Patrizio in mustang
Come comincia un viaggio? In tanti modi: uno sente il racconto di un amico, vede un film, riceve una cartolina e gli vien voglia di andare in un posto. Ma in Mustang no, in Mustang ci si va, per forza, tramite un libro. Perchè del Mustang quasi nessuno parla e in pochissimi ci sono stati. Del Mustang ci sono pochissime...
Come comincia un viaggio? In tanti modi: uno sente il racconto di un amico, vede un film, riceve una cartolina e gli vien voglia di andare in un posto. Ma in Mustang no, in Mustang ci si va, per forza, tramite un libro. Perchè del Mustang quasi nessuno parla e in pochissimi ci sono stati. Del Mustang ci sono pochissime immagini e oltretutto, dal Mustang, è anche difficile mandare cartoline. Quindi, che io sappia, le strade che portano in Mustang sono due: la prima passa per il libro “Asia” di Tiziano Terzani (edizioni Longanesi) in cui il grande giornalista-scrittore dedica a questo piccolo Paese che geograficamente fa parte del Tibet e politicamente è sotto l’amministrazione del Nepal, un capitolo. Ma la via maestra è un altro libro, “Ultimo Tibet, un viaggio nel Mustang” di Piero Verni, prefazione di Fosco Maraini, che io ho letto nell’edizione di Tea Due. Piero Verni è il Presidente dell’Associazione Italia-Tibet. Fosco Maraini è il padre di tutti gli orientalisti italiani, è stato uno dei primissimi a visitare il Tibet e, tra gli altri, ha scritto un librone meraviglioso che s’intitola “Segreto Tibet” (Corbaccio).
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Cosa c’è? Vi siete annoiati di tante citazioni letterarie? Pensate che mi sia montato la testa e voglia far l’intellettuale?! Neanche per sogno: il fatto è che la strada per il Mustang è lunga e in salita, bisogna arrivarci pian piano, altrimenti uno non capisce dov’è e gli gira la testa, per l’altitudine e non solo…
JOMOSON Quando, assieme appunto a Piero Verni e a sua moglie Karma, tibetana rifugiatasi all’estero con la famiglia dopo l’occupazione cinese del Tibet, sono arrivato a Jomoson, anch’io all’inizio non ho capito bene dov’ero. Eravamo arrivati da Katmandu a Pokhara in pulmino e poi da lì avevamo preso un aereoplanino che, dopo aver sfiorato le cime dell’Annapurna, era atterrato in un aereoportino incastrato in una valle. Mi sembrava di essere in gita in montagna, tutt’attorno un’aria da Marmolada. Sarà per una reazione omeopatica e autossigenante ai 2700 metri d’altezza, sarà per l’eccitazione dei preparativi, uno all’inizio si sente un leone. Già il fatto di vedersi partecipe di una spedizione vera, di quelle mitiche, con i muli e gli sherpa, ti fa sentire una specie di eroe degli ottomila. Infatti ottomila sono i metri delle montagne Himalaiane, ma solo duemila sono i fortunati turisti-trekkinisti che ottengono il permesso di vistare il Mustang. E allora uno si sente un Compagnoni&Lacedelli in procinto di aggredire la vetta del K2 e, fingendo indifferenza, si allaccia gli scarponi, controlla lo zaino, controlla la telecamera… A proposito, quando un solerte funzionario nepalese ci vede la telecamera ce la requisisce: è vietato fare riprese in Mustang, se non si ha un permesso. Ma quale permesso?! Noi l’abbiamo chiesto al Ministero a Katmandu il permesso e ci hanno detto che non serviva! Niente da fare: la burocrazia non ammette deroghe. Noi, nei bagagli, di telecamere ne abbiamo altre due, ma d’ora in poi sarà bene usarle con discrezione. Beh, poco male: il Mustang è deserto, chi vuoi che ci veda?
E si parte, in fila indiana: in testa il capo spedizione (che si dice “Sardar”), poi il funzionario nepalese (si chiama Ufficiale di Collegamento, a metà fra un poliziotto e una guardia forestale, che deve vigilare sul fatto che non abbandoniamo la retta via, che non consumiamo legna, che non roviniamo monumenti o trafughiamo opere d’arte, come purtroppo è successo per anni). Poi marciamo noi e la lunga fila dei portatori e dei muli, con sopra tutta la nostra roba. Perchè ogni “spedizione” deve essere autosufficiente, ci si deve portare tutto: il cibo e il combustibile per cucinarlo, le tende, i sacchi a pelo ecc ecc. E uno si sente già nella leggenda! Ma bastano poche ore di cammino per capire che bisogna invece fare i conti con la storia.
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IL TEMPO Un viaggio nel Mustang è un viaggio nel tempo. Nel Mustang non ci sono strade: solo sentieri sui quali passa a malapena un uomo a piedi o un cavallo. Per cui, di fatto, non c’è la ruota! Non c’è luce, non c’è telefono.
Paolino, il mio amico cameraman, guarda tristemente il suo telefonino ma soprattutto guarda preoccupato le batterie della telecamera: come fare e ricaricarle? Nel Mustang sei, prima di tutto, fuori dal nostro tempo. Persino fuori dal ritmo normale del tuo respiro. Per fortuna si comincia piano, con una tappa relativamente tranquilla, un sentiero ghiaioso che, seguendo il corso del fiume, da Jomosom porta a Kagbeni, un villaggetto dove ancora c’è un telefono e ci sono delle pensioncine familiari, ma dove già si capisce di essere in Tibet. Ci sono le case di legno e terra, con la legna da ardere ammucchiata sul tetto (da dove venga la legna in un pesaggio assolutamente desertico e brullo è un mistero). C’è un chorten, cioè una specie di tempio a forma di torta con una grossa candelina sopra che rappresenta la natura, con gli occhi di Buddha che guardano in tutte le direzioni. Ci sono i piccoli recinti con dentro il bestiame, si sente profumo di cacca di mucca, di burro e di the. C’è anche un negozietto polverossissimo di souvenir, dove il pezzo più caro e pregiato è un rotolo di carta igienica, il simbolo della sconosciuta e decadente Civiltà Occidentale. Soprattutto a Kagbeni ci sono già le facce dei tibetani. Si capisce che, anche se ormai di turisti ne vedono tanti, non ci hanno ancora fatto del tutto l’abitudine: ti guardano con misto di curiosità e di diffidenza, ma tendenzialmente ti sorridono.
L’ACCAMPAMENTO Io volevo dormire in pensione, ma Karma e Piero hanno fatto segno di no: meglio le tende. E allora gli sherpa hanno montato il campo in un recinto per gli animali, in terra battuta, protetto dai muretti a secco.
Effettivamente la pensione non aveva nulla a che vedere con la gaia ospitalità della Pensione Miramare di Cesenatico, ma piuttosto un vago odore di fumo, che saliva dalla cucina fin nelle camere con letti spartanissimi. La pulizia, in Tibet, è garantita più dall’aria cristallina e rarefatta che scoraggia i bacilli, piuttosto che da un’opera di disinfestazione umana… L’accampamento, invece, garantiva anche il lusso di un cesso in fondo al cortile, orribile ma molto ben areato.
La mattina dopo si comincia a fare sul serio: da Kagbeni a Chusang, attraverso un passo di oltre quattromila. Ore di cammino previste, anzi, “post-viste” da Piero Verni (perchè verificate di persona nel suo primo viaggio e annotate ne “L’Ultimo Tibet”) sei.
IL CAMMMINO Avete mai chiesto ad un montanaro, durante una gita alle Tofane, “Quanto manca?”. Avrà risposto immancabilmente “dieci minuti”. Invece per voi sono stati almeno trenta. Ecco, moltiplicate questo gradiente di sadismo alpino per il quoziente himalaiano e otterrete il risultato: almeno otto-dieci ore anzichè le sei previste! E il fatto è che, se vi fate sorprendere dal buio, sui sentieri del Mustang possono essere guai grossi! Io, prima di arrivare in Mustang, mi ero allenato a fare qualche passeggiata sulle colline di Rocca Malatina (appennini modenesi). Ma non è la stessa cosa. A tre-quattromila metri d’altezza si riesce a fare un passo ogni due secondi, trenta passi al minuto. E i passi sono corti, diciamo mezzo metro, per cui si procede di quindici metri al minuto, meno di un chilometro all’ora… Il respiro va tenuto sotto controllo, perchè se si va in affanno è difficile tornare indietro. A me tutto sommato è andata bene: solo una volta mi è venuto uno strano formicolio alle gambe, che poi è passato in un’ora. Ma un’altra volta, appunto, il cuore ha cominciato a galoppare: io mi son fermato subito ma lui non si fermava più!
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GLI SHERPA E gli sherpa, i fedeli sherpa tanto cari a tutti gli alpinisti? Sono un elemento di ansia in più. Infatti, già a cento metri dalla partenza, nonostante i fardelli mostruosi che hanno sulle spalle, ti hanno lasciato indietro. E proseguono, col loro passo micidiale, senza degnarti d’uno sguardo. Dopo mezz’ora di cammino già non li vedi più. E, portandosi dietro tutto (compreso l’acqua, i viveri ecc) vanno ad aspettarti al luogo stabilito per il pranzo a mezzogiorno e per il campo alla sera. Detto così sembra un grande lusso… Ma se poi voi al luogo stabilito non ce la fate ad arrivare in tempo? Per cui è tutto un affannoso inseguimento degli sherpa: dopo tre ore già li odiate. Oltretutto, a quell’altitudine, portare anche mezzo chilo di zaino diventa impossibile. Per fortuna che, previdentemente, Piero e Kharma ad un certo punto hanno noleggiato un paio di cavallini. Salirci in groppa, per me, neanche parlarne: già mi son venuti attacchi di vertigine lungo un paio di passaggi in cui, procedendo per un sentierino largo 20 centimetri su un ghiaione, si vedevano sotto precipizi himalaiani, ma almeno potevo contare sull’equilibrio dei miei piedi, se fossi stato a cavallo mi sarebbe venuto il panico! Però i cavallini son serviti a portarmi un maglione, la giacca a vento, una bottiglia d’acqua e le pile della telecamera.
Già… La telecamera. Non avevamo i permessi ma “tanto, il Mustang è un deserto!”. Ho scoperto a mie spese che, in un cosiddetto deserto, nulla passa inosservato: tutti sapevano tutto di noi e, misteriosamente, le voci lungo le valli desertiche corrono, anche senza telefonino.
I TIBETANI Ma tutti chi? Tutte le guide e tutti gli ufficiali di collegamento degli altri gruppi (ne abbiamo incontrati alcuni, composti soprattutto da vigorosissimi e atletici tedeschi, ma anche da italiani) e da tutti i tibetani incontrati per strada, nei villaggi o lungo i sentieri. Kharma, che ovviamente parlava la lingua, ci ha regalato il privilegio di comunicare con loro. E sono stati incontri densi, pieni di sorprese. Una volta abbiamo incontrato una signora anziana con la figlia. Naturalmente vestite con il loro costume tradizionale. Scendevano da Lo Manthang, l’ultima cittadina, la capitale del Mustang, ma sembravano arrivare da un altro tempo. Le facce rugose, gravi ma sorridenti. La pelle cotta dal sole e magari anche scurita dal fatto che le loro abitudini igieniche sono diverse dalle nostre (non suoni come una ironica critica, è difficile da capire, ma lassù anche a me non è mai venuta voglia di lavarmi la faccia; là si è puliti in un altro modo. Solo Piero si faceva la barba un giorno sì e uno no). Bene, quelle due donne uscite dal passato andavano, ovviamente a piedi, fino a Jomoson, poi da lì avrebbero preso un aereo fino a Katmandu, dove avrebbero acquistato mercanzia di scambiare e commerciare in India, per poi far ritorno nel Mustang con la prossima buona stagione! Un altro esempio: entriamo in casa di un signore, molto gentile, amico di Piero e di Kharma, il nipote del re del Mustang. Durante la chiacchierata, sia pure senza permesso, io estraggo la mia mini-camera digitale che, così piccola, poteva assomigliare ad una macchina fotografica: tanto, cosa vuoi mai che ne sappiano i Tibetani… Dopo il the al burro il gentile signore ci saluta e mi fa “Bella la telecamerina digitale. Quanti CCD ha? Comunque restiamo in contatto: io giù a Katmandu, dove passo l’inverno, ho l’e-mail.”
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UN LUOGO DA SALVARE Magnifico, stupefacente Mustang! Appeso al cielo, sospeso fra passato remoto e presente. Gente che viene dal Medio Evo e si spinge nel terzo millennio senza complessi, senza paura, senza perdere l’identità. Grazie a tutto questo, grazie allo spirito tibetano indomabile e pieno di inziativa, forse si salverà dagli effetti negativi della globalizzazione. Forse i Tibetani (quelli del Tibet e quelli Mustang) riusciranno a resistere alla pressione pesantissima della Cina e a quella strisciante del Nepal. Speriamo, e possibilmente collaboriamo alla loro resistenza, perchè di roba da “salvare”, in Mustang, ce n’è moltissima. Oltre alla gente, c’è la lingua, che non è insegnata più nelle scuole. Poi c’è da augurarsi che si mantenga integra la natura. Valli meravigliose, scorci stupendi. Colori “puliti”, lavati dall’aria cristallina. Campi di riso e di orzo che sembrano dipinti da un pittore sul fondo delle valli. Campi coltivati con una tecnologia identica a quella di cento, mille, duemila anni fa. E poi i monumenti: Tsarang e Manthang sono piccole città mravigliose, antiche città-stato con palazzi e luoghi sacri costruiti della stessa terra sulla quale sono poggiati, in un’armonia cromatica trasgredita e nel contempo celebrata solo dalle file di bandierine di preghiera, coloratissime. E rese brillanti dai riflessi dei cilindri metallici dove stanno scritte appunto le preghiere che, passando, ognuno fa girare.
UNA FAVOLA In alcuni villaggi in cui Piero e Kharma mi hanno portato (per esempio Tange) m’è venuto quasi da piangere e mi son detto “Qui ci devo portare Zoe, ma mia bambina, prima che cresca del tutto”. Perchè il paesaggio e le persone erano quelle archetipiche delle favole. Ero nello “scenario assoluto”, nel luogo che pensavo potesse appartenere solo al mondo delle idee e della fantasia. Ero nel libro in cui abitano i piccoli eroi delle fiabe (i bambini e le bambine con le treccine e la goccia al naso e gli occhioni sgranati), dove abitano le Principesse (le ragazze sorridenti, bellissime) o le Streghe buone (le donne anziane che ti offrono il the o che fanno da mangiare sedute per terra nelle cucine nere) o i Lupi (i mastini tibetani da cui è bene stare alla larga) o gli Orchi (i buoi con il pelo lungo e i cornoni).
Ecco: la domanda è questa. “Il Mustang esiste davvero?” Io, dopo esserci stato, ancora me lo chiedo.
PATRIZIO ROVERSI