Pensieri di Stromboli
Molti passeggeri prendono il sole sul ponte scoperto, in un silenzio terribile ogni sedile sembra un altare con sopra una vittima propiziatoria ben unta d’olio sacro che qualche dio diverso inghiottirà. Chi non dorme o legge all’interno vaga da prua a poppa in circoli continui, seguendo affinità o semplicemente fuggendo il mal di mare che s’incarica di ricordarci il nostro posto. Schermaglie amorose di coppie antiche ed imminenti, mocciosi urlanti o placati dalla nausea, chiassosi romani travestiti da persone eleganti, anime semplici, tutti attendiamo il vulcano che si avvicina. Un altoparlante munito di marinaio racconta con giornaliero trasporto la nascita delle isole dal mare e i click delle macchine fotografiche cominciano a farsi sentire a mano a mano che le prime case vengono più visibili e chiare a distinguersi sul nero.
Il sole del pomeriggio scende a nascondersi nella controluce della montagna, nell’acqua nera e cristallina la nave raggiunge i quattro edifici bianchi del porticciolo e la consueta corte dei miracoli di tutte le piccole isole che rischiano l’isolamento ad ogni mareggiata. L’intenso rumore del silenzio è quasi opprimente mentre accompagna i primi passi e per una frazione, un attimo, sembra di sentir battere l’antico cuore del vulcano. È una continua esplosione di colori, la violenza delle bouganvilee rosse sporca di lampi i cubi candidi delle case ed il nero della montagna, e mille e mille infissi azzurri e verdi sfumano l’argento di maioliche arabeggianti. Antichi vecchi senza età sono seduti sulle porte a fumare pipe di schiuma guardando la vita, e tu che mi accompagni sei il lampo più intenso.
La spiaggia è sabbia finissima, nera e dolce, ciottoli porosi caldi di sole sono pezzi dell’energia immane del vulcano da portare a casa e stringere nelle sere d’inverno. Un tuffo nell’acqua buia e il fondo subito scompare rapito dal mare, torbido e cristallino, profondissimo subito dopo riva, carico di velieri affondati, diceva Neruda, bare a vela comandate da scheletri vestiti da ammiraglio. Un mare vivo, lo senti che ti culla e ti riempie, pronto a scatenarsi per il volere del dio che, là in cima, continua a fumare ed esplodere, mare caldo di storia, di aromi e di genti, del primo delfino che accompagnava la prima nave. Un mare femmina mai doma ed affascinante, pericoloso, da amare come si amano solo una donna ed un’idea.
Il paese si arrampica a poco a poco ai lati di una stradina che sale la collina tra case dal tetto piatto, fra volti e architravi spuntano negozi e bancarelle colorate di souvenir, parei e capperi ad uso e sacrificio turistico cui andare ad immolare. La piccola Apoteke lascia il passo ad una terrazza che affaccia il faro dello scoglio di fronte che arde di bronzo nel crepuscolo. Appoggiati alla ringhiera il piccolo campanile rosso ci guarda sorridere nel vento mentre giochiamo ad immaginare una sosta più lunga, una notte per perdersi, un mare di vino da bere e navigare.
La nave chiama ed un ritorno troppo precipitoso strappa al delirio, appena allungato dal periplo dell’isola per raggiungere la zona eruttiva del vulcano, la fuga di rocce e polveri e lapilli verso il mare. La sommità è rossa di lava, a tratti un’esplosione rischiara un cielo che va spegnendosi verso lo scuro assoluto, sembra un Malevich disperato e geniale che cerca il nero sul nero mentre gli sfugge una pennellata rovente. Gridolini eccitati e ancora scatti di rullini sporcano lo sfondo degli ultimi momenti, il mare è ormai una lastra d’ossidiana lenta e faticosa scalfita di luci lontane verso le quali la nave volge piano la prua.
Dietro la scia le ultime luci dell’isola impallidiscono e spariscono a poco a poco insieme ai miei fantasmi, rimane solo là in alto il tenue sorriso del vulcano che pare salutare benevolo.
Ricambio con un cenno, tanto, lo so, è soltanto un arrivederci.