Parchi del sud ovest

DIARIO DEL VIAGGIO NEI PARCHI U.S.A. Il volo. Venerdi 27-05-05, ore 05:05: inizia l’avventura! Gino e Maria sono puntuali, anzi in anticipo. Ci accompagna Claudio, loro figlio, con il furgone del ciclismo, all’aereoporto di Pisa. Ore 05:50 check-in, ore 06:50 partenza volo per Monaco di Baviera con Air Dolomiti. Perfetto...
Scritto da: Franco Paolotti
parchi del sud ovest
Partenza il: 27/05/2005
Ritorno il: 13/06/2005
Viaggiatori: fino a 6
Ascolta i podcast
 
DIARIO DEL VIAGGIO NEI PARCHI U.S.A.

Il volo.

Venerdi 27-05-05, ore 05:05: inizia l’avventura! Gino e Maria sono puntuali, anzi in anticipo. Ci accompagna Claudio, loro figlio, con il furgone del ciclismo, all’aereoporto di Pisa. Ore 05:50 check-in, ore 06:50 partenza volo per Monaco di Baviera con Air Dolomiti. Perfetto orario.

L’aereoporto di Monaco è un perfetto esempio di efficienza teutonica, bello, pulito, funzionale. Nonostante ciò è duro aspettare 7 ore per il volo per San Francisco. Fin qui tutto bene, ma per il resto del viaggio sono un po’ in ansia; è la 1^ volta che non si tratta di un viaggio super organizzato, tipo villaggio o simile. Le difficoltà con la lingua cominciano subito quando si entra nella zona imbarchi per gli USA, gestita direttamente da personale americano. Controlli rigorosi, registrazione dei passaporti a lettura ottica (altrimenti occorre il visto), metal detector che suonano per uno spillo. Comunque alle 16:10, con un po’ di ritardo, il volo LH458 della Lufthansa per San Francisco, decolla.

Saranno quasi 13 ore di volo non stop. Due pasti (tedeschi) una specie di colazione, bibite a volontà, snack. Film solo in lingua tedesca o inglese.

Qualche ora prima di atterrare ci consegnano i moduli del Visa Waiver, quelli dove ti chiedono se sei un terrorista, se hai rapito bambini, ecc. (veramente). Difficoltà a riempirli. Sbaglio (non sono ammesse cancellature), ma il personale di bordo è gentilissimo e mi porta 4 05 stampati nuovi, così ce la faccio. Sorvoliamo l’Islanda e si vedono benissimo i ghiacciai ed i vulcani. L’aria condizionata è un tormento. Ma ormai sono le 18:10, ora della west coast e l’avventura sta per iniziare davvero.

Atterriamo in perfetto orario. Anche le procedure di ingresso sono abbastanza rapide: impronte digitali elettroniche degli indici, rigorosamente prima il destro, poi il sinistro, foto digitale del viso. Ritiro dei bagagli rapidissimo e senza problemi. Alla dogana ritirano solo il questionario family compilato in aereo e timbrato alla frontiera. Ho sempre più difficoltà con la lingua, anche se sono gentili non capisco neppure le parole più semplici, meno male che ci sono Lisa e Mau. San Francisco.

Per raggiungere la zona degli autonoleggi bisogna prendere un treno a monorotaia, linea “blu”, per raggiungere il 780 di Mc Donnel Road, ad un paio di miglia dall’aereoporto. Nasce il primo piccolo inconveniente: Mau entra al volo, ma con i carrelli portabagagli non ci stiamo tutti, un attimo di indecisione, le porte si chiudono e così parte da solo. Noi prendiamo il successivo, 3 o 4 minuti dopo. Fortunatamente Mau è sceso alla 1^ fermata, ci vede sale e ci riuniamo. Alla ALAMO rent a car c’è una fila numerosa, ci vuole una mezz’ora; così come ci avevano avvertiti, ci propongono un’ auto più grande e altri servizi, rifiutiamo tutto, anche perché siamo in 6 e l’auto è per 7 e abbiamo la formula gold che prevede già fino a 3 guidatori aggiuntivi, assicurazioni supplementari e primo pieno di benzina. Richiediamo anche il contratto in italiano, ma non ce lo danno. Con il contratto scendiamo nel garage e andiamo nel settore SUV e Minivan. Chiediamo ad un tizio che sembra il responsabile del settore e senza nessuna formalità ci indica la nostra auto, una Dodge Gran Caravan bianca a 7 posti, veramente spaziosa. Ci vuole del bello e del buono per convincere il tizio a spiegarci come funziona soprattutto il cambio automatico, insistete, se non avete confidenza con auto americane, prima di ritrovarsi a non sapere cosa fare. Alla guida Mau, io faccio da navigatore. All’uscita controllo veloce (c’è un codice a barre sul vetro) e via. Prendere la US 101 direzione nord non è un problema, solo che è già buio e la strada è a 5, 6 corsie per senso di marcia, con un traffico velocissimo che si tiene oltre i limiti di 65 mil/ora. Ci vuol niente a sbagliare una corsia di incanalamento per sola uscita (fate attenzione “only exit nome direzione”) e ci ritroviamo sul Oakland Bridge direzione est. Alla prima uscita lasciamo il ponte e entriamo in Treasure Island. L’errore si trasforma in qualcosa di piacevole: davanti a noi si staglia lo sky-line di San Francisco illuminato nella notte, fantastico. Ci sono una mezza dozzina di limousine e altrettanti pulmini carichi di turisti. Non ci fermiamo molto, è tardi e abbiamo fretta di raggiungere l’albergo. Riprendiamo il ponte in senso inverso, usciamo a destra sulla 5th Street, poi Market Street e Ellis Street. Intravediamo l’insegna Monticello Inn e ci fermiamo davanti all’hotel. Capiamo subito che parcheggiare da quelle parti è un problema, così lasciamo fare al personale dell’hotel e alla fine pagheremo una bella pisola: 68 $, 30 a notte più le tasse. Ma non avremmo saputo fare diversamente. L’albergo è più carino fuori che dentro, solo la posizione è perfetta, dietro a Union Square e a due passi dal capolinea dei Cable Cars di Powel Street. Sabato 28 maggio. Forse per il fuso orario, forse perché in aereo ho preso troppi caffè, non chiudo occhio e alle 06:30 del mattino dopo, con quasi 50 ore senza dormire, mi ritrovo da solo a fare foto alle vetture dei Cable Cars che il personale ruota a mano sulle piattaforme girevoli per invertirne il senso di marcia. Torno in hotel e alle 08:00 siamo tutti a fare i biglietti (belli, delle cartoline) per la linea Powel -Hyde, 2 corse, andata e ritorno, per 7 $ a testa. Il Cable Car e le strade che percorre sono incredibili. Salite con pendenze anche del 15%, su è giù fino al capolinea di Hyde Sreet. Un tratto a piedi e siamo al Fisherman’s Wharf, il vecchio porto dei pescatori riattrezzato per il turismo. Ci sono ceste di granchioni enormi che ti cucinano lì per lì, ma non ce la sentiamo di fare colazione in quel modo ed optiamo per un “cappuccino” (parola comune come pizza) di mezzo litro e un cornetto gigante al cioccolato, o alla crema in un bar pseudo italiano gestito da cinesi (!?). Il tutto non male per 6,50 $ a testa. Andiamo al Pier 39 per vedere i leoni marini. Sono decine e decine, tutti su delle zattere, a crogiolarsi ad un sole che non c’è e, anzi, per noi fa freddino, anche se i nuvoli stanno diradandosi. Giriamo un po’ per il villaggio finto pescatori, carino, tutto localini e ristorantini rigorosamente di legno, colori vivaci e molta gente. Compriamo una scheda telefonica alle macchinette e proviamo a chiamare. Non ci riusciamo, l’operatore ci dice che essendo un telefono pubblico, dobbiamo inserire delle monete (io lo capisco perchè seleziono la lingua spagnola), inseriamo monete di tutti i tagli, ma non ci riusciamo. Andiamo via ripromettendoci di riprovare più tardi. Riprendiamo un Cable Car e c’ è da fare una lunga fila, così non ce la facciamo ad andare da Ghirardelli, la nota cioccolateria e Tami si adombra un po’. Intanto è uscito un sole splendido e a mezzogiorno e mezzo siamo in Union Square. Mau e Lisa vanno al Nike Town, io li seguo per un po’ a curiosare tra gli ultimi modelli di scarpe che costano la metà esatta che in Italia e poi raggiungo gli altri che si sono infilati da Macy’s. Scendiamo, ci ritroviamo e mangiamo un hot-dog seduti nella piazza che è veramente una bomboniera. Torniamo con due passi all’hotel e ci facciamo portare l’auto: direzione Golden Gate.

Ci fermiamo al primo Vista Point, sul lato sud. Parcheggiamo e utilizziamo per la 1^ volta i parchimetri a moneta; un quarto di dollaro per un’ora. Lo spettacolo è fantastico: il cielo è limpido e il sole caldissimo, le foto si sprecano. Ma la meraviglia è dall’altra parte: traversiamo il ponte ed è già di per se fantastico, poi decidiamo di salire sulla collina sulla sinistra dove vediamo tantissime auto. Usciamo a destra, facciamo la rampa e attraverso un sottopassaggio iniziamo a salire. Mentre avanziamo il panorama si fa sempre più bello, ma ci fermiamo solo dove non si può più andare avanti se non a piedi. Camminiamo per un po’ e raggiungiamo un terrazzino che è il Vista Point più alto. Lo scenario è esaltante, con appena un velo di foschia, San Francisco ci si presenta davanti con tutta la bellezza dello sky-line. Il Golden Gate, la Downtown con il grattacielo a piramide. Alcatraz in mezzo alla baia e centinaia di barche a vela. Dall’altra parte la baia dalla parte dell’oceano, con spiagge e scogliere. Anche qui non smetteremmo mai di fotografare. Ci spiace abbandonare queste bellezze, ma risaliamo in auto e ripercorriamo il ponte verso sud; al termine c’è il casello e si paga il pedaggio.

Ripercorriamo la US 101 e poi deviamo per arrivare in Lombard Street. Vicino a quella che viene considerata la strada cittadina più tortuosa del mondo, la polizia ci fa fare un giro che nelle loro intenzioni dovrebbe smaltire il traffico, ma che ci costringe a una coda con relative fermate e ripartente su salite anche del 14%. Alla fine scendiamo questa famosa Lombard Street. Carina, tutta fiorita di ortensie e pavimentata di mattoncini rossi, Tami è entusiasta, ma a me non dice più di tanto. Foto di rito, anche se rimane in controluce e poi proseguiamo per Telegraph Hill e la Coit Tower. Anche lì coda di auto, tanto che quando arriviamo decidiamo di non salire sulla torre per non fare anche una coda a piedi. Intanto cala il sole e ricomincia a fare freschino. Rientriamo in hotel e poi cerchiamo dove cenare vagando un po’ per la Downtown; l’idea era quella di raggiungere Chinatown, ma ci infiliamo dentro ad un locale, da Helly’s dove prendiamo una New York steak (bistecca) ricoperta di patatine fritte e verdurine, non male, la carne è morbida e saporita e il locale è tutto in stile Happy Days, con i tavoli fra panche fisse con gli schienali alti e imbottiti. Ricordate che quando chiedete una bistecca (steak) di qualsiasi tipo e dimensione, vi chiederanno sempre come la volete cotta: “meat”, “medium”, o “?”; per la nostra esperienza è bene sempre prenderla medium, , mai ?, perché è veramente bruciata. Paghiamo 21 $ a testa e stanchi morti, io sono più di 2 giorni che non dormo, si va a nanna. Domani alle 08:00 si parte per Kings e Sequoia Park.

Domenica 29 maggio. Facciamo colazione in un piccolo bar di fronte al capolinea di Powel Street delle Cable Cars, cappuccino migliore di quello di ieri e una pasta enorme ai mirtilli, spendiamo 7 $ a testa, ma va bene. Per uscire da San Francisco e prendere la I-80 Est, direzione Oakland Bridge, facciamo un po’ di casino per colpa dei one–way, così ci ritroviamo in ritardo. Dobbiamo percorrere 380 km fino all’ingresso del Kings e alti 100 circa per arrivare a Three Rivers. Le Intestate e Freeway sono tutte scorrevolissime, i limiti fra 75 e 55 miglia/orarie accettabili e tutti, compresi noi, corrono di 5 miglia sopra il limite. Percorriamo così il ponte, poi la I – 580 Est, la I – 205 Est, un tratto della I – 5 Nord, poi la SR 120 e infine imbocchiamo la SR 99 Sud. Da qui la strada è tutta dritta fino a Fresno, dove dovremo deviare sulla SR 180 “Kings Canyon Road”. Recuperiamo tempo (i tempi di percorrenza calcolati con Sreet Atlas USA si dimostreranno molto in eccesso, in realtà le strade consentiranno sempre di essere più rapidi) e ci permettiamo anche di fermarci per comprare frutta, prima delle fragole da dei coloni forse messicani, che vendono in un chioschetto ai bordi della strada, buonissime, dolci anche troppo. Poi, appena dopo Fresno, all’inizio della SR 180, appena passato il cartello per i parchi, ci fermiamo in una rivendita di frutta molto organizzata e pittoresca, con anche una ragazza vestita come una quaqquera, cuffietta e grembiulone compresi. Compriamo un po’ di tutto, ciliegie, susine, albicocche, pesche. Anche perché la campagna invoglia; sono ormai ore che viaggiamo tra frutteti e vigneti. E’ qui che producono il vino che ormai ci fa concorrenza. Kings e Sequoia National Park.

Percorrendo la SR 180 il paesaggio cambia, spariscono quasi subito le coltivazioni e la strada inizia a salire, anche se non sembra. Ci fermiamo a pranzare al Trading Center di Squaw Valley e facciamo anche benzina per la prima volta. I distributori funzionano così, o si paga prima alla cassa e poi ci si rifornisce della quantità che si è pagata, o si usa la carta di credito che è il sistema più semplice e più rapido. Qui la benzina è caruccia, 2,39 e 9/10, conviene sempre farla dove costa meno, anche se si ha ancora mezzo serbatoio. Nel locale bar – ristorante “Bear Mountain” c’ è un folto gruppo di Harleysti; sono proprio come quelli nei film, gilet di pelle borchiati, bandana (nessuno usa il casco, non è obbligatorio) e le moto lucidissime parcheggiate in fila, fantastico, non sono cose inventate per il cinema o la tv, esistono davvero.

Avevamo già deciso per dei panini in modo da fare presto ed, invece, si rivela una scelta sbagliata, per 6 panini ci mettono 50 minuti. Capiremo dopo che se gli si modifica lo standard, cioè, loro chiamano un panino, o una pizza con un nome e dentro o sopra, ci sono tutta una serie di salsine ed ingredienti, se non ci vuoi qualcosa, o comunque chiedi una modifica, vanno nel pallone e non ci escono più. Noi gli avevamo ordinato 6 panini “personalizzati”, immaginatevi. Comunque sono buoni e giganteschi, con tanto di busta di patatine come contorno e nemmeno cari. Risiamo in ritardo e la strada sale sempre più, diventando sempre più scenica. Arriviamo davanti all’ingresso del Kings National Park alle 15:00, per percorrere 380 km abbiamo impiegato 6 ore, ma abbiamo sostato per almeno 2.

C’è una ranger vestita come nel cartone animato di Yoghi e Bubu, con tanto di cappello largo, ci accoglie con un sorriso. Compriamo la National Park Pass per 50 $, è la carta che ci consentirà di entrare con l’auto e 6 persone a bordo in tutti i parchi nazionali risparmiando molto, tenete di conto che un veicolo con un massimo di 6 persone paga 20 $ in ogni parco nazionale. Ricordate di firmarla e di avere il passaporto firmato, è l’unico controllo che effettuano. Assieme alla carta, una specie di bancomat, ci consegnano anche una mappa dettagliata dei parchi, una rivista e un foglio in italiano che riassume la rivista. Non in tutti parchi ci daranno lo stampato in italiano, ma in un paio si. Facciamo la 1^ tappa a Grant Grove per vedere la Generale Grant Tree, sulla SR 180. Le sequoie, man mano che ci avviciniamo alla Generale Grant, sono sempre più alte ed incredibili. La Generale poi supera le aspettative. Va vista, descriverla è riduttivo, quasi tremila anni d’età alta più di 80 metri e 15 persone non ce la fanno ad abbracciarla. Ma è tutto il bosco che sembra incantato. Il sole non è perfetto e ogni tanto si copre di nuvole bianchissime, siamo a oltre 2.500 metri di altitudine e il clima è tipicamente montano, ma questo rende tutto ancora più suggestivo. Ma è andando verso Sequoia National Park (i due parchi sono attaccati e in realtà sono un tutt’uno), percorrendo una strada di alta montagna, la SR198 Scenic Byway “Generals Higway” che il bosco diventa sempre più da film. Ci fermiamo alla Generale Sherman Tree, al Tunnel Log, Parker Group e in tutti i punti più famosi indicati nella mappa. Al Tunnel Log facciamo tre giri con l’auto (c’è un loop) per farci le foto. Poi, per finire, saliamo sul Moro Rock. Il sentiero, anche se più che praticabile, in pratica una scalinata, è impegnativo e arriviamo in vetta, dopo una mezz’ora, stremati. Il paesaggio è imponente, anche se le nostre Alpi, o Dolomiti, offrono molto di più, ma qui siamo comunque fra le più alte montagne degli Stati Uniti, nel massiccio della Sierra Nevada. Ed è nella strada che scende da Sequoia verso Three Rivers che la natura ci riserba delle sorprese: Prima dei cerbiatti che brucano i fiori ai lati della strada; scendiamo dall’auto e si lasciano avvicinare fino a 4, 5 metri senza timore lasciandosi fotografare. Poi scoiattoli e per finire un orso bruno. Ci eravamo fermati in una piazzola attrezzata con servizi igienici e fontanelle d’acqua, quando tra i tavoli da pic-nic vediamo l’orso che fruga con il muso, tranquillo, avvicinandosi a dei turisti che stanno facendo bistecche arrosto, ma senza disturbarsi a vicenda. Fantastico, l’orso Yoghy non è solo un cartone animato, esiste nella realtà. Arriviamo all’hotel, il Holiday Inn Expess di Three Rivers con il buio fitto. Cerchiamo dove mangiare, sono le 22:00 e in un locale, un ristorante messicano, ci dicono che hanno già chiuso. Ripieghiamo in una pizzeria lì vicina, anche qui stanno già facendo le pulizie, ma ci dicono di accomodarci in un angolo e che le pizze le possono fare. Non commettiamo l’errore di richiedere modifiche e in dieci minuti ci servono, pizze nelle scatole di cartone anche se consumiamo al tavolo, capiamo che è perché se ci avanzano le possiamo portare via, lì, come in tutti gli USA, è normale. Le pizze sono buone e spendiamo pochissimo, sui 12 $ a testa, compreso le bibite e i refill (cioè puoi riempire il bicchiere, pagando una sola volta, non però per la birra e il vino). Rientriamo in albergo e non ci rimane che andare a dormire, domani c’è una tappa lunga, fino alla Death Valley.

Death Valley.

Lunedi 30 maggio. Stamani dobbiamo percorrere circa 480 km. Facciamo colazione in hotel, visto che è compresa e ci lasciamo prendere la mano, saccheggiando un po’ la dispensa di plum-cake, oltre che ad ingozzarci. Partiamo con una mezz’ora di ritardo sul previsto, l’hotel è sulla SR 198 “Sierra Drive” che percorriamo verso sud. Sbagliamo ancora e imbocchiamo la SR65 verso nord, invece che sud, meno male che la giunzione ha diverse uscite e possibilità di rientrare, così perdendo non più di 10 minuti, siamo sulla SR 65 sud e poi imbocchiamo la SR155 est. E’ una bellissima strada panoramica che percorre, come dice Lisa, “il nulla”. Circondati prima da una campagna semibrulla e poi da boschi, incontriamo si e no 5 o 6 auto e 3 o 4 villaggi con i cartelli con il nome e il numero degli abitanti, (196 con l’ultimo numero corretto a mano, deve essere nato o deceduto qualcuno). La strada si inerpica fino al passo Greenhorne Summit, molto oltre i 6.000 piedi, più di 2.000 metri, per poi scendere di nuovo fino ad un bel lago, il Lake Isabella, attrezzato di marine per tutti gli sport d’acqua, incastonato fra colline alte e brulle e pieno di turisti. Imbocchiamo la SR 178 costeggiando per un po’ il lago, verrebbe voglia di fermarsi tanto è bello il posto, ma siamo appena a metà strada. Ci fermiamo invece a metà della SR 178. La strada attraversa il deserto Californiano ed ai lati crescono dei cactus incredibili, non i classici saguaro, ma una cosa che non avevamo mai vista neppure in foto. Stop di 20 minuti e tantissime foto, in una luce accecante e almeno 38 gradi all’ombra. Si riparte, dalla 178 passiamo alla SR 14, sempre nel deserto e poi alla junction imbocchiamo la US 395 nord, finalmente una Freeway a doppia corsia, con lo spartitraffico larghissimo di sterrato ed incredibilmente dritta fin oltre l’orizzonte. Guido io e finalmente sento di essere proprio nell’ovest americano. Ci fermiamo a fare rifornimento, abbiamo saputo che all’interno della Valle c’è solo un distributore e la benziana è cara, e a mangiare nel self-service della stazione di servizio: prendo un tacos alla messicana, tortillas con carne di pollo e altro non meglio identificato. Non mancano le ognipresenti patatine fritte, gli altri cose simili. Non arriviamo a spendere 7 $ a testa. Lasciamo la Freeway per imboccare la SR 190 est. E’ subito uno spettacolo fantastico. Dopo tanto altopiano e montagne, siamo sul livello del mare e forse poco al di sotto. La Valle della Morte si presenta così, non ci siamo ancora, ma già la pianura è riarsa e macchie di sale si vedono in lontananza. Saliamo superando le montagne che circondano la Death Valley, per ridiscendere su quelle strade dritte con una leggera piega a sinistra o a destra in lontananza. La Valle della Morte è un parco aperto, non ci sono i rangers nel loro casottino a darci la mappa, ma noi siamo organizzati e l’abbiamo scaricata da internet. Passiamo Stovepipe Wells, un trading post e qualche casa di legno e, dopo aver percorso 450 km in 7 ore, ci fermiamo al primo Vista Point delle Sand Dunes. Fermiano l’auto e decidiamo di inoltrarci fra le dune. Sono le 4 del pomeriggio, temperatura intorno ai 105° F, all’incirca i nostri 40°, umidità meno del 15%, sudi e non te ne accorgi perché evapora subito, ma rischi di disidratarti. Eccetto io e Mau, tutti gli altri rinunciano alle prime dune un po’ più in rilievo. Noi due andiamo avanti e saliamo fino alla seconda duna più alta. Lo sforzo è notevole, si affonda nella sabbia bianca e finissima sulla quale non si tiene una mano tanto scotta. Non raggiungiamo la duna più alta, sui 70 metri, perché è tardi (è occorsa un’ora per arrivare fin lì) e perché abbiamo finito l’acqua, ma il panorama che si vede da quei 50/60 metri è incredibile: sembra di essere in un piccolo Sahara, fra l’altro è veramente deserto, ci siamo solo noi e uno che ha raggiunto la cima più alta ed è lì da una mezz’ora, seduto e come perduto a guardare il vuoto. Torniamo all’auto e anche la discesa si rivela faticosa; fa ancora più caldo e siamo senza acqua. Non avventuratevi in questa escursione se non siete allenati per bene, molto a posto fisicamente e senza acqua. Specie se in piena estate, con temperature vicino ai 50°C. Ma se siete in grado, è un’esperienza eccezionale. Riprendiamo l’auto, condizionatore a palla, percorriamo ancora 30 km. E arriviamo a Furnace Creeck. In tempo per sistemarci al Furnace Creeck Ranch. Alla reception sono cortesi, non ci chiedono neppure la carta di credito, ci avvertono soltanto che telefonare costa molto e che se ne abbiamo intenzione, dobbiamo lasciare la strisciata della carta. Non ne abbiamo intenzione, anche perché abbiamo sempre da utilizzare la carta telefonica presa a San Francisco e che non riusciamo ad utilizzare. Così riusciamo anche a fare un tuffo in piscina, anche se non è pulitissima. Ceniamo al ristorante dell’hotel, anche perché nel raggio di 50 miglia non c’è niente: una New York steek (ormai è il piatto classico della cena) con annessi e connessi e non spendiamo più che altrove, sui 22 $ sempre a testa. Martedì 31 maggio. Il mattino ci prepariamo all’escursione della Valle e abbiamo conferma di quanto già avevo trovato in rete: l’anno scorso, il 15 di agosto, una violenta alluvione, diciamo pure catastrofica, ha spazzato via tutte le strade per centinaia di miglia, proprio scomparse, inghiottite. Ci sono le foto all’ingresso del Ranch e sono da brivido. Pensate che il giorno dopo c’era gente con le canoe e i gommoni a Badwater, non accadeva da più di 100 anni. Così le prime strade che hanno ricostruito sono quelle di grande comunicazione, ma la SR 190 la troviamo semi interrotta, con un tratto a senso unico alternato e auto dei rangers che accompagna e, soprattutto, il tratto per Zabriskye Point “closed”, così come Artist Drive e Artist Palette. Mentre facciamo colazione, 9 $ per il buffet, caro, ma anche qui ci ingozziamo e facciamo scorte, il cameriere ci dice che possiamo arrivare a Zabriskye da un trail che passa per il Golden Canyon. Ci mettiamo in viaggio e prima tappa a Badwater. Percorriamo la SR 178, nuova, con un ottimo asfalto e arriviamo al punto più basso degli Stati Uniti, 282 piedi (85,5 metri) sotto il livello del mare. Sono le 9:30 di mattina e saremo già attorno ai 40°C. Lo spettacolo è abbacinante: una distesa di sale bianchissimo che abbaglia e un forte vento caldissimo. Ci addentriamo per un centinaio di metri oltre la passerella di legno, foto in abbondanza e poi ci muoviamo verso il Golden Canyon, sempre sulla SR 178. Scarpiniamo per un paio di miglia, in leggera salita, sudando come dannati per trovare una sgradita sorpresa: anche il trail per Zabriskye Point è chiuso. Gli unici che hanno la forza di andare avanti siamo io e Gino. Ci arrampichiamo anche su delle collinette con terreno franoso (non fatelo se non siete a posto fisicamente) e all’incirca vediamo il paesaggio che avremmo visto da Zabriskye, anche se più circoscritto. Abbiamo avuto veramente sfortuna, dei 7 o 8 posti che dovevamo vedere, 4 sono chiusi e abbiamo perso tempo nel Golden Canyon, così che non ci resta che decidere di percorrere tutta la SR 178, anziché la SR 190 visto che c’è un attesà di 20/30 minuti per il senso unico. La scelta si rivela indovinata. A parte una quindicina di miglia, la strada è buona, in più attraversa tutta la Valle da nord a sud e ci regala scorci panoramici bellissimi. Davanti a noi non incontriamo neppure un’auto e ne incrociamo solo tre o quattro. Comunque non passiamo mai il limite di velocità se non di 3 o 4 miglia. Varchiamo il confine con il Nevada e la SR 178 diventa SR 372, man mano il paesaggio muta, anche se rimane desertico. Ci fermiamo in una cittadina alla junction con la SR 160, sono le tre del pomeriggio e visto un “Burghi”, ci fermiamo al volo. Non vediamo l’ora di arrivare a Las Vegas. Las Vegas.

Man mano che ci avviciniamo alla metropoli, il traffico aumenta di intensità. Comunque per chi, come noi entra dalla SR 160, è semplicissimo, non si può sbagliare, la higway finisce sulla Strip, ovvero la Las Vegas Boulevard, a sud; oppure si può prendere un tratto della I – 15 nord e uscire il più vicino possibile all’albergo prescelto. Noi optiamo per una via di mezzo e ci facciamo anche un tratto della Strip fino al “TI” Treasure Island.

In questa tappa, da Fornace Creeck a Las Vegas, percorreremo circa 150 km in poco meno di 2 ore più il tempo della fermata per il cheeseburger. Entrare in Las Vegas dalla SR 160 è semplicissimo: la strada finisce nella Strip, ovvero la “Las Vegas Boulevard” a sud, oppure c’è la rampa per accedere alla I – 15 nord e si più uscire il più vicino possibile all’hotel dove si alloggia. Noi optiamo per una via di mezzo e ci facciamo solo una parte della Strip, quella dal Luxor fino al Treasure Island. Per quanto riguarda i parcheggi a Las Vegas è bene aprire una parentesi: all’ingresso di ogni hotel ci sono due corsie per le auto (o tre se c’è anche quella per i taxi), una con indicato “valet” e una “self parking”. I parcheggi sono comunque tutti gratuiti. Se non avete voglia di parcheggiare da soli (sotterranei immensi, migliaia di auto, ecc.), vi presentate ai valet, vi rilasciano un tagliando e pensano a tutto loro. Fermate l’auto dove vedete del personale in attesa, vi rilasciano un tagliando e vanno a parcheggiare. Quando rivolete l’auto, consegnate, o presentate il tagliando al valet della reception e poco dopo vi portano l’auto, dovete solo dare un dollaro di mancia al ragazzo che vi ha portato la macchina. Oppure ve la parcheggiate da soli, seguendo le indicazioni e ricordandovi il settore, magari il più vicino possibile agli ascensori. Solo che noi non lo sapevamo e, memori del salasso di San Francisco, la prima sera ci siamo fatti a piedi tutta la Strip, dal Treasure al New York – New York. Passando per il Cesars Palace ed altri alberghi. L’obiettivo era di salire sulle “Manhattan Express”, le montagne russe che attraversano il New York – New York e che raggiungono le 67 miglia/ora (105 km./ora). Paghiamo 12,50 $, un po’ carucce, ma essendo in 4 almeno ci spettano le foto gratis. Sono già le 21:00 e ci fermiamo a mangiare in uno dei tanti ristoranti del New York – New York. Ordiniamo la strategica “steak” e ci portano una bistecca con le solite verdure, patate e, sorpresa, chele e zampe di un granchione che doveva essere enorme. Siamo un poco perplessi e la cameriera, gentilissima, saputo che siamo italiani (ci hanno in simpatia in ogni dove), ci insegna come aprire chele e zampe e come mangiarne la polpa che non è male, solo che per i nostri gusti, l’accostamento con la bistecca è un po’ strano. Torniamo in hotel sempre a piedi, passando per il Bellaggio e troviamo la sgradita sorpresa che lo spettacolo delle fontane è sospeso per problemi tecnici. Giriamo ancora un poco e poi, mentre Mau e Lisa restano al Casino del Treasure, noi andiamo a nanna. Mercoledì 1 giugno. La mattina ci alziamo tutti molto tardi e così salta la visita al Fire Canyon nel Valley of Fire State Park. Scopriamo casualmente la storia dei parcheggi gratuiti e così prendiamo la Dodge, prima tappa all’ Aladin. Utilizziamo il self parking, saliamo con l’ascensore. Entriamo e… non lo descrivo perché non voglio togliere la sorpresa a chi vi andasse la prima volta, ma è un vero spettacolo. Comunque pranziamo in un ristorante pizzeria italiano, con il metre di Padova. Finalmente non ho bisogno di interpreti. E non spendiamo neanche tanto, sui 21 $ tasse e servizio compresi. Il caffè però, anche se accettabile, non c’è verso che sia buono, ed è Illy. Con l’auto arriviamo fino al Luxor e torniamo man mano indietro, fino al Paris e al Venetian, con rispettivamente una vera torre Eiffel alta esattamente la metà dell’originale e campanile di San Marco e ponte di Rialto con tanto di gondole. Torniamo al nostro hotel alle 18:00 perché abbiamo prenotato per lo spettacolo che rappresentano nel teatro dell’albergo, “Mistere” del Cirque du Soleil. Mentre aspettiamo l’orario, proviamo ad utilizzare la scheda telefonica acquistata a San Francico dal telefono della camera. Prendo la linea esterna, compongo il numero verde, seguo tutta la procedura e… riusciamo a telefonare! Scendiamo e ci rechiamo al teatro, davanti al quale troviamo una lunga fila. Il Cinque du Soleil è venuto in Italia solo una volta, a Milano e chissà quando ritornerà. Sono 60 $, ma ne vale la pena: atleti e acrobati eccezionali, con coreografie fantastiche e musiche e voci che fanno venire i brividi. A Las Vegas ci sono 4 spettacoli fissi, con 4 titoli diversi e rappresentazioni giornaliere che fanno sempre il pieno, nonostante i prezzi. Ci facciamo riconoscere, perché nonostante gli avvisi di tutti i tipi del divieto, Gino si fa beccare a riprendere con la telecamera: luce di una torcia e cazziatone. Non so come, ma se ne accorgono subito.

Torniamo in giro, prima a vedere le fontane del Bellaggio, fra l’altro poca cosa e poi alla torre dello Statosphere. Prima mangiamo da un Mc Donald per fare presto e poi saliamo. Compriamo un pacchetto che comprende la salita in cima alla torre e due “thrill”, “Big Shot” e “X-Scream”. Già solo sul terrazzo panoramico, a 350 metri di altezza, con tutta Las Vegas piena di luci ai piedi, è uno spettacolo. Tira un vento fortissimo che fa dondolare e i giochi sono pura adrenalina. Da provare, il tutto per 15 $. La serata è stata ottima, solo due nei, non avevamo capito che lo spettacolo di luci in Freemont Street è solo dalle 21:00 alle 21:30. Così quando ci arriviamo, molto oltre la mezzanotte, sembra di essere in un posto da rapine, non ci fermiamo e torniamo indietro. Altro piccolo inconveniente, a causa del vento non hanno fatto la battaglia dei pirati al Treasure Island. Cominciano ad essere troppe le cose che troviamo “closed”, o che ci perdiamo. Andiamo a letto che sono le due del mattino e domani, anzi oggi, c’è un tappone fino al Bryce Canyon.

Bryce Canyon National Park.

Giovedì 2 giugno. Facciamo il ceck-out e troviamo da pagare 3 $ per le due telefonate di ieri, forse è per la linea, comunque almeno abbiamo usato la scheda. Abbiamo davanti 410 km. Da percorrere. Lo faremo in 6 ore, compreso il transito per Zion National Park. Partiamo come al solito con un poco di ritardo sulla tabella di marcia, ma imboccare la I – 15 nord è semplicissimo e la intestate è scorrevolissima. Superiamo il bivio a destra che ieri ci doveva portare alla Valley of Fire e proseguiamo verso la giunzione con la SR 9 est Scenic Byway. La strada sale fino all’ingresso del Zion National Park; qui il ranger controlla la tessera del Park Pass, che si rivela utilissima e pratica e ci consegna la mappa con il solito giornalino didattico. Entriamo nel parco, dovremmo prendere sulla sinistra la Zion Canyon Scenic Drive, ma forse perché è tardi, o perché mal segnalata, continuiamo dritti (per modo di dire, la strada è tutta curve), e mi accorgo di aver sbagliato solo quando ci appare davanti il tunnel sulla SR 9 per la Mount Carmel junction. In quel punto non è possibile invertire la marcia, dobbiamo passare il tunnel, abbastanza lungo, forse un miglio, ed anche dall’altra parte niente piazzole per girare. Quando ne troviamo una, abbiamo percorso troppa strada, così decidiamo di non tornare indietro. Anche perché pure da questa parte, east Zion, il panorama è stupendo, con rocce particolari e un paesaggio sub – alpino, tanto che ci sono diversi Vista Point e tanti turisti a fare foto. Prendiamo la US 89 nord verso Mount Carmel e Orderville, anche questa una strada molto bella e poi voltiamo a sinistra sulla SR 12 est Scenic Byway. Immediatamente, sulla sinistra, ci appaiono i pinnacoli incredibilmente rossi del Red Canyon. Ci fermiamo in una piazzola dove inizia un breve trail e decidiamo di salire. Percorriamo un mezzo miglio di sentiero molto ripido e ci ritroviamo fra i pinnacoli. La discesa risulta un po’ difficoltosa per il terreno friabile e Tami e Maria cadono, senza conseguenze, fortunatamente. Riprendiamo la marcia e fatte poche miglia, ecco i famosi “buchi” nella roccia rossa attraversati dalla strada, uno dei luoghi più fotografati degli Stati Uniti, probabilmente. Stop e foto di rito, poi niente più fermate fino a Ruby’s Inn, porta di ingresso al Bryce Canyon, dove alloggeremo al “Best Western Ruby’s Inn”. Arrivati alla reception, ci accorgiamo di aver perso un’ora, in quanto nello Utah non vige l’ore legale. Così sono già le 15:30, meno male che non siamo tornati indietro a Zion. Sbrigate le formalità per le camere, con del personale che sembra uscito da un film western, ragazze tutte eguali, bionde, occhi chiari e pelle chiarissima, eguali persino nel trucco e nelle pettinature e personale maschile con cravattino di nastro fermato da un cammeo di metallo, prendiamo un panino in un locale di fianco all’albergo ed entriamo in Bryce; solito ranger, gentilissima, ci consegna tutto il materiale dopo aver verificato tessera e passaporto. Il pomeriggio è decisamente bello, assolato, anche se in cielo corrono veloci delle nuvole bianchissime. Decidiamo di percorrere tutta la strada del parco fino a Raimbow Point per poi tornare indietro e fermarci a tutti i Point, per terminare con quelli dell’Anfiteatro. Scelta che ci creerà dei problemi, perché se teoricamente ineccepibile, che ci dovrebbe vedere al tramonto nei punti più belli e gli hoodoos (i pinnacoli) incendiati dal sole, nella realtà non abbiamo fatto i conti che ci troviamo tra 2.700 e 3.200 metri. Comunque iniziamo a fermarci e da Raimbow Point, a ritroso, vediamo Ponderosa, Agua, Natural Bridge. Qui l’intensificarsi delle nuvole, per ora sempre bianche, ci spinge ad accelerare e andiamo direttamente ai punti dell’Amphitheater. Al Sunset Point troviamo un’altra brutta sorpresa. Anche qui un “closed”, il Navajo loop Trail è crollato nella parte iniziale e non si può percorrere. Così il Thors Hammer, forse il più famoso degli hoodoo, intorno al quale il sentiero gira, dobbiamo accontentarci di fotografarlo dall’alto. Le nubi, sempre bianchissime, per ora, rendono il cielo fantastico, con un contrasto bellissimo con le rocce quando squarci di sole le arrossano, solo che il sole appare sempre meno e le nuvole sono sempre più grandi. Decidiamo comunque di scendere almeno una parte di un altro trail, il Queens Garden, da Sunrise Point. Il vento si fa sempre più forte e freddo. Lisa e Tami decidono di tornare alla macchina e fanno bene. In un attimo inizia a tuonare, fulmini in lontananza e poi sempre più vicini. Io, Mau, Gino e Maria iniziamo a risalire velocemente, ma ci prendiamo un’acquazzone con grandine. Non dura molto, ma sufficiente per infradiciarci. Il bello è che per settimane ho raccomandato a tutti di tenere a portata di mano un k-way, o simile, naturalmente quello che non lo ha, sono io. Ci infiliamo in auto e torniamo, inutile dirlo, molto seccati, in albergo. Doccia calda e ceniamo in albergo a buffet con 20 $ di spesa comprese tasse e tip. Ruby’s Inn è solo i lodge, un trading center, un paio di locali e una stazione di servizio. Fa un freddo cane, attorno allo zero, vento gelido e così decidiamo di andare a nanna, figurarsi che accendiamo pure il riscaldamento. La mia idea è di svegliarmi presto e, anche da solo, andare a vedere sorgere il sole sull’anfiteatro.

Venerdi 3 giugno. Prima delle 6 mi sveglio e apro appena la tenda che copre la finestra per vedere se il sole è già sorto. Sulle prime non riesco a capire; poi realizzo: nevica. Il prato davanti alla nostra camera è tutto bianco, le auto sono coperte da 2 o 3 centimetri di neve e i fiocchi vengono giù fitti e spinti dal vento. Sveglio Tami e verso le 6:40 chiamiamo gli altri; dobbiamo fare 380 km fino a Moab e nevica! In 10 minuti sono tutti in piedi e decidiamo di andare a fare due foto a Sunrise Point. La previdenza che avevo predicato si rivela utile e le felpe di pile e i k-way sostituiscono degnamente le giacche a vento che sarebbero state molto più ingombranti nei bagagli. Il bosco attorno all’anfiteatro è magnifico, ma l’anfiteatro stesso è a ridosso del vento e la neve non vi cade, se non in rade chiazze. Torniamo in albergo per fare colazione e scopro gli “one hot cake”, praticamente la frittella di Paperino, ma enorme, da coprire con sciroppo di mele o di acero, buonissima. Anche gli altri mangiano “pesante” e spendiamo 7 $ a testa. Moab.

Partiamo che ha smesso di nevicare, la strada è sgombra. Solo il cielo è plumbeo e continua il vento. Dobbiamo tenere il riscaldamento acceso. Risaliamo la SR 63 e poi deviamo a destra sulla SR 12 est, si dice la più bella Scenic Bayway dell’ovest U.S.A. Peccato che noi possiamo vedere ben poco; a tratti piove e non ci arrischiamo a perdere tempo, anche perché dobbiamo tenere una velocità consone alle condizioni della strada. Comunque si capisce che è bellissima, nei tratti dove non piove possiamo ammirare viste mozzafiato, dal roccioso e arido, a foreste di abeti e aceri. Passiamo Escalante e nemmeno a pensarci di fare una capatina al “Escalante Petrified Forest State Park”. Arriviamo a Boulder e ricomincia a nevicare mentre la strada si arrampica in una foresta di abeti. La strada sale, dobbiamo superare un valico a oltre 9.000 piedi (3.000 metri) e la nevicata non è proprio una tormenta, ma poco ci manca, meno male che la strada rimane sgombra. Comunque prima del Capitol Reef National Park il tempo migliora, ma ci siamo fatti quasi 100 km sotto la neve; unica consolazione è che, passata la preoccupazione, ci ha dato delle emozioni che non credevamo proprio di provare, in un paesaggio da favola. Lasciamo la SR 12 e ci immettiamo nella SR 24 est. All’ingresso di Capitol Reef passiamo dal solito ranger che ci consegna il solito materiale e ci fermiamo a nella zona archeologica dove si possono vedere dei petroglifi. Non approfondiamo oltre la visita e facciamo bene perché di lì a poco inizia a piovere, così ci facciamo tutta la I – 70 est e poi la US 91 sud con una pioggia che non ci abbandonerà più fino a Moab, dove arriviamo il pomeriggio verso le tre. Ci sistemiamo al “Moab Valley Inn”, dove staremo 3 notti, con pochissime formalità, non ci chiedono neppure la carta di credito. Piove sempre e ci rechiamo in una specie di pub lì di fronte per fare un pranzo-merenda, vista l’ora. Mangiato, la prima cosa che facciamo è andare in centro (?) a cercare un’agenzia per prenotare il rafting. Alla fine scegliamo il Moab Adventure Center, che avevo già conosciuto sulla rete. Lo faremo solo io, Mau, Lisa e Gino e decidiamo per quello corto, da Fisher Tower, full day, per la domenica. Paghiamo subito, 53 $ più tasse ed è un errore, perché tornati in albergo troveremo che esistono coupon su varie pubblicazioni publicitarie ed altre forme, compresa quella di prenotare dall’hotel, per avere il 20% di sconto. Trascorriamo il tempo che ci separa dalla cena girovagando tra i negozi di souvenir e, visto che piove sempre (ma ci hanno assicurato che è una cosa eccezionale per Moab in quella stagione e che l’indomani ci sarà il sole), torniamo nel pub di fronte all’albergo; hanno solo insalatone, di pollo o di salmone. Non sono male e sono abbondanti e spendiamo veramente poco, 7 $ a testa. Decisamente per il cibo siamo abbondantemente sotto al budget che avevamo stabilito: 10 $ per la colazione, 15 per il pranzo e 25 per la cena. Restiamo un po’ a parlare e poi a nanna con il riscaldamento acceso. Canyonlands e Arches Natinal Park.

Sabato 4 giugno. La mattina ci alziamo e c’è davvero il sole. Facciamo colazione in albergo, visto che è compresa. Frittellone che mi cuocio da solo in un specie di piastra per creps e che poi cospargo di succo di mela e marmellata. Riusciamo anche a farci il caffè e latte. Partiamo come al solito in ritardo; dovendo visitare la mattina Canyonlands National Park e Dead Horse Point State Park e al pomeriggio Arches National Park, saremmo dovuti partire alle 7, non alle 8 e mezza come facciamo noi. Tra l’altro appena fuori Moab, sulla US 91 verso nord, per tornare ai parchi che distano una quarantina di km. Dal centro abitato, improvvisamente troviamo il traffico in coda e una macchina della polizia ferma in mezzo alla higway. Pensiamo ad un incidente, ma incredibile, capiamo il perché di quello stop quando a fianco delle auto cominciano a scorrere centinaia di manzi, mucche e vitellini al seguito, scortate da veri cow-boy a cavallo. Nonostante sia tardi, ci sentiamo immersi in un film. Non credevamo che ancor oggi ci fossero mandrie che vengono allevate come nell’800 e che per giunta attraversano una superstada per migrare.

Canyonlands si divide in tre sottoparchi: a nord Island in the Sky, che è la parte delimitata dal Colorado River e dal Green River, praticamente un triangolo con il vertice in basso costituito dalla confluenza dei due fiumi. A sud est The Needles e a sud ovest The Maze, una parte ancora semi inesplorata del parco. Noi visiteremo solo Island in the Skay, che è la più accessibile e più vicina a Moab.

Arriviamo di fronte al solito ranger (quasi tutte ragazze) e prendiamo mappa e opuscoli. Non mi stancherò mai di dire quanto è utile il Park Pass e quanto fa risparmiare. La giornata è veramente bella e in cielo corrono solo delle nuvolette bianchissime che renderanno le foto ancora più belle. Facciamo la prima tappa al Mesa Arch; è un arco naturale che si raggiunge con un breve e facile trail e che fa da finestra sulla vallata sottostante, con un precipizio di varie centinaia di metri. E’ controluce, ma è egualmente stupendo, immerso nella natura (lungo il sentiero abbiamo potuto ammirare un coniglio selvatico che ha continuato a rosicchiare qualcosa nonostante ci siamo avvicinati a pochi metri) e nel silenzio. Riprendiamo l’auto e raggiungiamo Upheaval Dome; un cratere che si raggiunge camminando una mezz’ora e che non si sa se formato da un vulcano o dall’impatto di un meteorite. Di nuovo in auto fino al Green River Overlook dove sotto di noi, con un balzo a precipizio di 4-500 metri, il Green River ha scavato canyons e formato goosenecks (anse, letteralmente colli di papero). Le viste sono mozzafiato e ci appare davanti il far-west come ce lo siamo sempre imaginato, veramente c’è da aspettarsi che da un momento all’altro appaiano i segnali di fumo e gli indiani pellerossa, o se preferite, Willy Coyote che rincorre Bip-Bip. Poi fino al Grand View Point e vale quanto detto sopra. Usciamo da Island in the Sky ed entriamo nel Dead Horse Point State Park. In realtà è tutto contiguo, attaccato, ma qui non essendo un parco statale la Park Pass non vale e si paga, anche se poco: 7 $ ad auto. Il parco è veramente piccolo, si ruduce praticamente alla forse più famosa ansa del Colorado River, quella fatta a ferro di cavallo. Ed è qui che è stata girata la scena finale del film Thelma e Louise. Comunque sono già le 13:30 e dobbiamo anche tornare a Moab per un piccolo problema. Tra l’altro, incredibile, ma vero, mi sono anche dimenticato di fare benzina, di distributori nel parco neanche a parlarne e dobbiamo per forza tornare a Moab. Facciamo il pieno a 2,28 $ e mangiamo in un Burghi, tutto molto velocemente, ma, percorsa di nuovo la US 91 nord, entriamo in Arches che sono le 15:30.

Naturalmente a questo punto non è possibile vedere tutto. Appena superata la stazione del ranger, ci fermiamo a fare due foto al Park Avenue e al Courthouse Tower, per poi recarci alla Balanced Rock; il nome è rispettato in pieno, non si sa come la sommità del monolite riesca a restare in equilibrio. Poi arriviamo al Double Arch ed anche se è in controluce, le foto risulteranno bellissime. Arriviamo attorno alle 17:40 al Wolfe Ranch da dove parte il trail per Delicate Arch e sono l’unico che se la sente di affrontare il sentiero. Così mentre io inizio a salire, gli altri proseguono in auto verso il Delicate Arch Viewpoint. Il trail si dimostra veramente impegnativo, lungo un paio di miglia e con un dislivello notevole. Ma la fatica è ricompensata: dopo un tratto di sentiero scavato nella parete di roccia, improvvisamente, sulla destra, si apre una specie di teatro naturale con, come palcoscenico, l’arco di arenaria simbolo dello Utah, tanto da essere rappresentato sulle targhe delle auto. E’ molto grande, più di come lo immaginavo e, grazie alla limpidezza dell’aria, sullo sfondo appare una catena di montagne innevate. Forse è l’atmosfera, con tutte quelle persone già in attesa del calare del sole per cogliere tutte le mutevolezze di colori della roccia, o forse perché è veramente un luogo eccezionalmente bello, mi lascio prendere dall’emozione. Peccato che non posso aspettare il tramonto. Mi fermo un po’ di più di quanto concordato con gli altri e, per recuperare, faccio il ritorno quasi tutto a corsetta, visto che è tutto in discesa. Raggiunti gli altri, proseguiamo per Landscope Arch. Il trail è in pianura e così lo facciamo tutti. Peccato che l’arco è in completa controluce. Nel tornare indietro ci accontentiamo di fare qualche foto agli altri archi che si possono vedere dalla strada. Due note su Arches National Park: il parco non è molto grande, ma è un poco più complesso di Island in the Sky da visitare. Si cammina molto di più, per arrivare vicino agli archi c’è sempre un trail più o meno lungo e impegnativo. Per Delicate Arch, poi, ci vogliono un paio d’ore, fra andata, ritorno e foto. Inoltre alcuni archi sono in luce la mattina, come il Landscope e altri la sera come il Delicate. Meglio sarebbe avere tutto il giorno, ma se non è possibile, bisogna scegliere. Magari portandosi il mangiare al sacco si guadagna tempo. E comunque un consiglio: vedere tutto quello che è possibile, ma un’ora e mezzo prima del tramonto avviarsi per il Delicate Arch con il quale chiudere la visita. Ah!, ricordarsi di fare il pieno, nei due parchi non ci sono stazioni di servizio e neppure dove acquistare cibo. Rientriamo in Moab che è ormai buio. All’andata avevo visto ai bordi della higway delle steak house, ci fermiamo in una senza rientrare in albergo. “Buck Steakhose” è un bel locale, tutto in stile western, tavoli di legno massello e luci diffuse. Lazos alle pareti, accanto a teste di tori imbalsamate. Le New York steak ottime ed anche i contorni. Spendiamo 29 $ a testa tutto compreso, ma ce lo meritavamo. Fra l’altro è il mio compleanno. Andiamo a letto distrutti e l’indomani c’è il rafting.

Rafting.

Domenica 5 giugno. Ci troviamo in orario davanti all’agenzia e ci viene presentata la guida (ne parleremo più avanti). Assieme a noi ci sono una ventina di altri turisti. Saliamo tutti su di un vecchio pulman tipo quelli scuola-bus americani anni ’60, con al traino il carrello dei gommoni. Spifferi da tutti le parti, i vetri non si chiudono e strada tutta curve che segue il Colorado River verso nord, affrontata, diciamo, con “allegria”. Arriviamo a Fischer Tower, ci fanno scendere e mettono in acqua i gommoni. Breve chiacchierata delle guide che, ci traducono Mau e Lisa, spiegano i comportamenti da tenere. Ogni gommone tiene 6 persone più la guida che timona. Con noi salgono due americane, madre e figlia. Prima di partire ci facciamo le foto di gruppo con la guida che è tipica, ma anche le altre non scherzano. Tutti biondi, abbronzati, occhiali a specchi di tipo sportivo, cappellino e fisico tiratissimo. Tipo surfisti, per intenderci. Ed infatti scopriamo che la nostra per sei mesi sta a Moab (l’estate) e per altri sei fa l’istruttore di serf alle Haway. Le rapide non sono eccezionali, livello II, ma un paio hanno onde di un 2 di metri e nell’attacco di una, vengo completamente sommerso, forse sarà stata anche due metri e mezzo. Tra una rapida e l’altra il fiume è tranquillo e ci consente di ammirare il panorama da un altro punto di vista. Siamo dentro ad un largo canyon e si vedono le Sal Mountain innevate. Prima dell’ultima rapida ci fermiamo tutti su di una spiaggetta e le guide preparano tavola e cibi. Il sole picchia come un martello, mi rendo conto che creme protettive, cappellino e occhiali da sole erano indispensabili, invece non ho portato niente, fortunatamente sono già un po’ abbronzato.

Terminata la discesa del fiume, ci riportano a Moab e lasciamo volentieri una mancia alla guida che è stato veramente affabile e simpatico, ha imparato anche a dire “voga” e “pigia”. Nel negozio del center Mau e Lisa acquistano delle magliette originali, constatato che i prezzi non sono per niente alti. Nota: noi abbiamo fatto la discesa del Colorado River da Fisher Tower, chi volesse provare emozioni più intense e non ha nessun tipo di problema fisico, può farlo da West Water che è più a nord. Costa un po’ di più, sui 135 $, ma le rapide sono di livello III e se c’è abbondanza d’acqua, ce ne sono anche di livello IV.

Rientriamo in albergo alle 15:30 e così c’è il tempo di mettere la roba ad asciugare, meno male che avevamo portato un cambio completo e asciugamani negli zaini che possono essere lasciati tranquillamente sul pulman, nessuno tocca niente.

Mentre noi eravamo sul fiume, Tami e Maria hanno scoperto un supermercato e hanno comprato un sacco di cose, anzi ci trascinano anche noi e facciamo acquisti di cibarie per l’indomani, dobbiamo dire che i prezzi sono inferiori che in Italia, forse merito del cambio favorevole. Avanza anche il tempo per fare una capatina sulla SR 279, una Scenic Bayway che costeggia il Colorado River verso ovest, prima di Canyonlands e sulla quale si svolgono lezioni di arrampicata su pareti di roccia perfettamente verticali, con dei ragazzi che si arrampicavano come ragni (è da queste parti che è stata girata la sequenza iniziale di Mission Impossible con Tom Cruise). Sempre sulla strada ci sono anche dei petroglifi e le tracce di un dinosauro, nonché un panorama tipicamente western.

Andiamo a cena in un localino tipico di Moab e prendiamo una pizza; in albergo ci aspetta la torta del mio compleanno, anche se in ritardo, si festeggia.

Mexican Hat, Monument Valley.

Lunedì 6 giugno. Oggi non abbiamo da percorrere molti chilometri; da Moab a Mexican Hat ce ne sono 180 e altri 30 per raggiungere la Monument Valley. Partiamo anche in orario, così potremo seguire il programma che prevede di fare una deviazione nella Valley of the God percorrendola sulla Valley of the God Road, uno sterrato di circa 16 miglia che si può percorrere con un po’ di attenzione anche con un’auto normale e si potrà salire a Mule Point percorrendo la Mokee Dugway e, magari visitare anche il Goosenecks State Park sulla SR 316, nei pressi di Mexican Hat. Percorriamo tranquillamente la US 91 verso sud, ammirando il panorama che sempre più ci fa sentire nel Far-West, tra zone desertiche, formazioni rocciose , foreste immense (ci sono cartelli che indicano l’attraversamento di cervi per decine di chilometri), e praterie. La strada è dritta e si attraversano solo un paio di cittadine, sembra proprio una giornata perfetta. Sembra… Imboccata la US 163 sud e arrivati ad una trentina di km. Da Mexican Hat, dove sulla sinistra si vede la roccia in bilico che da il nome al posto (sembra proprio il cappello di un messicano (mexican hat) e fa venire in mente le roccie su cui sale Willy Coyote), Mau si accorge di aver dimenticato la telecamera. Ricerche febbrili, rovistamenti negli zaini, poi ci decidiamo a telefonare all’albergo a Moab. Troviamo un telefono pubblico in una stazione di servizio gestita da veri Navajo, siamo in piena riserva indiana, territorio auto amministrato da loro, e da Moab ci confermano che la telecamera è lì. Non ci perdiamo d’animo, decidiamo di seguire il programma fin dove possiamo e poi io e Mau, lasciando gli altri in albergo, torneremo a Moab, in 4 ore dovremmo farcela ad andare e tornare e quindi essere a letto prima dell’una. Intanto però, nella concitazione, non ci accorgiamo del bivio per la Valley of the God, così non ci rimane che prendere lo sterrato dalla parte della SR 261; lo sterrato è buono, ma non mi arrischio a superare le 20 – 25 miglia/ora, così arriviamo nella parte più interna, dove la strada forma un vertice, e torniamo indietro. Forse è tutto il contesto, il ritardo accumulato, ecc, ma la valle non è che sia un gran che. Riprendiamo la SR 261 e voltato a destra cominciamo a salire. Ad un certo punto la salita si fa ripida e, per giunta, la strada la tengono sterrata, proprio così, “umpaved”! E’ la Mokee Dugway che si arrampica per 3 miglia fino a 6.425 piedi (2.200 metri), lasciando sulla destra una vista mozzafiato e dando anche qualche preoccupazione perché non ci sono ne guard rail né altre protezioni. Arriviamo in vetta, dove ricomincia l’asfalto e giriamo subito a sinistra, non ci sono indicazioni, ma c’è solo quel largo sterrato che può condurre a Mule Point.

Anche qui non si può che tenere al massimo 20 miglia/ora e la dozzina di km. Che percorriamo sembrano non finire mai. Siamo su di un altopiano che è una pianura immensa, punteggiato di macchie e di piccoli cactus fioriti, spazzato da un vento fortissimo. Poi, improvvisamente, davanti a noi, lo scenario si apre: lasciamo l’auto e percorriamo a piedi un centinaio di metri per arrivare sul bordo di un dirupo che sarà fra gli 800 e i 1.000 metri. Davanti a noi , giù in basso, le anse del San Juan River che si perdono a vista d’occhio e, in lontananza, ben visibili con il binocolo, le formazioni della Monument Valley. Tira un vento teso che ci sposta e con prudenza ci affacciamo sull’abisso. Ci siamo solo noi e a parte le nostre voci e il vento, non c’è un rumore. Ma non c’è tempo per la meditazione, risaliamo in macchina e torniamo indietro. Tami e Maria mi fanno fare una cosa che non si dovrebbe assolutamente, mi fanno fermare e sradicare un piccolo cactus che vogliono portare a casa (è stato diviso, trapiantato, ha attecchito e prospera). La Mokee Dugway in discesa fa ancora più paura, ma è fantastica, si può lanciare l’occhio fin dove arriva sulla Valley of the God. Riprendiamo la SR 261 e poi la US 163 fino all’ hotel San Juan Inn e Trading Post di Mexican Hat.

Il Trading Post è caratteristico, addossato ad una parete di roccia rossa da un lato e a pochi metri dal San Juan River dall’altro. Le camere sono spartane, ma pulite e non manca il sempre presente distributore del ghiaccio, cosa che ci fa piacere perché fa veramente caldo. Il personale che gestisce il tutto sono veri Navajos, il che mi fa sentire tanto Tex Willer… Posiamo i bagagli in camera e partiamo subito per la Monument Valley; abbiamo deciso che mangeremo lì al sacco, aspettando il tramonto. Percorriamo la US 163 verso sud ed ecco che la strada ci appare dritta, in leggera discesa, con la piega sull’orizzonte che va a finire fra le formazioni rocciose della Monument. Ci fermiamo e scattiamo anche noi le foto, questo è veramente uno dei panorami più fotografati del mondo, appare in ogni libro, pubblicazione, o che sia, che parla della Monument Valley. Essere lì, noi, in mezzo alla carreggiata, a fotografare è una tale emozione… non ci avrei mai creduto.

Risaliamo in auto e superiamo alla nostra sinistra i butte (si chiamano così i monoliti della Valle), percorriamo circa un miglio e sulla sinistra imbocchiamo il bivio che porta all’ingresso. Sono le 4 del pomeriggio.

Il parco non è statale, ma gestito autonomamente dai navajos e si paga 7 $ a testa. Appena dopo il gabbiotto de ranger, che ci da una mappa un po’ sui generis, ci sono diverse baracche dove si possono prenotare dei tours con dei fuoristrada scoperti o dei giri a cavallo con guide indiane. Comunque la Monument Valley, intesa come parco, si può percorrere tranquillamente con un auto normale ed è quello che facciamo. Il parco non si può descrivere, almeno non nelle emozioni che produce, va visto e visitato. La strada, sterrata, ma buona, dopo un mezzo miglio, diventa un anello a senso unico che consente di vedere quasi tutto. Tira un vento fortissimo che solleva nuvolosi di polvere rossa e finissima. Nel cielo corrono delle nuvolette bianchissime che renderanno ancora più belle le foto. Prima di imboccare il loop, ci fermiamo ad una bancarella con due pellirossa, un uomo e una donna. Hanno oggetti d’argento carini e d anche di non costosi, facciamo acquisti e la indoviniamo perché a parità di prodotti, sono più convenienti che negli altri punti.

Fra l’altro ai bordi della piazzola c’è un tronco secco d’albero che sembra messo lì a bella posta per fotografare i monoliti, i butte West, East e Merrick (quei tre monoliti di cui due con una guglia che sembra un dito) Fatti gli acquisti, ci fermiamo a tutti i punti più famosi, e le Three Sister, poi deviamo a destra per il John Ford Point, da dove si gode una vista eccezionale e veramente ci si aspetta di vedere l’inseguimento della diligenza di Ombre Rosse. Poi, di nuovo sul loop principale, The Hub e Totem Pool che possiamo ammirare solo da lontano, per andarci vicino e poter vedere anche Yei Bichei e le Sand Spring occorre andarci a piedi o a cavallo con la guida. Poi The Thumb e North Window e Artist Point. Chiuso il giro, torniamo sul primo tratto dello sterrato e ci fermiamo in una piazzola da cui si dominano i tre butte più famosi. Il vento continua a spirare impetuoso, ma noi troviamo un ridosso che ci consente di mangiare senza troppa polvere. Aspettiamo il tramonto e man mano che le il paesaggio diventa sempre più rosso, l’emozione sale e le foto si sprecano (se usate foto normali, portate i rullini dall’Italia o comprateli nei supermercati americani. Nei luoghi turistici sono cari. Se avete la digitale, cercate di avere una memoria molto capiente , o un hard disk potatile dove scaricare). Sono trascorse le 20 (anche nella riserva Navajo non vige l’ora legale), quando ci decidiamo ad uscire dal parco. Incredibile, ma troviamo la sbarra abbassata e alcune auto in fila. Scendiamo e un cartello ci avvisa che il parco chiude alle 18:00 e che per uscire dobbiamo tornare indietro e imboccare un sentiero laterale sulla destra, risalendo, che ci riporta sulla strada asfaltata. Che strani gli americani, se non scendevamo noi e vedevamo il cartello, erano sempre lì che aspettavano di uscire, infatti ci vengono tutti dietro.

Dobbiamo tornare velocemente all’albergo perchè a me e a Mau ci aspettano 360 km. Fra andare e tornare da Moab. All’andata guido io, conosciamo già la strada, facciamo il pieno alla stazione di servizio dove avevamo telefonato la mattina, nei pressi di Bluff e va tutto bene, compreso il ritrovamento della telecamera.

Al ritorno guida Mau e, in prossimità della cittadina di Blanding, appaioniono, come al solito vicino ai centri abitati, i cartelli con i limiti di velocità: prima 45 miglia/ora, poi 35, poi 30. Non faccio in tempo a dirgli di rispettare i limiti e lui a rispondermi che a quell’ora (è mezzanotte) “Chi vuoi che ci sia”, che con la coda dell’occhio vedo un’auto della polizia parcheggiata seminascosta davanti ad un camion. Glielo dico e lui mi risponde che hanno acceso fari e lampeggianti e che ci vengono dietro. Ci fermiamo immediatamente e cominciamo a sudare freddo. Siamo in piena notte, nell’ovest degli U.S.A., con la consapevolezza di aver commesso un’infrazione e la polizia che si comporta come nei film. Infatti fermano la loro auto ad una decina di metri, uno resta vicino alla macchina e uno, molto lentamente si avvicina a noi. Restiamo immobili, con le cinture di sicurezza allacciate e le mani in vista. Il poliziotto, uniforme grigioverde, cappellone e tanto di stella sul petto, prima ci pianta la luce della torcia in viso, poi sempre con la torcia ispeziona l’interno dell’auto, poi chiede la patente. Mau la consegna e il vicesceriffo inizia a parlare. Mau lo interrompe e gli spiega (meno male che un po’ di inglese lo mastica) che siamo italiani e che non capisce molto bene e se può parlare più lentamente. Il poliziotto è gentilissimo, inizia a spiegare indicando i numeri sul contachilometri, che lì c’è 30 e noi andavamo a 50 (è come se da noi ci fosse 50 km./h e si fosse andati a 80), che per una cosa del genere poteva passare una notte in prigione, che se decideva di farci una multa dovevamo pagarla prima di partire, altrimenti ci avrebbero arrestati all’aereoporto. Naturalmente tutto questo me lo tradurrà Mau dopo, perché io non capisco una parola e penso solo che se va bene ci faranno perdere l’intera notte e ci appiopperanno 200 o 300 $ di multa, se va bene. Poi chiede perché correva così e Mau cerca di spiegare tutta la faccenda della telecamera e deve farlo bene, perché il vice ci fa ancora 5 minuti di pappardella e poi ci dice che per quella volta possiamo andare. Siamo sudati fradici per la tensione, ma visto che è andata bene, siamo anche esaltati da questa esperienza, ora non ci manca proprio nulla. Rispettate sempre i limiti di velocitàanche quando sembrano assurdi, , magari 2 o 3 miglia in più sono tollerate; a prima vista sembra che non ci sia nessuno, ma vedono tutto e hanno veramente un sistema radar per il controllo della velocità e non sempre è detto di trovare un poliziotto comprensivo come il nostro.

Rientriamo in albergo oltre luna e per dormire un po’ non racconto niente. Anche perché ci aspetta una lunga tappa. Da Mexican Hat a Mesa Verde e da lì al Grand Canyon.

Mesa Verde.

Martedì 7 giugno. Oggi dobbiamo percorrere 200 km. Per arrivare a Mesa Verde e altri 480 per arrivare sul Grand Canyon. Partiamo abbastanza in orario; percorriamo la US 163 verso nord, passiamo Bluff e poi ci immettiamo sulla SR 262 est. Ci sono dei cartelli non troppo precisi, ma le cittadine che incontriamo ci confermano che la strada è quella. Passiamo Montezuma Creek e Aneth, quindi passiamo il confine con il Colorado e la strada, che è stretta e non tenuta bene, diventa la SR 41. Restiamo in mezzo ad una campagna brulla fino alla giunzione con la US 160 est. Qui ci sono anche macchie di prateria e cavalli al pascolo. Arriviamo a Cortez e ci fermiamo in un bar sulla statale per fare colazione. Entriamo e gli avventori presenti ci guardano con curiosità. Non devono essere abituati a vedere turisti non americani. La cameriera è sveglia e in un batter d’occhi ci serve caffè, latte e quanto ordinato: omelette di tre uova a Lisa e Mau, dolce al cioccolato e panna a Gino, Maria e Tami e la consolidata frittellona “one hot cake” per me. Refill di caffè a volontà. Spendiamo niente, 4,50 $ a testa. Lasciamo volentieri la mancia alla ragazza che ne è felicissima. Riprendiamo sulla US 160 e poi voltiamo a destra sulla SR 10. E’ praticamente la strada del parco, infatti troviamo quasi subito i cartelli e poco più avanti la capanna del ranger. La strada inizia subito a salire e si arrampica sempre più in alto. Ci sono anche dei lavori, ci deve essere stata una frana e un operaio, con un grosso cartello di stop in mano, ci fa rallentare. Finalmente arriviamo sull’altopiano e ci fermiamo al Visitor Center. Prenotiamo la visita guidata al Cliff Palace, il pueblo Anazasi meglio conservato, pagando 16,50 $ per 6 persone. Le escursioni ci sono ogni mezz’ora e fortunatamente c’è da aspettare poco e alle 12 scendiamo accompagnati da una ranger che abbonda di spiegazioni, peccato che solo Mau e Lisa riescono a capire qualcosa. Scendiamo e ci arrampichiamo anche per scale a pioli, il posto è carino, ma sinceramente a tornare indietro, lo avremmo visitato solo se fosse stato sul percorso, non facendo una deviazione come abbiamo fatto, forse avrebbe meritato di più andare a vedere Antelope Canyon e la zona attorno a Page sul Glen Canyon. Comunque alle 14:30 siamo di nuovo in auto e ridiscendiamo la SR 10 per tornare sulla US 160 e proseguire fino al Grand Canyon.

Grand Canyon.

Vi arriveremo dopo 300 miglia da percorrere sulla US 160 ovest, la US 89 sud e la SR 64 est. Le strade sono ottime e ci consentono di arrivare al parco un’ora prima del tramonto. Entriamo dalla East Entrance Station, vicino a Desert View e percorriamo tutta la Desert View Drive, o East Rim Road, fino a Yavapai Point. La strada è larga e incredibilmente ben asfaltata per un parco, ma d’altro canto deve sopportare milioni di visitatori ogni anno. A Yavapai scendiamo dall’auto e fatti pochi metri ci si presenta uno scenario immenso, con le rocce dentro il canyon che veramente sembrano incendiarsi. Peccato ci sia una leggera foschia. Restiamo lì fin che il sole non è sceso del tutto e poi con l’auto entriamo nel Grand Canyon Village, parcheggiamo proprio di fianco ad un enorme self-service e così decidiamo di cenare prima di andare in albergo. Scegliamo ravioli ripieni (buoni, ma il sugo è da evitare) ed altro per una spesa di 16 $ a testa e poi usciamo dalla South Entrance percorrendo la SR 64 fino a Tusayan. Nei cui pressi prendiamo alloggio al Best Western Grand Canyon Squire Inn. L’albergo è molto bello, suddiviso in lodge, con un bel negozio che ha i prezzi più bassi di quello del sel-service, belle camere e c’è pure la prima colazione compresa. Mercoledì 8 giugno. Oggi ci dedicheremo a fare escursioni e visita del Gand Canyon. Per prima cosa andiamo all’eliporto della Papillon, a mezzo miglio a sud dall’albergo, per prenotare un giro in elicottero. Paghiamo 130 $ tasse e sursage fuell compresi a testa per il volo breve e dopo averci pesato per distribuire i pesi sull’elicottero, ci dicono che la partenza è alle 11:30, ma alle 11 dobbiamo essere lì per le istruzioni. Sono le 9:30 e così decidiamo di andare al Grand View Point, sul East Rim, visto che il pomeriggio lo dedicheremo tutto al West Rim ed anche qui la vista abbraccia qualcosa di immenso. Torniamo in perfetto orario all’eliporto e le istruzioni si limitano ad un breve filmato, tanto che partiamo in anticipo. Il volo è un’emozione, primo perché nessuno di noi ha mai volato in elicottero, secondo perché vedere il Colarado River sotto di noi e quello che ha fatto in milioni di anni, toglie il fiato.

Dopo l’atterraggio (perfetto), ti fanno passare da un bazar dove sono esposte le foto che ti scattano prima della partenza. Sono carissime, vogliono 20 $; tra l’altro appena scesi dall’elicottero ve le potete far scattare con la vostra macchina fotografica dal ragazzo che vi viene a prendere. Andiamo a Tusayan in un supermercato a comprare cibarie per mangiare al sacco senza perdere tempo. Torniamo al Village e parcheggiamo vicino al Bright Angel Trailhead, dove c’ è il capolinea del bus navetta che percorre tutta la West Rim che è chiusa al traffico privato.

Ci sono 3 linee di navette, rossa, verde e blu che transitano ogni 15 minuti. La rossa in 75 minuti percorre la West Rim fino a Hermits Rest; parte dal Bright Angel Trailhead e ferma in tutti i punti panoramici fino a Hermits Rest che è il capolinea; tornando indietro fa solo 2 fermate: a Mohave e Hopi Point.- La linea blu collega solo i vari luoghi del Village e porta alle coincidenze delle linee rossa e verde.- La verde in 30 minuti percorre un tratto della East Rim Drive e ferma a Pipe Creek Vista, Yaki Point e South Kaibab Trailhead, punto di partenza dell’omonimo sentiero che scende nel canyon fino al Colorado River. A Yaki e a South Kaibab si arriva solo con la navetta.

Mangiamo in un posto attrezzato, con tavolo, fontanelle e servizi igienici incredibilmente puliti. Terminato scendiamo un breve tratto del Bright Angel Trailhead, per un mezzo chilometro, tanto da vedere come il sentiero scenda in stretti tornanti fino al fiume un migliaio di metri più in basso e una carovana di muli risalire per tale sentiero. Ci sarebbe piaciuto fare l’escursione con i muli, ma motivi di sicurezza, li danno solo a chi parla l’inglese “fluente”, altrimenti potrebbero non capire gli ordini e ci sono precipizi da far paura. Risaliamo e prendiamo la prima navetta. Abbiamo deciso di scendere a tutte le fermate osservando ogni Point e scegliendo quello che a nostro avviso, potrà essere il più bello al tramonto. Così raggiungiamo Maricopa Point, Hopi Point, Mohave Point, The Abyss, Pima Point e Hermits Rest. A Mohave Point notiamo degli scoiattoli e ci fermiamo ad osservarli e visto che non sembrano per niente spaventati, cominciamo a dargli da mangiare dei pezzetti di biscotto. Non si potrebbe e non si deve fare, ma avere quegli animaletti che si arrampicano sulle gambe e che prendono il cibo dalle mani affondando il musino nel palmo, è qualcosa che non ci fa resistere e rischiamo, perché se ci vedesse un ranger ci farebbe una multa.

Arrivati ad Heremits Rest tutti si fermano allo snack bar. Solo io scendo per un mezzo miglio il Hermit Trailhead, ma diventa sempre più ripido in discesa e così, pensando che devo poi risalire, torno indietro.

Mentre aspettiamo la navetta per tornare a Mohave Point, dove aspetteremo il tramonto, vediamo una cerva intenta a brucare i fiori di una pianta grassa. Purtroppo poco prima del tramonto, il sole scompare dietro ad una nuvola bassa sull’orizzonte e non ci viene regalato lo spettacolo dell’incendiarsi dei costoni alla nostra destra che scendono fino al Colorado River. Prendiamo l’ultima navetta utile e ripresa l’auto torniamo in albergo. Per cenare scegliamo un ristorante a Tusayan. E’ una steakhouse molto folcroristica, con camerieri vestiti da cow-boy, con tanto di cappellone. Prendiamo una “cow steak”, non è buona come quella di Buck Steakhose, ma ci portano anche le pannocchie lesse, tutto in tema. Paghiamo 23 $ a testa e torniamo in albergo. Domani abbiamo 840 chilometri da fare.

Anaheim (Disneyland).

Giovedì 9 giugno. Ieri abbiamo provato di nuovo a telefonare can la famosa scheda presa al Pier 39 di San Francisco dalla camera dell’albergo e siamo riusciti tranquillamente, dopo aver preso la linea esterna, a farlo. Due telefonate. Ci aspettiamo quindi di pagare qualcosa al ceck-out; invece non dobbiamo niente e gentilmente si incaricano anche di impostarci un pacchetto di cartoline che abbiamo scritto e che arriveranno sollecitamente. Oggi percorreremo la SR 64 sud, per poi immetterci sulla I – 40 ovest. Faremo una breve deviazione sulla Old Route 66 (molto ben segnalata, basta seguire i cartelli), fino a Seligman, per riprendere subito dopo la I – 40 e di seguito la I – 15 sud. Arrivati ai primi sobborghi dell’immenso agglomerato di Los Angeles (in realtà sono diverse contee), lasceremo le Interstate per immetterci sulla SR 60 ovest Ponoma Freeway e poi sulla SR 57 sud Orange Freeway e da li cercare l’Hotel Hilton di Anaheim. Il tutto per un totale di oltre 500 miglia, cioè 850 km.

Seligman è un villaggio di poche case sui due lati della SR 66 che vive esclusivamente per il turismo. Però fa tanto “On The Road” e non potevamo non passarci e sentirci per un attimo compagni di Jack Kerouac. Per essere pratici, però, non fateci benzina, è carissima, vi fanno pagare l’atmosfera. Per fortuna ne abbiamo. Le Intestate sono veramente ok; ci permettono di viaggiare spediti, con le solite 4/5 miglia oltre i limiti, 75 sulla 40 e 70 sulla 15. Attraversano il deserto del Mjave in un paesaggio arido e completamente disabitato per centinaia di miglia. Fra l’altro ci sono diverse basi militari, non si vede niente, ma sulla carta sono riportate. Ci fermiamo ad una stazione di servizio e per farlo dobbiamo uscire dall’ Interstate, non è come da noi che sono sulla strada, ci sono raccordi per uscire e per rientrare. È da tener presente che non ce ne sono molte, in 300 miglia ne avremo trovate tre. Troviamo la benzina a 2,28 $ e una specie di Mc Donalds. Mangiamo un panino e ripartiamo.

Sulla I – 15 troviamo anche una frontiera, vera, con veri doganieri. Al confine tra Arizona e California. Fanno aprire il portabagagli a tutti e controllano tutti i camion. Gli dico che siamo turisti italiani, chissà come, però ha effetto perché con un “Ok, ok”, ci fa cenno di proseguire. Sulla SR 60 e sulla SR 57 il traffico si fa prima intenso e poi caotico. Si viaggia su Freeway da 6 a 10 corsie per senso di marcia. Occhio a non sbagliare corsia e a non perdere i cartelli (messi bene e abbondanti) perché qui si può sorpassare sia a destra che a sinistra e nessuno rispetta i limiti di velocità. Comunque riusciamo tranquillamente ad arrivare all’albergo. Abbiamo impiegato meno del previsto, poco più di 8 ore. Lasciamo l’auto ai valet (qui i parcheggi sono come a Las Vegas, solo che si paga, anche se un terzo di rispetto a San Francisco, 13 $ a notte) e saliamo in camera. Dalle finestre si vedono le montagne russe di Disneyland.

Ceniamo in un ristorantino vicino all’hotel, sulla South Arbor Boulevard, io ordino una steak and chiken e mi portano un piatto con la carne ricoperta di una specie di caramellato immangiabile. Mangio solo il pollo ed i contorni, è la prima volta che mi allontano dalla classica New York steak e ho fatto male. Spendiamo sui 20 $ torniamo in albergo.

Venerdi 10 giugno. Dormiamo un po’ di più e alle 10 ci avviamo verso il parco di Disneyland a piedi, ma comincia a piovere, così torniamo indietro e prendiamo l’auto, cosa che ci costerà 30 $ tondi tondi, il massimo che si può pagare nei parcheggi Disney. E c’è anche la presa in giro, perché appena parcheggiato esce fuori un timido sole che nel proseguio della giornata diventerà implaccabile.

Comunque alle 11:00 siamo dentro. I parchi sono 2, Dysneyland vera e propria, parco a tema e California Adventure, parco con i thrills, le attrazioni da “paura”. Paghiamo 73 $ per l’accesso ad entrambi e cominciamo dal secondo. Andiamo diretti alle montagne russe “California Screamin” e scopriamo che si possono fare i fast-pass, cioè inserendo il biglietto di ingresso in alcune macchinette, ti viene rilasciato un tagliando dove c’è indicata un’ora, dalle…, alle… dove presentando appunto tale tagliando, non fai la fila. Naturalmente lo facciamo e dopo ci mettiamo in fila, così fatto il primo giro, risaliremo subito.

Cioè le faremo 5 volte, sono fantastiche. Quelle di Las Vegas sono quisquiglia, in confronto. Queste hanno un’accelerazione alla partenza pazzesca, ti sale lo stomaco in gola e sono lunghissime. Tra un fast-pass e l’altro ci incastra di salire su Maliboomer, un launch straight up, come quello sulla torre dello Stratosphere a Las Vegas, ma là l’emozione era più forte, si era già a 350 metri di altezza… Poi attacchiamo “The Tower Of Terror”, un thrill che simula il precipitare di un ascensore: fantastico, ti senti sollevare dal sedile tanta è la velocità. Anche qui 3 giri grazie ai fast-pass. Facciamo un giro con tanto di foto con Pippo e Pluto che incontriamo per strada. Mangiamo da un Mc Donald per meno di 6 $ e poi le “Grizzly River Run”, una specie di rafting artificiale da cui usciamo bagnati fradici eccetto io che mi ero messo il k-way e pensare che mi prendevano in giro. Meno male che il sole picchia.

Usciamo dal California Adventure e entriamo nel parco a tema. Siamo proprio sfortunati, un altro “closed”, le “Space Mountain” in manutenzione. Così ci mettiamo a girovagare e ci infiliamo in un bazar dove perdiamo un sacco di tempo a scegliere magliette e orecchi di Topolino. Il parco è immenso e non riusciamo a vedere tutto, perché alle 19:30 la gente è già appostata ai lati della strada che va dal castello di “Fantasyland” a quello di “It’s a small world” dove si svolge la sfilata dei carri illuminati e se vuoi essere in prima fila conviene mettersi seduti sul marciapiede e aspettare. La sfilata, per me, non è niente di particolare, Tami ne è entusiasta. Invece sono fantastici i fuochi artificiali che fanno poco dopo le 21. Belli, i più belli che abbia mai visto e sono stato anche a Pamplona per San Firmino (la corsa dei tori), con il campionato europeo di fuochi artificiali. Ma qui c’è anche la musica, perfettamente coordinata con gli scoppi e le cascate di luce. Uno spettacolo. Ceniamo in una pizzeria pseudo italiana nella downtawn di Disneyland, fuori dai parchi. Locale carino, pizza buona, prezzo equo. Riprendiamo l’auto e percorriamo il mezzo miglio che ci separa dall’albergo.

Las Vegas: Hollywood.

Sabato 11 giugno. Ci svegliamo e troviamo sotto la porta il conto del parcheggio, 26 $ per 2 giorni. Sbrighiamo prestissimo il ceck-out, il valet ci riporta l’auto e via, verso Hollywood.

Percorriamo la I – 5 nord Santa Ana Freeway e la US 101 nord Hollywood Freeway ed il traffico è pazzesco. Dopo 35 miglia usciamo dalla 101 sulla Hollywood Boulevard e, forse perché sono solo le 10 di mattina, è tristissima. Comunque parcheggiamo in un sotterraneo vicino al Mann’s Chinese Theater (dove le star lasciano impronte e firma sul cemento) e lì ci facciamo le foto di rito. Idem per le stelle con i nomi dei personaggi famosi della “Walk of Fame”; perdiamo più di mezz’ora per trovare la stella con il nome di Merilin Mnroe e poi riprendiamo l’auto spendendo solo 2 $ per recarci in un punto da cui si veda la famosa scritta, “The Sign” HOLLYWOOD. Ci perdiamo e impieghiamo quasi un’ora per poterla intravedere da una strada. Ci accontentiamo di fotografarla da lontano. Beverly Hills.

Lasciamo Hollywood per Beverly Hills e ci fermiamo per prima cosa all’ Hard Rock Caffè di cui Lisa colleziona le magliette. Mangiamo al vicino Beverly Center. Io, Tami Gino e Maria ci avventuriamo in un self-service che ha nel menu penne alla siciliana con pollo. Forse è la fame, sono le 2 del pomeriggio, ma non sono male e spendiamo solo 8,50 $. Ci rechiamo, quindi, in Rodeo Drive. Parcheggiamo vicino ad un parchimetro e mi diverto ad infilare le monetine. Qui l’atmosfera è di tutt’altro tipo che in Hollywood Boulevard. Piena di gente e di traffico, composto per lo più da Mercedes, BMW, qualche Ferrari e roba del genere, la strada è carinissima. Tenuta bene, con le tipiche palme, ospita negozi delle griffe più famose; Armani, Ferre, Cartier e qunt’altro. Two Rodeo Drive poi è veramente una bomboniera.

Mau e Lisa invece si infilano nel Nike Town lì vicino e comprano un altro paio di scarpe. In effetti, sia perché costano meno, sia per effetto del cambio, vengono un po’ meno della metà che in Italia. Da Rodeo Drive prendiamo la SR 2 Santa Monica Boulevard, la I – 405 sud e poi la I – 10 west per finire sulla SR 1 e trovarci così di fronte all’Oceano Pacifico. Il traffico è notevole, ma arriviamo attorno alle 16:00, così c’è il tempo di mettersi il costume e scendere sulla spiaggia. Parcheggiamo 1 ora per 2 $ e attenti: ci sono come degli spunzoni che si piegano solo da una parte, se si pensa di fare i furbi e uscire in senso sbagliato, addio gomme. C’è l’Ocean Front Walk con chi pattina e le bici, una sfilzata di campi da beach volley e la fila di palme… Insomma come nei film. Arrivo all’acqua ed è sporca, nonché freddino, così rinuncio a fare il bagno, ma non a farmi una foto con il Baywach sulla classica torretta. E’ molto gentile e ci fa salire con ampi gesti e sorrisi. Saliamo non prima di aver sciacquato i piedi in secchio pieno d’acqua per non portare la sabbia sulla torretta. Riprendiamo l’auto e percorrendo la SR 1 verso sud, passiamo Venice e dall’omonima boulevard, riprendiamo la I – 405 e arriviamo all’ Hilton Airport. Anche qui parcheggio a pagamento 13 $. Decidiamo per il self parking e poi ci sistemiamo nelle camere.

Nella zona dell’albergo, vicinissimo all’aereoporto, non c’è niente, così riprendiamo la Dodge e ripercorriamo la 1 verso Venice. Mentre andiamo, con la coda dell’occhio, vedo un’insegna con scritto “Italy’s Little Kicten”. Faccio fermare Mau che sta guidando e la indoviniamo; Menu scritto in italiano, anche se il personale è americano e il cuoco mezzo cinese e portoricano. Bruschetta con vero olio d’oliva e aceto balsamico, con pane tipo il nostro di campagna arrostito. E poi 3 linguine agli scampi e 3 ravioli all’aragosta; 24 $ spesi bene. Facciamo mezzanotte e torniamo in hotel.

Domenica 12 giugno. Sveglia con calma. Oggi si riparte per l’Italia. Sono le 10 e abbiamo l’aereo alle 16:20. Così torniamo sull’oceano per visitare Venice che ieri abbiamo solo intravisto. Giriamo un po’ per trovare parcheggio, è domenica e c’è molta gente. Ma non è tempo buttato, perché girando appena al di là della SR 1, c’è tutta una serie di villettine basse di legno, dipinte di colori pastello, con la staccionata bassa e il giardino davanti. Le strade che formano degli isolati rettangolari e una quiete incredibile. Addirittura una fila di anatroccoli ci traversa la strada con tutta calma costringendoci a fermarci e diversi scoiattoli sono sui prati dei giardini. C’è anche una svendita di roba vecchia davanti ad una villetta; chissà se hanno ripulito la soffitta come fa Paperino. Sembra di essere in una cittadina del middle west, anziché a Los Angeles. Troviamo il parcheggio e ci accorgiamo che la domenica non fanno pagare, almeno lì dove abbiamo messo l’auto noi. Venice è molto carina, anche sull’Ocean Front Walk. Ci sono molti ristorantini e negozi di souvenirs. E poi la palestra sulla spiaggia e una serie di attrezzature per fare sport, compreso una specie di tennis come da noi a Livorno il calcetto nei gabbioni. Persone che corrono, che pattinano e che vanno in bici non si contano. Visto che poi mangeremo in aereo (sic), decidiamo di tornare al ristorante italiano della sera prima, anche perché ci hanno assicurato che alle 11 aprivano e noi massimo a mezzogiorno dobbiamo mangiare. Troviamo aperto e incrociamo i piatti: quelli che avevano mangiato le linguine prendono i ravioli e viceversa. Ci riconoscono e sono molto gentili, ci fanno anche porzioni più abbondanti e il refill delle bibite in contenitori come usavano una volta nelle nostre osterie. Spendiamo anche meno, 18 $ a testa.

Avevamo già caricato i bagagli, così andiamo diretti alla Alamo e riconsegniamo l’auto, con pochissime, anzi nessuna, formalità. Pensare che eravamo un po’ preoccupati perché avevamo rovesciato un intero bicchiere di coca-cola sulla moquette e questa si era letteralmente corrosa. Prendiamo la navetta (fanno un servizio efficientissimo, una ogni 2 / 3 minuti) e arriviamo all’aereoporto di Los Angeles. Facciamo un po’ di casino perché ci infiliamo in una fila sbagliata, ma niente di drammatico. Capiamo solo dopo che i bagagli al ceck-in non vanno sul nastro trasportatore come in ogni altro aeroporto, ma vengono riconsegnati e un addetto accompagna i singoli, o i gruppi, con i bagagli alla macchina dei raggi x. Ci imbarchiamo regolarmente, dopo i normali controlli, neppure troppo severi e il volo LH 453 della Lufthansa decolla in perfetto orario. Così come da Monaco per Pisa. Anche se per effetto del fuso orario, perdiamo un giorno e così arriviamo il 13.

FINE.

Abbiamo percorso 3.294 miglia con l’auto, quasi 4.800 chilometri; all’incirca la stessa distanza che c’è da Livorno a New York. Abbiamo consumato 140 galloni di benzina pari a 530 liti, pagandola mediamente 2, 31 $ al gallone e cioè 0,61 $ al litro, pari a poco più di 50 centesimi di Euro e facendo circa 9 km. Al litro.

Abbiamo scattato complessivamente attorno alle 3.000 foto fra digitali e con rullino. Siamo passati da 86 metri sotto il livello del mare ai 3.100 metri di Bryce Canyon nel punto più alto e dai 46 gradi centigradi nella Death Valley, ai meno 2 con tanto di nevicata. Abbiamo traversato il niente (come diceva Lisa), centinaia di miglia senza un villaggio, nemmeno una stazione di servizio e il caos cittadino di metropoli, anche con 16 milioni di abitanti.

È stato un viaggio faticoso, ma ne è valsa la pena, oltre ad essere un viaggio, è un’esperienza di vita. Io poi ho realizzato un sogno nato quando a 7/8 anni leggevo i primi Tex e cominciavo a parteggiare per gli indiani. Un solo cruccio, avrei voluto conoscere un po’ la lingua per poter socializzare con la gente del posto, che da quel che ho potuto vedere non aspetta altro che poter comunicare.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche