Polinesia francese e isola di pasqua
Il progetto Polinesia nasce circa 40 anni fa. Una biografia di Gauguin letta a 20 anni e poi alimentata ed arricchita da altre letture e incorniciata da mostre sul pittore della luce.
Il progetto Isola di Pasqua prende il via più o meno nello stesso periodo con la lettura di Aku Aku di Thor Heyerdall.
Erano due progetti accomunati dalla coincidenza delle date di nascita e dalla relativa comunanza geografica. Diversi erano i significati profondi: Polinesia solare, lieve, gioiosa. (la maison a jouir) Pasqua, tenebrosa, solitaria, misteriosa.
Il progetto globale sta in un cassetto e custodito gelosamente fra le mie utopie; l’avevo definito il “mio ultimo grande viaggio”. Questo sogno mi è servito come favola per far prendere sonno ai bambini e ad alimentare le mie fughe fantastiche.
Negli anni ho arricchito le conoscenza dei posti leggendo libri di scienza geografica e di viaggi reali e nel contempo ho distrutto l’oggettività del percorso culturale alimentandomi anche di leggende oscillanti tra lo scomparso Mu ed extraterresti.
Questa premessa è, come dicono i mie figli una pizza. La reputo necessaria per comprendere i filtri involontari che colorano la luce del mio viaggiare.
8 agosto 2005, Torino, Francoforte, New York, Papetee. Io dormo sempre in aereo e anche questa volta, dopo aver attraversato, imbambolato, i vari scali mi sveglio avvolto dal profumo di tiarè. Tahiti è veramente l’isola dei profumi, le collane di fiori freschi, simbolo di benvenuto esistono veramente. Credo che a Papetee abbiano circondato l’aeroporto di muri parziali solamente perché si usa, l’aria libera entra da ogni parte e porta con se anticipi di profumi e di tepore descritti mille volte senza averli mai sperimentati. Infilo le mani in tasca e prendo una sigaretta e l’accendo, la sigaretta mi da lucidità ed incomincio a mettere a fuoco il luogo, le persone, i gendarmi con il kepì, e le vahines che, avvolte nei loro fiorati vestiti, attendono che i turisti per donare loro una collana di tiarè e di stivarli in pulmini avviandoli ai loro rispettivi hotel. Io e Mariagrazia (si c’è anche mia moglie che ha subito e sopportato le mie fantasticherie per moltissimi anni) veniamo indirizzati e portati al Beachcomber Hotel, ottima struttura senza pecche e defallances, lo avremmo utilizzato ancora verso la fine del viaggio tornando dall’Isola di Pasqua.
Nella hall dell’hotel impiegate iper efficienti smistano i turisti, il profilo di Moorea si staglia dentato al di là della laguna di Tahiti. Da quella sera vedrò solo donne e fanciulle con tiarè dietro l’orecchio e le più ardite con ibiscus carnosi all’orecchio sinistro se impegnate sentimentalmente o all’orecchio destro se single. Il bungalow è ottimo, il fuso tra Torino e Papetee è di dodici ore per cui non faccio che dirmi giorno=notte e mi addormento con il desiderio del mattino per vedere la luce, la luce di Gauguin. Dormo in fretta. Alle sei del mattino mi sveglio e la notte non è più notte anche se non è ancora alba. Abluzioni con occhio alla finestra. Le palme passano dal nero al verde e poi con l’aurora prendono nuances dorate, si la luce è quella, anche i cani prenderanno successivamente i colori di Gauguin. Alle sette e trenta colazione, i tavoli sono all’aperto e la luce non mi da delusioni, è quella che cercavo. Camerieri con gli occhi da cerbiatto servono la colazione dondolando i fianchi come delle vahines. La solita abbondante che mi concedo solo nelle vacanze e poi, attrezzati sulla sabbia bianca a rilassarci al sole australe. L’hotel ha, al suo interno, una laguna artificiale e lì facciamo conoscenza con i pesci tropicali che incontreremo poi nel nostro snorkeling.
Primo bagno, una razza ci passa tra i piedi e altri pesci colorati ci confondono. L’orizzonte è da cartolina, quasi di cattivo gusto tanto l’azzurro è azzurro e tanto è trasparente l’acqua.
Ci fermiamo al Beachcomber tre giorni, facciamo il tour dell’isola e poltriamo su delle morbide chaises longues per il resto del tempo, Mariagrazia viene colta dal morbo della perla nera, malattia che guarirà solo con il viaggio di ritorno.
Un ATR 42 ci porterà al terzo giorno a Bora Bora, ovviamente all’hotel Bora Bora. Qui i colori sono vari, meravigliosi, luminosi, la sensazione di essere in una cartolina eccessivamente colorata non ci abbandonerà per tutta la nostra permanenza in Polinesia.
A Bora Bora l’hotel è splendido e confortevole e aggiungerei anche gentile. Dai pareo in omaggio ai piccoli pasticcini che comparivano ogni giorno in camera ad un giro in canoa con bilanciere per laguna hanno dato un’impronta di classe al nostro soggiorno, ringraziamo Livio gestore italiano dell’hotel. A Bora Bora resteremo per otto giorni. Giro dell’isola in fuori strada con una settantenne austriaca che urlava al pazzo chauffeur “go Rambo go”.
Bagni, snorkeling, ottimo cibo ci confortano nella nostra quotidianità, sull’isola come sulle altre non c’e agglomerato urbano degno di tal nome, anche a Papetee alle sedici chiudevano i negozi e la popolazione scompariva.
Ora atolli, prima Rangiroa e poi Manihi, Bislacchi i vigneti di Rangiroa in mezzo ai cocchi. Lagune splendide, pesci di numero e varietà infinite.Dopo altri sette giorni, con ansia di scoperta si parte per l’Isola di Pasqua. Manihi Papetee e poi Papetee Hanga Roa. Cinque ore di dormita, tanto era il tempo di volo. Gli hotels, Kia Ora a Rangiroa e Pearl Beach Resort a Manihi sono buoni ma non eccellenti. Al ritorno dall’Isola di Pasqua ci siamo fermati due giorni allo Sheraton di Moorea, il peggior hotel del nostro viaggio, strutture prive di manutenzione e arroganza nel gestire le proteste con l’aggiunta di personale perlomeno disattento se non scortese.
Cribbio! Sono sceso dal grosso aereo della Lan Chile, disinfettato contro il dengue, si sulla pista di Hanga Roa il comandate ci dice “abbiate pazienza un paio di minuti, dobbiamo procedere a una disinfestazione dei vostri abiti e dei vostri bagagli e ciò avverrà automaticamente. Perplessità.
L’aeroporto è una baracca e non teneva al riparo della pioggia i turisti in attesa del controllo passaporti. La pioggia era sottile e rada. A cinquecento metri l’hotel Iorana dove avremmo passato sei notti. Struttura semplice ma dignitosa. L’agenzia Aku Aku a cui avevamo affidato nostri tour ci aveva messo a disposizione un pulmino e una guida di nome Victor. I nostri giorni di permanenza erano tutti programmati per visite ai siti archeologici, solo l’ultimo giorno, la domenica, era a disposizione.
L’atmosfera sull’isola era magica, io cercavo di emanciparmi dalla superstizione facendo domande molto circostanziate e documentate, Victor tendeva a dare risposte sulla soglia dell’esoterico. Ripeteva in ogni occasione di essere uno degli ultimi diciassette superstiti della popolazione Rapa Nui.
Inutile descrivere i luoghi, li troverete su qualsiasi guida.
L’ultimo, irrisolto mistero dell’Isola di Pasqua, per me e per me soltanto, resterà quello generato dall’oste della Taverne du Pecheur (ottimo ristorante) che al mio dire “la nostra guida si chiama Victor” rispose “ah si il Brasiliano”.