Perdidos en Colombia, la terra dei contrasti e della varietà

Trekking verso la Ciudad Perdida, visita di Santa Marta, Aracataca, Mompox, Cartagena, Bogotà
Scritto da: Mara Speedy
perdidos en colombia, la terra dei contrasti e della varietà
Partenza il: 27/10/2015
Ritorno il: 07/11/2015
Viaggiatori: 14
Spesa: 2000 €
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La Colombia è terra di grande varietà paesaggistica, dove si passa dal mare caraibico alle vette andine, dalla jungla amazzonica alle coste pacifiche e madre di artisti del calibro di Botero, di Gabriel García Marquez, ma anche di sportivi come Ramiro Cordoba o Montoya e di cantanti come Shakira e Juanes.

Proprio Botero, uno dei personaggi eccellenti a cui la Colombia può vantare di aver dato i natali, credeva che l’arte dovesse dare all’uomo “momenti di felicità, un rifugio di esistenza straordinaria, parallela a quella quotidiana”, esattamente quello che per me deve dare un viaggio.

27.10

Per questo il nostro percorso inizia a Milano-Linate dove alle 07.40 prendiamo un volo AirFrance per Parigi. Nella capitale francese ci riuniamo con gli altri compagni di avventura, provenienti dagli aeroporti di Torino, Roma e Bologna. Il nostro volo per Bogotà partirà alle 11.00 con arrivo alle ore 16.20 locali. Non ci fermiamo, perchè abbiamo intenzione di visitare la capitale alla fine della nostra “recorrida”, quindi prendiamo alle ore 20.44 un volo Avianca per Santa Marta, dove arriveremo alle 22.18.

Per soggiorni inferiori ai 30 giorni, i cittadini italiani non necessitano di un visto per entrare in Colombia, ma devono avere un biglietto di andata e ritorno e il passaporto con una validità residua di almeno tre mesi, che andrà mostrato all’arrivo alla DAS, la polizia dell’immigrazione.

Passati i controlli di rito e recuperati i bagagli, prima di uscire, ci fermiamo a un ufficio cambi (il migliore del viaggio, circa 1 euro= 2980 COP), dove ci fanno lasciare le impronte digitali e ci siglano tutte le banconote consegnate. Siamo stanchi, sono quasi 24 ore che siamo “in ballo”, ma per fortuna fuori dall’aeroporto ci aspetta il nostro passaggio (70.000 COP) per l’Hospedaleria Familiar di Santa Marta, spartano, ma pulito (325.000 COP, tutti i prezzi che indicherò sono il totale per 14 persone, per gli hotel in camere doppie con bagno)

28.10

Muniti dei permessi speciali dell’INDERENA e dell’ICAN, di cui si è occupata l’agenzia a cui ci siamo appoggiati (Magic Tour Colombia), partiamo alle ore 9 con due camionette e altri turisti. Quando arriviamo all’inizio della strada sterrata, da dove una volta partiva il trekking, sono ormai le 11; oggi però si può proseguire in auto o moto per un’altra ora e raggiungere El Mamey, dove pranziamo con pollo, platano fritto (una sorta di banana più grande e verde) e riso, che ci danno l’energia necessaria per affrontare la prima salita. Inizia così il nostro trekking nella Sierra Nevada, con l’obbiettivo di raggiungere la Ciudad Perdida, un sito archeologico che nell’immaginario di molti è associato alla leggendaria El Dorado.

Affidiamo un piccolo bagaglio all’unico mulo disponibile e per pietà dell’animale carichiamo un po’ di più quello che porteremo noi in spalla. L’altro mulo disponibile porterà invece i viveri che ci serviranno lungo il percorso. Il primo tratto è molto ripido e con lunghe colonne di formiche che attraversano la nostra strada. In cima alla salita più dura della giornata, ci accolgono con dell’anguria… un toccasana, dato che la maggior parte di noi è disidratata e affannata per la grande afa! Qualcuno approfitta di alcuni ragazzini a piedi nudi che si procacciano da vivere dando un passaggio in moto, qualcun’altro affida solo lo zainetto per prendere un po’ di respiro.

Riprendiamo il cammino finché non ci si apre davanti un giardino fiorito: è il luogo dove dormiremo questa notte (campo Adan). Le nostre camere sono come cuccette di un alveare, ognuna divisa dall’altra da zanzariere. Per fortuna che abbiamo portato con noi un sacco lenzuolo o un leggero sacco a pelo, perché dormiremo praticamente all’aperto. Ci rinfreschiamo nelle vasche naturali lì vicine e poi ci facciamo una bella doccia. Ci accorgiamo però che l’acqua della doccia è la stessa del fiume in cui abbiamo appena nuotato ed è la stessa che berremo per tutto il trekking. Questa sì che è avventura! Procuratevi delle pastigliette Micropur per potabilizzare l’acqua, perché lungo il percorso qulacuno si è attrezzato per vendere bibite, ma chiaramente non sono ovunque. Rinfrescati e riposati, ci godiamo la cena a base di pesce di acqua dolce, riso e platano.

29.10

Alle 7.30 siamo già in partenza. A parte un primo ripido tratto in salita, il resto sarà abbastanza dolce. Solo il tratto finale ci inquieta per il ritorno: è particolarmente difficile e già pensiamo che dovremo farlo in salita. A metà percorso i due ragazzi che ci precedono e cucinano per noi, ci offrono dell’ananas. Ci potremmo anche abituare a queste coccole!

Arriviamo al campo Wiwa; siamo accaldati e la proposta della nostra guida Daniel Suarez Valdez (tel. +57.315.630.5482) di andare a fare il bagno nel vicino fiumiciattolo, è approvata all’unanimità. Una serie di saltelli con idromassaggio naturale: è proprio quello che ci voleva!

Prima di mezzogiorno abbiamo fatto già la doccia e i nostri cuochi ci hanno preparato una calda minestra con diverse verdure, tapioca e mais. Mentre passiamo il pomeriggio a oziare sulle amache, protetti da tetti in lamiera, i bambini del villaggio giocano a calcio a piedi nudi, almeno fino allo scatenarsi di un temporale torrenziale: mai vista tanta acqua tutta insieme, meno male che non siamo per strada! Proprio per evitare questo, Daniel ci aveva sconsigliato di fare il trekking in quattro giorni nel periodo delle piogge e ci aveva fatto fermare in questo campo.

La nostra grande guida ci offre per merenda del pane dolce con un the di panela alla cannella; compreremo poi a Santa Marta al supermercato questo succo condensato di canna da zucchero, a cui vengono aggiunti aromi come la cannella o il basilico. Qualcuno di noi è distratto da un fulmine che si abbatte a pochi metri su una capanna indigena, ma con tutta l’acqua che sta scendendo per fortuna non prende fuoco. Per cena mangiamo della carne con patate e riso: i nostri cuochi sono talmente bravi che anche per le nostre amiche vegetariane preparano un menù ad hoc.

Anche questa notte siamo in un alveare di letti a castello con le nostre preziose zanzariere, anche se per la verità ci aspettavamo più insetti.

30.10

Il terzo giorno di trekking è il più lungo e duro. Partiamo alle 5.50 circa e incontriamo diverse capanne della tribù wiwa. Sono tutti schivi e corrucciati. I bambini si coprono i visi quando cerchiamo di scattar loro foto: sono a piedi nudi e con una tunichetta bianca tutta impolverata, che contrasta con i lunghi capelli corvini. Percorriamo una sorta di prateria e ci imbattiamo in un toro che ci ostacola il passaggio, lo aggiriamo timorosi e proseguiamo respirando l’aria piacevole, che è stranamente meno afosa rispetto ai giorni precedenti. E’ veramente meno afosa o ci siamo abituando? Il percorso prosegue in un saliscendi in mezzo alla foresta. Definirla lussureggiante è forse una frase fatta, ma rende perfettamente l’idea. Le prime due ore scorrono tranquille anche perché non fa ancora caldo. Sudiamo e malediciamo il peso del nostro zaino, ma proprio non riusciamo a dare altro peso al povero mulo. Finita la salita più ripida, ci accolgono con ananas e banane, ottime per i nostri muscoli provati. In attesa di ripartire siamo tutti concentrati su un tacchino che, con versi piuttosto insistenti e fastidiosi, e credendosi un pavone, tenta di conquistare la sua bella facendo una splendida ruota.

Ripartiamo e siamo a poco meno di un’ora dal tanto temuto guado: prima di partire si era scatenato il dibattito su che scarpe fossero più adatte per non scivolare, qualcuno porta dei sandaletti tipo Teva, altri scarpette da scoglio, altri preferiscono il piede nudo. Togliamo quindi gli scarponcini e mettiamo il costume: l’acqua arriva appena sopra al ginocchio (chi scrive è alta, o meglio bassa 1,53m!), portiamo gli zaini sopra la testa fino alla riva opposta e non resistiamo, torniamo a tuffarci in acqua… bellissimo! Anche perché nel frattempo il sole è diventato più caldo e l’aria afosa. Un’oretta ancora di cammino e arriviamo al campo Romualdo Paraiso Teyuna a solo un km dalla Ciudad Perdida; ci rinfreschiamo nuovamente in una piscina naturale. Recuperiamo gli zaini portati dal mulo e pranziamo. A un nostro compagno di viaggio viene in mente di farci una birretta Aguila tutti insieme: ci sediamo sul greto del fiume, sullo sfondo abbiamo una cascata e la jungla e ci raccontiamo un po’ di noi, anche perché non ci conosciamo tutti. Il momento è già magico, ma Daniel ha intenzione di stupirci e viziarci per l’ennesima volta e si presenta con una bacinella piena di pop corn e ci chiede di metterci in cerchio per raccontarci le due versioni della scoperta della Ciudad Perdida, quella dei Sepulveda, contadini che, in cerca di reperti precolombiani da rivendere al mercato nero, videro dalla riva del fiume Buritaca gli scalini che conducevano alla porta della Ciudad Perdida e l’altra, della mafia locale che si divideva queste zone per il recupero dell’oro scoperto e trafugato dalle tombe. Stranamente questa giornata non è guastata dalla pioggia e noi siamo tutti elettrizzati, il giorno seguente è per noi il “gran giorno”.

31.10

Sveglia alle 4.30, poiché alle 5.30, ancora col buio, dobbiamo essere in cammino per evitare le piogge che in genere sorprendono tra le ore 13 e le 14. Dopo due guadi, di cui uno attaccati a una corda di sicurezza, dovremo salire 1200 gradini per raggiungere la Ciudad Perdida.

L’esistenza della Ciudad Perdida o Inferno verde, come la soprannominarono i primi saccheggiatori, mentre gli indigeni continuano a chiamarla Teyuna, divenne di pubblico dominio soltanto nel 1975, quando il governo scoprì alcuni pezzi antichi venduti al mercato nero. La città venne fondata nel VII secolo d.C. (circa 650 anni prima della peruviana Machu Picchu) ed è formata da una serie di 170 terrazze intagliate sul lato della montagna, collegate fra loro da una rete di strade pavimentate e da piazze circolari. L’antica sede dei Tayrona si trova a un’altitudine compresa tra i 950m e i 1300m ed è distribuita su circa 30 ettari. Quasi certamente venne abbandonata con l’arrivo degli spagnoli, che decimarono i Tayrona; la città poteva ospitare da 2000 a 4000 persone, le cui capanne di legno ormai sono distrutte da secoli, anche se rimangono tracce della struttura in pietra su cui appoggiavano. Il carcere mostra ad esempio ancora la struttura originaria, dove chi doveva essere castigato, veniva legato senza acqua e cibo. Nelle terrazze più grandi si concentravano il potere politico e quello religioso e qua e là ancora oggi delle pietre mostrano scolpita la mappa dell’insediamento per dare le indicazioni stradali ai nuovi venuti, la cui presenza era segnalata da pietre manomesse che al loro passaggio facevano rumore, perché a differenza degli abitanti non ne conoscevano la posizione.

I reperti non trafugati sono raccolti in parte nel Museo dell’Oro di Santa Marta e in parte in quello di Bogotà. Gli scavi continuano ancora oggi e per evitare furti, ci sono militari di ronda: una curiosità, il cambio della guardia avviene con un elicottero, non dopo 5 giorni di trekking! Ricordatevi che il sito è chiuso i primi 15 gg di settembre.

Per tornare sulla lunga scalinata passiamo attraverso un villaggio indigeno e Daniel ci fa incontrare lo sciamano locale, il Mamo, che in cambio di un piccolo obolo, ci regala un braccialetto con la sua benedizione e ci mostra il suo poporo. Non capiamo bene cosa sia e di cosa sia fatto, se non che è un bastoncino con una sorta di zucca attaccata.

Torniamo a dormire al campo Wiwa e Daniel per la serata ci ha organizzato un incontro con un uomo della tribù Wiwa a cui abbiamo potuto fare alcune domande per comprendere meglio lo stile di vita di questa popolazione e il loro stretto rapporto con la natura circostante. Anche quest’incontro ci conferma che questa popolazione non è ben disposta nei nostri confronti, in fondo veniamo a disturbare la loro tranquillità e a scorrazzare per le loro terre. L’uomo wiwa però ci spiega cos’è il poporo: un bastone ricreativo, che gli uomini leccano e intingono in un mix di conchiglia tritata e coca, questo continuo processo fa crescere una parte del bastone, quindi quello che a noi sembrava una zucca, in realtà era un’incrostazione in continua crescita. La società wiwa è molto maschilista, infatti mentre l’uomo si diletta in questa attività, la donna manda avanti la casa, coltiva, bada agli animali e ai figli. Scopriamo anche cosa contiene la borsetta in corda che tutti gli uomini, sia koguy che wiwa, portano al collo: foglie di coca, che scambiano in segno di saluto ogni qualvolta incontrano un altro uomo.

01.11

Riprendiamo il nostro percorso di ritorno a Santa Marta, attraversiamo il fiume diverse volte passando su dei ponti mobili proprio come avevamo fatto all’andata. Ci imbattiamo in una guadua (bambù gigante), la terra è rossa, umida e scivolosa a causa dalle piogge del giorno precedente, che avevano sorpreso alcuni di noi sulla strada verso il campo wiwa. Poi la terra cambia, diventa più calcarea, più bianca, poi diventa grigia, la varietà della terra si rispecchia nella varietà della vegetazione; ci fermiamo in una casetta dove vendono cacao e caffè coltivati localmente e ci accorgiamo che nei vasi decorativi intorno al salotto, ci sono delle piante di marijuana.

In totale abbiamo percorso circa 40 km (tra i 5 ai 10 km al giorno) in un continuo saliscendi, per di più seguiti da cani randagi, ma docili, che ci hanno accompagnato per tutto il percorso, speranzosi di ricevere qualche avanzo alla fine dei nostri pasti. Riceviamo però una brutta notizia, il parco Tayrona, che avremmo dovuto visitare il giorno seguente, è stato chiuso all’improvviso dagli sciamani per la benedizione rituale periodica, quindi non potremo visitarlo. L’alternativa che ci viene proposta è una giornata al mare a Playa Blanca. Delusi e stanchi arriviamo a El Mamey, un momento di riposo e poi ci vengono a prendere per riportarci per la notte all’Hospedaleria Familiar di Santa Marta: strano ritrovarci di nuovo fra quattro mura e riavere il contatto con il mondo esterno, infatti per 5 giorni non abbiamo avuto né linea telefonica né internet.

Per la cena andiamo sulla Av. Rodrigo de Bastidas, il lungomare, dove ci sono moltissimi locali. Scegliamo Asados Y Mucho Mas (240.000 COP), personalmente ho scelto un buon cheviche (pesce crudo marinato nel limone con cipolla), ma anche la carne alla griglia era molto buona, a detta dei miei compagni di avventura.

02.11

Ci svegliamo di buonora e torniamo sul lungo mare, dove prendiamo una lancha (300.000 COP) per raggiungere quella che è considerata la spiaggia più in della zona, cioè Playa Blanca. Una volta raggiunta la spiaggia, ci facciamo un bel bagno in attesa che aprano i baretti per far colazione, ma a quanto pare aprono solo per pranzo. Nel giro di un’oretta però la spiagggia si popola di un gruppo variopinto di bagnanti e di diversi venditori ambulanti, da quello che propone cheviche al pomodoro, a quello che offre bibite e gelati, qualcuno vende statuette di legno, ma il nostro preferito rimane il venditore di macedonie: ancora ora ci chiediamo come si chiamavano alcuni frutti mai visti in Italia, come il gustoso lulo, di cui si beve anche il solo succo.

Notiamo che sulla montagna alle nostre spalle ci sono delle scale, quindi qualche avventuroso tra noi, non contento dei 5 giorni di trekking, s’inerpica sulla scaletta: una volta in cima, il paesaggio è stupendo, come se fossero due spiagge specchiate, da una parte una popolata, attrezzata con ombrelloni e persino un punto per lo snorkeling, dall’altro lato una spiaggia deserta con una capanna e una barchetta abbandonate. Dall’alto il mare è di un color smeraldo, dopotutto siamo ai Caraibi!

Nel primo pomeriggio torniamo a Santa Marta per visitare la città, che, come Cartagena e Bogotà, ha un Museo dell’Oro, dove sono esposti oggetti in oro e vasi Tayrona e un bel plastico della Ciudad Perdida, ma noi preferiamo visitare il supermercato Exito, dove acquistiamo la panela, la marmellata all’ananas e il cioccolato in mattonella da sciogliere nel latte. Da un ambulante acquistiamo delle frittelle di mais che vanno riempite con formaggio e salse, golosissime! Gironzoliamo per le strade, con l’intenzione di andare al cimitero, dato che oggi è la festa dei morti e i sudamericani sono molto coloriti nella celebrazione dei propri defunti. Fondata nel 1525, Santa Marta è la città più vecchia del sud America e qui morì Simon Bolivar il 17.12.1830, dopo aver reso indipendenti 6 paesi sudamericani, tra cui la Colombia; visitiamo la cattedrale, dove una volta c’era la salma di Bolivar, ma dove oggi è conservata solo la lapide, o meglio le lapidi, dato che ce ne sono diverse.

Per la cena torniamo sulla Av. Rodrigo de Bastidas, ma questa volta da Playa Alta (285.000 COP), un ristorantino tipico. Nel mezzo della cena però dobbiamo lasciare i tavoli all’aperto e ripararci all’interno a causa della forte pioggia. Nei giorni scorsi ci chiedevamo perchè i marciapiedi fossero tanto alti, lo scopriamo proprio quella sera, quando nel giro di mezz’ora le strade si allagano. La cameriera stessa però ci dice che in genere l’acqua non supera i marciapiedi, ma che sta piovendo in modo eccezionale. Finita la cena, per tornare a casa, la proprietaria ci presta dei sacchetti della spazzatura da usare a mo’ di k-way e siamo costretti a camminare con l’acqua fino ai polpacci, in un fiume che ha riportato in superficie tutto ciò che c’era nelle fogne. Un locale approfitta della situazione per tentare di scippare una delle nostre amiche rimaste indietro, ma per fortuna senza successo e alcun danno.

03.11

Ci svegliamo presto per il trasferimento a Mompox (trasporto 1.200.000 COP, organizzato in modo pessimo da José Sambomin), ma i nostri autisti sono in ritardo ed è solo il primo segnale dell’inefficienza dei due; siamo divisi su due pulmini piuttosto in cattive condizioni, ma riusciamo ad arrivare circa due ore dopo ad Aracataca, l’immaginaria Macondo descritta in Cent’anni di Solitudine da Gabriel Garcia Marquez, dove si trova la casa di famiglia del famoso autore. La casa è divisa in due: il regno degli uomini e quello delle donne, che s’incontrano solo nella sala da pranzo. Alle pareti note esplicative sulle stanze e su chi ci aveva soggiornato, ma soprattutto bellissime citazioni dalle opere di Gabo, come venne soprannominato. L’entrata è libera, ma si consiglia di lasciare una mancia.

Uno dei pulmini non riparte, proviamo a spingere il mezzo, ma dopo un controllo l’autista si rende conto che c’è un filo scollegato. Proseguiamo verso Mompox, man mano che ci avviciniamo alla cittadina la zona è sempre meno popolata e ricca di acquitrini. Prendiamo una strada sterrata, le mucche spesso ci attraversano la strada e dopo circa 6 ore dalla casa di Marquez, incrociamo un ramo del Río Magdalena che attraversiamo con il pulmino su di una zattera. Ancora una mezz’oretta e raggiungiamo l’Hostal del Viajero (2 notti a 1.010.000 COP). Lasciamo i nostri bagagli, ma usciamo subito a sgranchirci le gambe, tutte quelle ore di viaggio ci hanno messo a dura prova. Prendiamo il lungo fiume e abbiamo già un assaggio di questa cittadina, dove il tempo sembra essersi fermato.

Fondata da Alonso de Heredia, il fratello di Pedro de Heredia che aveva posto la prima pietra di Cartagena, è la prima città colombiana a dichiarare l’indipendenza nel 1810 e fu un importante porto fluviale, perché tutte le merci dirette a Cartagena passavano da qui. Curioso è che la bandiera di Mompox è come quella Svizzera e il rosso rappresenta il sangue dei valorosi.

Decidiamo di fermarci per cena da Jhon Parilla (210.000 COP), sul lungofiume, dove oltre alla solita carne alla griglia, platano e riso, ci danno anche delle interiora.

04.11

Passeremo la giornata a Mompox e per questo abbiamo preso una guida (156.000 COP, organizzato da Juan Manuel dell’hotel) che per un paio d’ore ci mostri gli angoli più nascosti della cittadina. Iniziamo dalla Chiesa di Santa Barbara del 1733, decorata con motivi floreali e due leoni rampanti. Saliamo sul campanile, dove è ancora funzionante l’antico orologio collegato alle campane. Sul sagrato vediamo una capsula del tempo chiusa nel 2014, che verrà aperta nel 2110; iniziamo a fantasticare su cosa sia stato nascosto e che cosa invece affideremmo noi al tempo. Proseguiamo la nostra visita alla casa del 1734, per la verità in pessime condizioni, dove girarono il film di Risi “Cronaca di una morte annunciata”. Sul lungo fiume spiamo all’interno di altre case coloniali. Una signora ci sorprende e ci invita a entrare: questa casa sì che ha un patio da film! Poco lontano, in un’altra casa coloniale, vendono il famoso dulce de limòn, che non è una torta, ma delle frittelline in una salsa dolce al limone. La guida ci porta poi a visitare l’ospizio, ma usciamo in fretta timorosi di invadere l’intimità di questi anziani signori. Visitiamo poi la Chiesa di Sant’Agostino, la Casa della Cultura e una scuola, che ci da l’occasione di fare domande sul sistema educativo colombiano. Proseguiamo verso P.za Immacolata Concezione, con la chiesa omonima e l’antico mercato proprio di fronte; su un lato della piazza un bar ha fuori delle sedie a dondolo, che ci danno l’occasione per scattare delle splendide foto un po’ retrò. Ci sono chiese ovunque, quindi proseguiamo la visita con la chiesa di San Domenico, con quella di San Juan de Dios e quella di San Francisco, tutta dipinta di rosso e bianco, da dove parte l’annuale processione e che è oggi un collegio privato tenuto da suore francescane. Visitiamo la Casa de la Inquisición, il municipio e ci fermiamo a leggere la scritta sulla statua dedicata a Bolivar: “Si a Caracas debo la Vida, a Mompos debo la Gloria”.

Dedichiamo un paio d’ore allo shopping, per poi trovarci all’imbarcadero per una gita sul Río Magdalena alla scoperta della natura del luogo (299.000 COP). L’imbarcazione s’incaglia in mezzo a delle erbe acquatiche e i marinai ci chiedono di muoverci ondeggiando per aiutare la barca a procedere; a volte l’acqua è talmente bassa che la barca sembra appoggiare la pancia sul fondale e non voler proseguire, mentre intorno a noi ci sono volatili di tutti i tipi, persino aquile, ma soprattutto curiose iguane. Ai bordi del fiume vediamo coltivazioni di mais e bananeti e i marinai ci chiedono se vogliamo scendere a fare un bagno. Rientriamo col buio dopo circa tre ore di navigazione, ma prima ci godiamo un bellissimo tramonto.

Torniamo in hotel per una rinfrescata e poi andiamo a cena da un pizzaiolo austriaco trasferitosi qui da 10 anni, con cui abbiamo avuto modo di parlare davanti alla Chiesa di Santa Barbara. Personalmente è stata la peggiore cena del viaggio, ma il restaurante Fuerte San Anselmo è un locale veramente bello, forse non bisognava mangiare la pizza (490.000 COP)!

05.11

Ancora una volta i nostri autisti sono in ritardo e si giustificano dicendo che sono tornati a Santa Marta, quindi a Mompox la mattina stessa della partenza. Assurdo! Partiamo da Mompox verso Cartagena de las Indias e scambiamo i pulmini. Questa volta mi trovo sul pulmino che sembra funzionare. A un certo punto non vediamo più dietro di noi il pulmino con l’altra metà dei nostri amici, i cellulari non prendono, ci spazientiamo perché ci era già chiaro che c’erano problemi tra i due autisti, uno aveva subappaltato la corsa all’altro, promettendo tot denaro per la benzina, ma il suo pulmino aveva già consumato più del pattuito, così continuava a farmarsi a far benzina, centellinandola. Noi però il servizio l’avevamo già pagato alla partenza! Ci fermiamo sperando che ci raggiungano, ma niente, a un certo punto vediamo sfrecciare una moto con un ragazzo e aggrappata una delle nostre amiche, che aveva chiesto il passaggio per poterci avvisare. Il pulmino si era infatti bloccato in curva, senza benzina, su una strada battuta da camion, perché portava al porto di Cartagena. Torniamo così indietro, il nostro capogruppo si fa sentire, anche perché tra una cosa e l’altra abbiamo perso circa tre ore, che avremmo potuto spendere nella visita della città. Intanto che i due improvvisati autisti cercavano di mettere a posto il mezzo, uno dei due mi da in mano una paletta con Pare/Sigue (Stop/Avanti) per segnalare ai camionisti il pericolo appena dietro alla curva: ho sempre voluto fare il ghisa (vigile milanese)! Queste situazioni mi divertono sempre moltissimo e sono quelle che negli anni mi rimangono più impresse ripensando ai viaggi fatti.

Attraversiamo il secondo ponte più lungo della Colombia (7.600 COP) e ai vari caselli autostradali si avvicinavano per venderci da bere e mangiare. Arriviamo finalmente dopo quasi 8 ore a Cartagena, lasciati i bagagli all’Hotel Villa Colonial (650.000 COP), partiamo alla scoperta della città che, nonostante il cielo minacci pioggia, ci appare subito coloratissima, anche grazie ai numerosi murales. Siamo un po’ combattuti se portare o no la macchina fotografica, dato che ci è stato detto che è una città pericolosa. Io rischio, me la infilo sotto alla giacca e circondata dagli altri, ne approfitto per scattare qualche foto. Ci rendiamo subito conto che però il centro è piuttosto sicuro, qualche militare in bella mostra e finché c’è luce non c’è motivo di avere paura. Dopo aver attraversato il Parque del Centenario, entriamo in città dalla Puerta del Reloj e ci ritroviamo in Plaza de los Coches con al centro la statua dedicata a Pedro de Heredia. La piazza ha su due lati dei portici, detti el Portal de los Dulces, che portano a Plaza de la Adouna, dove si trova la statua di Cristoforo Colombo; passiamo davanti al Convento di San Pedro de Claver e proseguiamo fino al Parque de Bolivar, nell’omonima piazza, dove troviamo il museo dell’Oro y Arqueologia e la Cattedrale. Ci fermiamo davanti all’ennesima statua dedicata al libertador, la scritta attira la nostra attenzione: “Si Caracas me dìo vida, Vosotros me disteis gloria”, ma come, non era stata Mompox? Ci infiliamo nella cattedrale, dove stanno celebrando un matrimonio, gli interni semplici contrastano con l’eccesso dei vestiti degli invitati e della carrozza che aspetta gli sposi all’esterno: questo mi piace del sud America! Scende la sera e vogliamo avvicinarci per cena all’hotel, che non è lontano dal centro. Ci fermiamo in una sorta di fast food all’americana, ma dal gusto colombiano, il Chachara (500.000 COP), dove insieme a dell’ottima carne, ci servono della limonata con hierba buena, molto rinfrescante.

06.11

Abbiamo la sola mattinata per completare la visita di questa città portuale, da dove venivano spediti in Spagna tutti i tesori strappati alle popolazioni locali e che per questo attirava tanto i pirati, il cui più famoso rappresentante, che assediò anche la città, è Sir Francis Drake. Per proteggersi, la città detta l’Heroica, si dotò del forte Felipe e di una cinta muraria (las Murallas), ottimamente conservata, sulla quale vale la pena fare una passeggiata, anche per ammirare lo skyline dei grattacieli che contra con l’antichità del centro cittadino. Vicino al forte Felipe c’è la famosa statua a la india Catalina, l’interprete di de Heredia con le popolazioni indigene.

Arriviamo alle mura da Plaza Santa Teresa, dove si trova anche il Museo Naval, costruito per celebrare i 500 anni dalla scoperta di Colombo. Poco prima avevamo anche ammirato il bel portale del convento di San Pedro de Claver ed entrando, anche le belle finestre e l’altare in marmo italiano.

Scesi dalle mura, proseguiamo verso Plaza Santo Domingo, dove troviamo una statua di donna nuda sdraiata di Botero; una donna con il vestito tipico nei tre colori della bandiera, giallo, blu e rosso, sta riordinando le sue borse, mentre passiamo davanti al Teatro Heredia. Torniamo in piazza Bolivar dove visitiamo il museo dell’Inquisicìon, nell’omonimo palazzo con entrata barocca: nel mezzo di strumenti di tortura, guillottine e pezzi di storia, è conservata anche una delle figure di Sant’Agustin, una zona che avrei visitato volentieri, se non fosse stata tanto lontana; visitiamo anche l’interessante Museo dello Smeraldo, pietra che vedrete venduta ovunque, perché anche se la Colombia non è il massimo produttore al mondo, può vantare miniere di eccelsa qualità.

Torniamo in fretta all’hotel perché vorremmo farci una doccia prima di prendere l’aereo per Bogotà. Il trasferimento, organizzato dall’hotel a 80.000 COP, è in perfetto orario, ma il pullman fa fatica a uscire dalle piccole strade del quartiere Getsemani, anche perché alcuni tratti più larghi sono chiusi per lavori stradali.

Partiamo con un aereo Avianca alle ore 13.27 e atterriamo alle 14.57, dall’aereo vediamo l’arcipelago del Rosario, composto da 27 isole che fanno parte di un parco naturale immerso nel mar dei Caraibi. Arrivati a Bogotà andiamo subito a prendere la Teleferica per il Cerro de Monserrate (238.000 COP), la montagna a est di Bogotà alta 3152 m, da cui, se non fosse per il maltempo, si dovrebbe godere di una spettacolare vista sulla città che si trova a 2625 m di altitudine. Visitiamo il santuario del Señor Caìdo de Monserrate e ci perdiamo tra i negozietti di souvenir: ci facciamo ingolosire dai biscotti al cioccolato e caffè e stupire dalla vendita libera di the alla coca e creme antidolorifiche alla marijuana e coca (e arnica naturalmente!).

Siamo poi tornati in città, una rinfrescata all’Hotel San Francisco (560.000 COP), credo il più bell’hotel del nostro viaggio e cena in un locale tipico, La Cucharita (312.000 COP), dove abbiamo brindato al bel viaggio a suon di birra Club Colombia e gustando per l’ultima volta anche le empanadas (fagottini ripieni) e le arepas (frittelline di mais).

07.11

È l’ultimo giorno… tenemos que disfrutar! Prima tappa, imperdibile, il Museo dell’oro (carrera 6, 39.000 COP) con i suoi 55.000 pezzi d’oro e di altri materiali provenienti dalle maggiori culture preispaniche della Colombia. Disposto su tre piani contiene gioielli, rappresentazioni umane e animali, oggetti rituali con spiegazioni in spagnolo e inglese: la prima immagine all’entrata è quella di una grossa conchiglia in oro, si prosegue poi con la mostra di gioielli delle fogge e dimensioni straordinarie (una collana con un ciondolo di circa 30 cm di diametro), ornamenti per i vestiti degli sciamani, poporo in oro, una mega “supposta” che in realtà è un porta coca (la versione di lusso delle borsette in corda viste alla Ciudad Perdida), inoltre un video spiega l’utilizzo dei metalli nei secoli, come questi vengano utilizzati per fare arte, ma anche per fare la guerra. Attenzione a non perdere la sala con effetti speciali, un po’ nascosta quando chiusa, ma che si apre a intervalli regolari. Davanti al museo, oltre ad una statua di sant’Agustin, c’è anche l’entrata alla bella chiesa di san Francisco, la più vecchia di Bogotà.

Il centro di Bogotà ha una struttura molto lineare con carreras numerate che s’intersecano perfettamente con le calles, anch’esse numerate. A piedi raggiungiamo il quartiere centrale de La Candelaria; visitiamo la chiesa di san Francisco e ci fermiamo per qualche foto in Plaza Bolivar (carreras 7-8, calle 10-11), indugiamo davanti alla scritta sotto la statua di Bolivar… anche qui c’è scritto che la vita la deve a Caracas e la gloria a Bogotà, ma allora è un vizio! A far da sfondo alla statua il Capitolio Nacional, sede del congresso, alle nostre spalle il Palacio de Justicia, alla nostra sinistra l’imponente Catedral Primada e, alla nostra destra l’Edificio Liévano, in stile francese, sede del sindaco. Costeggiamo questo lato della piazza, sulla carrera 8, fino al Museo di Santa Clara (42.000 COP); superiamo i controlli con metal detector dei militari e appena entrati, c’è una montagna di “gomitoli” di stoffa, grazie a un video capiamo di cosa si tratta: la violenza sulle donne è purtroppo ancora troppo diffusa in Colombia e a scopo terapeutico/liberatorio è stato chiesto alle donne vittime di violenza di strappare i vestiti indossati durante l’abuso e farne dei gomitoli a cui hanno legato un messaggio. Le testimonianze delle donne, dell’artista che ha messo insieme la montagna e il video sono toccanti, ma il video è purtroppo in una posizione infelice, poiché copre le bellezze di questa chiesa così riccamente decorata con dipinti e statue. Esco dalla chiesa con la stessa sensazione di impotenza che avevo provato uscendo da Mauthausen.

Proseguiamo la nostra visita della città con il Museo Botero (gratuito, carreras 5, calle 11). La mostra presenta anche le opere di altri illustri pittori che facevano parte della collezione privata di Botero: Chagall, De Chirico, Picasso, Renoir, Monet, ma chiaramente sono le “dilatate” opere pittoriche e scultoree di Botero a farla da padrone. La mano del pittore non risparmia né i temi sacri, né la rivisitazione di opere famose come I girasoli di Van Gogh e la Gioconda di Leonardo. Vicino al museo anche la Casa de Moneda con una grande collezione numismatica e oggetti religiosi preziosi. Ritornando all’hotel, notiamo ancora una volta che McDonald qui ha dei “negozi” dedicati solo ai desserts (postres), senza quindi venedere i classici hamburger.

Il viaggio volge al termine, il nostro trasferimento in aeroporto è perfettamente in orario (260.000 COP). Con un volo AirFrance delle 18,20 arriviamo a Parigi il giorno seguente alle 11,10; il trasferimento a Milano partirà alle 13 per arrivare a Linate alle 14,30; recuperiamo la nostra auto al Linate Parking e anche se siamo rimaste solo 4, nei nostri ricordi è ancora vivido il contrasto tra il tavolaccio su cui cenavano nei campi verso la Ciudad Perdida e i bei ristoranti di Bogotà, tra le tunichette dei bambini wiwa e i costumi da bagno delle ragazze di Santa Marta e tra la jungla incontaminata della Sierra Nevada e le pietre ricche di storia de la Murallas di Cartagena.

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verso la Ciudad Perdida

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Mompox, chiesa Santa Barbara

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Rio Magdalena

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un bambino della tribù Wiwa

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Ciudad Perdida

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Aracataca, casa Gabriel Garcia Marquez

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Playa Blanca

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mappa Ciudad Perdida

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dove si dorme alla Ciuda Perdida

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Bogotà, museo Botero

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Bogotà, capitolio Nacional

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Bogotà, Plaza de Bolivar

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Bogotà, museo dell'oro

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Cartagena, venditrice

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Cartagena, las Murallas

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Cartagena, plaza de los Coches

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Mompox, Rio Magdalena

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Mompox, novello centauro



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