Paxos a settembre
15 settembre 2008 Verso le sette del mattino risalgo all’aperto. Siamo nello stretto di Corfù: da una parte c’é l’Albania, dall’altra Kerkyra, vicinissime, avvolte nelle nuvole. Piove a brevi scrosci e tira un vento bastardo. Intorno un buio spaventoso. Non fosse per la temperatura sembrerebbe di essere sul Loch Ness. Entriamo nella baia di Igoumenitsa, città invero raccapricciante. Col bel tempo avrebbe quel fascino post bombardamento alla Beirut o alla Baghdad; col brutto é solo più oscena. Mentre mi sposto dal porto nuovo al porto vecchio piove in maniera decisa. La strada é tutta un cantiere e le pozzanghere sono quasi navigabili. L’imbarco per Paxos é la desolazione: nessuna nave, botteghini chiusi, squallore diffuso. Scopro che dovrò restare ostaggio della sinistra Igoumenitsa fino alle 12,30, così mi rifugio al Golden Palace Café, bar dal roboante nome sul fronte del porto. Le cateratte del cielo a quel punto si aprono davvero: si mette a piovere talmente forte che l’orizzonte diventa grigio. Dal bar non si riesce quasi più a vedere il molo al di là della strada. Resto a guardare il finimondo su un elegante divano nero di pelle. La Agia Theodora, santa imbarcazione, arriva a soccorrermi quasi come un’apparizione. E’ in verità una nave un po’ vecchiotta e demodé (specialmente se confrontata con il lusso burino dell’Anek) con i suoi interni stile tinello anni sessanta. Ma é intitolata ad una santa, non a uno sprinter dopato. Qualcosa vorrà pur dire. Quando partiamo smette di piovere e il cielo si apre miracolosamente. Appunto. Poco importa se, sbarcato a Paxos, tocca beccarmi un altro sguazzo (dal francese “gouache”), l’importante é essere arrivato. Dopo un breve cammino trovo Villa Thalassa, pittoresca, bagnata e deserta, tra ulivi ed oleandri. Chiamo al numero di telefono affisso sul cancello; dopo un po’ arriva un esaurito con moto enduro che mi consegna le chiavi dello studio B e poi si dilegua. Tutto normale, é la Grecia. Il posto é bello davvero: davanti alla camera c’é la terrazza sun-lounge e poi la scarpata mediterranea che digrada nel thalassa tra i fichidindia. Di fronte l’Epiro e l’Agia Theodora che si allontana. Non appena esce il sole i colori tornano ad essere violenti di verde e di blu. Appena sistemate le cose torno a Gaios, centro principale dell’isola nonché grazioso porticciolo con garbate isolette annesse. Tutto pieno di barche a vela. Subito visibile l’andazzo di fine stagione: alcuni locali chiusi, poca gente in giro. Affitto per tre giorni una bici dal solito spacciatore di cicli e motocicli che si incontra su ogni isola greca che si rispetti: budellone, trasandato e sbrigativo. Dopo averne scartate almeno tre, finalmente trova una mountain bike all’apparenza funzionante. Faccio notare che la ganascia posteriore é troppo stretta e la ruota, un po’ scentrata, urta contro il pattino. Mi guarda con aria di commiserazione. Dovrei spiegare al ciccione che la ganascia non si allarga lubrificandola, ma rinuncio. Mi avverte che andando a sud, fino a Mogonissi, la strada é semplice e relativamente piana, ma che nel resto dell’isola sono cazzi, come diceva il poeta. Maledetto panzone. E’ proprio verso Mogonissi che provo il rampichino: tutto sommato va. L’isolotto di Mogonissi é all’estremità sud di Paxos, separato dall’isola principale da uno strettissimo canale di mare che sembra un torrente di montagna e si valica con un ponticello. Un posto stranissimo. Dietro Mogonissi si intravedono le bianche scogliere di Antipaxos. La strada é un susseguirsi di dolci saliscendi e di piccole calette dai ciottoli bianchi. Un assaggio dell’isola. Quando torno verso lo studio B la terrazza é silenziosa ed immersa nelle prime luci del tramonto mentre parte l’ultimo idrovolante diretto a Corfù. La luna é piena, o quasi, ma io sono troppo stanco per apprezzarla, così lei, risentita, si nasconde prima dietro una nuvola di passaggio, poi dietro una cresta d’alberi. Quando viene buio i muri esterni della casa si riempiono di gechi, trasparenti e tremuli, che mi guardano con grandi occhi neri.
16 settembre 2008 Stanotte é piovuto ancora. Due acquazzoni distinti. Minuscole gocce d’acqua mi cadevano sul viso passando tra le fessure della persiana sopra il letto. Al mattino sole e nuvole viaggianti. Mi preparo e parto verso l’entroterra dell’isola senza una meta precisa. Inciso: per visitare l’isola é bene entrare in possesso della Bleasdale Walking Map of Paxos, una guida redatta per passione da Ian Bleasdale, un inglese che ha pubblicato il risultato di vent’anni di accurate esplorazioni. La guida é prevalentemente destinata agli escursionisti ma contiene una miniera di informazioni su Paxos, i suoi luoghi e la sua storia. In allegato alla guida c’é una carta dell’isola in scala 1:10.000 redatta ed aggiornata con livelli di precisione da inglesi. Considerando che sull’isola non si trova nessun’altra carta geografica né altra pubblicazione degna di questo nome la Bleasdale diventa indispensabile. Ovviamente é in inglese. La si trova, per quanto ne so, unicamente all’agenzia Paxos Magic Holidays, che la tiene chiusa in un cassetto. Se non lo sai non la trovi. Io, ad esempio, ho visto per caso la mappa appesa nell’ufficio della compagnia aerea che gestisce i collegamenti aerei con Paxos. Peccato che quando l’ho comprata mi restava solo un giorno di permanenza. I greci spesso sono assurdi. Chiuso l’inciso. Mi dirigo verso Magazià, il centro più importante dell’entroterra. Secondo inciso: a Paxos ci sono i cartelli direzionali ma non quelli di località; sai dove vai ma non sai mai dove sei. E’ anche difficile capirlo, visto che l’interno é costellato da una ragnatela di villaggi dispersi e frammentati i cui nomi finiscono tutti in àtika: Bogdanatika, Zenebisatika, Velientatika, Boikatika, Tranakatika… Un delirio. La strada verso Magazià é in effetti un assaggio delle potenzialità dell’isola: falsopiani alternati a rampe oltre il 15%. Fortunatamente l’isola é piccola e anche le salite più toste non durano moltissimo. Fine del secondo inciso. L’interno dell’isola é un labirinto di strade, stradine e sentieri tra distese ininterrotte di olivi alternate a macchie di pini. Case in pietra fra muretti a secco e orticelli. Alcune ridotte a rudere, molte altre recuperate, alcune trasformate in gentili cottage inglesi. Ci sono cantieri ovunque: anche all’interno le seconde case cominciano ad andare alla grande e non é un caso: il paesaggio é spettacolare, specialmente verso ovest, dove la costa va giù a piombo per 150 metri e si aprono improvvisamente scorci vertiginosi dietro a tranquilli poderi di ulivo. Magazià é forse la parte più autentica dell’isola, con anziani perdigiorno seduti sugli usci e vecchie donne vestite di nero che ti salutano quando passi. Yassas. Da Magazià prendo la stradina che conduce alla chiesetta dei Santi Apostoli. A Paxos, un’isola lunga 10 chilometri e larga 4, ci sono 65 chiese. Le ha contate mr. Bleasdale, of course. La chiesetta é imboscata su uno sperone di roccia perso tra gli ulivi a picco sulle strepitose scogliere di Erimitis. Dietro ha un minuscolo cimitero, a fianco l’Erimitis bar, meta obbligata per gli autentici viveur, che ci vanno ad ammirare il tramonto sul mare e sulle scogliere bianche con un aperitivo in mano. Io, che di mondanità non capisco molto, ci arrivo alle undici di mattina. Il bar é chiuso ed é un peccato perché la sua terrazza si frega la maggior parte del belvedere sullo strapiombo. La pioggia della notte ha sparso attorno profumi resinosi, quasi d’incenso. In giro non c’é anima viva e la chiesetta degli Apostoli é bianca, col basamento giallo e la cupola rossa. Proseguo, sempre a caso, lungo la spina dorsale di Paxos, verso Manessatika e Kastanida, dove c’é un’eccezionale negozietto di generi alimentari stile anni Cinquanta in una casupola tre per tre. Poi inizio a scendere verso Lakka, secondo centro di Paxos, posto all’estremità nord dell’isola. Faccio una strada sterrata, molto ripida e molto divertente. A metà percorso sosto alla chiesa di Ypapanti, sperduta nel nulla. La torre campanaria, staccata dalla chiesa, é aperta ed io salgo fino in alto da dove si vede tutta la baia di Lakka e, oltre, Corfù. L’arrivo a Lakka é destabilizzante: dopo una mattinata trascorsa in posti da asini, completamente deserti, tra case diroccate, olivi giganti, vecchie auto abbandonate, minuscoli cimiteri accanto a minuscole chiese, improvvisa arriva la ventata di frivolezza del porticciolo. Sul lungomare una lunga fila di locali fighetti ed un’altra, altrettanto lunga, di barche a vela ormeggiate. Atmosfera lounge, buddha-bar, yatching-club. Campari e polo bianche. Ed io? Sarò mica il più fesso. Vado da Akis, l’ultimo locale della baia verso la spiaggia di Harami, il più chic, col deck in legno del ristorante all’aperto che arriva a lambire il filo dell’acqua. Giusto il tempo di mangiare che, come punizione, si scatena un temporale furioso che costringe tutti a riparare dentro al locale. Un sacco di scena, ma in mezz’ora é tutto passato, però questo tempo di melma non vuol sapere di mettersi a posto. Forse é meglio se mi rimetto in strada. Prima di dirigermi a Loggos (pronuncia Logòsh) faccio una deviazione verso il faro, La strada é naturalmente una rampa immonda e ringrazio Shimano-san, l’uomo che inventò la tripla moltiplica. Come in tutta la Grecia anche a Paxos gatti ovunque, veramente ovunque; dall’uliveto sperduto al ristorantino sul lungo mare se si osserva bene c’é sempre un gatto intorno. Quindi gatti anche alla lighthouse. Torno sulla strada asfaltata principale dell’isola in direzione Loggos. Inizialmente questo tratto é ingannevolmente facile, poi ti frega arrampicandosi all’improvviso in modo brutale. Insulti, bestemmie e sudore. Al bivio per Loggos esito un attimo: sono in alto ed il paese é laggiù; se scendo poi dovrò risalire. Va bé. Picchiata fino al porticciolo, quieto, raccolto, elegante, malinconico, decisamente meno mondano di Lakka. Ad un capo dell’insenatura c’é il molo con la Spiro’s Jetty House, dall’altro una fabbrica di sapone in rovina vecchia più d’un secolo. Il senso di abbandono é accentuato dall’ora della siesta: tra le due e le cinque a Paxos non si muove una paglia. Alla fine del molo c’é un’altra strada che risale, alternativa a quella che ho fatto per scendere; appena dopo si apre la caletta di Levrechio, con relativa spiaggia. Vinto da una terribile sonnolenza mi fermo qui. Dormo sui ciottoli, poi faccio quello che rimarrà l’unico bagno della vacanza. L’acqua é semplicemente cristallina. Nel tardo pomeriggio decido che é ora di affrontare la risalita. Rantoli in più lingue fino a Zernatika, poi falsopiano. Giunto a Platanos sento che si avvicina alle mie spalle, implacabile, l’ennesimo temporale. I primi tuoni rimbombano in lontananza. Ma ormai é quasi tutta discesa. Da Platanos alla costa la strada scende giù dritta come un fuso con una picchiata da ottovolante costeggiando un enorme vascone di raccolta delle acque piovane. “No rain, no water” c’é scritto nei bagni dell’isola per invitare la gente a risparmiare acqua. Riprometto a me stesso di non fare mai questa strada in senso opposto. Arrivo a casa in tempo: dopo l’usuale scroscio ed i fulmini sul mare, compare un lunghissimo arcobaleno che affonda nello Ionio. 17 settembre 2008 Al risveglio la costa é spazzata da un vento gelido e fortissimo che arriva da nord, mentre il cielo, ancora ingombro, non fa sperare per il meglio. Esco di casa poco convinto ma già a Gaios il vento smette di dare fastidio ed il sole splende caldo. Oggi un po’ di relax a Mogonissi, l’isola che non é un’isola. Qui c’é un piccolo porticciolo per barche da diporto con una taverna ed una minuscola spiaggia di sabbia. Rimango tutta la mattinata su questa esile lingua a scaldarmi un po’ le ossa mentre guardo distrattamente le operazioni di attracco di velisti improvvisati che s’incasinano la vita entrando in rada, parcheggiando, strambando bomi e cazzando rande. In fondo, sul lato opposto della baia, c’é la chiesetta paleocristiana di Agia Marina. Oddio, chiesetta: tre muri ed un abside di pietra buttati contro l’azzurro del mare ed immersi nel profumo della resina di pino. Nel primo pomeriggio mi rimetto sulla strada. Tornato a Gaios inizio a salire verso l’entroterra, con una vaga idea di andare alla ricerca di Trypitos, un arco naturale in pietra che si trova tra le scogliere del litorale ovest. La strada asfaltata sale regolare verso Vellianitatika, che non é un paese, ma un insieme di case e altri edifici più o meno nuovi sparpagliati tra gli ulivi. Gli ulivi sono la cosa più incredibile dell’isola: ovunque ci sono poderi di alberi ultracentenari, con tronchi che sembrano querce, contorti, nodosi, scultorei. Intanto la strada asfaltata diventa stradina in cemento battuto, poi pista sterrata tra muri a secco, infine sentierino che si nasconde nella sterpaia mediterranea. Non so dove sto andando. Cerco solamente di raggiungere un punto di vista sulla linea di costa. Dopo un po’ di vero off road la mulattiera esce allo scoperto nella garriga che graffia e punge scendendo verso le scogliere occidentali. Non sono a Trypitos: il sentiero mi ha portato sulla cornice superiore del precipizio che circonda la baia di Prasses. Il mare della spiaggia di Galazio, settanta metri sotto, ribolle furibondo in tinta turchese. Torno a Gaios passando per la località di Oziàs, che raggiungo dopo il solito paio di vertiginosi saliscendi. Trovo un paese completamente deserto. Tre gattini dormono sulla porta della chiesa mentre nell’angusto cimitero annesso le lapidi sono talmente vicine da non lasciare neanche lo spazio per passare. Il sole un po’ opaco di settembre dà all’insieme un senso di abbandono dolce, privo di malinconia. Arrivo a Gaios dopo una lunga picchiata che finisce col perdersi nel dedalo di stradine del retro porto. Mi siedo ai tavolini di un locale sul lungomare e bevo una birra guardando il via vai delle barche. All’ombra però fa quasi freddo, così cerco un posto per scaldarmi al sole del tardo pomeriggio. Scelgo la spiaggetta di Balos, lungo la strada per Mogonissi; bella insenatura e mare trasparente, purtroppo il catrame che gli pseudo velisti lasciano in giro viene a chiazzare i candidi ciottoli della spiaggia. Sul lungomare di Gaios, dopo cena, c’é un’aria tesa e fastidiosa, sicuramente non più estiva, che sa di vacanze finite e induce alla smobilitazione un po’ tutti. I turisti sono, nella stragrande maggioranza, gente di mezza età, nordeuropei. Sul molo girano velisti inglesi in giacca a vento mentre, appena fuori dal porto, sorge all’orizzonte una luna piena e rosa che, alla svelta, decolla diventando bianca e scintillante. Presago dell’autunno imminente compro una grande sciarpa di seta arancione.
18 settembre 2008 Sole! Il terrazzo della villa Thalassa ricomincia ad assumere le fattezze di sun-lounge, dopo che per diversi giorni é sembrato più che altro una piscina. Stamattina vado a nord, alla spiaggia di Kaki Langada, descritta come la più “scenica” dell’isola. Arrivo con la bici fin sui ciottoli bianchi. La spiaggia é esposta a sud e riparata sul lato nord, quindi il vento non dà per niente fastidio. Nella tarda mattinata ancora una volta sento il richiamo dell’entroterra e delle sue strade a picco sul mare. Lascio Kaki Langada e risalgo di nuovo verso Magazià. La vita, a Paxos, da sempre é in montagna, tra gli ulivi e le capre, non giù sulla costa. Ancora oggi é così: a Bogdanatika c’é il complesso scolastico dell’isola con un grande ed inaspettato campo da calcio in sintetico; il suo verde brillante scintilla tra il grigio della pietra e degli uliveti. Svolto a casaccio verso la località di Vlachopoulatika ed, in breve, mi perdo nel solito intrico di viuzze, sentieri, aie e poderi. Andando a naso seguo un viottolo che finalmente mi porta ad uno stupendo punto panoramico sul mare occidentale. E’ di nuovo Prasses, ma oggi sono all’altro capo della baia. A pranzo mi fermo dalle parti di Magazià, in una taverna molto casalinga; seduti ai tavolini di un cortile ci sono i due anziani proprietari e il barbuto pope locale che si beve una birra. Aria fresca, sole, olio d’oliva, pane fatto in casa, cetriolo, feta, pomodoro. Queste cose qui, insomma. Nel pomeriggio rimango in quota a girovagare verso sud, con in testa ancora l’idea Trypitos: trovare l’arco diventa una piccola sfida. Con la Bleasdale ci vorrebbe un attimo, senza é difficilissimo. Cerco un posto per riposarmi un po’ e mi fermo presso la chiesa di Pantocratoras, detta “del Conte”. La chiesa ha accanto un ombroso cortile cui si accede da un alta porta ad arco. Pare che l’arco sia così alto perché doveva passarci sotto a cavallo il conte che ha fatto costruire la chiesa. Dietro la chiesa una sequenza di archi in pietra in rovina, forse i resti di un chiostro. Il posto, come tutto l’entroterra, é deserto e silenzioso. Pace. Leggo un po’ Robert Byron, alle prese con i preparativi per la partenza verso il Turkestan, e poi mi addormento. Verso la metà del pomeriggio riparto verso Oziàs, seguendo la strada del giorno precedente. Ad un bivio trovo un cartello giallo scolorito che indica, tra l’altro, anche Trypitos. Sulla base di questo vago indizio prendo un infame sentiero da capre che si arrampica verticale. Dopo un po’ mollo la bici e proseguo a piedi; scavalcando muretti a secco e terrazze alla fine mi trovo davanti una torre cilindrica di pietra, in rovina ma bellissima. Scoprirò poi che si tratta di un antico mulino a vento; ce ne sono ancora parecchi sull’isola. Oltre il mulino però ogni strada si chiude senza rimedio e tocca tornare indietro. Quest’ultima arrampicata lascia il segno; subentra una sottile fiacca da mountain bike accompagnata dall’usura dei tendini delle ginocchia che mi riconduce a Gaios. L’esplorazione ciclistica di Paxos finisce qui, ma l’isola é stata domata in lungo e in largo. Mentre vado a restituire il mezzo al ciccione mi ritrovo in una Gaios affollata di turisti e brulicante di vita. Un cartello trilingue segnala i cassonetti dell’immondizia e indica agli sbadati turisti dove “butare robaccia”. Mi accorgo in seguito che il fermento era dovuto ad un’ondata di gente sbarcata da una di quelle navi che fanno gite in giornata. Ripartita questa barca il porticciolo riprende la sua usuale tranquillità. Il penultimo giorno di permanenza a Paxos termina mangiando gyros. 19 settembre 2008 Oggi volevo andare sull’isola di Antipaxos e passare la giornata là. Ci sono barchette che portano la gente al mattino e la vanno a prendere alla sera. Come al solito però non ci sono mai informazioni certe. Chiedendo in giro ho sentito voci pessimistiche circa l’effettiva presenza del servizio per la mancanza di gente e le condizioni del mare. Va bé, pietra sopra, tanto più che la giornata é vagamente velata. Prendo allora l’autobus di linea dell’isola (“the local bus”) e vado fino a Lakka, con in mente l’idea di tornare a Gaios a piedi (oggi possiedo la carta!). Il bus compie acrobazie autentiche sulle strette strade e sui ripidi tornanti di Paxos, ma il meglio lo dà sul lungomare di Loggos, quando passa veramente al pelo tra le file di tavolini ed il margine del molo. Da Lakka, per tornare verso Gaios, prendo la scalinata che sale dalla spiaggia di Harami verso sud, verso la montagna. Presto mi trovo nel fitto della macchia; il sole, pallido, filtra tra i rami. In una mezz’ora arrivo a Vasilatika, dove si trova la cosiddetta “Venetian House”, una splendida casa in pietra di fattura medievale costruita quasi sul margine della scogliera. Poco più in basso mi colpisce il giardino di un’altra casetta, traboccante di ogni essenza mediterranea e dominato da un gigantesco eucalipto. Proseguendo esco allo scoperto sulle vertiginose scogliere di Ypapanti. Il sentiero corre proprio sull’orlo del precipizio, centocinquanta metri sopra il livello del mare. La guida non esita a definire “dramatic” questo scenario naturale; io cerco semplicemente di guardare giù il meno possibile. Sulla sommità della collina arrivo ad un ampio recinto con i resti di un altro mulino circolare. La vista é completa su tutta la parte nord dell’isola. Intorno il suolo é disseminato di cartucce da fucile. Mi chiedo che cosa si possa cacciare da queste parti e perché la gente debba per forza lasciare una traccia della propria esistenza anche in certi posti. Superato il mulino ed il punto panoramico sulle scogliere di Kastanida mi allontano dalla costa e torno ad intrufolarmi nella macchia, verso il centro dell’isola. Arrivo di nuovo alla chiesa di Ypapanti e passo a fianco alla “Circe’s Spring”, una fonte naturale (cosa rarissima a Paxos). Purtroppo la fonte, racchiusa da un muro in pietra, é completamente imputridita. Circe non ne sarebbe contenta. Camminando perdo un po’ la nozione del tempo, ma il mio stomaco mi ricorda che l’ora di pranzo é già passata da un po’ e che non ho con me niente da mangiare. Prendo allora un meraviglioso sentiero verso Magazià, dove arrivo verso le due e mezza, ovvero in piena siesta, e dove trovo ovviamente tutto chiuso. Mi tocca proseguire fino a Platanos, dove un taverniere impietosito mi prepara un’insalata. La traversata dell’isola é quasi compiuta; non rimane che scendere verso la costa orientale. Il cielo intanto da velato si fa proprio nuvoloso; l’ultimo occhio di sole é per la spiaggia di Kipiadi, che si mostra in lontananza con le sue acque scintillanti ed i suoi sassi bianchissimi. Io però non scendo a Kipiadi, ma alla limitrofa baia di Alati, piccola, solitaria e segreta. Qui, con un tempo che non si capisce bene com’é, si conclude la mia esplorazione di Paxos. Ritorno verso casa costeggiando ed attraversando di nuovo la spiaggia di Kaki Langada. Il tratto da Alati a Kaki Langada, tuttavia, riserva una tribolazione supplementare: il sentiero é una stretta ed esile linea che corre sul ripido margine di una scogliera e rischia di scomparire ad ogni passo tra vegetazione spinosa e muretti franati. Dopo giri tortuosi per evitare recinzioni di ville invadenti riesco finalmente a sbucare vittorioso sulla bianca distesa di Kaki Langada, deserta nel tardo pomeriggio pallido, fatta eccezione per due malinconiche inglesi. Tornato a Villa Thalassa preparo i bagagli mentre un piccolo gregge di capre transuma sotto il terrazzo, tra gli scogli. Sembra siano ghiotte di alghe. Alla sera, mentre mangio un calamaro arrosto, mi accorgo che non mi sento per niente bene.
20 settembre 2008 Piove. Di nuovo. Ed io ho l’influenza. Cielo e mare sono tornati di un grigio compatto. Diversamente grigi ma grigi. Ho appuntamento con la Olympic Champion ad Igoumenitsa per le 22,30. Mi aspettano due giorni di viaggio che, date le mie condizioni, potrebbero diventare molto, molto lunghi. C’é un traghetto, il Pantanassa, che lascia Paxos alle 11,45, ma lo lascio temerariamente partire per evitare di passare dieci ore ad aspettare nella tristissima Igoumenitsa. Lascio lo studio B verso l’ora di pranzo. Ha smesso di piovere ma il tempo é decisamente brutto ed io sto decisamente male. A Gaios la motonave Ionian Sun (nome oggi abbastanza grottesco) scarica gli ultimi spiccioli di turisti che sbarcano perplessi nelle loro bermuda ed infradito. Io ho la giacca a vento. Mentre aspetto l’aliscafo Santa III, che mi porterà a Corfù, resto accampato al Capriccio Café, mangiando club sandwiches e prendendo tachipirina. Parto alle quattro e nel giro di un’oretta arrivo a Corfù. Durante la traversata il tempo torna bello ed esce di nuovo il sole, ma quando sbarco mi rendo conto di avere la febbre davvero alta. Attraverso il porto e mi sento inconsistente, sballato ed insensibile. Da un certo punto di vista non é neanche male. Mi sento come un inglese, imperturbabile ma fuori di testa. No, non ho bisogno di rooms, grazie, l’ho già detto, basta! In un’ora di attesa gli spacciatori di stanze mi sfiniscono. Finalmente, verso le sei e mezza, mi sistemo su un divanetto della Ekaterini P, diretta ad Igoumenitsa. Avrei voluto godermelo di più questo viaggio di ritorno, invece é solo spostamento e sopravvivenza. Igoumenitsa by night é esattamente come la città di giorno: uno schifo. Quando arrivo rifaccio un salto al Golden Palace Café. Mangio un toast e guardo in televisione il secondo tempo di Aris Salonicco contro Panathinaikos. Vince il Panathinaikos, ma é una squadra di catenacciari scandalosi. Al porto di Igoumenitsa, calata la sera, l’attrattiva principale consiste nelle scene da far west delle bande di ragazzini albanesi che si nascondono tra i camion parcheggiati sul molo per imbucarsi sulle navi in partenza mentre la polizia tenta di cacciarli. Il giochino va avanti fino all’imbarco. Dalle facce stanche dei poliziotti dev’essere una consolidata abitudine. L’Albania, d’altra parte, é proprio qui dietro l’angolo. Salgo sull’Olympic Champion mentre il personale di sicurezza dell’Anek pattuglia il molo con torce elettriche per tenere lontani i profughi. Cabina 10230, deck 10, quasi un miraggio. Mi ritiro sotto coperta e sotto le coperte a tremare.
21 settembre 2008 Non che si dorma bene nella cabina della nave, intendiamoci. E’ come una cella, sigillata, senza aperture, con l’aria condizionata e il suo cessetto. Ma meno male che c’é. Dopo una notte tutto sommato tranquilla al mattino salgo sul ponte a respirare. Si balla un pochettino. I malanni, la stanchezza e la fine della vacanza cancellano qualsiasi ulteriore slancio poetico. Verso mezzogiorno si comincia a vedere in lontananza il Conero. Ovviamente al momento dello sbarco si mette a piovere e a me viene da ridere. Per tornare a casa mi concedo un eurostar da ricchi, col posto numerato e il capotreno che dà il benvenuto a bordo. Il cielo sull’Emilia, ormai, é uguale a quello dell’andata. Adesso l’estate é finita davvero.