Patagonia y Tierra del Fuego
Il diario di questo viaggio non è per nulla snello e succinto.
Ammetto di essermi “leggermente” dilungato nella descrizione di molti dettagli ma, d’altra parte, il mio desiderio era di essere il più fedele possibile per permetterci (a noi che c’eravamo!) di rivivere, anche a distanza di tempo, tutte le piccole emozioni e momenti che rendono incredibilmente ricco un qualsiasi viaggio.
Ho inserito una serie di dati economici e altri dettagli vari per cercare di essere d’aiuto a tutti quelli che come me utilizzano “Turisti per Caso” come validissimo strumento di informazione prima di pianificare e intraprendere i propri viaggi.
Se avete un collegamento internet veloce e volete scaricarvi questa stessa versione del nostro diario corredata da alcune delle foto più belle Se volete solo vedere le fotografie del viaggio:
Prologo Patagonia: novecentomila chilometri quadrati, divisi tra Argentina e Cile, a partire dal Rio Negro fino a Punta Arenas dove la terra tocca il mare.
Oltre lo stretto di Magellano continuano le solitudini della Tierra del Fuego, che condivide con la Patagonia geografia e storia, con la sola eccezione del suo insediamento di popolazioni.
E’ la storia di una terra alla fine del mondo, dai confini labili in cui sono passati nei secoli, navigatori, avventurieri, scienziati, poeti, criminali, cercatori d’oro, rifugiati politici.
Come potevamo mancare noi?
Chatwin diceva che l’isolamento e la solitudine di questi luoghi possono mettere a dura prova la mente ed esagerare in maniera parossistica la persona che si è: “l’ubriaco beve ancor di più, il devoto prega, il solitario diviene ancor più solitario” (dalla biografia “Bruce Chatwin” scritta dall’amico Nicholas Shakespeare).
Noi siamo tornati ancora più belli e ricchi dentro.
Buon viaggio.
Diario di viaggio Giovedì 13 Dicembre 2007.
La partenza.
Milano. Ore 18.00. La totale assenza di taxi non ci scoraggia. Nonostante i due zainoni giganti e uno piccolo, ci inoltriamo in un Pasteur-Loreto-Centrale, non senza qualche difficoltà e nel più totale ma sempre discreto stupore dei milanesi di ritorno dal lavoro. Il nostro viaggio è stato studiato a tavolino nei minimi dettagli da qualche mese e questo imprevisto iniziale non ci preoccupa, rientra nel margine calcolato.
Nel tragitto con il Malpensa Shuttle invio una quantità industriale di sms per auguri di Buon Natale e Buon Anno in anticipo. Il volo AZ 682 Milano (Malpensa) – Buenos Aires (Ezeiza) parte in perfetto orario, alle 21.45 per percorrere gli 11.212 km che ci separano dalla meta. Siamo prestigiosamente e splendidamente accomodati in classe magnifica, nei sedili 1A e 1C, alla modica cifra di € 31,60 a persona: il costo dell’emissione del biglietto premio in cambio delle 120.000 miglia e della promozione AmEx Companion. Le miglia sono il regalo di tante trasferte lavorative olandesi a Maastricht e Apeldoorn, il biglietto Companion, merito delle spese della Micky. Bis di primi, abbondanti secondi e contorni con piatti di ceramica e bicchieri di vetro, innaffiata da un discreto Montepulciano d’Abruzzo (“vino come se piovesse”…). La cena, la comodità del sedile Recaro quasi completamente reclinabile e la stanchezza accumulata nei giorni precedenti alla partenza mi portano ad una memorabile ronfata di nove ore (mai successo in aereo) che lascia il tempo ad un film giusto prima di atterrare.
Venerdì 14 Dicembre 2007. La Recoleta e l’arrivo nella Peninsula Valdes.
Ci svegliamo con una bellissima alba e con una incredibile dimostrazione di maestosità da parte della capitale argentina dall’alto: dal finestrino dell’aereo non si riescono a scorgere i confini della città, se non quello netto e dorato dell’alba dell’Oceano Atlantico.
Il volo arriva in perfetto orario a Ezeiza, Ministro Pistarini alle 7.30 del mattino. Ci trasferiamo all’Aeroparque Jorge Newbery (AEP) dove inizia il nostro tour Patagonico Sur. Il trasferimento per i 35 km da EZE (a sudest della città) a AEP (all’interno della città) ci costa 95 ARS.
Purtroppo, a causa di un eccesso di precauzione nella pianificazione dei trasferimenti interni, ci troviamo a AEP con cinque ore di attesa prima del volo Aerolineas Argentinas che ci deve portare a Trelew. Considerato l’arrivo con volo internazionale e l’incognita delle procedure di entrata in Argentina, nè Micky nè io ci eravamo arrischiati a prenotare una coincidenza più stretta. Entrambe si rivelano efficenti e on-time, regalandoci un lasso di tempo inaspettato a Buenos Aires.
Dopo aver imbarcato i bagagli, in uno dei check in più anticipati della storia, fra le varie possibilità optiamo per una visita al cimitero della Recoleta dove, dopo aver portato i nostri distinti saluti a Eva Duarte in Peron, oltre che a mezza Buenos Aires di sconosciuti, ci permettiamo di scattare qualche fotografia particolare.
Ci colpiscono una lettera scritta in italiano da un padre a sua figlia Liliana (che nella statua a lei dedicata ha le sembianze di una bellissima venusiana, le nemiche di Capitan Harlock, e viene ritratta con il Fiel Amigo Sabu, simpaticissimo bobi), un calciatore Argentino che si disseta serenamente alla faccia di tutti i trapassati, e come la morte sia presente sotto varie forme.
Una simpatica colonia di gatti fa compagnia ai trapassati.
Il primo contatto con i trasferimenti in taxi ce ne fa apprezzare la convenienza rispetto all’Italia. Il tassametro parte sempre da 3,10 ARS (circa 0,60 €) a qualsiasi ora del giorno e della notte. Per il tragitto dall’Aereparque Jorge Newbery fino a Recoleta spendiamo circa 15 ARS (3 €).
Prima di tornare in aereporto ci concediamo un piccolo spuntino all’aperto a La Biela (www.Labiela.Com) quasi all’uscita del cimitero. Turistico ma carino.
Alle 15.30, con una mezz’ora di ritardo (direi abbastanza costante per le Aerolineas Argentinas) il nostro primo volo AR 2810 decolla, destinazione Peninsula Delgada, Patagonia.
Dopo circa un’ora e mezza stiamo sorvolando le coste, i 400.000 ettari della penisola, e l’ istmo Ameghino che la collega alla terraferma. Siamo nella regione del Chubut nella parte più nord della Patagonia (una delle terre meno popolate del mondo, avendo punte record di meno di un’abitante per chilometro).
Il piccolissimo aereporto di Trelew ci accoglie con alcune informazioni sulle proprie meraviglie naturali da offrire con fierezza argentina ai turisti. Mentre aspettiamo fiduciosi gli zaini (sempre memori dell’avventura statunitense dell’estate 2007) chiediamo informazioni. Ci vengono date poche speranze per la visione della Ballena Franca Austral, che passa da queste parti per riprodursi nell’inverno australe, fino a metà Dicembre. Volutamente, nella mia pianificazione, questa tappa è posizionata come prima: proprio per cercare di agguantare per la coda (…) qualche ultima ritardataria ancora vogliosa di accoppiamento.
Al banco Hertz ritiriamo il nostro gruppo B prenotata dall’Italia. Trattasi di Volkswagen Gol (..No, non ho dimenticato la F finale, è proprio una Gol) che millanta un “controlado por satelite” su entrambi i finestrini (nemmeno la banda bassotti ci potrebbe credere…), e che dimostra assai più dei suoi circa 21.000 Km di contachilometri.
Nonostante ciò, ci accompagnerà fedelmente per la nostra tre giorni di strade, soprattutto sterrate, fra elefanti marini, leoni marini, pinguini di magellano, armadilli, gabbiani, colombe australi, pecore, lepri, balene, avvoltoi, in una pianura sconfinata sotto miliardi di stelle.
Il tragitto Trelew-Puerto Madryn-Puerto Piramides scorre senza alcuna difficoltà. Quando abbiamo già imboccato l’istmo che crea la peninsula, paghiamo ad un posto di controllo l’entrata per il parco (40 ARS a persona e 3 ARS per la Gol).
La radio, sintonizzata sui 96.7 Mhz, ci passa della musica anni 80 che ci aggrada particolarmente.
Data l’ora tarda, decidiamo di cenare a Puerto Piramides e la Micky sceglie il Ristorante (ma anche Hotel) The Paradise (www.Hosteriaparadise.Com.Ar), uno fra quelli suggeriti dalla Lonely Planet. Mi scofano una ottima ed economica centolla de mariscos che mi mette di buon umore prima dell’ultimo tratto di sterrato di 70 km per l’Hotel de Campo Faro Punta Delgada (www.Puntadelgada.Com). Quest’ultimo tragitto della nostra prima giornata patagonica è illuminato solo da un indescrivibile cielo con i milioni di stelle, che viste senza inquinamento luminoso delle nostre città, fin da bambino, mi ricordano istantaneamente quanto siamo piccoli e certamente ignoranti rispetto a tutto ciò. A farci compagnia anche tanti leprotti che attraversando la strada all’improvviso, a volte ci costringono a manovre rallystiche (per la gioia del mio copilota…).
Al nostro tardo, ma atteso arrivo alle 23 ad accoglierci troviamo Roxana, esperta, simpatica e ricciola padrona di casa. La nostra camera è spartana ma confortevole, a parte la porta del bagno che non sembra aver voglia di fare il suo lavoro e sente la necessità di essere parecchio aiutata.
Sabato 15 Dicembre 2007. La natura della penisola: elefanti, leoni, pinguini.
Il bar ristorante del Punta Delgada si trova in una struttura a parte rispetto alle camere, con una grande vetrata che osserva la steppa patagonica. Il complesso, visto dall’alto, mi ricorda il film “Amore per sempre”, nella scena finale in cui Mel Gibson arriva in aereo ad una casa sopra una scogliera. Il faro del 1905 domina infatti una imponente scogliera che a sua volta sovrasta un lunghissimo tratto di spiaggia di proprietà degli elefanti marini.
Durante l’abbuffata di corn flakes, marmellate, torte, tortine, alcuni cavalli e tante pecore scorrazzano liberi alla nostra vista. Ogni giorno i bravissimi ragazzi che gestiscono l’hotel, di proprietà della marina, ma ceduto in concessione per qualche decennio, organizzano escursioni e attività interessanti a sfondo naturalistico, facoltative ed incluse nel prezzo del pernottamento.
Nella nostra prima uscita Daniel ci accompagna in una interessantissima visita sulla spiaggia spiegandoci i segreti degli elefanti marini. Vita, morte, amici, nemici e altri dettagli come il cambio della pelle, le dimensioni, il loro pasto.
Ci soffermiamo nell’osservarli da vicino ma non troppo per non disturbarli. La passeggiata termina con una breve sosta relax in cima alla scogliera dove c’è chi si intrattiene in chiacchiere svizzero-argentine (Micky) e chi va alla scoperta di armadilli (Dome).
Il languorino del dopo passeggiata mi riporta al risto per un bife de chorizo e una copa di vino tinto che soddisfano appieno il mio appetito.
Nel pomeriggio decidiamo di sfruttare la presenza della nostra Gol per andare verso Punta Norte passando per Caleta Valdes dove una colonia di pinguini di Magellano si rilassa amenamente fra la spiaggia e la piccola scogliera. Le orche, loro nemiche giurate, sono ben lontane: solo verso Marzo iniziano ad essere presenti in massa e a rappresentare un vero pericolo per i nostri buffi amici a due zampe. A Punta Norte, dove si fanno vedere numerose, chiediamo qualche info alla guardiana della spiaggia che però non ci racconta molto. Il paesaggio è sempre ricco di leoni marini, gabbiani e la solita tanta strada sterrata che, prendo sempre con allegria e con qualche controsterzo (e relativo urlo della Micky). Al rientro il contachilometri segna 180 kilometri in più della partenza. Nonostante l’assenza delle orche siamo molto soddisfatti del nostro pomeriggio Valdes-soso.
Il sole cala verso le 21.30 mentre ci gustiamo, nel consueto ristorantino, una buona cena innaffiata da un cabernet sauvignon della casa datato 2005. Satolli, un pò ebbri e molto sereni ci trasferiamo nel piccolo ed accogliente bar-biliardo attiguo. Micky può dare sfoggio di una pregevole imperizia nel lancio delle freccette. Il barista, sentendo dei fruscii vicino alle sue orecchie continua a fatica la sua conversazione con due huespedes olandesi, distratto dal suo istinto di sopravvivenza.
Domenica 16 Dicembre.
La balena e pinocchio.
Mentre godiamo dell’abbondante colazione su un tavolino attaccato alla vetrata e scaldato da un sole patagonico, pianifichiamo con Roxana l’escursione mattutina. Andiamo su un promotorio poco lontano ad osservare, questa volta dall’alto, da lontano, le differenze fra leoni e elefanti marini e come questi vivano sereni insieme. Con noi ci sono una valida guida (di cui mi sfugge il nome ma su cui Micky non può esimersi dal fare ottimi apprezzamenti) e una coppia di ragazzi di Padova, in viaggio di nozze. Per festeggiare hanno scelto di attraversare la Patagonia in macchina fino ad arrivare alla Tierra del Fuego. Rientrati alla base, sempre dopo un consulto con Roxana, decidiamo di lasciare Punta Delgada per rientrare verso Puerto Piramides con la mal celata speranza di avvistare le ultime balene rimaste in zona.
Firmando il libro degli ospiti del Delgada trovo la firma, della settimana prima, di un vecchio amico di Verona con la sua neo moglie. Mi faccio mandare il suo numero di cellulare da una comune amica e gli scrivo un sms: “Siamo sulle vostre tracce. Segnalato vostro passaggio al Faro Punta Delgada…”. Anche loro stentano a credere alla coincidenza. Mi scrivono dalle calde spiaggie di Los Roques in Venezuela.
I 70 km di sterrato percorsi di giorno non sono romantici come il viaggio d’andata nella notte patagonica, ma ci permettono di iniziare a salutare la Peninsula e le sue distese di steppa sconfinate. Al nostro arrivo alla ciudad scopriamo che Moby Dick (Av. De las Ballenas y Acc. Oeste, tel. 02965-495-122), operatore consigliatoci da Roxana, considerando il fine stagione, ci conferma l’escursione ma posticipandola di un paio d’ore. La buona notizia è che il gruppo uscito prima di noi in mare, ha comunicato numerosi avvistamenti. Giusto il tempo di scaricare i backpacks a La Restingas (www.Lasrestingas.Com) e di farsi un piatto abbondante e squisito di vieiras (capesante), accompagnate da una discreta copa di vino blanco per soli 44 ARS, al Bar de los Cetaceos.
Salpiamo, ovvero partiamo dalla spiaggia accompagnati da un trattore che ci spinge fino in acqua, con il gommone più grande su cui io sia mai salito, opportunamente bardati di salvagente arancione d’ordinanza e, alcuni, i più freddolosi, con fatiscenti cerate gialle anti vento. Poco a largo, all’interno del Golfo Nuevo, ne incrociamo una decina. Alcune le scorgiamo da lontano, altre compaiono improvvisamente a pochi metri da noi, per nulla impaurite anzi forse incuriosite dalla nostra presenza. Una di queste ci spalanca la sua enorme bocca quasi a dimostrarci che non è stata lei ad aver inghiottito pinocchio. Un’altra si appoggia con il suo corpo gigantesco ai nostri motori spenti. Quando si stufano di noi, e decidono di andarsene, ci lasciano con l’ultimo saluto della maestosa, delicatissima e teatrale coda che le segue nel loro immergersi profondo.
Ci spostiamo qualche centinaio di metri e rimaniamo con il gommone a motore spento fermi in mezzo all’oceano fino a quando percepiamo i respiri, gli sbuffi di qualche altro esemplare che ci raggiunge o si fa raggiungere incuriosito.
E’ incredibile pensare che questi enormi mammiferi sono in via di estinzione a causa di paesi irrispettosi dei trattati internazionali come il Giappone la Norvegia e l’Islanda (www.Greenpeace.Org/argentina/ballenas). “Avete tutto il mio disprezzo”.
Prima della meritata doccia faccio un salto a mettere i piedi nell’oceano, accompagnato da un simpaticissimo bobi che non cercava altro che un pò di compagnia. I bobi saranno una costante di questo viaggio. Quasi in ogni piccola città o paese ne troveremo di gironzolanti e scodinzolanti per le vie.
Cenetta al ristorante dell’hotel con un tramonto patagonico rosato verso le 21.45.
Lunedì 17 Dicembre 2007.
Ushuaia. Il mondo alla fine del mondo.
Alle 08.00 la musica della sveglia del mio Nokia N95 ci ricorda che è ora di andare a sfruttare i servizi offerti dall’hotel. Ci aspetta una prima mattina di sport con tapis roulant, sauna e idromassaggio, tutto in una graziosa saletta al primo piano con vetrata e vista oceano.
Dopo la solita colazione abbondante, piccolo shopping, benzina nell’unica pompa nel paese, via verso Trelew. Un piccolo errore di navigazione ci porta a passare da Puerto Madryn invece che percorrere la ruta 2 tagliando fuori la città come fatto all’andata. Veniamo fermati da un normale controllo di routine da parte di una poliziotta locale e tracagnotta, che ci indica gentilmente come ritornare sui passi perduti.
Lasciamo la Gol con il finto antifurto satellitare all’omino della Hertz con 621 km percorsi, 21 in più di quanto previsto dal nostro contratto 200 km/dia incluidi. La differenza ci costa la bellezza di 6 €, confermando di aver fatto la scelta giusta nel non scegliere la più costosa opzione dei 400 km/dia inclusi. La nostra prima tappa patagonica, ecosistema unico al mondo, ci ha decisamente emozionato regalandoci panorami indimenticabili e simpatici incontri fauneschi.
E’ veramente un peccato doversene andare ma il nostro scheduling portatile parla chiaro. Con un leggero ritardo, da buona tradizione Areolineas Argentinas, dopo due ore di volo, nel senso di aereo ma anche di Fabio (siamo entrambi impegnati nella lettura dell’ultimo romanzo del nostro DJ del mattino), il nostro primo contatto con la terra del fuoco è la vista del Canale di Beagle sorvolato dal nostro AR 2808, fra montagne innevate che lo coccolano a derecha e izchierda. Paesaggio indescrivibile.
Nei giorni seguenti riuscirò anche a fotografare da terra, l’approccio del nostro volo verso l’aereoporto. Siamo quasi alla fine del mondo, e si sente nell’aria.
Nel tragitto Aereoporto-Posada Fueguina (www.Posadafueguina.Com.Ar) dove alloggeremo, ci casca l’occhio sulle tipiche abitazioni del luogo. Mi appassiono all’architettura locale e mi innamoro da quella che definisco yellow one-room-house che fotograferò, insieme ad altre, durante un jogging mattutino il giorno che lasceremo la città. La Posada è arroccata quanto basta per permetterci di ammirare il Canale di Beagle dalla nostra finestra, ma assolutamente molto vicina al centro cittadino. Una scelta (della Micky) azzeccata.
Con grande gioia dell’ingegnere che c’è in me, molto remoto e nascosto (..), riesco a scrivere mail dal cellulare, collegato wi-fi gratis all’internet della Posada Fueguina. Riesco a fare anche una veloce chiamata (sempre gratis) con Skype dal cellulare.
Dopo rapido consulto della Lonley Planet e di alcuni racconti stampati prima del viaggio dal sito di Turisti per Caso, decidiamo di cenare da Volver, sul lungo porto.
Arrivati a destinazione, verso le 21.30 con ancora la luce del giorno, la chiusura settimanale del lunedì ci obbliga a ripiegare. Nonostante i giudizi negativi, veniamo convinti da un gentile farmacista e in pochi minuti ci troviamo seduti al tavolino da due, attaccato alla vetrata del Tia Elvira. A conferma della bontà dei giudizi degli altri Turisti per Caso, la cena si rivela una delusione: burro consegnato aperto e quindi già utilizzato da altri avventori, acqua ordinata e mai arrivata, vino pessimo. La nostra cocente delusione si tramuta in richiesta, esplicitata alla cassa, di non lasciare la mancia: spieghiamo l’accaduto, si scusano con noi, ma per noi rimane la delusione per la cena che avremmo desiderato più rilassante. Unica nota positiva, il fantastico tramonto delle 22.00. L’ultima visione prima di addormentarci è una bellissima “cartolina” della città alla fine del mondo, dal balcone della nostra Fueghina, quando il sole ha deciso finalmente di andare a riposarsi per qualche ora.
Martedì 18 Dicembre 2007. La scalata a (1/2) Cerro Guanaco.
Un pò delusi per la colazione centellinata, che stona con le precedenti mattinate a Delgada e Las Restingas, scendiamo le poche scalinate che ci separano dal centro paese per capire come raggiungere il Parque Nacional Tierra del Fuego. Consultando internet dalla camera ci siamo convinti che la nostra metà debba essere Cerro Guanaco, il trekking che tutti unanimemente descrivono come migliore e imperdibile. Purtroppo ci rendiamo presto conto che l’aver deciso la meta all’ultimo momento potrebbe aver messo a repentaglio la possibilità della bella escursione. Il mio fido Citizen batte le 12.30: un’ora per raggiungere il parco con minibus o taxi, quattro ore per raggiungere la vetta; anche impiegandone tre per scendere, non riusciremmo a prendere l’ultimo minibus del ritorno che parte dal parco alle 20.00.
Analizzando la mappa consegnataci all’ingresso del parco (20 ARS per persona) decidiamo di puntare al lookout point, detto altresì mirador, che si trova mas o meno nel medio del sendero. Dovrebbe comunque consentirci una buona visuale panoramica della zona nel rispetto dei tempi a disposizione.
Già dai primi passi si capisce che la scalata non sarà facile. E’ vero che il sentiero è dichiarato difficile e che effettivamente parte subito in salita, ma la Micky oggi è particolarmente “ossobrodosa” (n.D.R.: osso da brodo = essere particolarmente lamentoso, soprattutto nei confronti di prove fisiche non drammatiche, accampando qualsiasi tipo di scusa fisica, psicologica, morale per raggiungere l’obiettivo di ridurre al minimo la propria fatica).
Con non poca difficoltà raggiungiamo comunque il nostro “mirador di mezzo” e la vista che ci viene regalata per la fatica fatta ci ripaga decisamente del sudore versato. Dpo un tentativo di proseguire verso la vetta, immediatamente abortito per un altro improvviso attacco di ossobrodaggine, ci rimettiamo in cammino per il rientro al fondo valle. Arriviamo con le articolazioni decisamente provate e, secondo la Micky, ci meritiamo una buona cioccolata calda.
Rientriamo senza problemi alla posada dove approfitto della tecnologia idraulica della fueguina, concedendomi un caldo bagno con idromassaggio.
Per poter raggiungere la nostra meta serale, il Ristorante dell’Hosteria Tierra de Leyendas (www.Tierradeleyendas.Com.Ar), fuori dal centro di Ushuaia, ci è necessario un taxi, ma ne vale assolutamente la pena.
Per settimane, nella pianificazione pre-partenza, avevamo sperato (su consiglio della Micky) di trovare posto da dormire in questo che ci sembrava un bellissimo piccolo eremo su una collinetta affacciata sul canale di Beagle.
Purtroppo le 5 stanze erano risultate tutte occupate costringendoci a optare per la Posada Fueguina. Ma la gentilezza dei proprietari, nel provare a metterci in lista d’attesa e nell’invitarci comunque per la cena ci aveva ulteriormente convinto della necessità di una visita.
E quando si tratta di ristoranti…La Micky raramente sbaglia il colpo. In un locale romanticissimo con una musica soft molto azzeccata, al cospetto di una vista incantevole con il solito tramonto ritardato alla fine del mondo ci siamo gustati una ottima sopa de cebolla seguita da un salmon rosado e da una trucha patagonica.
Piatti molto ben preparati accompagnati da un’ottima bottiglia da 375 cl di Sauvignon Blanc e un paio di ague sin gas (150 ARS).
Avventori gentili e simpatici. Consigliato vivamente, anche se un po’ fuori dal paese (15 ARS di taxi, circa 3 €).
Mercoledì 19 Dicembre 2007.
Inizia la Cruceros nel mondo Australis. E’ il giorno della mini crociera che ci porterà a visitare Capo Horn (www.Australis.Com) e poi risalire per i fiordi del Cile fino a Punta Arenas. Siamo stati a lungo indecisi se prenotare o meno questa tappa del viaggio. A parte il costo non indifferente (abbbiamo pagato 1.063 USD a persona per 4 giorni / 3 notti, un ponte di classe A). Ma anche il fatto di vincolare quattro giorni di vacanza alla navigazione, che ci sembrava troppo organizzata, che avremmo potuto essere più indipendenti e vedere molti posti in più che quelli descritti nella brochure. Dopo non poche elucubrazioni abbiamo deciso di procedere con il booking. Via internet abbiamo richiesto una Cabina sul ponte B (il meno costoso, braccine corte…) e ci hanno confermato una cabina al ponte A (allo stesso prezzo del B; in crociera, scopriremo poi di aver risparmiato 400 USD a testa rispetto a chi aveva prenotato via agenzia).
Sento la trippa sulla pancia aumentare: le colazioni sono state troppo caloriche per quel che sono riuscito a bruciare con la mia schiena malandata (non ho ancora assorbito i postumi di un’operazione di ernia del disco il 31 Ottobre).
Decido per un jogging fotografico through Ushuaia dalle 08.00 alle 09.00. Arrivo fino alla strada per l’aereoporto per fotografare la one-room-house che tanto mi piace. Corro per Ushuaia in costume e maglietta, scaldato da un tiepido sole mattutino.
Al mio rientro, la Micky mi fa trovare la vasca piena di una coccolante acqua bollente. Tesoro.
Dopo la consueta colazione sparagnina della Fueguina, andiamo (in taxi) a fare il check-in della crociera in una agenzia viaggi. Lasciamo i nostri zaini e ci consegnano le carte d’imbarco. Giriamo a piedi dalle 10.00 fino alle 17.00 per una Ushuaia piovosissima, forse arrabbiata per la nostra prossima partenza per il Cile… Acquistiamo qualche maglietta e qualche altro regalo per le picce, per amici, per noi. Decido di pranzare da Volver (senza lode nè infamia, ma sono quasi certo di aver sbagliato io a chiedere una pasta al granchio), mentre a seguire la Micky si fa un’overdose di the e cioccolata da Tante Sara. Puntualissimi alle 17.00 stiamo sulla passarella che ci imbarca sulla M/N Mare Australis. Sulla banchina di fronte alla nostra vediamo una nave pronta per la spedizione di 20 giorni in Antartica. Invidia.
La nostra cabina (226) ci soddisfa. Avremmo preferito un letto matrimoniale ma erano esauriti. Pulita e, per essere una nave, anche non troppo piccola. Un simpaticissimo pinguino di Magellano mi osserva per tutto il viaggio di fronte al mio letto e mi fa da guardia allo zaino.
L’equipaggio ed il capitano, si presentano e ci accolgono a bordo, dando l’inizio alle 18.00 al serratissimo programma di spiegazioni e dettagli sulla crociera. Il cocktail di benvenuto ci trova ancora un po’ impreparati: siamo nel posto sbagliato e con un minuto di ritardo, e questo ci taglia fuori dal giro spuntini che vengono distribuiti in tutti i tavoli. Ci consoliamo con il Pisco Sour cocktail cileno (in realtà l’origine è contesa con il Perù), (a base di Pisco, un brandy locale, succo di limone, angostura), che ti da il benvenuto alla fine del mondo con i suoi 30°. Quando la folla si dirada, su ordine ben preciso del capo squadra Micky, il fido buitre Dome si precipita di tavolo in tavolo a raccogliere i residui di tartine per soddisfare il palato fino del suo capo.
Tutte le procedure di dogana Argentina-Cile vengono svolte con nostra assoluta trasparenza, non dovremo preoccuparci di nulla, se non di ritirare i nostri documenti allo sbarco in Punta Arenas.
Ci viene dettagliato il programma del giorno dopo, dove il vero clou della giornata si presenterà subito di primo mattino alle 07.00: possibile, e sottolineano più di una volta, possibile sbarco a Capo Horn. A detta di tutte le persone argentine o cilene incontrate, prevedere il tempo in Patagonia e soprattutto al sud, a maggior ragione in Terra del Fuoco, verso Capo Horn è praticamente impossibile. Il tempo cambia troppo in fretta, troppo variabile. Descrivono la Patagonia come la regione dove si possono avere le quattro stagioni in un giorno solo. Si sbarcherà a Cabo de Hornos solo se il tempo lo consentirà. Ci ripetono che “siamo alla Fine del Mondo e lo sbarco qui non è un diritto, ma un privilegio”.
La cena è servita alle 20.00. Siamo al tavolo 15 con altre due coppie di italiani con cui ci scopriremo molto affiatati: Camilla e Giorgio di Monza e Sara e Daniele di Vercelli. I primi due sposati da oltre 40 anni, con due figli che, dopo aver sentito la loro descrizione da parte dei genitori, ci piacerebbe conoscere; i secondi, neosposi da Settembre 2007.
Tantissime coppie in viaggio di nozze.
Siamo accerchiati.
Sembra che Patagonia e Terra del Fuoco sia un viaggio per soli amori ufficializzati davanti allo stato o alla chiesa… Sottolineo a Micky la fortuna che abbiamo noi di aver fatto questo viaggio senza godere di questa condizione che accomuna tutti gli altri.
L’ho sempre detto che è l’amore a unire le coppie, non il matrimonio… I panorami che ci circondano al tramonto, verso fine cena sono incredibili.
Con Sara e Daniele ci troviamo subito sulla stessa lunghezza d’onda, sfruttando appieno l’all inclusive in vino e superalcolici.
Verso mezzanotte siamo insieme a loro (che si fanno una “siga”, come la chiamavano) ad ammirare la scia che la nostra Mare Australis lascia alla luce della luna fra i fiordi innevati del Canale di Murray a babordo e a tribordo. Sembra veramente una scena di un film.
Viaggiare di notte, sotto la luna verso la fine del Mondo.
E’ una sensazione indescrivibile. Speriamo il film non sia “Titanic”…
Giovedì 20 Dicembre 2007. Cabo de Hornos. Alla fine del mondo.
La sveglia suona alle 4.30, in teoria per permetterci di vedere l’alba. Con non poca fatica ci trasciniamo sui ponti superiori alla ricerca di un barlume di luce rossastra, ma è chiaro fin da subito che le dense e fitte nuvole all’orizzonte coprono tutto lo spettacolo. E’ solo la speranza di vedere qualcosa che ci tiene ancora desti per qualche minuto, giusto il tempo per fare due chiacchiere con Giorgio, anche lui prodi mattinieri in cerca di luz.
Quando l’annuncio vocale dichiara “dieci minuti allo sbarco a Capo Horn”, siamo pronti con i nostri giubbini salvagenti già indossati.
Lo sbarco con gommone zodiac vede Daniele ed il sottoscritto in pole position per trovare posto sul gommone Garibaldi. Entrambi siamo convinti che solo l’eroe dei due mondi possa fregiarsi dell’onore di avere i nostri sederi appoggiati. (Gli altri gommoni sono Agostini, Condor e Brookes). Capo Horn è un promontorio quasi verticale alto circa 425 metri, dichiarato Riserva della Biosfera dall´UNESCO nel mese di giugno 2005. Sulla stessa isola c’è un faro con annessa abitazione e piccola cappella di chiesa Stella Maris. Sarà che siamo alla fine del mondo, sarà qualcos’altro, ma all’interno c’è ancora una piccola foto di Woitila.
La fine del mondo e l’inizio di tutto.
Bene.
Saliamo all’interno del faro e facciamo la conoscenza della famiglia che, secondo tradizione, vivrà qui per un intero anno senza mai tornare sulla terra ferma, mantenuti dalla marina Cilena.
“L’avrà sposato solo per l’ebbrezza di vivere un anno a Capo Horn”, penso fra me e me.
Se tralasciamo le visite degli altri “croceristi” come noi nel corso dell’anno, costoro potrebbero non vedere troppa altra gente da queste parti.
Troveranno se stessi, immagino.
Sopra un promontorio, a circa 50 metri sul livello del mare campeggia una scultura metallica, alta 7 metri, che rappresenta la silouhette di un grande Albatros in volo, l’animale dall’enorme apertura alare (arriva fino a 3,5 metri) che vive nell’Oceano Pacifico e negli oceani meridionali. Grande simbolo di libertà.
Quando siamo di nuovo tutti a bordo, attavolati per la colazione, il comandante ci porta la bella notizia: le condizioni sono talmente favorevoli che siamo in grado di doppiare Capo Horn!. Normalmente la rotta tracciata preventivamente prevede di tornare sulla propria scia e ritornare per il canale di Murray dallo stesso percorso per l’andata.
Noi abbiamo la fortuna di poter doppiare il capo più a sud del mondo e rientrare verso nord per il Canale di Franklin.
Appena superato il capo, l’onda lunga dei due oceani che si incontrano si fa veramente insidiosa. Abbiamo la dimostrazione pratica di cosa siano il rollio e il beccheggio… In onore a Sir Francis Drake e a tutti gli altri pirati che hanno scorrazzato in passato oltre questi lidi, alziamo anche noi la bandiera dei bucanieri.
Mi sento novello Capitan Harlock.
Compaiono alcuni delfini a farci compagnia alla fine del mondo, con i loro salti fuori acqua. Rientrati nella baia di Beaufort, oltre il canale di Franklin, il mare torna ad essere più tranquillo regalando un po’ di tregua agli stomaci di molti.
Nel pomeriggio sbarchiamo a Baia (caleta) Wulaia, sull’isola di Navarino. Escursione a terra in una zona che il governo ha dato in concessione alla società Crocieros Australis. In una casa abbandonata, un piccolo museo ripercorre la storia degli indigeni del luogo.
Come praticamente tutti, ci registriamo per l’escursione descritta come difficile: dopo la mezza scalata al Cerro Guanaco cosa può spaventarci? La passeggiata si rivela in realtà semplice: arriviamo fino a un belvedere sulla collina, camminando attraverso il bosco magellanico nel quale crescono lengas, coiues, cannelle, felci, tra le altre specie. Ci mostrano un piccolo frutto molto jackill-hide: da una parte sembra una piccola mela, dall’altra, invece, un piccolo pomodoro. Dal nostro punto di arrivo sulla collina si domina la baia con una visuale a oltre 200° sull’intera area: un panorama che in fotografia difficilmente potrà rendere le stesse emozioni. Le nostre guide impongono un gioco del silenzio che rende il luogo ancora più mistico e reale. Il silenzio viene interrotto dalla tromba di “mamma” Mare Australis che ci richiama a bordo.
Dopo cena, sul ponte di poppa ci godiamo il passaggio a fianco del Glaciar Italia, molto bello, imponente, con sbocco nel mare. Al contrario di quello francese che merita certamente di meno..
Le diverse chiacchiere alchooliche ci portano a conoscere altri “cruceranti”. Fra tutti spicca un elemento di assolutissimo rilievo e prestigio.
Piccolo, traccagnotto, camminata lenta, molto lenta, con piedi belli larghi, a papera, viso sempre rabbuiato o pensieroso o assorto, no forse meglio assente…, accompagnato da una bella ragazza mulatta.
Praticamente il sosia di Diego Armando Maradona, e non certo nei suoi momenti migliori.
Dani ci racconta che il primo giorno l’hanno visto presentarsi al punto di ritrovo per l’escursione a Cape Horn con una camicetta di lino che definire fuori luogo non è per nulla azzardato. Il climax della serata lo raggiungiamo comunque quando Dani, nel pieno dell’estroversità tipica da mohito, gli chiede da che stato/città venissero e, nel sentirsi rispondere Medellin, Colombia, riesce a controbattere con un facciatostissimo “ah, Medellin, città mui linda !”.
La serenità e la sfrontatezza con cui Dani definisce una delle capitali del cartello della coca, che solo qualche giorno prima avevo visto per l’ennesima volta ad un telegiornale coinvolta in cruenti fatti di sangue, una “città mui linda”, mi fa cappottare dalle risate che trattengo a stento di fronte all’impassibile Diego. Nei giorni successivi passerò il tempo a fantasticare sul suo ruolo di boss all’interno di qualche gang mafioso-terroristica del suo paese. Dove terrà il machete? E il kalashnikov? Ne avrà con se uno piccolo da crociera? E la sua bella..L’avrà vinta al gioco? O l’avrà rubata ad un altro capobanda magari giustiziato da lui con le sue stesse manone?
Venerdì 21 Dicembre 2007.
I Ghiacciai Gunther Plüschow e Piloto y Nena. Bingo! Dopo la nuvolosa esperienza del giorno precedente optiamo per un sano sonno rigeneratore al posto della levataccia alla ricerca dell’alba perduta.
In una serie di conferenze apprendiamo informazioni sulla Patagonia, sulla sua scoperta da parte dei conquistadores, sulla fauna.
Il primo europeo a mettere piede in questa fantastica terra fu il portoghese Fernão de Magalhães también conocido como Hernando de Magallanes (Fernando per gli amici) durante la prima circumnavigazione del globo terrestre, intrapresa tra il 10 agosto 1519 e il 6 settembre 1522, da una flotta di 5 navi con i finanziamenti del Re di Spagna. Il viaggio si concluse con gravi perdite: dei 234 tra soldati e marinai che formavano l’equipaggio iniziale soltanto 36 si salvarono. Magellano stesso morì nella spedizione, durante una battaglia con gli indigeni, nel sud est asiatico.
Tutte le informazioni che abbiamo oggi di questo viaggio ci sono note grazie agli appunti dell’uomo di fiducia di Magellano, il vicentino Antonio Pigafetta.
La data esatta riportata per l’arrivo nell’attuale Puerto San Julian sarebbe il 31 marzo 1520.
L’ipotesi più accreditata sul nome Patagonia è che sia stato ispirato da un romanzo pubblicato in Spagna qualche anno prima (“Primaleon della Grecia”), dove si narra di un gigante chiamato Patagon. Nel libro si parla di popoli feroci, che vestono con pellame ricavato da bestiame, e sono di dimensioni enormi, corrispondendo probabilemente agli indios Tehuelche, incontrati da Magellano. Bruce Chatwin è uno degli assertori più convinti di questa teoria.
Secondo un’altra teoria, invece, la vista degli indios, che erano effettivamente descritti come molto alti e indossavano mocassini che facevano sembrare i loro piedi ancora più grandi, possono avere indotto Magellano e i suoi a inventare il nome Patagonia dallo spagnolo “patagon” che indica chi ha grandi piedi. Nel suo diario di viaggio Pigafetta descrive infatti l’arrivo in una terra nella quale “per due mesi non si vide ombra di persona. Poi quando ormai le speranze di incontro erano scemate ecco un uomo altissimo che stava nudo sulla spiaggia e cantava e danzava al tempo stesso”. La storia di questo paese, come conquista da parte degli europei, continua quasi cent’anni dopo, quando nel 1616 arrivarono gli olandesi. Fu proprio un navigatore proveniente dai Paesi Bassi a denominare la punta estrema della Patagonia argentina Capo Horn, in onore del suo paese natale, Hoorn. Negli anni successivi altri illustri personaggi hanno visitato e goduto di queste bellezze. Uno dei più celebri, a partire dal 1826, sarà Darwin che anche grazie alle specie animali e vegetali studiate, nel 1859 pubblicherà l’Origine della Specie. Navighiamo tutta la mattina in direzione nord ovest passando talvolta in tratti di mare completamente esposti all’Oceano Pacifico dove si ripresentano gli amici rollio e beccheggio; in parole povere: si balla alla grande. Il più evidente di questi momenti è all’uscita da paso Brecknock, prima di rientrare verso nord est nel più tranquillo canale Cockbum.
Alle 15.00 ormeggiamo in un fiordo a sud del Canale di Magdalena e in tre turni (il nostro, insieme agli amici…Francesi è l’ultimo, alle 17.00) saliamo sugli zodiac per entrare in un ulteriore piccolo fiordo dove ci attendono la mestosità di Glaciar Plüschow (prende il nome dall’omonimo pioniere tedesco dell’aviazione che a bordo della sua nave “Feuerland”, arrivò a Punta Arenas nell’anno 1928) e di Glaciar Piloto y Nena, che vediamo da vicino, godendo della simpatia dei suoi cormorani. Alla sera, dopo cena, una sfilata di moda organizzata dall’equipaggio utilizzando alcuni ospiti della nave. Come portacolori italiana sfila la bella Giorgia, neosposa di Bari.
A seguire si tiene la premiazione della gara tipo Trivial Pursuit che ci ha visto impegnati per un paio di dopo pranzi alla ricerca di risposte presentate nel corso delle numerose conferenze a bordo, fra uno sbarco e l’altro. Non arriviamo in finale solo per un banale errore: dimentichiamo una “h” all’interno di un nome.
La serata si chiude con un Bingo Chileno. Si vince con ambo, la diagonale, la doppia diagonale e con la cartella completa. Chi ha sfilato ha diritto a due cartelle, tutti gli altri una sola. Altra regola: chi dichiara bingo senza averlo veramente, paga pegno cantando una canzone in pubblico.
Mentre procede l’estrazione ripasso il numero di volte, nella mia ormai lunga vita, in cui ho sperato di vincere qualcosa senza mai andarci anche lontanamente vicino. Non che andarci vicino senza vincere sia soddisfacente, ma forse è una consolazione.
Ambo velocemente aggiudicato da turisti canadesi.
Diagonale aggiudicata da altri turisti di nazionalità non pervenuta (non la ricordo).
Anche doppia diagonale dopo qualche minuto aggiudicata.
Si va per il Bingo.
In palio un misero pile blue marchiato Cruceros Australis.
Inveisco al braccino corto della Australis, chiedendo di aumentare il premio ad una crociera per due per l’anno successivo.
Vengo chiaramente ignorato.
A tre numeri dalla fine della mia cartella un bimbo di nazionalità a me ignota (dato il mio tasso alcolico nel sangue dovuto al sempre nobile all-inclusive) dichiara fiero il suo Bingo.
La folla inferocita si scatena in una serie di “NOOOOO”, “IMPOSSIBLEEEE”, “ENTONSEEE” (che non c’entra niente ma c’entra sempre).
Purtroppo per il moccioso, al veloce check della cartella, il grande imbroglio crolla miseramente: un numero coperto non era mai effettivamente stato chiamato.
Il bimbo spaesato chiede aiuto al padre che si esibisce in una drammatica esibizione di tre secondi di una canzone a me del tutto sconosciuta.
La gara riprende.
Esce il 31.
Vado per due.
Esce il 47.
Vado ancora per due.
Esce l’11.
Vado per uno…
Sono vicinissimo alla vittoria…
Esce il 59.
BINGOOOOOOOO!!!! Salto sulla sedia dimenticando completamente che la mia schiena non è felicissima di queste sollecitazioni.
Saltello alla derecha e alla izchierda all’interno del locale fra le incredule famiglie delle ventun nazionalità presenti a bordo.
In preda ai fumi dell’alcool mi lascio andare anche ad un “ITALIA CAMPEON DO MUNDO !!!!” con cui mi gioco definitivamente il saluto del gruppo di francesi per il resto della crociera.
Ancora incredulo, recupero il premio che vado sfoggiando in faccia a tutti i perdenti.
Il giorno dopo mi affretterò a chiederne il controvalore (che risulterà essere di ben 90 USD) ed eseguirò il cambio: pile vinto contro bellissimo giubbino bianco in kevlar + maglia a maniche lunghe con insegna Capo Horn.
Vado a letto da vincitore.
Ho portato l’Italia sopra il tetto del mondo, anche alla fine del mondo!
Sabato 22 Dicembre 2007.
I Pinguini di Magellano all’Isla Magdalena. Sbarchiamo sull’Isla Magdalena alle 07.00. Una colonia di circa 120.000 Pinguini Magellano domina il territorio condividendolo con mamme Albatros che fanno la guardia incazzatissime ai loro piccoli.
Una passeggiata in un percorso guidato ci conduce fino al faro, che durante le notti australi guida tutte le imbarcazioni che navigano nello Estrecho de Magelanes.
Alcune foto di rito fra cui mamma pinguina che osserva se il pargolo si è pulito il sedere, altra mamma con due figli al suo fianco. Mentre rientro verso la spiaggia, vengo attaccattato da una mamma Albatros arrabbiata per la troppa vicinanza di altri due turisti ai suoi piccoli. Non capisco perché abbia scelto me come bersaglio del suo volo radente e simulazione di attacco invece che i due invadenti spagnoli, ma tant’è.
Alle 08.30 siamo a bordo per la nostra ultima breakfast. Navighiamo fino a Punta Arenas dove sbarchiano alle 11.30 fra una baleniera giapponese (che Daniele ed io copriamo di improperi con malcelati desideri di colarla a picco) e una nave USA per spedizione nell’antartico.
Un display vicino alla reception riporta la mappa con l’esatta traccia del percorso e le tappe del nostro viaggio attraverso i mari del mondo australe.
I gentilissimi Sara e Dani, dotati del confort dell’autista (anzi più autisti, visto quanti si sono avvicendati alla guida delle diverse autovetture), pregio da neosposi, ci accompagnano all’autonoleggio dove ritiriamo il nostro Nissan Terrano 2.7 Diesel prentoato via mail. Il nostro carro si presenta con qualche piccola pecca: aria condizionata non funzionante al 100%, tetto apribile inchiodato da una vite, freno a mano che a fine corsa non terrebbe ferma una mosca. Nonostante le veementi proteste e richieste della Micky, dobbiamo accontentarci, anche perché il permesso per passare il confine con l’Argentina è firmato per questa macchina e per questa targa.
Appena partiamo rileviamo notevole carenza anche nei freni. E ci diranno che la macchina originariamente era con guida a destra poi spostata a sinistra. Con garanzia di sicurezza nella guida pari a quella di un go-kart.
Per fortuna motore e 4 ruote motrici sono funzionanti… Dopo un breve tour per ammirare Punta Arenas dall’alto della collina che la sovrasta, pranziamo con Sara e Dani e il loro secondo autista, al ristorante del club di calcio di Punta Arenas. Siamo tutti sotto attacco di “mal di terra”. Ci sentiamo pesantemente rintronati e con il mondo che, soprattutto negli ambienti chiusi, ci gira intorno creando non poca noia. Non ci mettiamo molto a comprendere che il piatto forte del locale sono le empanadas. Tutti i tavoli si occupano in fretta e in ciascuno di questi, almeno una persona si ciba del piatto forte. Senza contare la fila di persone che viene a prenderle take away. Per un pranzo completo a base di zuppa e di empanadas con acqua e coca cola, spendo la fortuna dell’equivalente di 8 Euri.
Il viaggio verso Puerto Natales (250 km), tappa intermedia per raggiungere il Parque Nacional Torres del Paine è molto pesante. Il sonno si fa sentire. Provvidenziale una sosta a metà nel locale di grido della zona, per farsi un ottimo (!) caffè in polvere.
Un altro cambio autista avviene al benzinaio di Puerto Natales. Alla guida del mezzo di Sara e Dani si posiziona Fernando, esperta guida del Torres del Painde e zone limitrofe.
Ci mancano ancora oltre due ore (altri 150 km circa), fra strada e foto nei punti panoramici più rilevanti, come per esempio davanti a Laguna Toro o al cartello d’ingresso del parco.
Arriviamo all’Hosteria Pehoe (www.Pehoe.Com) verso le 19.30. Come si evinceva dal sito internet (ma non abbastanza), l’hotel si trova in una posizione fantastica, su un’isoletta al centro dell’omonimo lago collegato alla terraferma solo da una lunga passarella di legno bianca e protetto dalla maestosa catena montuosa del Paine. Ci ritroviamo alle 21.00 e su consiglio di Fernando ceniamo al ristorante del Camping Pehoe, circa un chilometro prima dell’Hosteria Pehoe. La catena montuosa ci protegge le spalle e ci regala un panorama pre tramonto incredibile. Altri avventori festeggiano il compleanno di una guida. Canzoni live da parte di uno dei ragazzi che lavora nel locale.
Un bife de chorizo di tutto rispetto con contorno di pure di papas. Cosa desiderare di più?
Domenica 23 Dicembre 2007.
Torres del Paine Fernando Car Tour.
Fernando è puntuale alle 08.30 per condurre Sara e Dani (e noi, con il nostro Nissan Terrano che attira al suo interno tutta la sabbia della strada sterrata) per un tour in macchina del parco. Il tempo non è dei migliori, per i nostri standard, ma considerando quelli del Paine è considerato ottimo. Il sole ogni tanto scompare coperto da nuvoloni che a tratti ci regalano qualche goccia di pioggia.
La prima tappa (considerando il tempo variabile è meglio giocarselo subito) è Glaciar Grey. Ripercorriamo la strada verso sud, passando dal Camping Pehoe, dall’Hotel Explora, il più lussuoso all’interno del parco, dove facciamo una breve sosta per vedere il Salto Chico, una piccola cascata proprio a ridosso dell’Hotel. Al Rifugio Lago del Toro, altra tappa alla sede amministrativa a vedere la piccola mostra di cartine, mappe, descrizione di flora e fauna. Riprendiamo verso ovest, attraversando il Rio del Grey e arriviamo alla Guarderia Lago Grey.
Fernando ci lascia a pochi metri dove inizia la Caminata a la Peninsula del Lago Grey.
Trattasi di camminata di 5 km attraversando una lunga spiaggia, battutissima da un vento incredibile, per arrivare a salire su una piccola penisola che nel punto più a nord fronteggia, anche se un po’ da distante, il Glaciar Grey.
Il percorso sulla spiaggia deserta con vento proveniente da ore otto è già di per sè uno spettacolo. Adoro quando la natura sfoggia in modo così fiero tutta la sua potenza. A braccia aperte, lasciandosi cadere all’indietro, alcune raffiche di vento sono in grado di sorreggermi.
Mentre camminiamo, sulla nostra sinistra, nel lago Grey possiamo osservare i pezzi di piccoli iceberg che si sono staccati dal ghiacciaio e che il vento ha portato a spasso, alcuni fino a riva.
Anche nel giro della penisola il vento ci fa compagnia. Ci fermiamo al belvedere per una piccola pausa sulla panchina della riflessione. Di fronte a noi, in lontananza, il Glaciar Grey.
Sulla via del ritorno, nell’altra parte della penisola, troviamo il tempo per alcune foto con sfondi inconsueti per noi europei mediterranei.
Il percorso di ritorno sulla spiaggia con il vento contro non è assolutamente dei più agevoli. A fine giornata lo sentiremo nelle gambe.
Torniamo a pranzare al Camping Pehoe (che Fernando prenda la tangente?) per poi proseguire verso nord a visitare il Salto Grande, dove il Lago Nordenskjold si unisce con il Lago Pehoe. Cascata decisamente più imponenete del precedente Salto Chico, ma nulla in confronto a quello che avremo la fortuna di apprezzare nei giorni a venire.
Il nostro tour prosegue fino ad arrivare a Laguna Amarga.
Durante il tragitto sulla nostra sinistra si fanno sempre più visibili i Cuernos del Paine.
Abbiamo anche modo di constatare come i guanachi siano una specie molto prolifica: per ben tre volte ci troviamo nella sconveniente posizione dei guardoni mentre un maschio trotterellante insegue la sua bella per la steppa patagonica cercando di zomparla al meglio delle sue possibilità. Ma, così come nella nostra società, evidentemente al sesso femminile piace che vi siano dei preliminari adeguati, se non altro in termini di tempo. Il trotterellare per il campo finiva infatti sempre con la guanaca che si sdraiava per terra, chiudendo qualsiasi strada verso il paradiso al povero maschio. E non contenta, mentre lui vanamente si appoggiava sopra di lei “imbarzottito”, cercando il giusto pertugio, lei si metteva serena a smangiucchiare l’erbetta. Prima del rientro verso l’Hosteria Pehoe, ammiriamo ancora un’altra cascata e la valle dei guanachi.
L’ultima tappa della giornata, per non lasciare troppe calorie ad agganciarsi alle maniglie dell’amore, è la camminata al Mirador del Condor, sulla collina che domina proprio l’isoletta dove sorge la nostra dimora. Una fantastica visione ci ripaga della fatica, che a fine giornata e con la lotta mattutina contro il vento del Grey, si sente veramente tutta.
Ci fermiamo ammirati anche di fronte ad un esemplare di Zapatito de la Virgen (Calceolaria uniflora), fiore bellissimo che sembra una poltroncina cult con tanto di cuscinetto bianco lombare appoggiaschiena. Rimaniamo un po’ delusi alla sera, quando pur essendoci dei tavoli liberi vicino alle finestre che permettono la vista sul Paine, veniamo relegati in modo anche abbastanza ottuso, nel centro sala.
Ci consoliamo con due buone bottiglie di Cabernet Sauvignon di Concha y Toro (“Sempre forza Toro !!”, dice Dani) che ci fanno dimenticare in fretta i soprusi subiti. Il tramonto è come sempre ineguagliabile. Le solite decine di foto scattate (fortuna siamo nell’era digitale) non rendono giustizia.
Lunedì 24 Dicembre 2007.
Christmas eve dinner in El Calafate, Patagonia.
Il saluto all’Hosteria Pehoe e al Torres del Paine è non meno difficile dei precedenti alla Penisnula Valdes, a Ushuaia e alla nostra Mare Australis.
E’ difficile descrivere a parole come la bellezza della natura incontaminata di questi posti riesca ad entrarmi dentro, creando poi un senso nostalgia quando è il momento di andare.
Alle 08.30 dopo l’ultima colazione sotto il massiccio del Paine, percorriamo la passarella bianca che collega l’Hosteria Pehoe alla terraferma e partiamo in direzione Cerro Castillo, dove si trova un confine Cile-Argentina.
Più chilometri facciamo sullo sterrato e più ci convinciamo che l’impianto di aereazione del nostro Nissan fa acqua, anzi polvere, da tutte le parti. Non importa se abbiamo davanti a noi un’altra vettura che solleva terra e polvere, anche quando viaggiamo da soli, ci troviamo a respirare il sottosuolo che stiamo percorrendo. E meditiamo vendetta nei confronti del noleggiatore (www.Transpatagonia.Cl). Dall’analisi fatta su internet il prezzo (840 USD per 6 giorni comprensivi di drop-off in El Calafate in Argentina, documenti per attraversare il confine e assicurazioni varie) era competitivo anche con vetture di classe A e B che avremmo comunque scartato, preferendo la possibilità di avere la trazione integrale. Forse il prezzo era competitivo anche per le condizioni al contorno.
Arrivati a Cerro Castillo, dopo circa 80 km di strada sterrata (un’ora e mezza) mentre Sara e Dani cambiano macchina e pilota, salutando definitvamente Fernando, noi cerchiamo un distributore per fare gasolio.
Ci viene indicata una casupola bianca, dall’altra parte del paese (poche anime) che nulla sembra aver a che fare con un benzinaio.
Quando arriviamo nel piazzale della casa, di pompe di benzina nessuna traccia. Solo un bel cartello in legno, probabilmente messo di recente, con l’indicazione della pompa di benzina.
Ci stiamo guardando intorno e fra di noi per cercare di capire dove indirizzare le nostre ricerche quando dal retro di una casetta esce un “cerrocastillese” che con fare molto tranquillo ci si avvicina.
Senza che gli dicessimo nulla, anche se era evidente che fossimo turisti in cerca di gasolina, si dirige verso tre piccole vecchie capanne di legno delle dimensioni di un bagno pubblico. Apre la prima, entra, prende un mazzo di chiavi, esce. Apre la seconda, e si china per aprire una piccola fessura sul davanti, dove infila la pistola estratta dalla pompa di benzina più vecchia che abbia mai visto. Nemmeno quella del museo sulla Route 66 di quest’estate negli USA era così antica, obsoleta, preistorica.
Si volta verso di me chiedendomi: “Lleno?” Confermo al buon uomo di erogare senza remore tutto il carburante possibile per rifornire di energie il Four Weel Driving che ci dovrà portare fino a El Calafate.
Terminato il rabbocco, stessa procedura al contrario. Ritira la pistola dal pertugio aperto sulla parte anteriore della casetta-vespasiano, chiude finestrina e casetta. Entra nell’altra casetta per ricevere e accantonare il mio pagamento.
Per decenza, evito di chiedere se possibile pagare con la tarjeta de credito e procedo a sbolognare i pesos cileni rimanenti aggiungendo parte di pesos argentini, accettati di buon grado senza problemi.
Sbrighiamo velocemente le procedure di dogana e scopiramo che anche il Cile ha un Presidente donna. “Qui le quote rosa non sanno nemmeno cosa siano. E’ proprio vero che il mondo australe è capovolto rispetto al nostro”.
Lasciato senza problemi il confine cileno, ci avventuriamo nella terra di nessuno fino ad arrivare alla stazione di controllo Argentina. A metà strada un cartello ci dà il benvenuto.
Entriamo nella casetta bianca e consegnamo passaporti e documenti vari. Mentre aspettiamo che concludano le procedure con la coppia di olandesi prima di noi, facciamo tempo a constatare che la sala attigua a quella dei controlli, protetta dalla solita bandiera argentina/patagonica, è adibita al mantenimento della forma fisica dei “casellanti”: un bel tavolo da ping pong la occupa completamente.
L’impiegato argentino non è così solerte come i suoi colleghi cileni. Anzi, per dirla franca, si vede chiaramente che la sua meticolosità nel controllare i documenti, soprattutto il permesso della Nissan, è probabilmente mirata a darci messaggi subliminali. Dani ed Io sentiamo nell’aria odore di propina (mancia, tangente, mandola,…). Mantengo la calma (cosa assai anomala, ne converrà chi mi conosce..) e osservo attentamente tutti i controlli incrociati che ‘sto minchia di impiegato sta facendo sui nostri passaporti, sul permesso della macchina e sul libretto della stessa. Quando dopo venti minuti buoni non può altro che constatare la più completa esattezza e corrispondenza di tutto, è costretto a riconsegnarci tutto con un sorriso di circostanza che mal cela la rabbia per la “cerveca offerta dal turista”, sfumata.
Felici per il trionfo della giustizia, del buono sul cattivo, dell’onestà sull’uso distorto del potere della divisa, recuperiamo il coche e ripartiamo nella corsa verso El Calafate. Ci mancano ancora circa 300 chilometri.
E di corsa si può ben donde parlare.
L’ennesimo pilota cambiato da Dani e Sara, subito dopo il confine, sembra aver appena terminato un corso di guida veloce con Andrea De Adamich. Si lancia, bello sereno, a più di 100 km/h sulla strada sterrata. Lo seguo a debita distanza, sicuro delle mie quattro ruote motrici e dell’altezza dal suolo, temendo comunque per tutti i sassi che sento e vedo schizzare dal suo posteriore.
La strada, per fortuna, diventa poi asfaltata, permettendo al novello Manuel Fangio di premere ulteriormente il piedone sul pedale più a destra.
In tre ore circa siamo a El Calafate.
Accompagnamo Sara e Dani per vedere dove sono ubicati: il loro autista li saluta e, per quanto ci sarà possibile faremo noi da taxi per loro.
Prendiamo poi possesso della nostra camera all’Hotel Elan (www.Elanpatagonia.Com), in una strana atmosfera. Tutti sembrano prendersi troppo sul serio, darsi un contegno da 4 stelle per cercare di millantare uno standing che non si meritano, anche se loro probabilmente ne sono ignari e lo fanno con totale innocenza.
Un ragazzone molto alto e molto giovane ci accompagna in camera. E dicendo che vuol far pratica di inglese ci illustra le features dell’abitacion. Con frasi stracolme di well (si vede che soffre nel non poter dire entonce), e molta, moltissima gestualità, ci mostra come aprire e chiudere la porta con la scheda magnetica e ci fa vedere dove è il mini-bar. E fin qui, può starmi bene, magari alcuni ospiti attempati, che mai hanno viaggiato prima, potrebbero non identificare la piccola porta con la maniglia, con bicchiere e lista bevande con relativi prezzi appoggiati sopra.
Non contento ci mostra dove è il bagno…”well…Well…Well… here… batroom…” Inizio a chiedermi se ci fa o ci è. La porta del bagno la trova anche un rincitrullito che è al suo primo viaggio in vita… Non fosse che fa tenerezza per la giovane età e che probabilmente è alle prese con i suoi primi giorni lavorativi, io, stanco da oltre quattro ore di macchina ad inseguire il pronipote di Fangio, l’avrei anche mandato serenamente a quel paese. Può non sembrare, ma guidare il Terrano che la terra invece che aggredirla, con le sue quattro ruote motrici, te la sputa tutta all’interno nell’abitacolo, per quasi cinque ore, un filo di tensione sui nervi la propone.
La Micky arriva quasi sull’orlo della crisi di nervi appena constatato che non c’è nessun tipo di areazione nella camera se non l’apertura della ventana, e nel prato antistante alcuni giovani giardinieri (hotel che sfrutta i minori..) stanno tagliando l’erba con discoteca in sottofondo.
Mentre la Micky tenta (invano) di riposarsi, mi dirigo per uno spuntino in paese.
Seduto all’aperto ad un tavolino di un bar, mi scofano due toasts mentre osservo la brulicante vita turistica di El Calafate alla vigilia di Natale.
Prima di rientrare in hotel, prendo informazioni da Hielo & Aventura (www.Hieloyaventura.Com; nella parte in basso a destra del loro sito, propongono una sezione a mio parerre molto interessante chiamata infografias che descrive con animazione come il ghiacciaio si sia formato nel tempo) riguardo al minitrekking sul Perito Moreno del giorno dopo, e ho la conferma dei miei sospetti: loro sono l’unica agenzia ad avere la concessione per le attività sul ghiacciaio (minitrekking, big ice camminata di sette ore verso l’interno del ghiacciaio, safari nautico). Ne consegue che aver acquistato l’escursione da un altro operatore avrà sicuramente portato un ricarico sul costo addebitato sulla mia AmEx ormai consunta dalle numerose strisciate.
Purtroppo i miei contatti via mail diretti con Hielo y Aventura si erano arenati di fronte al notevole ritardo delle loro risposte che mal si sposava con la nostra esigenza di prenotare in anticipo dato il giorno particolare che avremmo potuto dedicare all’escursione: Natale.
Qualche pesos in più sarà comunque nulla dopo essere stati al cospetto della maestosità e bellezza del glaciar.
Recupero i voucer e avviso che l’indomani, nonostante sia incluso nel prezzo anche il pick-up all’albergo e il trasferimento, noi preferiamo l’autonomia e andremo con il fido (?) Terrano.
Passeggiando di ritorno incontro Sara e Dani e ci accordiamo per una cena natalizia (in Argentina si festeggia il 24 sera) insieme.
Rientro e mi catapulto per una mezz’oretta di jogging nella sala fitness dell’Elan (3 attrezzi) di fronte al Lago Argentino.
Alle 21.00, dopo una bella copa di vino blanco (che sembra una bottiglia da 375) in hotel da loro, e lo spumantino di benvenuto, siamo già sulla buona strada per l’ebbrezza giusta, seduti al nostro tavolino al Pascasio (www.Losglaciares.Com/pascasiom), uno dei tanti ristoranti carini del paese, scelto con la solita accuratezza dalla Micky. Il proprietario ci spegherà che Pascasio è in onore di Francisco Pascasio Moreno detto “il perito”. Cullati da tanta celebrità del nostro risto e dal vino (incluso nel prezzo del menù fisso) che ci mescevamo cats and dogs nei nostri vasi, la serata corre via serenissima.
Nel dopo cena ci trasferiamo in un locale tipo disco pub per smaltire parte della sbornia accumulata. Dani (che riesce a proseguire con qualche bicchiere di Cuba Libre, mentre io rimango fermo al palo per eccesso di ebbrezza e auto da guidare fino a casa) rivela le sue doti di ballerino sopraffino.
Rompo i maroni a più riprese al DJ chiedendo musica anni ’80.
Depeche Mode, U2, Al Corley…
La pista è nostra…E siamo l’anima della serata! Merry Christmas a tutti.
Martedì 25 Dicembre 2007.
A Christmas with Sir Perito Moreno.
Gira tutto.
La stanza, il bagno, il Lago Argentino fuori dalla finestra.
I postumi della sbronza natalizia sono pesanti da smaltire. E la realtà è difficile da digerire: una volta si recuperava molto più in fretta e si era pronti per un’altra serata brava già il giorno dopo.
In balia della nostra condizione di scarsa lucidità ci avviamo a percorrere gli 80 km di strada che ci separano dal Parque Nacional Los Glaciares (sur) e soprattutto alla sua meraviglia più ammirata: il ghiacciaio Perito Moreno.
Per fortuna la strada è ottima, asfaltata, con lunghissimi tratti rettilinei, almeno nel tratto fino all’entrata del parco.
Pagata l’entrata (20 pesos a persona) guidiamo, sempre più ansiosi e sempre un po’ meno rincitrulliti, verso la nostra destinazione. Ad un tratto, all’improvviso, dietro una curva Sir Perito Moreno si presenta a noi in tutta la sua maestosità. Emozioni forti. Aveva ragione il cameriere della cena la sera prima: “Puoi aver visto altri ghiacciai, ma la bellezza del Moreno è qualcosa di indescrivibile”.
Una distesa di ghiaccio con la sua scia che nasce lontano, 30 km prima, fra le montagne si estende per 250 km² e, come solo altri pochi (forse solo altri 2 ghiacciai) avanza, invece che retrocedere. Scorre ad una velocità di quasi 2 metri al giorno (intorno ai 700 metri all’anno) stretto fra le due pareti di roccia e terra che lo costringono a scontrarsi con la punta del promontorio della penisola di Magellano. Sebbene lo scontro avvenga in un punto ristretto, la sua facciata è ampia 5 chilometri, ed ha un’altezza media di 60 metri sulla superficie dell’acqua, con, ci dicono, una profondità totale del ghiaccio di 170 metri.
Quando raggiunge la riva opposta, dove sono poste le passerelle di osservazione, forma una diga naturale che separa le due metà del lago. In una foto dal satellite la situazione ci è molto chiara.
Questa è la situazione in cui l’abbiamo conosciuto noi. Ma non è sempre così.
Perché senza via di fuga, il livello dell’acqua della parte del lago detta Brazo Rico può salire di oltre 30 metri rispetto al consueto livello del lago e l’enorme pressione prodotta da questa massa d’acqua finisce per rompere la barriera di ghiaccio che la ostacola, dando luogo ad un evento unico e spettacolare.
Le frequenze variano da due volte l’anno fino a meno di una volta per decennio. Il ciclo diga/rottura è rappresentato in alcuni poster in vendita nei vari negozi di souvenir. Breve sosta di passaggio all’Hosteria Los Notros (www.Losnotros.Com) per cercare di comprare l’acqua per la giornata, ma ce la negano: tutto all-inclusive. Los Notros è l’unica possibilità di pernottamento all’interno del parco e soprattutto con vista sul Perito Moreno.
Mentre stiamo per uscire, alle nostre spalle, un urlo ci ferma: “CLEMENTE !!!” Ci voltiamo e con immensa sorpresa ci troviamo di fronte ad una coppia di signori spagnoli che avevano condiviso la Cruceros Australis con noi.
Pernottano (si devono fare, mi sembra, minimo due notti) con stanza vista ghiacciaio con tutte le escursioni organizzate.
Quando tento di riavviare il Terrano, la batteria da evidenti segni di cedimento, il motorino gira a vuoto e il motore non parte. Poco preoccupato perché sopra una salitina sfruttabile per un’eventuale partenza di fortuna, faccio altri due tentativi e il coche si rianima. Tiriamo un sospiro di sollievo.
Per recuperare l’acqua dobbiamo andare al bar del Porto sul lato nord della penisola. Facendo pochi passi all’interno del cantiere dove stanno costruendo un altro hotel, arriviamo alla prima visione ravvicinata del maestoso. Più ci avviciniamo e più siamo impressionati dalle sue dimensioni e dalla bellezza dei colori, un mix di bianco e di azzurro che ho ribattezzato “azul Moreno”.
Ci sconsigliano di cercare di arrivare alla passerella da dove lo si vede meglio a quest’ora. Sono circa le 12.00 ed è l’ora peggiore, dato l’affollamento turistico: impossibilità di trovare un parcheggio, ma ancor più grave, un buco fra la folla dove infilare l’obiettivo della tua macchina fotografica nella speranza di poter immortalare una rottura e relativa nascita di mini-iceberg. Decidiamo di tornare subito al porto, qualche chilometro indietro, dove imbarcheremo per navigare il lago e arrivare al punto dove inizieremo la nostra passeggiata sul ghiaccio.
Venti minuti di navigazione, in cui ci accalchiamo tutti sul ponte all’aperto per godere dello spettacolo cui ci stiamo avvicinando. Ogni tanto il rumore del motore è sovrastato dal boato di un pezzo di ghiaccio che si stacca, provocando l’improvviso ammutolimento e torsione di collo di tutti noi, nel tentativo di individuare il neonato iceberg del lago Argentino.
Sbarcati ci dividono in gruppi a seconda della lingua preferita per la nostra guida: spagnolo o inglese. Dopo una camminata di circa 15 minuti in un boschetto che corre a lato del ghiacciaio, fastidiosissimamente infestato da mosche giganti o forse tafani, arriviamo al Rampon Point, dove un gruppo di guide Hielo y Aventura ci fa indossare i ramponi necessari per la camminata.
Mentre mettiamo i nostri piedi per la prima volta sul ghiaccio, vediamo un altro gruppo intento nella scalata. L’afflusso turistico è immane, ma l’organizzazione lo regge molto bene.
Camminiamo per circa un’ora e mezza salendo e scendendo le pareti di ghiaccio, attraversando piccoli fiumiciattoli di acqua che sfaldano leggermente il ghiaccio e formano piccole piscine di colore azul Moreno.
Ogni tanto ci fermiamo per far rifiatare i meno allenati e per fare le doverose foto di rito.
Sulla via del ritorno, a bordo del battello, verso le 17.00, la stanchezza si fa sentire, soprattutto per la Micky. Mentre rimango sul ponte per scattare le ultime foto, lei si addormenta all’interno della piccola barca.
Arrivati al porto scendo a terra per primo, aspettando la mia compagna. Vedo la testolina con l’immancabile berretto cosacco, appoggiata al vetro della barca, inerme. “Mi sa che ronfa” penso fra me e me: “vabbè, si sveglierà con il passaggio di tutti, mentre scendono”.
L’ultima persona scende dalla barca, sorridendo nel constatare quale immane stanchezza può causare il minitrekking, ma la Micky non dà segno di vita. Chissà che sogni ne occupano la testa… Risalgo a bordo e la sveglio di persona… Alle seis della tarde l’accesso alle passerelle torna ad essere accettabile. Ripercorriamo i chilometri per raggiungerle. Troviamo Sara e Dani che hanno fatto la nostra stessa escursione un paio d’ore prima di noi.
Rimaniamo estasiati circa mezz’ora ad ammirare il muro di 60 metri che ci si apre davanti, assistendo a qualche distacco, che comunque crea sempre un fragore notevole. Un cartello ci racconta che superare le staccionate è pericoloso: dal 1968 al 1988 ben 32 persone sono morte per aver sottovalutato l’onda che si crea quando un pezzo di ghiaccio significativo si stacca dalla parete.
Stanchi dalla giornata fisicamente impegnativa e ancora con qualche postumo della serata natalizia sopra le righe ci troviamo per cenare a La Vaca, piccolo ristorantino “easy” sulla via principale di El Calafate. Dalla stanchezza facciamo fatica a parlare. L’indomani ci separiamo da Sara e Dani, dopo una settimana passata insieme. Noi proseguiremo per El Chalten per andare a conoscere Cerro Fitz Roy e Cerro Torre; loro voleranno su Buenos Aires, come tappa verso il mare del Brasile per il giusto relax da luna di miele.
Mercoledì 26 Dicembre 2007. Al cospetto del Cerro Fitz Roy.
Il benzinaio dove riforniamo il Terrano di gasolio sostiene che il tragitto per El Chalten richieda almeno 4-5. Un pezzo di strada asfaltata e un pezzo di sterrata.
Sconfortati iniziamo il trasferimento.
Ben presto mi rendo conto che probabilmente ci vorrà molto meno. La strada non è poi così terribile e le doti di guida sullo sterrato, apprese nel seguire il Fangio dell’altro ieri ci permettono di guadagnare terreno sul piano che avevamo stilato sulla base delle info ricevute.
In due ore, con qualche urlo della Micky per alcune curve un po’ allegre (un po’ Miki Biasion diciamo), arriviamo al El Chalten.
L’ultimo tratto di strada, sulla Ruta 29 è tutta un’anticipazione. Strada asfaltata lunghissima e dritta, con di fronte la vista della “cartolina” Fitz Roy che diventa sempre più maestosa ogni metro che passa.
Raramente incrociamo altre macchine e questo contribuisce a rendere lo scenario ancora più suggestivo. La strada è sempre più dirtta e deserta: sembra di essere in una copertina di un disco di Pat Metheny.
Due signori anziani in bici, carichi di bagagli, arrancano in senso opposto. Veri avventurieri. Li ritroveremo l’indomani in zona El Calafate. All’ingresso di El Chalten, piccolo paese che conterà circa 30 strade, tutte sterrate, troviamo un ufficio di informazioni sul parco e sui possibili trekking.
Siamo ancora nel Parque Nacional Los Glaciares, ma ora nella parte a Norte, e al contrario di quella Sur, qui non si paga un biglietto di ingresso.
Una guida ci mostra tutti i possibili sentieri, sconsigliandoci quelli verso il Cerro Torre, essendo la sua vetta quasi totalmente oscurata da una coperta di nuvole. Optiamo per il Mirador del Fitz Roy con l’opzione di arrivare fino Laguna Capri. Se il tempo dell’indomani dovesse essere clemente, potremmo dedicarci al Cerro Torre.
Raggiungiamo l’Hosteria Senderos (www.Senderoshosteria.Com.Ar), un grazioso piccolo hotel inaugurato il 2 Novembre 2007. La camera non è grande ma i dettagli sono molto curati, (come le lenzuola con la S marchiata) ed è apprezzabilissima la passione che ci mettono le due ragazze che lo gestiscono. Il salottino sulla destra dell’ingresso è poi veramente delizioso; avremmo voluto sfruttarlo maggiormente. Ma la scalata ci aspetta.
Verso le 16.00 attraversiamo in macchina tutto il paesino, per arrivare al Campamento Madsen, un campeggio ai piedi della montagna, da dove inizia il sentiero per il Mirador e Laguna Capri.
L’abbigliamento non è dei migliori: pantaloni da sci e maglietta a maniche lunghe. In generale, col senno di poi, direi che partirei un po’ più leggero, non ho incontrato tutto il freddo che mi sarei aspettato (caldo anomalo, ci dicono).
Le previsioni ci dicono: 1.30 h per arrivare il Mirador e 1.45 h (15 minuti in più del Mirador) per Laguna Capri. Nonostante il primo pezzo sia abbastanza in pendenza, forzo volutamente il ritmo per cercare di guadagnare terreno e vedere se possibile aggiungere un’uleriore tappa.
Non dico nulla alla Micky, meglio condividere il piano a tappe raggiunte.
Come secondo il mio piano, arriviamo alla Laguna Capri in poco più di un’ora, in largo anticipo.
E’ gioco facile quindi condividere il tentativo di raggiungere la tappa successiva, dimostrando che il percorso si snoda nel bosco più o meno alla stessa altitudine, quindi senza grandi difficoltà.
Il foglio con il dettaglio dei sentieri ci dice che solo un’altra ora di cammino ci separa da Campamento Poincenot, ultimo punto di visione del Cerro Fitz Roy prima della molto più impegnativa salita al Lago del los tres.
Sarà la stanchezza, sarà quel che sarà ma sul percorso piano non riusciamo a guadagnare terreno sui tempi pianificati. Il tragitto fino a Poincenot ci occupa una buona ora di camminata. La vista del Fitz Roy da sotto è spettacolare ma funestata da una nuvoletta bastarda che, mentre noi ci inerpicavamo, ha visto bene di incappucciargli proprio la cima.
La visione è comunque fantastica. Di fianco al Fitz Roy, sulla sua sinistra sono visibili le cime Poincenot e il Saint Exupery (dal nome del pilota ed esploratore che ha avuto la gentilezza di regalarci “il Piccolo Principe”).
Il percorso di ritorno è reso difficile dalla scomparsa graduale del sole, occultato da enormi nuvoloni grigio scuri saltati fuori dal nulla delle quattro stagioni patagoniche in un giorno.
Alle 20.00 terminiamo il nostro trekking. Comunque 4 ore rispetto alle 6 previste dai manuali. Ottima prestazione.
Che però ha malauguratemente e senza alcun nesso preciso, fatto venir voglia di pizza alla Micky.
Sotto le sue minacce, ci dirigiamo direttamente a mangiare. “Fare la doccia equivarrebbe ad inchiodarsi direttamente a letto” dice.
Lei si sazia con una pizza, io mi scofano il classico bife de chorizo, con copa di vino tinto. Allo spartano ma buono Ahonikenk-Chalten (www.Ahonikenkchalten.Com.Ar). Un cagnolino, uno dei tanti di El Chalten, ci fa compagnia fuori dal locale, sul muretto della finestra. A termine cena lo ricompenso a dovere con un pezzo di grasso, avanzato sul mio piatto.
La doccia è l’ultima cosa che ricordo prima delle coperte marchiate “S”.
Giovedì 27 Dicembre 2007. Regresamo al Norte. Back to BA.
La prima cosa che facciamo al suono della sveglia (e che probabilmente fanno tutti gli altri ospiti di El Chalten) è spostare la tenda della finestra con la speranza di scorgere la punta di Fitz Roy e Torre.
Rimaniamo immediatamente delusi dalla coltre di nuvoloni grigi che impediscono qualsiasi tipo di visuale di entrambe le cime. La seconda passeggiata, salterà. Con gran gioia della Micky dedichiamo la mattina alla visita dei negozietti del paese. Pranzo (Micky solito the) in un piccolo locale molto carino di cui non ricordiamo il nome, servito da una cameriera con un viso bellissimo che mi ricorda Carla Bruni, e foto di Maradona (quello vero, non quello di Medellin) ovunque sui muri. Una foto ricorda anche il famoso goal fatto dalla “mano de dios” all’Inghilterra (non proprio una nazione amica visti i rapporti tesissimi per la questione Malvinas –Falkland) ai mondiali del Messico del 1986.
Zuppa di verdure e crepes alla rapa rossa argentina, con un buon immancabile bicchiere di vino tinto. La nostra ultima visita è un ritorno al visitor center per le ultime foto.
Il Fitz Roy, nel frattempo, si degna di scoprirsi per un ultimo saluto.
Del Torre nessuna notizia pervenuta: sempre dietro le nuvole.
La via del ritorno per El Calafate è senza problemi. La Ruta 40 ci regala i soliti panorami.
Alle 18.00 siamo a El Calafate. Siamo in perfetto ruolino di marcia sui nostri piani. Solo venti minuti ci separano dalla riconsegna del Nissan all’aereoporto prima del nostro volo per Buenos Aires.
Dopo aver fatto il pieno di gasolio la brutta sorpresa: batteria morta. E’ stato sufficiente dimenticarsi i fari accesi per il tempo della sosta benzina (non più di 3 minuti) e la batteria è andata.
Panico.
Provo altre tre, quattro volte ma non succede nulla.
Proviamo a spingere, con l’aiuto del ragazzo che lavora al benzinaio.
Niente.
Proviamo a chiamare un meccanico.
Che è poco distante, a circa un chilometro ma non può venire. Ci chiede di portare da lui la macchina o smontare la batteria e portare solo quella.
Opzione 1: impossibile; strada in leggera salita, ci vorrebbe un elefante del Kruger per spingere il Terrano.
Opzione 2: scherza? Mai smontato una batteria. Figurati se inizio a El Calafate senza avere gli strumenti e a mezz’ora dall’inizio del check-in del volo.
“Possiamo provare a chiamare il noleggiatore. Gli possiamo dire di venirsi a prendere il rottame della sua macchina in paese mentre noi prendiamo un taxi per l’aereoporto”. La soluzione non mi fa impazzire visto che lui possiede ancora una mia firma su una ricevuta della carta di credito in bianco, lasciata come garanzia.
Comunque, per una questione di prefissi telefonici internazionali, non riusciamo. Disperato faccio l’ultimo tentativo di accendere.
Sarà che con qualche minuto di attesa si è un po’ ripresa (?) sarà qualche santo in cielo… il motore si accende! Premo l’acceleratore fino a fondo corsa, più per il nervoso da scaricare che per un reale desiderio di dare ulteriore energia alla batteria.
Ringraziamo il benzinaio e ripartiamo a tutto gas verso l’aereoporto, inveeendo pesantemente contro il noleggiatore.
Meditiamo di riconsegnarla spenta con i fari accesi per rendergli pan per focaccia, ma poi desistiamo dal piano vendicatorio. “Occhio per occhio e il mondo rimane cieco”, dice sempre la Mamota (e Ghandi prima di lei). La Micky mi rimprovera ancora oggi di non averlo fatto.
Con nostro grande stupore scopriamo di essere in business. Non che la business di un volo nazionale delle Aereolineas Argentinas possa essere considerato un lusso, ma abbiamo la possibilità di accedere alla sala vip con bevande gratis, per farci un aperitivo a base di vino blanco in attesa del volo. C’è anche un PC portatile per collegamento internet: è un Compaq Armada che avevo come primo PC quando ho iniziato a lavorare nel 1997…In mezz’ora, riesco ad aprire una sola mail, il resto è clessidra… Il volo fa scalo a Trelew. Atterriamo a Buenos Aires verso mezzanotte. Con 20 ARS di taxi siamo al Golden Tulip Savoy (www.Goldentulipsavoy.Com). Bel palazzo sia fuori che internamente, camera enorme (ci riservano una mini suite con due stanze, una matrimoniale e una doppia, precedute da un piccolo ingresso con divano), ma arredamenti interni e bagno assolutamente da rimodernare. Abbastanza una delusione. La Micky, a metà notte, mi abbandona il letto coniugale (non il tetto) per l’impossibilità ad addormentarsi con il rumore dell’enorme, fatiscente e inefficace impianto di aire acondicionado presente nella matrimoniale.
La ritrovo il mattino seguente, più rabbuiata del solito.
Venerdì 28 Dicembre 2007. Cataratas do Iguaçu. Lato Brasile.
Apprezzo molto la copia del Corsera (in versione ridotta per oltreoceano) che mi fanno trovare davanti alla porta della camera.
Passo il viaggio aereo a leggere dell’assassinio a Benazir Bhutto, di Prodi che sfida Dini, di Paris Hilton diseredata.
I nostri due posti finestrino sulla sinistra, come suggerito da una lettura di Turisti per Caso, purtroppo non servono. Non riusciamo a vedere le cascate di Iguazú dall’aereo. Forse le ha viste chi stava sulla destra.
Qualcuno un giorno mi ha detto che gli aerei possono decidere di atterrare da una parte o dall’altra di una pista a seconda di dove tira il vento. Mi sembra che sia meglio atterrare sempre contro vento. Forse oggi girava nell’altro senso. Chissà… Le cascate che ci aspettano sono condivise dal Iguazú National Park (Argentina) ed il Iguaçu National Park (Brasile), designati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità nel 1984 e 1986 rispettivamente.
Il nome Iguazù viene dalle parole Guaranì (acque) e guasu (grandi).
La maggioranza delle cascate è in territorio argentino, ma dal lato brasiliano (600 metri) si ottiene una visione più panoramica,una vetrina incredibile. Noi optiamo, evidentemente, per fare entrambe le tappe. Abbiamo i tempi un po’ contati ma ce la possiamo fare.
Mentre aspettiamo i bagagli valutiamo le diverse opzioni per il trasporto alle cascate.
Fra il noleggio di un auto propria, l’escursione organizzata collettiva e il noleggio di un taxi tutto per noi, optiamo per quest’ultima soluzione. Che si verificherà essere vincente.
Avere qualcuno che ci accompagna ci permetterà di sbrigare in modo rapidissimo le procedure doganali per visitare anche la parte brasiliana e annulla di fatto qualsiasi tipo di imprevisto dovuto ad errori di strada o ricerca di parcheggio, ecc.
Scopriremo anche che il nostro autista, Ezechiele, è pure il figlio di una dipendente della dogana argentina nonché conoscitore di tutti i lavoratori (forse anche grazie alla mamma) dei parchi argentino e brasiliano che equivale a saltare tutte le code di macchine che si presenteranno nelle due giornate. Scelta azzeccatissima.
Ezechiele mi ricorda anche la citazione di Samuel L. Jackson (nomination per miglior attore non protagonista) per l’interpretazione di Jules Winnfield in Pulp Fiction, di Tarantino; pezzo memorabile: Ezechiele 25.17: “il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre; perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare ed infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.” Ora, sono anni che dico questa cazzata, e se la sentivi significava che eri fatto. Non mi sono mai chiesto cosa volesse dire, pensavo fosse una stronzata da dire a sangue freddo a un figlio di puttana prima di sparargli..Ma stamattina ho visto una cosa che mi ha fatto riflettere. Vedi, adesso penso, magari vuol dire che tu sei l’uomo malvagio e io l’uomo timorato, e il signor 9mm, qui, lui è il pastore che protegge il mio timorato sedere nella valle delle tenebre. O può voler dire che tu sei l’uomo timorato, e io sono il pastore, ed è il mondo ad essere malvagio ed egoista, forse. Questo mi piacerebbe.Ma questa cosa non è la verità. La verità è che TU sei il debole, e io sono la tirannia degli uomini malvagi. Ma ci sto provando, Ringo, ci sto provando con grande fatica a diventare il pastore.
Ezechiele, con i suoi modi di fare molto più soft del suo omonimo più illustre, ci conduce all’Hotel Esturion (www.Hotelesturion.Com) nella cittadina di Puerto Iguazu (cittadina Argentina di 40.000 anime, separata da Foz do Iguaçu, corrispettiva brasiliana di 130.000 abitanti, da un ponte per metà dipinto di azzurro e bianco e per l’altra metà di giallo e verde) per lasciare i bagagli in camera e permettere alla Micky di prepararsi con i vestiti adeguati alla visita al parco.
Ci aspetta e ci trasporta oltre il confine con il Brasile, e poi all’entrata della parte giallo verde del parco.
Dopo alcune spiegazioni davanti alla grande mappa prima dell’entrata, ci saluta dandoci appuntamento per le 17.30. Abbiamo circa quattro ore per visitare il lato brasiliano.
L’entrata del parco ci costa 40 Real (la quarta moneta che incontriamo nel viaggio dopo pesos argentini, pesos cileni e gli onnipresenti USD) che riusciamo a pagare con carta di debito, il nostro bancomat.
Un bus ci porta per le vie del parco fino all’Hotel des Cataratas da dove parte il sentiero Trilha de Cataratas per un paio d’ore fra camminata, foto, ammirazione del magnifico panorama e dei simpatici animaletti che abitano il parco. Mentre scendiamo i primi scalini, inizia a piovere ma fortunatamente smette dopo qualche minuto. Anche qui il tempo è molto variabile e sono frequentissimi i temporali (non si spiegherebbe altrimenti la splendida vegetazione circostante).
All’inizio la visione non ci sembra poter competere con le Niagara Falls (viste per altro di recente, l’estate 2007 nel nostro Coast to Coast USA). Ma più camminiamo per il sentiero, e più le cataratas ci mostrano il loro orgoglio nel rivendicare una maggiore bellezza rispetto alle sorelle americane-canadesi (chissà perché le cascate sono spesso condivise da due paesi? Forse perché i fiumi sono ottimi confini).
Trattasi di circa 300 cascate (!!!), con altezze fino a 70 metri, lungo 2.7 kilometri del fiume Iguazù.
Scattiamo le nostre decine di foto, da bravi turisti. Qualcuna anche ai coatimundi (simpatici animaletti onnivori) che più che della famiglia dei procioni a noi sembrano far parte di quella dei toponi. Assolutamente disinteressati agli umani e focalizzati solo alla ricerca del cibo con il loro nasone allungato. Quando arriviamo al cospetto della Garganta del Diablo (Gola del diavolo), una gola a forma di “U” profonda 150 metri e lunga 700 metri, la più imponente delle cascate, che ha anche il ruolo di marcare il confine tra Argentina e Brasile, non abbiamo più alcun dubbio: Iguazù batte Niagara 6-1: estensione, numero di salti, spettacolarità del luogo, vegetazione circostante, accessibilità e possibilità di visione ravvicinata. Unica cosa a favore delle Niagara è la maestosità alla vista immediata data dalla maggior potenza dei due salti singoli.
L’ultima passerella è quella che porta ad ammirare la garganta da qualche decina di metro, a circa metà della sua altezza. Gli spruzzi d’acqua sono talmente forti che ci docciano. Qualche acquisto nel negozio di souvenir e rientro con Ezechiele all’Hotel Esturion.
Mentre mi dedico ad una mezz’ora di piscina, sempre per cercare di recuperare le funzionalità della schiena, la Micky è alle prese con un attacco di formiche in camera. Viene a chiedermi aiuto nella lotta, soprattutto nella fase politico-straregica (chiedere un cambio camera che a lei hanno appena rifiutato); sa benissimo che non potrei aiutarla sul fronte militare: sul campo mi schiero sempre dalla parte degli animali… Quando facciamo un sopralluogo nella nuova camera che sono riuscito ad ottenere, il mio luogotenente scopre tracce di insetto anche sul posto e conveniamo sia preferibile rimanere sul precedente campo di battaglia, dato che le trincee sono, nel frattempo, state ripulite e irrorate di Raid anti-formiche dagli aerei alleati (la donna delle pulizie).
Micky distrutta, gioco forza ceno da solo al ristorante dell’hotel: buffet e cerdo a 51 ARS, con vino offerto dall’hotel (voucer trovato e subito occultato dalla camera che ci hanno dato in visione; con che coraggio poi mi posso lamentare dei nostri politici ladri…). Ne approfitto per aggiornare il diario di viaggio (quello che stai leggendo) sul mio Nokia. Prima di tornare in camera, visita al campo da tennis…Grande nostalgia e speranza di poter tornare a giocare…
Sabato 29 Dicembre 2007.
Cataratas del Iguazù. Lato Argentina.
Il cielo è coperto. Mannaggia. Non riusciremo a vedere gli spettacolari arcobaleni che si formano quando la quiete prende il sopravvento dopo la tempesta.
Colazione e check out dall’Esturion.
Alle 9.45, guidati dal fido Ezechiele che ci fa saltare tutte le code, siamo dentro il Parque Nacional del Iguazù (lato argentino): 40 ARS a testa che si possono pagare solo in contanti (annotiamo sul nostro diario: argentini più arretrati dei brasiliani). Approfittiamo della relativa calma del parco: molti bus sono ancora impegnati nella coda che abbiamo appena saltato. Partiamo subito con la “grande avventura”. Per la modica cifra di 100 pesos a testa, un camion scoperto ci porta insieme ad altre venti persone, sulla riva del fiume Rio Iguazù, dove ci attende un moderno gommone provvisto di due potenti motori. Veniamo dotati di una sacca impermeabile dove riporre i nostri oggetti personali che gradiremmo non si inumidissero (…) e del giubbotto salvagente di rigore.
Una meticolosa ricerca all’interno di tutti gli zaini e zainetti che ci trasciniamo dietro da ormai quasi venti giorni e di cui abbiamo perso il controllo, mi ha permesso, proprio quella mattina, di ritrovare la piccola Canon digitale che davo ormai per dispersa, che utilizziamo sempre, grazie alla custodia subacquea, per le riprese acquatiche o in condizioni di forte bagnato. La porto con tracolla pronto per immortalare ogni piccolo dettaglio.
Mentre risaliamo il Rio Iguazù verso le cascate, la nostra guida non manca di raccontarci che: alla nostra sinistra c’è la più grande nazione dell’America Meridionale, il Brasile mentre “a la su derecha esta la mejor !…”.
Pochi metri e iniziano le prime rapide che superiamo agevolmente grazie ai potenti motori. Dopo un paio di insenature a destra e sinistra compare, di fronte a noi in lontananza, lo spettacolo della Garganta del Diablo.
Viriamo a destra per un tour fotografico del Salto Bossetti, e del Salto San Martin, molto imponente.
Soddisfatte le esigenze oliviero-toscaniane di tutto il gommone, il pilota vira di 180° e ci riporta in direzione del Diablo.
Ci fermiamo a prenderci una quantità inenarrabile di spruzzi e schizzi d’acqua, senza poter tenere anche un piccolo spiraglio di occhio aperto.
Facciamo ben tre docce sotto la cascata chiamata I Tre Moschiettieri.
Filmo senza sapere bene cosa verrà (e purtroppo scoprirò che non verrà proprio tutto. La Canon, che aveva subito il primo colpo quasi mortale, che le aveva distrutto il display in un ascensore a Stoccolma, mi sa che sta tirando gli ultimi…).
Siamo completamente fradici.
La ultime due docce sotto la catarata de San Martin ci danno il colpo di grazia. Riesco a scattare qualche foto al muro d’acqua che ci sovrasta.
Rientriamo a terra praticamente a metà del cosidetto percorso inferiore, uno dei maggiori tre che permettono di visitare il lato argentino. Tantissimi uccelli in cielo. Concludiamo il percorso inferiore con altre foto al Salto Bossetti e passando davanti alle Cataratas Dos Hermanos, due belle cascate gemelle.
Un baño publico pemette alla Micky di mettersi gli abiti asciutti, mentre siamo in compagnia di una famiglia di coatimundi con i piccoli e un iguana. Camminando per circa dieci minuti, con annessa discussione per chi avrebbe dovuto fare la foto ad un bellissimo uccellino dai colori blu, arriviamo alla stazione del trenino che ci porterà al Paseo del Diablo, la passerella che consente di arrivare proprio a ridosso sopra la Garganta del Diablo.
Sulle nostre teste il cielo si fa sempre più nero. Ne abbiamo anche un po’ i maroni pieni di stà storia delle quattro stagioni in un giorno solo e iniziamo a rimpiangere la monotonia del tempo nel vecchio continente.
La situazione, e ovviamente anche la pioggia, precipita… proprio mentre siamo sulla passerella finale per il Diablo. E ovviamente, non poco prima, o poco dopo, ma proprio mentre siamo a metà senza aver la minima possibilità di sfuggire alle intemperie.
Il diluvio universale (chissà, forse mandato da Ezechiele come grandissima vendetta e furiossimo sdegno…) è devastante. Altro che pioggia a catinelle, altro che cats and dogs, sembra peggio che stare sotto le cascate della mattina…E ora non abbiamo la sacca che contiene e protegge tutto.
Siamo fradici fin nelle scarpe. Sento ciofp ciofp come se camminassi in una pozzanghera. E aggiungo ancora: finita la visita al parco, dovremo andare direttamente in aereoporto.
E infine: prendere un volo fradici non è esattamente la cosa più sana del mondo (ammesso che ti facciano salire).
Quando, dopo dieci minuti, Giove decide di smettere di fare pipì, e possiamo fare l’ultimo tratto di passerella per arrivare al cospetto del Diavolo, lo spettacolo è mozzafiato. Il milione di metri cubi che si riversa nel Rio Iguazù fa veramente impressione. E’ la 6° cascata al mondo per portata d’acqua al secondo e la 4° per altezza. Il vapore acqueo misto alle nubi impedisce quasi di vedere il lato brasiliano. Foto e filmino di rito e rientro di corsa per provare a prendere il trenino che parte alle 14.00, nel tentativo di avere il tempo per fare anche il percorso superiore.
Alla stazione intermedia, altra sosta per cambiarsi: la Micky mi “ciula” tutto il mio vestiario di ricambio asciutto (si fa per dire, perché il diluvio ha raggiunto in parte anche l’interno dello zaino).
Al termine delle operazioni di vestizioni della signorina, non possiamo che constatare l’impossibilità a percorrere il circuito superior con una certa calma. Preferiamo tornare verso l’ingresso da Ezechiele con un certo anticipo sul previsto per poterci cambiare con calma in vista del volo. Scopriremo solo più tardi che questa nostra premura non sarebbe stata necessaria.
Dopo mezz’ora di cambio abiti e riassestamento zaini, partiamo per l’aereoporto dove arriviamo puntualissimi. Paghiamo Ezechiele: Aereoporto-Esturion: 60 ARS, Esturion-Parco lato Brasile-Esturion: 210 ARS, Esturion-Parco lato Argentina-Aereoporto: 150 ARS.
Chi non è puntuale, purtroppo, è il volo delle Areolineas Argentinas, che batte tre, dico tre, ore di ritardo che sommate all’ora prima del check-in fanno quattro ore di attesa per noi.
Che, con il fatto dell’aver saltato il Paseo Superior, per la mancanza di tempo, ci pesano ancora maggiormente.
A confortarci dallo shock del ritardo ci pensa il solito tramonto sudamericano, prima dell’imbarco.
Arriviamo a Buenos Aires verso le 22.30. Taxi per l’Hotel Claridge (www.Claridge.Com.Ar, nel Microcentro, vicino a Plaza de Mayo e all’obelisco e ad un passo anche da Avenida Florida) che, ad una prima visione della stanza, anche sotto stress per il ritardo aereo e la stanchezza della giornata, ci soddisfa appieno. Scelto dalla Micky… La camera all’11° piano (su 14), piccola ma carina e pulita, passa agevolmente l’esame del mio luogotenente che apprezza anche qualche piccolo dettaglio e prende nota e spunti per le sue attività imprenditoriali, un esempio: la carta igienica arrotolata nel cellophane per maggior garanzia di igiene quando inevitabilmente verrà a contatto con gli orifizi degli ospiti. La Micky stende i nostri panni fradici, che ammorbano l’atmosfera interna sprigionando la loro muffa accumulata durante il volo e relativa attesa, e ci addormentiamo sereni, sognando gli ultimi tre giorni che ci attendono per visitare la capitale Argentina. Domenica 30 Dicembre 2007.
Buenos Aires: Puerto Madero, San Telmo, Microcentro.
Sveglia tardi, verso le 10.00. E’ il primo giorno che possiamo rilassarci alla mattina. Sfrutto la palestrina per un 30 minuti di jogging e un pò di piscina, pulita ma piccola e poco nuotabile.
Verso le 12.00, dopo lauta colazione, partiamo per la nostra esplorazione a piedi di Buenos Aires.
Ci inoltriamo in Avenida Florida, per andare a vedere non lontano dal nostro Hotel, Galleria Paradiso, centro commerciale in antico palazzo molto bello, con zona adibita a mostre negli ultimi due piani. Passeggiamo per una mostra di una miria (a me) sconosciuta che risponde al nome di Teresa Lascano. Qualche quadro attira la mia attenzione.
Al piano superiore mostra di Hector Fontan a quasi un anno dalla sua morte. Molte delle sue opere sono dedicate alla libertà dei popoli dell’America Latina, e in particolare alla figura di Rigoberta Menchu.
Héctor Fontán siente la tierra con el corazón. Su interés, su curiosidad, su inmensa vitalidad, su pasión, se transmite en sus obras y seduce al espectador, que queda atrapado en una naturaleza primigenia.
Esa naturaleza es América Latina, compleja, bella y terrible. En ella, Fontán nos muestra a Rigoberta Menchú Tum, su incansable trabajo de denuncia sobre el genocidio en Guatemala, su lucha contra la impunidad, y a favor del respeto a los derechos humanos en general y de los pueblos indígenas en particular. Fontán, que amó América, nos transmite toda la fuerza y el drama del mundo en que nació y vivió.
Oltre alle opere per la “Rigo”, mi rimane impresso un quadro che, da quello che ho letto sull’economia argentina, ritengo sia dedicato a Menem, presidente dal 1989 al 1999 e ritenuto da molti il principale colpevole del crollo dell’economia argentina del 2001. La sua politica “neoliberista” portò ad un periodo di crescita della classe media ma anche di fortissima corruzione istituzionale che lo videro protagonista nella svendita di molti gioielli di stato (monopolio petrolifero statale YPF, Telefonia, Poste, le Areolineas Argentinas ora spagnole). Quando lasciò la presidenza, l’Argentina aveva un debito estero di 114 miliardi di dollari. L’istituzione della parità fra pesos e dollaro, voluta da Menem impedì all’Argentina di essere competitiva sul mercato internazionale. Le azioni che seguirono portarono il paese ad una crisi economico-sociale-politica senza precedenti. Nel tentativo di ridurre il deficit, Fernando de la Rua (succeduto a Menem) insieme a Domingo Cavallo (il nostro attuale TPS) apportarono una serie di forti tagli alle spese compresi stipendi e pensioni dei lavoratori statali, e iniziò le trattative per svalutare il peso. La classe media argentina rispose iniziando a prelevare tutti i propri risparmi dalle banche. E quando gli venne posto il tetto di 250 USD settimanali si scatenò il finimondo.
Ribellione con strade invase. La chiamarono cacerolazo (la rivolta delle pentole, che venivano rumorosamente sbattute per le strade della capitale). Il periodo di rivolta portò a 25 morti e alle dimissioni del Presidente, cui ne succedettero altri tre prima che Duhalde (il quinto in due settimane) prendesse il potere, svalutasse il peso e dichiarasse che l’Argentina non avrebbe pagato il suo debito estero.
Proseguiamo il nostro tour verso Puerto Madero passando per il centro finanziario, deserto essendo Domenica e pure sotto feste natazie.
I palazzi di mattoni rossi di Puerto Madero, del vecchio porto oggi ristutturato, sono molto belli. Li passiamo tutti costeggiando il porto a sinistra.
La maggior parte dei locali al piano terra sono ristoranti. Passiamo davanti alla Cabana de las lilas, che la Micky aveva già addocchiato come uno dei migliori ristoranti di carne della città, ma anche di fronte ad altri locali come Siga la Vaca (che tradotto in veneto sarebbe, “urla la mucca”…).
All’altezza di metà della dique n°1 giriamo a destra tornando verso il centro città. Arriviamo in Plaza Dorrego dove troviamo il sosia del nostro amico “Buttu” che ci regala, fra un tango e l’altro, le “4 stagioni di Vivaldi” con la chitarra. I mercatini sono pieni di cianfrusaglie e non che, a mio modo di vedere, andrebbero comprate tutte.
Il folklore imperversa decisamente per le strade di San Telmo.
Mi limito all’irresistibile acquisto di una minuziosa lavorazione a mano, sulla testa di un fiammifero, della rappresentazione della mano de dios di Maradona, e ad un CD di Chitarra Fussion di Elio Gerardi e Nelson Piazza, che ascoltati live nelle vie di Buenos Aires mi sembrano bravissimi.
Arriviamo in Plaza de Mayo esausti. E per questo motivo, anche alla disperata ricerca di un bar, la abbandoniamo subito con il proposito di tornarci uno dei giorni a venire. Raggiungiamo il locale Richmond, come proposto dalla Micky, per uno spuntino, ma è chiuso. Ci spostiamo alla Confiteria Ideal (www.Confiteriaideal.Com) come suggerito da Camilla e Giorgio. Cioccolata per Micky e panino al jamon crudo per me, rifocillanti e rigeneranti al bar del piano terra. E susseguente visita al piano superiore alla milonga dove un centinaio di autoctoni si trastullano nel pieno rispetto dei rituali del tango. Osserviamo ammirati e incuriositi.
Al rientro in hotel altri 30 minuti di corsetta e un pò di stretching in piscina.
Per andare all’appuntamento con la carne argentina della Cabana de las lilas (www.Laslilas.Com/restaurant), prendiamo un taxi, nonostante il tragitto non sia improponibile a piedi, la stanchezza della camminata del giorno si fa sentire tutta.
Nell’ora di attesa che si liberi il nostro tavolo andiamo a trovare Anabel, amica della Micky che ha vissuto per qualche tempo in Italia, e il boyfriend Gustavo che stanno chiudendo barca dall’altra parte del porto.
L’attesa non è stata vana: il nostro tavolo è all’aperto, al fresco e lontano dal rumore. Prendiamo due bife de lomo (io con purè de papas), solo di cotture diverse. Micky medio, io al sangue.
Quando ci vengono serviti, con due piccole mucchette di plastica puntate sopra, con le scritte: “Estoy jugoso” (il mio) e “Estoy a punto” (Micky). Il cabernet da 14.5 gradi ci porta a ricordare dei momenti alcolici con Sara e Dani ai quali inviamo un sms con testo pseudo-delirante.
Taxi anche per il ritorno in hotel.
Lunedì 31 Dicembre 2007.
New year’s eve with new friends from Central America Mi sforzo di scendere dal letto verso le 8.00 per poter godere di un’oretta di tranquillità e sole nella piccola piscina del Claridge. Quando alle 10.00 scendiamo per fare colazione, una coda di persone che “waitano” to be seated arriva fino al centro della hall. “Incomprensibile per un 5 stelle” borbotta la Micky. Usciamo dall’hotel verso 12.00, destinazione, il quartiere di Palermo. Prendiamo la subte da Esmeralda (Linea C) a Estacion Palermo (Linea D) cambiando alla stazione 9 de Julio. All’uscita troviamo ad accoglierci 36° con sensazione termica 40° (qui indicano sempre le due temperature). Perlustriamo Palermo Soho, Vejo, Holliwood a piedi passando per le viette più caratteristiche scattando qualche fotografia qua e là. Il caldo si fa sentire e ci rende un po’ fiacca la visita. Arriviamo fino al Malba, (Museo de Arte Latinoamaricano de Buenos Aires) dove la Micky (molto più di me) vorrebbe entrare, ma con grande dispiacere (come sopra) lo troviamo chiuso. Un piccolo cartello ci avvisa anche che il giorno di chiusura è il Martedì. Non avremo quindi più possibilità di provarci. Raggiungiamo Anabel e Gustavo che stanno facendo spese al supermercato vicino al museo e a casa loro. La casa dove vivono è un piccolo loft al primo piano di un bel palazzo ristrutturato, ricavato da una vecchia industria. Ampio salone con soppalco, sotto il quale si trova una cucina abbastanza spaziosa. Grande vetrata che propone vista sul giardino interno dove centrale si trova una doppia piscina: acqua normale e acqua riscaldata. Dopo le chiacchiere di rito, ci riportano in hotel, dove con qualche difficoltà, per il ritardo nella decisione, prenotiamo il cenone del New Year’s Eve al Claridge stesso. Chiediamo un tavolo da due ma l’unico posto è all’interno di una tavolata di otto. Speriamo i compagni di tavolo siano giovani, o comunque simpatici.
Rimane ancora un po’ di tempo per un relax in piscina e un po’ di jogging (per me, mentre la Micky è sempre intenta a prepararsi).
Dopo un aperitivo lungo dalle 20.00 alle 21.30 al bar dell’hotel, con una serie di stuzzichini discreti, non esaltanti, accompagnato da buona musica live suonata da un trio con cantante donna (nulla a che vedere con la Giorgia di Amorino), ci trasferiamo nel salone adibito alla cena. Il nostro tavolo è lontano dal centro della pista, ma siamo i primi ad attavolarci e ne approfittiamo: diamo le spalle al muro e possiamo inquadrare la pista dove si esibiranno in uno spettacolo di, strano a dirsi, tango.
Poco dopo ci raggiunge una famiglia di Santo Domingo, Repubblica Dominicana: genitori con due figli maschi e relative donne (una moglie, da sei anni, con un figlio, lasciato a casa e la fidanzata, perché il suo uomo sta frequentando un master in Economics a Santiago, Cile).
Il tavolo si completa con gli ultimi due posti disponibili solo qualche minuto più tardi quando noi abbiamo già decisamente rotto il ghiaccio con i caribbeans. Sappiamo che il padre ha fondato e guida insieme al figlio maggiore, tre aziende che si occupano di pezzi di ricambio per autovetture. L’anima della famiglia è la moglie, simpaticissima che sta al gioco e ricambia tutti i miei scherzi. Ci congratuliamo con lei: “Behind a great man there’s always a great woman”. I due posti liberi sono occupati da due messicani, padre, di circa settant’anni e figlio di venti, che subito rinomino “Ricucci”. Per tradizione familiare lui si chiama Joaquin quinto. “La faccia da Joaquin V effettivamente ce l’ha”.
La cena scorre veloce con l’abbondante vino a fungere da sblocca vincoli fra noi. Si arriva su argomenti spinosi, come la mia ernia, le mie difficoltà motorie. Quando, maliziosi, mi chiedono come si possa, con la schiena malandata, in certe situazioni di coppia, rispondo sereno che per me “abajo is always better that arriba…”, suscitando l’ilarità generale. Altri argomenti scabrosi toccati che si intrecciano sono la religione e la moda.
Si parla di moda, Prada è un nome che viene citato spesso, anche dalle due ragazze caraibiche, che evidentemente ben approfittano della imprenditorialità della famiglia in cui sono atterrate. Si parla del film “The Devil wears Prada”. Francisco mi aggiorna che, a suo dire, anche il nostro buon Ratzinger, indossa scarpette rosse Prada (anche se a me sembra strano). L’associazione mi esce spontanea, dal profondo: “The Devil wears Prada. The new Pope wears Prada. Therefore, the new Pope is…The Devil”. Mi affretto a specificare che si tratta ovviamente di un joke e che non intendevo offendere nessuno. Spiego anche della mia incondizionata simpatia nei confronti del sofferente Wojtyla e della fatica nell’accettare quello che mi sembra un eccessivamente lucido, razionale, superbo, Ratzinger. Condividono il mio giudizio.
Mentre ci servono una pessima cena, la peggiore di tutto il nostro viaggio (e non mancheremo di segnalarlo nel foglietto dei giudizi), ci consegnano anche dei buffi cappellini colorati, nacchere e noccioline dolci.
Lo spettacolo di tango e canto è carino, ma nulla di eccezionale.
La famiglia messicana ci aggiorna della loro partenza, la mattina successiva, per Ushuaia dove si imbarcheranno per una ventina di giorni in Antarctica. Gli facciamo i nostri complimenti per il viaggio che rimane comunque anche un mio sogno. Avevo provato a vedere se si poteva “incastrare” nel nostro viaggio un volo verso la penisola antartica o addirittura al Polo Sud, ma a parte i costi abbastanza proibitivi, l’ostacolo insormontabile era il richiedere la presenza a Ushuaia per almeno quattro o cinque giorni di seguito, per poter garantire la partenza, sempre vincolata dalle instabilissime condizioni metereologiche. Nelle prime ore del 2008 Micky ed io, noti provetti ballerini (soprattutto lei) siamo scatenati in pista con cappellini e nacchere. La facciamo assolutamente da padroni.
I messicani ci abbandonano presto, considerato l’impegno che li attende l’indomani. Poco dopo anche gli imprenditori di Santo Domingo. Rimangono solo il figlio studente, con la morosa e soprattutto la energeticissima mamma.
Ce la spassiamo ancora un po’ insieme.
Il letto lo ritroviamo verso le 3.30 esausti, ma soddisfatti per la piacevolissima serata.
Martedì 1 Gennaio 2008.
Relax. Palermo Soho, Palermo Vejo. Caminito, La Boca. Astor Piazzolla Tango.
Provati dalla serata non riusciamo a destarci prima delle 10.00, per non saltare la colazione. Ci caracolliamo nella hall e dopo la scofanata, ripiombiamo a letto fino alle 13.30.
La grande forza di volontà della Micky ci porta ad andare a visitare le zone che ancora non siamo riusciti a vedere.
L’itinerario studiato a letto, ancora un po’ rincitrulliti dalla baldoria della sera prima, ci porterà a vedere il Teatro Colon (purtroppo solo esternamente perché chiuso causa restauro) l’obelisco, la Plaza Lavalle con i suoi palazzi ibridi. Torniamo in Plaza de Mayo per godere di una vista più riposata della statua dedicata all’indipendenza e alla Casa Rosada (che mi diverto a fotografare con in primo piano la tecnologia che avanza) e della Catedral.
Per terra, troviamo i resti dei festeggiamenti della sera precedente, con l’augurio di trovare nel 2008: “trabajo, salud, paz” Per raggiugere il quartiere residenzaile di Retiro prendiamo una Subte deserta: Buenos Aires dorme ancora.
Retiro non ci esalta e dopo un veloce spuntino fermiamo un Taxi per farci accompagnare a vedere in Plaza de las Naciones Unidas, la Floralis generica, una scultura realizzata dall’architetto argentino Eduardo Catalano, che rappresenta un fiore che si chiude lentamente in modo automatico ogni giorno al calar del sole e poi Caminito, al quartiere di La Boca (dove gioca il Boca Juniors).
Intavoliamo le solite quattro chiacchiere con il taxista, simpatico settantenne di origini italiane (su 10 taxi presi, 8 taxisti avevano origini italiane), chiedendogli fra le altre cose cosa sia per lui il tango. Tutto fiero ci risponde che ogni giorno (anche la domenica eccetto il sabato, dedicato a casa e moglie), nel pomeriggio, all’oscuro della consorte, si presenta in una delle milonghe preferite si rilassa con un paio d’ore di balli. “E se la cosa prende la piega giusta…”, ci confida tutto fiero mentre apre il cassettino del suo sgangheratissimo taxi e ci mostra una pillola blu… Altri dieci minuti per tessere le lodi di gran trombatore di suo nonno e arriviamo a destinazione.
Passeggiamo con molta circospezione (la Lonely ci avvisa della potenziale pericolosità del quartiere) per circa una mezz’ora nei dintorni di Caminito, osservandone i colori delle case e dei negozi. Il tango la fa da padrone. Alcuni sostengono che sia solamente una trovata turistica, e sicuramente questa viene sfruttata notevolmente. Ma la nostra fugace visita alla Confiteria Ideal e la testimonianza del taxista trombador ci hanno garantito che il fondo di genuinità continua a rimanere.
Un manifesto in vendita in uno dei tanti negozietti di souvenir, rappresenta molto bene l’ormai famoso orgoglio argentino, con esempi reali. Sono citati, fra gli altri, il genio Maradona, il sognatore Ernesto Guevara, l’appassionato Piazzolla, la sincera Mafalda, il veloce Manuel Fangio, il romantico Carlos Gardel, le perseveranti Madri de Plaza de Mayo (che ogni Giovedì sfilano nell’omonima piazza per chiedere verità e giustizia sulla fine dei propri figli desaparecidos durante quella che è stata definita la guerra sucia, sporca 1976-1983, in cui scomparvero 30.000 persone), il Generale San Martin (che dichiarò l’indipendenza delle Provincie Unite del Rio de la Plata dalla Spagna nel 9 Luglio del 1816 a Tucuman. Buenos Aires era già stata dichiarata indipendente il 25 Maggio 1810).
Rientriamo verso le 18.00 in hotel per prepararci (soprattutto la Micky) all’immancabile spettacolo di tango al Teatro Astor Piazzolla.
Nel prezzo dello spettacolo (240 ARS a cranio) è inclusa la cena (senza pretese) con un vino (senza infamia ma nemmeno lode) e il trasferimento hotel-teatro-hotel.
Lo spettacolo di circa un’ora e mezza è bello e interessante, soprattutto nel parti ballate, dove quattro coppie di ballerini si esibiscono in rotazioni, avvitamenti, slanci con grandissima maestria. Personalmente sono molto affascinato dal calcio della tanguera in mezzo alle gambe del tanguero.
Decisamente più pesanti i momenti di canto. Dopo venti minuti dal rientro in stanza il mio zaino è già perfettamente configurato per il rientro nel vecchio continente. La strategia adottata nella preparazione si definisce: “compressione totale dell’ammasso sparpagliato di venti giorni di vestiti sporchi”.
Mercoledì 2 Gennaio 2008.
La partenza. “Hasta luego, Argentina” La mattina passa velocemente fra la mia piscina e il rifacimento meticoloso dello zaino da parte della Micky secondo la strategia del: “piego tutto al meglio per evitare qualsiasi tipo di sgualcitura sui miei preziosissimi vestiti”.
Alle 11.20 poco prima dell’arrivo del nostro taxi per Ezeiza, vengono a salutarci Anabel e Gustavo. Lei ci porta una serie di missive da consegnare brevi manu ad una serie di amici italiani.
Ci salutiamo con la promessa di un loro viaggio in Italia nel 2008.
All’aereoporto, la solita normale trafila.
Ci facciamo assegnare i posti sulla base delle specifiche fornite dalla Micky, per evitare di avere il passaggio hostess con potenziale contatto con il di lei piedino che potrebbe sbordare nel corridoio (come è successo all’andata).
Piccolo contrattempo: ci dimentichiamo di aver nello zaino a mano, le forchettine tanto carine volute dalla Micky per regali e regalini. Mi tocca ritornare al check-in e imbarcare lo zaino.
Alle 15.30 ora locale il nostro volo si alza per solcare il cielo sopra Buenos Aires.
Dopo circa due ore di volo il mitico comandante ci avvisa che entro cinque minuti, sul lato sinistro dell’aereomobile saranno visibili le cascate di Iguazù, ha tenuto una rotta speciale apposta per mostrarcele.
Grande uomo il capitano Alitalia, non meriterebbe di finire nelle mani dei francesi… Il volo procede tranquillo anche se, rispetto all’andata, forse per le preoccupazioni del rientro al lavoro, mi addormento con maggior difficoltà.
A metà della notte mi sveglio e mi alzo per sgranchirmi le gambe. Mi viene l’idea di fare una puntatina a vedere come se la passano in economica.
Percorro la seconda parte di Classe Magnifica e arrivo alla tendina che ci separa dalla sezione posteriore dell’aereo.
Indugio un attimo, preoccupato di non disturbare chi siede al di là del guado, proprio a ridosso della separazione.
Sposto la tendina e di fronte a me si apre una tragedia da girone dantesco: i disperati dell’economica.
Mi sembra di vedere milioni di persone stipate una sull’altra, gomiti che si toccano fastidiosamente lottando e contendendosi un posto sul bracciolo fra i sedili, gambe che si accavallano a fatica, sedili reclinati sulla bocca del passeggero dietro che maledice quello davanti e inizia a puntargli le ginocchia per infastidirlo, bambini urlanti e mamme che non riescono a gestirli, perdendo ciucci, bavaglini e altri ammennicoli vari sulle gambe dei vicini, luci accese sulle poltrone degli insonni, ascelle, tante, troppe ascelle, molte delle quali hanno già “ceduto” da un bel pezzo.
Richiudo la tendina, mi giro e in un secondo torno nel mondo dorato della Magnifica. I rumori scompaiono istantaneamente, il buio della notte torna sovrano.
Dopo pochi passi sono di nuovo sdraiato quasi completamente rettilineo sul mio largo sedile dove mi rigiro un paio di volte per rassicurarmi che sia tutto vero, prima di riaddormentarmi sereno a 30.000 piedi di altitudine, sopra l’Oceano Atlantico.
“Come mi sono imborghesito…”.
Buona Patagonia e Terra del Fuoco a tutti.
Dome e Micky
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Questo diario con dettagli fotografici: Foto del viaggio: