamente colma dell’impareggiabile incanto che tu sola possiedi ed elargisci a piene mani, generosa e suadente, e trapunta d’una grazia infinita.



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