Patagonia: “IL” viaggio
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Sperando che possa esservi utile il contenuto e gradita la lettura.
BUENOS AIRES
Il volo Iberia atterra a Buenos Aires a tarda sera (per noi notte fonda), dopo un viaggio cominciato di prima mattina a Milano (ottime tariffe in ottobre se prenotate per tempo). Grazie al fuso orario, al mattino ci si alza comunque presto e può cominciare la visita della città.
Buenos Aires non è una città, è infinite città diverse. I suoni del tango di San Telmo, i colori del Caminito e del quartiere di La Boca, l’affascinante modernità dei docks ristrutturati di Puerto Madrero, l’aria parigina del Microcentro e la storia che si respira in plaza de Majo…. e poi Recoleta, le grandi avenidas, i parchi… Abbiamo girato molto a piedi, ma dopo un po’ le distanze sfibrano. In compenso la metropolitana (dove c’è) è comoda, e i taxi sono molto economici, oltre a essere reperibili dappertutto con una semplice alzata di mano.
Suggeriamo un ristorante che ci è rimasto nel cuore (prezioso suggerimento della Lonely Planet): Rio Alba, nel quartiere di Palermo. Carne eccezionale!
Per inciso, in Argentina si mangia davvero bene: anche il ristorante più malmesso ha una griglia e carne in quantità. E se siete stufi di “asado”, le origini italiane si sentono ovunque, tanto che gli argentini sostengono che la miglior pasta fatta in casa al mondo sia quella che si trova a casa loro! Magari un’esagerazione, ma certo la qualità è buona e la varietà non manca.
Quanto agli alberghi, infine, il rapporto qualità prezzo che abbiamo trovato a Buenos Aires non è dei migliori. Noi abbiamo fatto una notte al Panamericano (offerta “luna di miele”), con la piscina sul terrazzo all’ultimo piano e la vista su Plaza de la Republica, ma certo per più pernottamenti non è il caso, visto il prezzo. Abbiamo provato altri due alberghi, nel corso del nostro soggiorno: ci siamo sempre trovati bene, ma tutto sommato senza lode né infamia.
VIAGGIARE IN BUS
La scoperta che abbiamo fatto, raramente proposta dai tour operator ma che noi consigliamo vivamente a tutti, è il viaggio in bus. In Argentina (e in generale in buona parte del sudamerica) è una soluzione comoda ed economica. Non solo, ma permette di capire veramente gli spazi sterminati che separano Buenos Aires dalla Terra del Fuoco.
Per una cinquantina di euro (dipende dalle occasioni, dalle date e dalla compagnia) è possibile partire da Buenos Aires nel pomeriggio, salire su un pullman di lusso, con poltrone larghe e reclinabili (molto più comode delle poltrone degli aerei), cena a bordo (purtroppo, simile a quelle degli aerei), toilette, film, cuffie, coperta… Ci si addormenta, e nella notte – risparmiando anche un albergo – si macinano i chilometri.
Svegliarsi il giorno dopo sbirciando dal finestrino e vedere, finalmente, la Pampa, è una di quelle emozioni che ti porti dietro per sempre. Dopo non ti riaddormenti, anche se è presto: come i bambini la mattina di Natale.
PUERTO MADRYN e LA PENISOLA VALDEZ
E’ così che siamo arrivati a Puerto Williams, tranquilla cittadina che è base obbligata per visitare la penisola Valdez, e non solo. Turistica ma in modo gradevole (tanti turisti zaino in spalla, molti francesi e tedeschi), con un bel museo oceanografico per introdursi all’ambiente, un ufficio del turismo organizzatissimo, e un piacevole lungo mare dal quale – se siete fortunati come lo siamo stati noi – potete già scorgere in lontananza la coda di una balena che “saluta”.
Abbiamo noleggiato un macchina, e di prima mattina ci siamo presentati all’ufficio del turismo per sapere tutto sulle balene, dato che era la stagione giusta per vederle. Ci hanno dato alcune spiegazioni, hanno consigliato di partire subito perché il mare quel giorno era perfetto e il meteo prometteva bene, e così ci siamo diretti verso Puerto Piramides, punto di partenza delle escursioni in barca. Andarci in macchina ha i suoi vantaggi: si attraversa la pampa, ci si può fermare a fotografare i guanachi (animali simili ai lama) che attraversano la strada, si può deviare negli sterrati della penisola Valdez, godersi questo paesaggio sempre uguale ma così sconfinato da togliere il fiato… Faceva anche caldo, più di 30°C, che pare fosse un po’ troppo per fine ottobre…
Puerto Piramides non è altro che un gruppo di quattro case che vivono sul whale-watching. Abbiamo scelto, come consigliatoci dalla guida, una delle escursioni che ti portano in acqua sugli Zodiac, grandi gommoni che ospitano una ventina di persone e da cui si possono vedere le balene a distanze davvero ravvicinate. Se non fosse vietato, verrebbe voglia di allungare una mano e accarezzarle. Ma si rimane semplicemente col fiato sospeso, a vedere la maestosità di questi animali, le mamme che compiono le loro evoluzioni e i cuccioli che si avvicinano a curiosare le barche. Le guide poi sono molto competenti, e riuscivano con mezzo minuto di anticipo a prevedere dove le balene sarebbero riemerse e dove avrebbero saltato, permettendoci così di orientare lo sguardo… e gli obiettivi.
Il giorno successivo la gita è stata a Gaiman e a Punta Tombo, dove vive un’enorme colonia di pinguini. A Gaiman siamo arrivati troppo presto: il paese, come insegna Chatwin, è in sostanza una colonia gallese, e pur non avendo mete turistiche particolari vale la pena visitarlo almeno per vivere l’atmosfera di una casa da tè. Inoltre c’è il “Parque el desafìo”, che avevamo visto in televisione proprio su Turisti per caso, e che ci aveva colpito per via del geniale ometto che l’aveva messo in piedi, creando monumenti fatti con lattine, sculture di materiali di scarto, eccetera. Purtroppo, per il parco era giorno di chiusura, e ce lo siamo perso. Per la casa da tè, non avevamo pensato che ovviamente aprono tutte verso le cinque! Quindi, siamo partiti di corsa per andare a vedere i pinguini di Punta Tombo, riservandoci di tornare dopo a far merenda.
Vedere un pinguino che ti attraversa la strada, con tanto di guardaparco che fa il vigile urbano e ferma i turisti per lasciarlo passare, è un’esperienza originale: buffo, simpatico e affascinante… Pinguini ovunque, che non scappavano anche perché erano impegnati nella cova. Meravigliosi.
E poi, giunta finalmente l’ora del tè, eccoci di nuovo a Gaiman. Per un prezzo a prima vista alto, si ordina una semplice tazza di tè, ma ecco che con la teiera arriva un enorme piatto di dolci, e poi pane, burro, formaggio e marmellata. Il tutto in una casa che più british non si potrebbe pensare, contornati di vecchie foto e cimeli da solaio, a testimonianza della vita che facevano i coloni gallesi in un tempo non così lontano.
Ricapitolando: un giorno per sistemarsi e per gironzolare a Puerto Madryn, un giorno per le balene, un giorno per i pinguini, ed ecco che giunge l’ora di ripartire. Due note pratiche: abbiamo dormito alla Hosteria Teuly e ci siamo trovati molto bene, tranquilla, comoda, e con uso cucina; e abbiamo
Noleggiato l’auto con Avis, dall’Italia tramite Internet. Piccolo disguido: dovevamo rendere la macchina la domenica mattina, ma nessuno ci aveva detto che la domenica avremmo trovato tutto chiuso. Fortunatamente, dall’ufficio del turismo ci hanno aiutato a rintracciare il proprietario, e tutto si è risolto per il meglio.
E così, finalmente, nuovo bus per Rio Gallego, e da lì coincidenza per El Calafate, nell’entroterra.
EL CALAFATE
Nel corso del viaggio si è verificata l’unica disavventura che abbiamo vissuto coi bus patagonici: causa guasto, siamo arrivati a Rio Gallego con diverse ore di ritardo. Per fortuna eravamo in tempo per l’ultimo bus verso El Calafate: siamo così arrivati nel tardo pomeriggio anziché in mattinata, ma abbiamo potuto comunque girare il paese e sgranchirci le gambe prima di cena. Ottimi ristoranti anche lì, e ottimi vini.
Come a Puerto Madryn, il turismo è tanto ma non è fastidioso, anzi si respira un’aria tranquilla, niente gruppi e niente villaggi. Forse in alta stagione è peggio, ma noi ci siamo trovati benissimo.
Il giorno successivo abbiamo preso un autobus per il Perito Moreno, l’enorme ghiacciaio che attrae in questo remoto angolo della Patagonia migliaia di turisti.
La nostra escursione prevedeva andata e ritorno in bus, più un giro in barca su uno dei rami del lago Argentino, che è tagliato in due dal fronte di ghiaccio. Purtroppo in barca non ci si può avvicinare più di tanto al ghiacciaio, perché potrebbero staccarsi iceberg o sassi, e da lontano non ci si rende conto delle enormi dimensioni di questa parete azzurra. Via terra però ci si può avvicinare di più, dipende però da dove si trova il fronte del ghiacciaio quando ci arrivate: si tratta infatti di uno dei pochi ghiacciai al mondo ancora in crescita, ma dopo un certo tempo l’acqua erode la parte terminale, creando meravigliosi archi, che poi crollano e disperdono nel lago centinaia di iceberg, visibili poi anche chilometri e chilometri più a valle. Così il fronte indietreggia, e ricomincia un nuovo ciclo (dura anni, ovviamente).
Comunque, via terra sono stati preparati dei bei camminamenti che permettono tra l’altro di conoscere la vegetazione locale e i boschi tipici. Ne abbiamo approfittato per un picnic a base di empanadas (ottimi fagottini ripieni solitamente di carne o formaggio, non perdeteveli), e per scaldarci con un mate. Questo infuso, amarissimo ma molto profumato, è usato ovunque in Argentina, e noi ci siamo adeguati subito comprando al supermercato una zucca vuota (il contenitore in cui si beve), una bombilla (la cannuccia filtrante), un pacco di foglie di yerba mate, e un thermos. Ovunque andiate, potete sempre chiedere di “calientar agua para el mate”, e farvi riempire così il thermos con acqua bollente.
Mentre un condor volteggiava sopra la nostra testa, il ghiaccio blu scricchiolava di fronte a noi, e il venticello freddo ci faceva apprezzare il liquido bollente, ci siamo goduti questo impareggiabile momento patagonico.
PUERTO NATALES
Forse lo spostamento più affascinante: di giorno, poche ore di pullman, attraverso la pampa che verso le montagne diventa più variegata e più verde. Poi, nel nulla, emerge una postazione di frontiera, una casetta di legno con una bandiera argentina sbattuta dal forte vento della pampa. Fila per timbrare il passaporto, poi tutti di nuovo sul bus. Dopo un chilometro, altra casetta uguale: questa volta è la dogana cilena. Occhio perché in Cile non si può portare nulla di origine animale o vegetale: fanno aprire tutti i bagagli, e controllano che non ci siano semi, frutti, cibo… E poi, finalmente si arriva a Puerto Natales, Cile.
La città si riempie quando arrivano le navi da Puerto Montt, dopo diversi giorni di traversata dei canali e degli arcipelaghi della Patagonia cilena (prima o poi lo faremo!), e l’alta stagione inizia quando il clima consente i trekking sulle Ande, Torres del Paine, “cueva del milodon”, eccetera. Noi eravamo un po’ fuori stagione e ci siamo goduti l’aria da cittadina di frontiera semideserta, che probabilmente un mese dopo non avremmo trovato. Comunque, non avevamo abbastanza tempo per fermarci anche qui qualche giorno, così, con grande dispiacere, la mattina successiva abbiamo lasciato questa tranquilla cittadina e abbiamo preso un altro autobus, che in poche ore ci ha portato a Punta Arenas. Primo giorno di pioggia in tutto il viaggio.
Da notare che dall’Italia noi avevamo prenotato l’alloggio e gli spostamenti solo fino a Puerto Madryn. Dopodiché abbiamo sempre usato gli internet point per prenotare la tappa successiva (se ne trovano ovunque e sono economici, anche per telefonare). Forse in alta stagione non si può fare, ma noi in questo modo ci siamo trovati molto bene. A Puerto Natales abbiamo dormito all’ostello.
PUNTA ARENAS
Il solo nome di Punta Arenas evoca racconti di marinai e avventure patagoniche: Coloane, ad esempio (leggetelo prima di partire!). Arrivarci con la pioggia è fastidioso ma ha il suo fascino. Approfittare del primo momento di schiarita per salire al belvedere e bersi un mate, finalmente davanti allo Stretto di Magellano, è una soddisfazione. Scendere e cenare nel tepore accogliente del ristorante “La marmita”, è la giusta conclusione per una giornata così: davanti alla stufa, sorseggiando un “pisco sour” (ottimo cocktail a base di lime e di pisco, il profumatissimo distillato cileno) e divorando un gran piatto di “curanto” (detto anche “pullmay”, è una ricetta tipica che unisce frutti di mare, pesce, pollo, maiale affumicato, patate… il tutto cotto insieme in un equilibrio di sapori tanto perfetto quanto inaspettato).
Piccolo inconveniente: noi a Punta Arenas, come parrebbe presagire il nome… ci siamo arenati. Ovvero, abbiamo scoperto che non è così facile proseguire più a sud. Unica soluzione comoda: un bus che va direttamente a Ushuaia, ma non viaggiava la domenica e così abbiamo dovuto trattenerci un giorno in più. Tre notti in totale, non male a dire il vero perché dopo un po’ che si gira le tappe prolungate sono anche gradite.
Altre vie possibili per lasciare la città in direzione sud: in aeroplano fino a Ushuaia o a Puerto Williams (oltre Ushuaia), in traghetto sempre fino a Puerto Williams, in traghetto fino a Porvenir (dall’altro lato dello stretto di Magellano) e poi da lì con mezzi di fortuna fino a Ushuaia, visto che in Terra del Fuoco i collegamenti pubblici sono pochi. O infine, una crociera di lusso che doppia Capo Horn e arriva a Ushuaia.
Ma in ogni caso tutti questi mezzi erano disponibili solo alcuni giorni alla settimana, magari solo su prenotazione. Insomma, rimane un sogno per il prossimo viaggio, ma tutto era troppo complicato o troppo lungo per poterci pensare allora.
Nel frattempo, un giorno abbiamo girovagato per la città, cercando di coglierne l’atmosfera e visitando il museo navale e il museo etnografico dei salesiani (merita, per capire la storia della regione); il giorno successivo abbiamo noleggiato una macchina e abbiamo fatto una gita lungo lo stretto di Magellano.
Abbiamo visitato Puerto Hambre, la prima colonia spagnola così chiamata per via della sua tragica fine (tutti i coloni morti per fame e malattie). Poi, fermata la macchina dove la strada imporrebbe di guadare un torrente, abbiamo passato il corso d’acqua saltando da un tronco all’altro e ci siamo incamminati lungo lo stretto, in mezzo al nulla, sotto un cielo che cambiava continuamente d’umore ma ci ha sempre tenuti all’asciutto, in direzione del faro.
Dopo un paio d’ore tra i boschi e il mare, ci siamo fermati per il nostro solito picnic con mate e empanadas, e poi siamo tornati. Il faro era troppo lontano, ma l’abbiamo visto a distanza e questo ci è bastato. Occorre fermarsi e camminare, se si vuole entrare nella natura di un luogo e godersene la solitudine: la meta in fondo conta poco, è solo una scusa.
Dove dormire: noi siamo stati nell'”Hostal el mirador”, un posto abbastanza economico, gestito da una ragazza gentilissima, completamente vuoto in bassa stagione, affascinante per quella sua aria un po’ dimessa ma pulita, con le camere piccole e tutte in legno, che lo facevano sembrare (autosuggestione letteraria?) una locanda per marinai fuegini. La stanza oltre che piccola era piuttosto fredda, la colazione spartana, ma il costo era basso e il suo fascino lo aveva: andava benissimo così.
USHUAIA
Ultimo viaggio in bus, circa dodici ore, purtroppo di giorno: non ne potevamo più! Ma bisogna arrivare a stufarsi della pampa per capire quanto è sterminata: il nostro consiglio è comunque di viaggiare così. Al limite, portatevi un paio di libri…
E poi, è stato emozionante l’attraversamento dello Stretto di Magellano. Si scende dal pullman e si sale su un traghetto. Un vento così forte non l’abbiamo mai sentito, quasi ti portava via se rimanevi in coperta in piedi. Nel frattempo, in acqua, gruppi di delfini salutavano il nostro passaggio. E finalmente: la Terra del Fuoco!
Ancora strada, ancora dogana (si torna in Argentina) e ancora strada. Un passo montano, e poi finalmente si scende rapidi su Ushuaia. La fine del mondo.
Più o meno.
Già, perché gli argentini dichiarano Ushuaia la città più meridionale del mondo, ma solo perché sostengono che Puerto Williams, insediamento cileno dall’altro lato del canale Beagle, sia una base militare e non una città. Forse una volta era così, ma oggi il titolo spetterebbe ai cileni.
E intanto Ushuaia, nel proclamarsi “fin del mundo” attrae frotte di turisti e cede ai grandi gruppi organizzati, perdendo così il suo fascino di frontiera. Di fatto è ormai molto meno caratteristica di quanto lo siano le altre città che abbiamo visitato nel corso del viaggio.
Abbiamo anche pensato di spostarci a Puerto Williams, ma… ma attraversare il Canal Beagle è possibile solo ai gabbiani: pare che ogni tanto qualche Zodiac o qualche barca a vela portino i turisti sull’altra riva (a prezzi esagerati), ma altrimenti a Puerto Williams ci sia arriva solo da Punta Arenas, che è molto più lontana ma è in Cile.
E così rimani lì, sul lungomare, a guardare l’altra sponda del canale e a dirti: più a sud. Più a sud. La prossima volta… Magari fino a Capo Horn. Ma non oggi, purtroppo.
Perché mentre i gabbiani passano, noialtri – in mezzo al niente, per sofismi di geografi e politici – disegniamo una linea in mezzo a un canale, trasformando in barriera di separazione ciò che per secoli gli indios hanno vissuto come mezzo di unione, attraversandolo in continuazione con le loro canoe da un’isola all’altra.
Fine della filosofia. E a proposito di indios, è consigliata la visita al museo Mundo Yamanà e al Museo del Presidio (l’ex carcere, che agli inizi della storia di Ushuaia costituiva il grosso dell’insediamento). Tra l’altro, il clima qua cambia in fretta, la pioggia arriva sempre, e approfittarne per visitare un museo è un’ottima soluzione.
A Ushuaia siamo rimasti sei notti, ospiti di Alba, simpatica e gentilissima signora che offre bed & breckfast in una casetta molto accogliente, anche se un po’ fuori mano, con ottime colazioni e lunghe chiacchierate e consulenze turistiche, fino a prenotarci direttamente da casa l’auto a noleggio o alcune singole escursioni (cercate “Alba’s Guesthouse”).
Le escursioni che noi abbiamo distribuito nel corso dei giorni sono state: gita al ghiacciao Martial, sopra la città (niente di che dopo il Perito Moreno, ma bella vista sul canale Beagle); escursione in barca al faro Les Eclaireurs, con visita alle colonie di leoni marini e di cormorani, e sbarco sull’Isla H (il punto più meridionale che abbiamo raggiunto nel nostro viaggio); gita al Parque Nacional Tierra del Fuego, più altri giri che ci siamo autogestiti.
Per quanto riguarda la gita al parco nazionale, ci siamo uniti a un pulmino che quel giorno portava un gruppo di pensionate spagnole. Mentre le signore facevano il loro giretto sul trenino a vapore “del fin del mundo” (pacchiano e troppo turistico, a nostro modo di vedere), la guida si è dedicata a noi per farci fare un escursione nel bosco, illustrarci alcune piante, e spiegarci come tornare a piedi verso Ushuaia. Così, giunti con le nostre pimpanti compagne di viaggio fino al termine della Ruta 3, la panamericana, le abbiamo salutate e siamo ripartiti a piedi. Mentre loro andavano a pranzare chissà dove, noi ci siamo incamminati per un picnic sul Canal Beagle. Nel tragitto, abbiamo visto dighe di castori – che importati chissà perché dal Canada, stanno devastando il paesaggio –, alcuni grossi picchi col ciuffo rosso come quello dei cartoni animati, una volpe, e poi tante oche e anatre di diverse specie, e le bandurrias, buffi uccelli dal becco ricurvo e dal verso sgraziato. Sulla via del ritorno ha ricominciato a piovere, e abbiamo preso un autobus per rientrare.
Infine, con la macchina a noleggio abbiamo dedicato due giornate a due gite meravigliose un po’ più fuori mano. Prima, alla Estancia Harberton. Vale la pena leggere il libro “Ultimo confine del mondo”, dove Lucas Birdges, figlio del missionario inglese che ha fondato Ushuaia e la stessa Estancia Harberton, descrive la sua infanzia in questi posti leggendari e la sua amicizia con gli indios.
L’Estancia rappresenta un’interessantissima testimonianza dell’attività dei primi coloni, e offre tra le altre cose un’approfondita visita guidata, nonché un locale dove si possono mangiare gli ottimi dolci di cui già parla Bridges nel suo libro.
Gli alberi sulle colline circostanti crescono storti, perfettamente inclinati da ovest verso est, a causa del vento che soffia costante, giorno e notte, estate e inverno.
Nella seconda gita, su consiglio di Alba, abbiamo riattraversato le montagne (passo Garibaldi), siamo scesi sul lago Fagnano, dai meravigliosi toni di azzurro e le enormi onde sospinte dal vento, e ci siamo fermati a Tolhuin per acquistare le empanadas dal più famoso forno della Terra del Fuoco (almeno così dicono… si chiama Panadria La Union). Infine ci siamo diretti verso Cabo San Pablo, dove il relitto del Desdemona, nave da carico affondata alcuni decenni fa, è raggiungibile sulla spiaggia.
Una strada sterrata dove per quattro ore non abbiamo incontrato nessuno, letteralmente nessuno, se non branchi di guanachi che ci osservavano incuriositi e con sguardo comico. E la sagoma di un uomo, in lontananza, probabilmente un gaucho, abitante di una delle estancias della zona dove chissà quanto tempo passerà senza che passi nemmeno un visitatore… Altri mondi, non c’è dubbio.
Per inciso: quando vedete delle piccole “cappelline” ai lati della strada (ce n’è a decine in uno spiazzo fra Ushuaia e il passo Garibaldi, ma si trovano ovunque, in tutta la Patagonia, e non solo), fermatevi a dare un occhio. Scoprirete personaggi come il gauchito Gil e la defunta Correa, venerati come santi e oggetto di dipinti, statue, immaginette, contornate di doni, bottiglie, sigarette, lettere, ex voto… Curiosate, è interessante!
COLONIA
Tornati a Buenos Aires (in aereo, questa volta) abbiamo trovato la città in fiore: era ormai metà novembre e la primavera era scoppiata anche lì. I grandi alberi di giacaranda si vedevano già dall’aereo, carichi di fiori viola.
Per consolarci del trauma di avere lasciato la Patagonia e di essere rientrati in una grande metropoli, abbiamo seguito il consiglio di un parente e per l’ultimo giorno abbiamo programmato una gita a Colonia.
Colonia è una antica cittadina spagnola, in stile coloniale (per l’appunto), situata sulla sponda opposta del Rio de la Plata, in Uruguay. I traghetti veloci della compagnia Buquebus ci arrivano in poco tempo, un’ora per attraversare un estuario che sembra a sua volta un mare, bruno e sconfinato. All’arrivo ci si immerge in un mondo diverso, quasi tropicale, dove ci si aspetterebbe di imbattersi in un soldato spagnolo del Seicento dietro a ogni muretto di pietra. Un paesaggio che con la pampa non c’entra nulla… al limite pare più vicino al Brasile che alla Patagonia. E in effetti forse lo è.
Una bella gita, insomma: per chi ha un giorno in più, ne vale la pena.
Ma una cosa è certa: quella terra immensa, frastagliata, silenziosa, viva… ha ancora molto da dirci. Tra echi letterari e leggende, tra vento e solitudini ormai lontane, continua a chiamarci, anno dopo anno.
In Patagonia ci torneremo.