Otranto e dintorni, cinque giorni nel Salento

Emozioni, colori e sapori di una bellissima terra. Otranto, il punto più a oriente d'Italia. Storia e paesaggi...
Scritto da: Gio C
otranto e dintorni, cinque giorni nel salento
Partenza il: 27/08/2011
Ritorno il: 03/09/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
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“Se non ci fosse stata la pietra leccese, non ci sarebbe stato il barocco leccese”. Comincio da qui. Da queste parole con cui Annamaria, la guida convenzionata con la Otranto Card per la guida della città, ha finito di illustrarci la visita. In quel momento mi si e’ accesa una luce. Ho guardato dentro di me. Ed ho scoperto di avere un’anima in pietra leccese. Capace di essere “lavorata” da quell’insieme di luci e colori, emozioni e sapori, storie e luoghi, che solo il Salento riesce a regalare. Fino al punto di plasmare, nell’anima, appunto, un percorso di incisioni e ritagli, di bizzarri ghirigori che al termine del viaggio ti consegnano un cambiamento, o, meglio un rinnovamento, talmente profondo che fai fatica a ricercare, in te medesimo, la stessa persona dell’arrivo.

“Pietra ed Acqua”, così potrei intitolare la raccolta fotografica delle immagini catturate in questa settimana salentina. Arte e natura, staticità e movimento, pietra che segna storia e confini, pietra che racconta, pietra che emoziona ai colori del tramonto, pietra duttile ma eterna, e poi acqua, acqua che va e acqua che ritorna, disegna le coste, forza tranquilla che nasconde la bufera, acqua che scava la pietra, che l’accompagna e riflette….

Primo Giorno: Otranto

Mi perdo nel caldo del mattino tra i vicoli della città. Risalgo verso la Basilica, c’è poca gente, la luce e’ quella giusta. C’è silenzio intorno, chiusi i locali, appena aperte le ante di qualche boutique per turisti. Sale lo sguardo alla Torre campanaria, staccata dalla chiesa, punto di avvistamento dall’alto della citta’. La Basilica e’ dedicata ai Martiri di Otranto. 800 coraggiosi, che pur di conservare la dignità della loro fede, preferiscono essere decapitati dal comandante turco. Le teste e il resto delle ossa sono conservati al termine della navata di destra. Anche la pietra usata per la macabra esecuzione. La storia non può lasciare indifferenti, anche perché la resistenza all’assedio da parte degli abitanti della citta’, decimati dall’invasione, impedì all’esercito invasore di risalire l’intera Puglia come era nei programmi. Alessandra e’ affascinata dal racconto, come me non conosceva questa storia, per un attimo immaginiamo la citta’ in preda all’orda degli invasori, le porte violate, i bambini trafitti, le donne violentate. Il mosaico che fa da pavimento e’ lo stesso che calpestarono i turchi, lo stesso fu bagnato dal sangue del massacro di bambini e donne incinte. Usciamo fuori a prendere aria. C’e’ un po’ di salita e arriviamo al Castello. Praticamente una fortezza militare, costruita dopo la cacciata dei Turchi insieme al rinnovato sistema difensivo, all’avanguardia finalmente tra le citta’ italiane, per tenere Otranto al riparo da un eventuale ritorno dei turchi. Alessandra si siede sul muretto, io resto al suo fianco, mentre guardiamo il ponte di legno che sovrasta Porta a mare. Sono contento che sia venuta con me. Che il racconto di questa vacanza, reale, possa finalmente vederci insieme, dopo il racconto del sogno e della vacanza immaginata. Ora e’ qui, seduta sul muretto, ha lasciato cadere i sandali e oscilla con le gambe. “Fa veramente caldo” mi dice. Camminiamo lungo il perimetro delle mura della citta’, appena sotto la casa di Carmelo Bene, le case bianche di fronte a noi brillano e riflettono nel mare turchese e trasparente. Sembra il miraggio di una citta’ orientale che arriva e si rileva al nostro sguardo, o forse siamo noi, che senza attraversare il mare, siamo arrivati in Oriente. Il colore del cielo, i tetti delle case. Si, Otranto e’ la Porta d’Oriente, o forse e’ anche altro. Anche oltre. E’ già Oriente. E’ il mistero del mare, che unisce e divide. Di fronte si vede l’Albania, oltre la foschia.

Il Lungomare degli Eroi riflette nel candore della sua pietra il monumento agli 800 decapitati del 1480. Torniamo verso l’albergo, fa veramente caldo, stamattina. Aspettiamo fiduciosi che col tramonto rinfreschi. Ci rechiamo alla Baia dei Turchi, ci hanno raccontato che e’ una delle spiagge più belle della zona. Parcheggio sterminato, ma per fortuna e’ fine stagione e fine giornata, troviamo posto, ma paghiamo il prezzo intero anche se la giornata volge alla fine. La pineta che ci divide dal mare e’ fitta ed affollata. Ci deve essere l’abitudine di ritrovarsi per un pic nic, li’, dove il profumo degli alberi si confonde alla salsedine, e all’odore, ancora, di mirto, di liquirizia e finocchietto selvatico. Piccoli sentieri scendono verso le spiagge, dove rocciose, dove alte scogliere, dove passaggi strettissimi tanto che cominciamo a pensare al rischio di perderci, la sera incombe. Alle spalle un sole di un rosso animalesco, ci illumina il passaggio. Finalmente scendiamo sulla spiaggia bramata e soprattutto cercata, tra il dedalo di sentieri. Sabbia fine ed acqua cristallina, ma la sensazione e’ che le file di ombrelloni e l’azione erosiva del mare abbiano modificato il profilo della baia, così come l’avevamo vista disegnata nella foto esposta lungo le mura della citta’. C’e’ ancora tempo per un salto al lago di Alimini. E’ ormai sera. Le luci dei lidi si riflettono nell’acqua, proprio dove il dolce del lago si mischia al salato del mare. L’acqua è calda, passeggiamo scalzi e al buio fino alle dune. “Sono contento che alla fine tu abbia deciso di venire”, dico ad Alessandra. ” Però avresti potuto chiedermelo direttamente, senza mettere quello strano avviso su Facebook” mi risponde “Ci sono rimasta molto male, di questa cosa”.

Secondo Giorno

Mi sveglia il raggio di sole che arriva sul cuscino. L’aria condizionata concilia il riposo, evita le agitazioni notturne causate dal caldo troppo forte. La provincia di Lecce ha la forma di un ventaglio con cui abbraccia l’estremo lembo della Puglia. Il manico nel capoluogo e poi giù, un dedalo di strade, statali, comunali, quelle sterrate delimitate dai muretti a secco da cui puoi affacciarti negli uliveti secolari, nel loro paesaggio di terre rosse. I nomi dei paesi hanno un afflato musicale, Vernole, Cannole, Lequile, Patu’, persino uno come Sgarbi, con cui mai mi sono trovato d’accordo, ebbe a sottolineare questo aspetto. Alessandra non è in camera, probabilmente, in silenzio per non svegliarmi è scesa a fare colazione. Il tempo di una doccia e il telefono mi segnala con uno squillo l’arrivo di un Mms: la foto di una cupola orientaleggiante ed un messaggio di Alessandra: Sono Qui. Scendo nella hall, la temperatura è prossima allo zero assoluto, sfoglio uno dei numerosi testi con le foto del Salento e trovo la conferma della mia intuizione: la foto è stata scattata a Santa Cesarea Terme. Il tempo di uscire dal paese, imboccare la litoranea a costeggiare l’Adriatico. Il paesaggio si fa aspro e brullo, ogni tanto qualche masseria trasformata in azienda agrituristica, poi il sistema radaristico di difesa nazionale sul punto più orientale della penisola, puntuali, ogni quattro chilometri le torre di avvistamento, parte integrante con il loro sistema di segnalazione di fumo e fuochi dell’operazione, oggi diremmo così, “Mamma li turchi”. Una breve sosta a Porto Badisco: il posto merita un servizio fotografico ed anche un lungo bagno defaticante, mi riprometto di tornarci. Secondo la leggenda è il punto di approdo di Enea nel suo viaggio verso l’Italia. Alessandra mi aspetta di fronte all’ingresso delle terme di Santa Cesarea. “Sono uscita all’alba, ho visto nascere il sole proprio dietro la Torre del Serpe” (La torre è il simbolo di Otranto, il nome è legato a un’antica leggenda che racconta di un serpente che ogni notte saliva dalla scogliera per bere l’olio che teneva accesa la lanterna del faro). “Ma come ci sei arrivata fino a qui?” “In autostop, vieni ti mostro Villa Sticchi”, mi dice correndo in avanti, “non si può visitare l’interno, ma a me mi hanno fatto entrare: la villa è veramente bella, anche se i colori sono un po’ sbiaditi. L’edificio venne edificato per volontà di Giovanni Pasca, primo concessionario dello sfruttamento termale di Santa Cesarea, tra il 1894 e il 1900. Perfetto connubio tra influenza islamica e utilizzo della pietra leccese.

Riprendiamo il viaggio verso sud, tra marine e torri, attraversiamo Castro, la marina di Marittima e di Tricase, ci fermiamo a Ponte Ciolo. I colori dei teli da bagno disposti in riva al fiordo sono il soggetto ideale per una foto dall’alto, in contrasto con i colori verde-azzurro dell’acqua, che dalle parti della grotta, si tinge di un blu molto carico. Scendiamo la scaletta, fin quasi alla spiaggia. Dall’alto dei costoni, o del bastione di cemento c’è una fila di ragazzi e di ragazze, anche bambini, che si tuffano da una decina di metri d’altezza. “Voglio tuffarmi anche io” dice Alessandra. Ci fermiamo per un bagno a Santa Maria di Leuca. Ormai i parchimetri si saranno passati la voce, non c’è posto in cui non ci siamo fermati in cui non abbiamo versato l’obolo per tenere ferma la nostra macchina. Nuoto nel mare dove l”Adriatico si unisce allo Ionio, è calmo e trasparente, eppure sento che è terra di vento e schiuma, di onde e mareggiate. Sopra c’è il Faro, e dietro il Santuario. De Finibus Terris. Lì finisce la terra, lì comincia il mare. “Sono serena, vorrei rimanere per sempre qui” dice Alessandra, “tutto il resto mi sembra lontano, tutto è fermo, non sento neanche lo scorrere dei pensieri. Però tu potresti anche smetterla di mandare questi messaggi ai tuoi amici di Facebook”. Risaliamo lo Ionio giusto il tempo di trovare uno spazio per goderci un tramonto. Pescoluse, i ricordi di una vacanza di tanto tempo fa. La spiaggia consumata dal mare, anche qui, ma le dune ci sono ancora, è il posto della caccia all’oca, del racconto iniziale. Sarebbe il caso di fare un bagno completamente nudi, come accadde allora. Il sole ci inganna, anziché tramontare nel mare, si sposta oltre le dune. Ci armiamo di macchine fotografiche e saliamo anche noi fin sulla cima delle dune. Non vogliamo perderci neanche un momento di quest’altro tramonto bestiale. Infine il ritorno, che si è fatto buio. Attraversiamo decine di paesi dell’entroterra, che seguire le indicazioni, nel Salento, ricercando la statale, e’ impresa ardua.

Terzo Giorno

Relax al mare. Spiaggia dei due mori. Lunga strada oltre la Pineta dei laghi Alimini, improvvisamente l’omino e il suo banchetto sbarrano la strada. Stavolta niente parchimetro. Si paga e ti indirizza verso un parcheggio circolare. Un cerchio di macchine al centro, un altro cerchio di macchine lungo la circonferenza esterna. Si aspetta la navetta: compare un camion rumoroso, dipinto di giallo, ci si accomoda come i militari sulla tradotta. Strada polverosa, si continua ad attraversare la pineta. Infine lo sbarco, polvere, profumo di mirto e liquerizia. Oltre le dune la spiaggia, bianca e il mare turchese. Nell’acqua il relitto di un natante ormai arrugginito. Strisce nere colorano la sabbia, è una caratteristica della spiaggia, forse il motivo del nome. Effetti di un minerale. Ore di nuoto e riposo. Puntata a Conca Specchiulla, caletta nascosta da un’alta parete rocciosa. Per arrivarci ancora chilometri di pineta. E quando sbuchiamo sulla costa ancora pericolo di sbagliare direzione. La scaletta di pietra morbida ci porta giù. C’è ancora luce. L’acqua è calda e invitante. Solo le mie bracciate nel silenzio del tramonto. Otranto di sera è un gioiello. E’ fine agosto, la confusione tende a scemare. Le luci riflettono nel mare e la citta’ si tinge di giallo. Ripercorro le strade, man mano che si spopolano di voci e turisti. E’ un modo per sentirla meglio, il calore delle mura, il vento che si alza, poco, dall’acqua, la luce del motoscafo lontano. Alessandra, parla al telefono. Si agita. “Mio figlio”, dice. ” Non sapevo avessi un figlio” le rispondo. In effetti non sappiamo niente. Mi accompagna in questo viaggio, ma potrebbe essere chiunque, io non chiedo, lei a tratti appare triste. “Stasera voglio fare un bagno in piscina” mi dice. E’ bella la piscina dell’albergo, le luci tutt’intorno cambiano colore. Ci bagniamo sotto il cielo stellato. Non manca molto al mattino.

Quarto giorno

Salento coast to coast. Oggi si passa per Maglie, e da Otranto abbiamo deciso di arrivare fino a Gallipoli. Dall’Adriatico allo Ionio. Le strade a scorrimento veloce sono sempre dei lunghi rettilinei, mentre Alessandra guida io mi soffermo sulle indicazioni stradali, è frequente notare dei segnali discordanti che fanno a botte con la logica: Gallipoli, Km 44. Dopo aver svoltato all’incrocio, appena poche centinaia di metri dopo, un nuovo cartello: Gallipoli, Km 20. E così aspettiamo di imbatterci nel terzo, perché solo allora sapremo, o almeno crederemo di conoscere, l’esatta distanza dalla città. Durante il viaggio di arrivo per un po’, in prossimità di Lecce, abbiamo percorso un tratto di strada parallelo alla linea ferroviaria. Mi è sembrato di vederlo, a bordo del treno che ci superava, quel me stesso di tanti anni fa: avevo giusto la metà degli anni di adesso, ed arrivato a quel punto del viaggio, mi piaceva metter la testa fuori dal finestrino, e lasciarmi affascinare da quel paesaggio, masserie e muretti a secco, terra rossa e cielo azzurro, uliveti sterminati e secolari, radicati alla terra che forse ancora si ricordavano dell’arrivo dei Turchi.

“Stasera però io non vengo a trovare la tua amica” mi dice Alessandra, svegliandomi dallo stupore, che oltre due decine di anni dopo ancora mi aveva assalito tra quelle terre. “Ti lascio la macchina, ci vediamo domani”. “Va bene, ma se vuoi possiamo trovare una scusa e non ci andiamo”. “Adesso non crederai mica che sia gelosa!” mi risponde ridendo. “Ho un appuntamento a Lecce, ci vediamo domani nel pomeriggio, puoi raggiungermi”.

Il mercato del pesce non è molto affollato, ci sono una mezza decina di banchi stracolmi di pesce fresco. Due ragazzi aprono i ricci di mare e con un coltellino cercano di conservare in un barattolo quel pizzico di frutto arancione che riescono ad estrarre. La stagione non è la migliore dell’anno per gustarli a pieno. C’è un banchetto che serve aperitivi di mare, ci informano che il servizio funziona la sera, ma che per noi possono fare un’eccezione. Scegliamo due ostriche, sei vongole veraci, qualche gambero, almeno un paio di capesante a testa. Ce le aprono e preparano sul vassoio, insieme ad un limone e ad un panino. E’ la prima volta che assaggiamo del pesce crudo, anche se sono solo dei molluschi o, meglio dei frutti di mare. Ma l’idea del sushi gallipolino è troppo bella. Ne faccio un messaggio per gli amici di Facebook. Alessandra non è contenta di questa cosa, eppure, penso, se fosse rimasta a casa, le sarebbe piaciuto leggere questa sintesi messaggiata del mio viaggio. Forse abbiamo esagerato, alla fine un poco ci disgusta, ma i primi assaggi sono stati davvero saporiti.

Entriamo nella parte vecchia della città. Era una città davvero molto ricca Gallipoli. Nel 1600 ogni giorno salpavano dal porto decine e decine di bastimenti carichi di olio lampante, fino alle città del Nord Europa, perché l’illuminazione pubblica funzionava solo grazie a questo oro verde di cui la città salentina era una delle pochissime produttrici. L’olio di Gallipoli era quotato alla Borsa di Londra. Eppure di contro alla ricchezza delle migliori famiglie gallipoline, allo sfarzo dei loro palazzi, gran parte dei quali oggi trasformati in resort o bed&breakfast, esisteva una umanità, come sempre, il cui sacrificio e il cui sfruttamento poteva permettere la ricchezza delle famiglie più agiate. Ce lo spiegano durante la visita ai frantoi ipogei: scavati nella roccia umida al di sotto di ciascun palazzo cittadino, potevano funzionare solo grazie al lavoro continuo ed ininterrotto di animali ivi bendati e di giovani uomini che vi rimanevano rinchiusi per la maggior parte dell’anno, giorno e notte, senza poter mai uscire, resi appena calmi da tisane a base di camomilla e semi di papavero. Passeggiamo tra le strade di Gallipoli e fotografiamo palazzi, capitelli e portoni, vecchie tinte ormai sbiadite ma ancora segno di un fasto passato. Eppure la nostra mente per un poco rimane nei frantoi, accanto a quei ragazzi che continuamente spostavano da un lato all’altro della piccola e buia stanza, quintali di olive, di pasta madre e di pasta figlia, per la prima e la seconda pressatura ammalandosi agli occhi per la poca luce e alle ossa per la notevole umidità del posto.

Nardò alle due di pomeriggio è proprio vuota. Ma credo che rimanga tale anche nelle ore piu’ favorevoli del mattino o del tardo pomeriggio. E’ lontana dalla costa, ci devi andare a bella posta, anche se la ricchezza delle chiese, almeno quella delle facciate, merita senz’altro una visita. Sono tante le chiese di Nardò: la Chiesa dedicata a Santa Maria de Nerito, la Chiesa di San Domenico la Chiesa del Carmine, la Chiesa di S. Antonio da Padova, la Chiesa della Purità, la Chiesa di San Cosimo, e poi le cappelle e le infinite edicole votive. Arriviamo in Piazza Salandra: un cartello ci avverte che siamo nella più bella piazza barocca del Sud Italia. Ci dicono che si tratta del salotto di Nardò, per via dell’arredamento architettonico a dimensione d’uomo e dell’equilibrio delle dimensioni. Sulla piazza si affacciano il Teatro Comunale, la Guglia dell’Immacolata realizzata nel 1769, in carparo giallastro, in puro stile barocco, il Palazzo Municipale, la Torre dell’Orologio, costruita nel 1598; la Fontana del Toro, costruita negli anni ’30, la Chiesa di San Trifone e, infine, il sedile, realizzato nel cinquecento con tre statue, la centrale del santo protettore, San Gregorio Armeno e le due laterali di Sant’Antonio da Padova e San Michele Arcangelo. Il tempo sembra sospeso sotto il cielo grigio. Una tromba d’aria, ci diranno, pochi momenti prima è passata per le campagne del paese. Ma in Piazza Salandra non arriva neanche un soffio di vento. Soltanto due auto parcheggiate nei pressi della guglia, mi rendono difficili le fotografie del complesso architettonico. “Fermati un attimo e goditi qualche momento di vacanza”, mi urla Alessandra dalla panchina, “ stai guardando tutto attraverso l’occhio della macchina fotografica, siediti e rilassati”.

Raggiungiamo la stazione.“ Ti spiegherò domani”, mi dice Alessandra prima che salga sul treno. “Salutami la tua amica e scusami ancora”. “Ma sai già dove dormire?”, “Ci sono ottimi alberghi in centro, non siamo in alta stagione, sarà facile trovare posto. Ci sentiamo domani”.

Appena entro in Rivabella chiamo al cellulare la mia amica. Risponde che mi vede, mi sono fermato proprio davanti casa sua. Esce, scendo dalla macchina e ci abbracciamo. E’ una vita che non ricevo un abbraccio così forte. Non ci vediamo da un anno. Abbiamo cose da raccontarci, lei sa molto di me, io so molto di lei. Nonostante la distanza. Poi nuotiamo contro sole, continuando a parlare e ad ascoltare. Infine il sole, selvaggiamente, tramonta. I pini arrivano fin sopra la sabbia. E’ già l’ora di risalutarsi, con un altro abbraccio che toglie il respiro. Non mi giro neanche a salutarla ancora. Sono commosso.

Quinto Giorno

La piscina dell’albergo è molto tranquilla. C’è poca gente, con l’inizio di settembre sono andati via quasi tutti. Restano un paio di bambini, qualche mamma, una nonna, un’orca marina in plastica, gonfiabile, che la corrente sposta da un lato all’altro della vasca. Un piccolo gruppetto di signore parla una lingua che non riesco a identificare. Alla fine concludo: sono polacche o slovacche. L’acqua è della temperatura giusta, passo la mattinata leggendo e nuotando. Il cielo è azzurro, ogni tanto mi diverto a definire il profilo delle nuvole, a dare un senso alle loro forme. L’appuntamento con Alessandra è per le cinque di pomeriggio, in Piazza Sant’Oronzo a Lecce. Ai tavolini della Pasticceria Alvino, mi ha detto, appena sopra l’anfiteatro.

Fa caldo. Lei non è ancora arrivata, ordino un aperitivo. E’ chiusa al traffico la piazza, la statua del Santo domina dall’alto, tutt’intorno parte il dedalo di viuzze del centro storico, la Lecce antica di Santa Croce, di Piazza Duomo, di Porta Napoli e Porta Rudiae. Alessandra arriva dal lato opposto della piazza, la vedo comparire di fronte a me, appena supera l’angolo del muro che da’ sull’anfiteatro.

Mi alzo, le sistemo la sedia. Le verso da bere. “Spero non ti sia annoiato, stamattina” mi dice. “Tutt’altro, mi sono riposato, sono rimasto in piscina tutto il giorno”. Lei: “oggi ha fatto veramente caldo, puoi versarmi ancora dell’acqua?”.

La guardo, mi piacerebbe chiederle cosa avesse avuto da fare di così urgente a Lecce, come mai un appuntamento in un posto così lontano dalla sua Milano. Ma è lei che ha voglia di raccontarmi, prima ancora che trovi il coraggio per una domanda. “Ti dicevo di mio figlio, l’altro giorno. Non vive con me. Me lo hanno tolto, vive con i nonni paterni. Lo sento solo per telefono e posso andare a trovarlo ogni due settimane, ma solo in presenza dell’assistente sociale” mi dice. “Sto seguendo un percorso di recupero e disintossicazione, stamattina avevo preso un appuntamento al Sert di Lecce, per delle medicine, capisci, vero? Credo che manchi poco. E’ l’unica possibilità di riavere con me il bambino”. E’ serena, molto piu’ serena dei giorni precedenti. Forse è proprio l’effetto delle medicine, forse l’idea che presto avrebbe potuto riavere il bambino. Non dico molto. Rimaniamo seduti qualche altro minuto. Finché si alza: “Dai, andiamo, se vuoi fotografare il Duomo questa è l’ora migliore.

Il cielo è di un azzurro carico che forse ho visto solo in due posti del mondo. Uno è Assuan, in Egitto. Le luci e le ombre della pietra leccese assumono una tonalità di giallo caldissimo che rasserena e coinvolge. Restiamo fermi davanti alla Chiesa di Santa Croce, cercando di interpretare e fotografare ogni intaglio, ogni figura, ogni particolare di quello stile barocco che continua nell’adiacente Convento dei Celestini. “Tutto diverso dal convento dei Teatini”, dice la guida che illustra il monumento ad un gruppo di turisti; “se quelli preferivano le linee geometriche e spoglie, qui troviamo una ricchezza di particolari e un’abbondanza di rifiniture…”. Lungo le strade si cominciano ad esporre tavolini ed insegne di menu, dai locali si alzano motivi e musiche che, penso, nulla hanno a che vedere con quei luoghi. Presto tutte le principali strade saranno piene di tavoli e sgabelli, conservo un ricordo di quei luoghi che mi fanno detestare questa abbondanza di locali, d’altro lato senza le loro luci, i loro odori, le loro musiche e i piano bar, penso che la città sarebbe stata consegnata esclusivamente a gruppi di turisti, veloci e distratti, e di sera sarebbe semplicemente rimasta avvolta nel silenzio, così come la ricordavo io. Rimaniamo fino alle undici di sera, girando per vicoli e strade, quali affollate quali deserte, usciamo da Porta Rudiae e rientriamo da Porta Napoli, in piazza Duomo fotografiamo cattedrale, campanile e seminario, poi facciamo un salto nella Lecce moderna, fino a Piazza Mazzini, cerchiamo i ristoranti che oltre venti anni prima mi accoglievano, quotidianamente, per la cena, in compagnia di amici e colleghi persi di vista. Respiro un po’ l’atmosfera del protagonista di Nuovo Cinema Paradiso, al ritorno nella piazza del cinema del suo paese, quando mi trovo davanti all’insegna del ristorante a cui ero piu’ affezionato: “Vendesi”, ”Chiuso”… i cartelli affissi alla porta. Mangiamo uno yoghurt ai frutti di bosco, poi ne prendiamo un secondo. Torniamo a Otranto.

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