Pianosa e Gorgona, due isole dell’Arcipelago toscano
Ho fatto un viaggio, proprio qualche giorno fa, una gita sull’isola di Gorgona. Di fronte a Livorno, la più piccola delle perle dell’Arcipelago Toscano, è l’ultima isola-carcere in attività rimasta in Europa. Un gioiello, a suo modo, pur nella specificità di colonia penale. Una fattoria a cielo aperto, una comunità di detenuti che lavorano, imparano un mestiere e assaporano il gusto di un progressivo reinserirsi nella società.
A Gorgona si può andare esclusivamente con un gruppo organizzato, previa richiesta e autorizzazione rilasciata dal Direttore del carcere.
Il nostro gruppo parte da Livorno. Neanche un’ora di mare. Scendendo dalla motonave consegniamo, come richiesto, documenti, cellulari e macchine fotografiche alla Polizia penitenziaria e ci accingiamo alla scalata dell’isola. Più leggeri. E non solo per la tecnologia lasciata in consegna.
Dopo l’escursione, per sentieri che corrono a picco sulla costa rocciosa, regno incontrastato degli uccelli marini, in mezzo ad una natura incontaminata, ci godiamo nel bosco il catering dei detenuti: pane, focacce, pizza, formaggi e molto altro. E un vino profumato che da un anno si fregia di una prestigiosa etichetta toscana.
E’ un formaggio buono come la libertà. E’ proprio il gusto che prende, passando dalla mani di chi lo fa al palato di chi lo assaggia. Il sapore antico delle cose che contano davvero. E il cibo è cotto con tutta la passione di chi desidera un contatto con l’altro della vita. Quello che per gli sbagli fatti ci si è lasciati alle spalle. Quello che forse verrà di nuovo violato, offeso. O forse no. Forse chissà, non è detto. Forse c’è una nuova opportunità. Se il binomio cibo-amore ha un senso, qui lo ha elevato al cubo: c’è la gioia di essere in contatto con esterni, c’è il desiderio di riconoscimento del proprio lavoro, c’è la proiezione di tornare oltre quella manica stretta di mare che separa dal Continente. E, possibilmente, da una nuova vita.
Solo pochi giorni prima di Gorgona ero a Pianosa. La meravigliosa Pianosa. La ferita Pianosa. L’isola del diavolo, come la chiamavano, ora un’isola dell’abbandono. Da quando il carcere è stato chiuso, nel 1998, Demanio, Ministero della Giustizia, Comune di Campo nell’Elba ed Ente Parco colloquiano a colpi di burocrazia. Intanto le case vuote, le diramazioni carcerarie dismesse e tutte le bellezze architettoniche crollano a pezzi, sotto i colpi del libeccio che non perdona. E nonostante lo sforzo, meritorio, dell’Associazione per la difesa dell’isola di riportare in vita alcuni edifici, le strutture civili e penitenziarie dell’isola si stanno sgretolando. L’isola perde i pezzi. Ma non perde la sua memoria.
Una cooperativa sociale di detenuti di Porto Azzurro vi gestisce in primavera e in estate, da alcuni anni, un hotel foresteria e un bar-ristorante nella ex-mensa degli agenti penitenziari, “garantendo” ancora all’isola quello status minimale di isola-carcere sui generis che, di fatto, le permette di salvarsi dal turismo selvaggio. Infatti si può dormire liberamente in paese, ma per visitare i 10 km quadrati di natura en plein air, anche su questa isola, è necessario far parte di un gruppo guidato e autorizzato.
Il limite di Pianosa è anche il suo fascino. Chi arriva qui lo fa per amore dell’ambiente, per ricrearsi nel corpo e nello spirito. In questo paradiso terrestre, con una biodiversità straordinaria, scordatevi il superfluo. Aprite polmoni e narici. Aprite occhi e orecchie. Aprite il cuore.
A Pianosa il giudizio è sospeso. Qui conta l’uomo, non il peccato, come recita una scritta sul vecchio carcere. Qui quando la sera resti solo, nel buio, con un cielo che ti fa da coperta e ti chiedi se è tutto vero o se sei sbarcato dentro ad un presepe, mentre l’assiolo e le berte cantano, mentre i barracuda si cibano nel porto, qui, dove non si sente neppure uno schiamazzo della “civiltà” in cui viviamo, qui, qui percepisci un po’ di te stesso. Percepisci che a poche miglia da città isteriche e chiassose, da parcheggi che non si trovano e da urla di gente per strada, dalla puzza di scarico delle marmitte, qui, qui, qui hai ancora una possibilità di capire. Di capire te. E gli altri.
E ti sembra persino naturale. Perché ancora lo è. Qualcosa a cui siamo disabituati. Respirare profumi. Ascoltare suoni. Il mare. La risacca. Carlo che mostra le catacombe cristiane ai visitatori. Lui che ha scelto di tornare all’isola e si trattiene volentieri nel buio davanti a Forte Teglia a raccontare le storie di quando, lì, era bambino.
E i ragazzi della cooperativa che ti strappano sorrisi e con cui ti ritrovi a cercare momenti complici di solidarietà. Cos’hanno fatto per essere lì? Non lo sai. Loro lo sanno. Una condanna, non solo penale. Una condanna nel cuore. Tanto dolore, glielo leggi negli occhi.
E quando parti ti ritrovi a salutare persone. Non carcerati. Non detenuti. Non delinquenti. Persone. E se prima di te l’ha fatto uno che si chiama Francesco Bergoglio capisci che forse, con un po’ di umiltà e di buona volontà, anche il più piccolo dei mondi possibili potrebbe non restare solo un’utopia.
Si riparte con amarezza. Già sul traghetto da Portoferraio l’utopia ti sembra relegata ai libri di filosofia del Liceo e ti rendi conto di aver davvero sognato. L’isola che non c’è continuerà a non esserci, sei tu a tornare in una personale prigione fatta di cattivi odori, rumori, corse, incazzature, pregiudizi, squallore, caos.
Chiudi gli occhi. Speri che il sogno riaffiori. Sul viso, il sole dell’isola terrà calde le sensazioni fino ad allora. Fino al momento in cui saprai riaprire il cancello della TUA gabbia.