Nord America… Pacific Northwest

Da San Francisco a Vancouver e ritorno
Scritto da: stramaury
nord america... pacific northwest
Partenza il: 06/08/2010
Ritorno il: 29/08/2010
Viaggiatori: 5
Spesa: 3000 €

6 agosto: andata – Milano – Londra – New York – San Francisco

Atterriamo che è tarda serata sulla costa ovest degli States, e la vacanza inizia con i saluti: a Karen, arrivata un paio d’ore prima da Parigi e che completa il nostro quintetto; a I&M, che hanno volato con noi ma che nelle settimane successive seguiranno un itinerario del tutto diverso: loro a sud, noi a nord. Le rivedremo un mese dopo in ufficio.

7-12 agosto: Oregon Coast

Dedicheremo i primi giorni di vacanza al tratto costiero che unisce San Francisco allo Stato di Washington, attraversando quindi la porzione settentrionale della costa californiana e l’intera costa dell’Oregon, famosa come percorso panoramico piuttosto affascinante. Lungo il tragitto, che in parte si sviluppa nell’immediato entroterra, si alternano spiagge, boschi di sequoie, costiere a picco sull’oceano, paesini balneari e una decina di fari. Le strade 1 e 101 combaciano con la maggior parte del percorso.

L’albergo è vicino all’aeroporto, e infatti dopo qualche ora di sonno siamo di nuovo al terminal per ritirare l’auto. Anziché il Durango prenotato ci danno un Chevrolet Tahoe: ancora più grosso e ignorante e americano di quanto desiderassimo. La scusa ufficiale di noi ragazzi è che serve una macchina spaziosa per i bagagli di cinque persone, la realtà è che il nostro ego non sarebbe gratificato da una semplice berlina. Incastriamo le valigie; ci sta tutto, per la verità decisamente al pelo. Io al volante, a fianco a me Alex; dietro Lisa, Karen e Pasta. Si parte.

Aggiriamo il centro di San Francisco, attraversiamo con sorriso da orecchio a orecchio il Golden Gate ed iniziamo la nostra risalita californiana verso la Oregon Coast. Il primo giorno è monopolizzato da strade panoramiche: begli scorci e scorrimento lento. La sera si dorme a Point Arena in un motel assai zozzo.

Alle 5 del mattino Pasta ed io, sballati dal fuso e perplessi per le svariate macchie su qualunque tessuto – lenzuola, moquette, poltrone – della nostra camera, ci aggiriamo a piedi nel buio e nella nebbia di questo paesino piccolo così alla ricerca di non si sa cosa. Troviamo una scuola di yoga. Psichedelia. L’alba ci riporta alla realtà e la giornata ci riserva soddisfazioni. Maciniamo chilometri verso il nord della California. Deviamo per il Chandelier Tree, che è una sequoia secolare in cui hanno scavato una galleria: Pasta riesce a farci passare al mm il Tahoe, applausi per lui. Bando ai passatempi frivoli, dedichiamo le ore centrali all’Avenue of the Giants, una strada panoramica parallela alla 101 che si snoda per 52 km nei bellissimi boschi di sequoie dell’Humboldt Redwoods State Park. Qualche pausa nei punti prestabiliti, trail poco impegnativi, alcuni belli altri meno. Proseguiamo fino a Trinidad, dove dopo vari tentativi troviamo un posto per dormire.

Al mattino ci dedichiamo al Fern Canyon: tempo nuvoloso, qualche km di strada sterrata per arrivarci (con tanto di guadi, ma non serve per forza un suv), camminata nel canyon umido e verdeggiante (carino) che fa un po’ Jurassic Park, e poi di nuovo su per la costa. Alex la butta lì: “Bagno nell’oceano?”. Parcheggio, costume, corsa, tuffo, acqua gelida, asciugamano; si riparte. Ciao California, entriamo in Oregon. Ci fermiamo in un visitor center dove facciamo il pieno di utili varie brochure. Tappa pomeridiana in spiaggia, nel frattempo è uscito il sole, bella luce, bella spiaggia, bel panorama; ma non fa caldo. Quando arriviamo al primo degli svariati fari che punteggiano l’Oregon Coast, è già chiuso da un po’, c’è un vento assurdo, ma la vista è notevole. Stasera ci fermiamo a Bandon, che è un paesino turistico semplice e niente male.

Ci svegliamo ancora con il cielo nuvoloso, trascorriamo un’oretta in spiaggia a vedere le tide pool con stelle marine (arancioni e viola) ed anemoni di mare. Bello. Tutti in macchina, continuiamo la nostra risalita; ogni tanto ci imbattiamo in uno dei caratteristici fari. Siamo nella zona delle Oregon Dunes, che è un tratto di costa caratterizzato da colline sabbiose, e come consigliato dal Visitor Center ci fermiamo a vederle. È uscito un bel sole, decidiamo di seguire il tragitto pedonale ad anello: discesa dalla duna, andata lungo la spiaggia (molto bella), ritorno sulle dune più interne. Alla fine siamo dei rottami, non abbiamo il fisico e camminare sulla sabbia sottilissima è piuttosto faticoso, ma siamo parecchio soddisfatti. Rimontiamo in auto e puntiamo verso Newport, il tempo però si guasta in fretta, cala una fitta nebbia quindi lungo il tragitto ci perdiamo in successione la vista dei leoni marini nei pressi del Sea Lions Cave e gli scorci verso l’Heceta Lighthouse e Cape Perpetua.

La giornata successiva è più sobria, senza infamia e senza lode, e le nuvole sono più stabili del solito: faro di Newport, Three Capes Scenic Loop, pausa a Cannon Beach – paese fighetto un po’ stucchevole per quanto è ordinato ma molto piacevole – e salita sulla torre in cima alla collina di Astoria. Colpo d’occhio sulla città e sul lungo lungo ponte che unisce Oregon e Washington: una mezz’ora e lo attraversiamo, diretti ad Hoquiam, dove arriviamo in serata saltando a piè pari Long Peninsula e Ocean Shores. Una bella dormita sancisce la fine della prima parte del viaggio e l’ingresso nel terzo Stato Federale di questa vacanza.

12-14 agosto: Olympic Peninsula

Giù la maschera: se siamo qui è per vedere dove vivono Bella ed Edward di Twilight, e magari fare una foto abbracciati alle loro versioni cartonate. Quindi puntiamo verso l’Olympic Peninsula, punta nordoccidentale degli States, Alaska escluso. Terra di vampiri e fenomeni letterari, trattasi inoltre di parco naturale che mette insieme affacci sull’oceano ed un entroterra montuoso coperto dalla vegetazione rigogliosa della foresta pluviale. Tanto per cambiare iniziamo la giornata macinando chilometri verso nord. Prima tappa: Lake Quinault, con passeggiata. Nel pomeriggio ci dedichiamo alle barbe degli alberi, effetto dell’umidità della zona che fa proliferare i muschi sulle piante in quantità tali che questi penzolano copiosi dai rami; la barbe in effetti ci sono, ma in pieno agosto sono asciuttissime perdendo gran parte del loro fascino bagnato apprezzato in fotografia con suggestioni stile Signore degli Anelli. Ripieghiamo su alcune delle tante spiagge della costa occidentale dell’Olympic sotto un cielo decisamente grigio. Fascino plumbeo. Riproviamo con altre barbe, ma ci va male anche questa volta: nebbia ed umidità stazionano sulla costa, invece nell’entroterra è vera ed asciutta estate. E le barbe un po’ ne risentono, virando verso il giallo. Raggiungiamo finalmente Forks, dimora di Bella ed Edward. Lo ammettiamo, in realtà ignoravamo la loro esistenza, ed i due eroi letterari si vendicano risentiti. Prima avvolgendoci nella nebbia più fitta, che ci impedisce di vedere tutto ciò che ci circonda. Quindi con un ritrovo di fan della saga, che in questi giorni invadono Forks in massa e così non si trova una camera nemmeno se si hanno veri canini a punta. Raggiungiamo in tarda serata la città di Port Angeles. L’andamento zigzagante del Tahoe induce una pattuglia di guardie doganali a farci accostare: forse si aspettano di trovare al volante Bella ubriaca, invece sono quattro italiani ed una francese che non riescono a raggiungere il loro B&B. Mi chiedo di quanto sarà la multa ed invece divertiti e divertenti ci fanno strada fino alla nostra meta. Hai capito le guardie doganali.

Dopo una colazione come si deve, gentilmente preparata dai padroni di casa, andiamo su su lungo una sorta di strada di montagna con corsie dalle proporzioni autostradali per raggiungere Mount Olympus, centro e apice della penisola. In pratica le Alpi. A 8500 km da Torino anziché 100. Comunque bello. Siamo nell’entroterra ed ovviamente c’è il sole che spacca. Apprezziamo il panorama sull’arco alpino tarocco. Rimandiamo il trekking alla prossima gita a Gressoney. Seguono opportune ore di svacco sul Lake Crescent, con tanto di bagno e pennica sul pontile. Concludiamo con una breve passeggiata tra boschi e cascate. Passata la nuttata a Sequim, oggi si viaggia; direzione: Vancouver. Quella canadese. Tempi morti per il traghetto, quindi chilometri verso nord sotto un bel sole che ci fa apprezzare i paesaggi di questo braccio di mare dalla forma tormentata e punteggiato di isole, senza il tempo, a malincuore, per deviare sull’arcipelago delle San Juan.

15-16 agosto: Vancouver

Culmine settentrionale del viaggio. Se ne dice bene, anche se ne sappiamo davvero poco, nell’inverno precedente ha ospitato le Olimpiadi invernali seguendo di quattro anni la nostra Torino. Quindi l’operazione di visibilità turistica post grande evento con noi ha funzionato. Vedremo. Nessun problema alla dogana, a metà pomeriggio siamo in ostello. Piazzare il Tahoe non è elementare, è la prima volta che lo dobbiamo gestire in una grande città. Ma già che c’è ne approfittiamo per un giro in auto giusto per farci un’idea. Quindi assaggio a piedi del centro, anche by night, poi a nanna. Oggi si gira a piedi, con più metodo. Ancora la zona centrale tutta bella precisa, chinatown con il giardino zen (o forse non zen), lo struscio affollato nelle vie, la salita sulla torre dell’Harbour Centre per la visuale dall’alto sulla penisola su cui sorge il centro di Vancouver. Scesi e data un’occhiata scettica alla torcia olimpica, percorriamo l’affaccio a mare nord in tarda mattinata e quello sud nel primo pomeriggio, il tutto sotto un bel sole. Svacchiamo un’oretta sul parco costiero meridionale. Pasta fa il bagno. Raggiungiamo Granville Island con una barchetta e rientriamo in centro a piedi lungo l’omonimo Bridge (camminata turisticamente evitabile). Riflessione: l’affaccio a nord fa la sua bella figura con il parco costiero tutto ordinato e i palazzoni recentissimi e quindi scintillanti, l’affaccio sud è un monito con i suoi edifici che se erano scintillanti 30-40 anni fa oggi mettono un po’ tristezza: finirà così anche l’altro lato? Chiudiamo la giornata con la risalita serale sulla torre per la visuale notturna sulla città. On the road again. Giusto il tempo per un’ultima passeggiata mattutina per le vie centrali – ancora con un bel sole – e poi via con la discesa verso sud e gli States, chiudendo qui il nostro cameo canadese.

16-18 agosto: Seattle

Altra tappa urbana della vacanza, subito in coda a Vancouver. Anche se la conosco poco o nulla, Seattle mi incuriosisce fin da bambino, colpa o merito di una cartolina ricevuta nella quale a fianco dei grattacieli spiccava una costruzione vagamente marziana. Tenace suggestione visiva. Finalmente è il momento togliersi la soddisfazione e vedere questa città famosa ma non troppo, e sicuramente un po’ sulle sue. Rientrare negli Stati Uniti è più lungo e complicato del previsto, soprattutto ripensando all’esperienza snellamente vissuta due giorni prima in direzione opposta. Coda al confine, controlli rigidi e lenti. Portiamo pazienza. Siamo a Seattle a metà pomeriggio. Ostello, parcheggio, passeggiata per farci un’idea. Luci ed ombre, per ora, forse è un po’ decadente. La sopraelevata urbana è ecomostruosa. Ci dormiamo su.

Quando ci svegliamo ci aspetta la prima e unica giornata da dedicarle integralmente. Camminiamo e usiamo i mezzi. Si comincia con lo Space Needle, stramba torre panoramica. Mettiamo il naso anche nel sottostante Music Project di Gehry. Quindi torniamo in centro e camminiamo e camminiamo, con una puntata alla zona del Pike Place Market con palate di venditori e curiosi. Alle 15.00 da bravi turisti facciamo il Sub Seattle Tour nei sotterranei di alcuni isolati del centro. Per finire la giornata ci spostiamo un po’ fuori e sommando bus + camminata raggiungiamo il quartiere di Freemont e quindi il Gas Work Park, a nord del centro dal quale lo divide il Lake Union. Panorama con il lago in primo piano punteggiato di vele bianche e il centro di Seattle sullo sfondo, con grattacieli vari e Space Needle sulla destra leggermente rialzato sulle colline: bello. Serata tranquilla e nanna, da domani si riprende a macinare chilometri.

Usciamo da Seattle puntando sul vicino museo dell’aria: l’ingegnere aerospaziale del gruppo rinuncia alla visita alla sede della Boeing ma almeno questa tappa gliela dobbiamo. Un piacevole paio d’ore tra aerei anteguerra, Concorde e storie di Apollo vari, quindi ripartiamo sul serio per tornare nella natura del Pacific Northwest.

18-20 Agosto: da Seattle a Portland

Difficile incasellare questi giorni. Il clou è il Mount Rainier, una montagnona imponente e a quanto pare affascinantissima, la più caratteristica del nord ovest degli States. Ma noi siamo ancora più di corsa del solito. Ci spostiamo verso sud, circondati dalla natura. Sosta di un paio d’ore su un lago lungo il tragitto. Giungiamo al Mount Rainier nel tardo pomeriggio. Sacrilegio. Così però non possono farmi scarpinare. Pasta e io concordiamo nell’iniziare ad averne abbastanza di alberi. Viva la sincerità. Il panorama montano al tramonto è comunque molto bello. Alle 20 puntiamo il muso del Tahoe verso sud, stasera si dorme di nuovo in Oregon.

Dai monti all’outlet, ci piace variare. In questo Stato non ci sono tasse (facendola sommariamente breve). Quindi lo shopping selvaggio è un po’ un dovere morale e soprattutto molto conveniente. La dieta dei bambini statunitensi fa il resto, per cui un adulto europeo può entrare in una polo XXL per pargoli a stelle e strisce pagandola (Ralph Lauren) 20$, 15€. Diamo (do) sfogo al consumismo al Woodburn Outlet Store, non-luogo assai confondibile con l’analogo nostrano di Serravalle Scrivia, il che è un globalizzante e inquietante tutto dire. Nel primo pomeriggio i miei compagni di viaggio mi trascinano via, mettendo freno gli acquisti compulsivi.

20 agosto: Portland

Città per intenditori, già sentita ma poco conosciuta. Il tempo che prevediamo di dedicarle è proporzionato alla sua fama e alle sue dimensioni: mezza giornata. Parcheggiamo e vaghiamo a caso, a piedi per il centro. Non è una metropoli, ha una dimensione umana che è una novità per essere una città americana comunque di una certa importanza. Almeno tra quelle che ho visto io. Dalla Pioneer Court Square ci spostiamo verso nord alla Jamison Square, che ha una strana fontana-piscina, nel quartiere residenziale di Pearl District che tra l’altro ci piace parecchio. Proseguiamo il nostro giro sul lungo fiume. Sulla riva opposta c’è una pessima sopraelevata che ammazza il panorama. Autobus + scarpinata fino al parco urbano ad ovest del centro al tramonto; lungo la risalita passiamo a fianco dello stadio nel Pge Park dove sta per iniziare una partita di baseball: ci facciamo un pensierino ma poi desistiamo, inanellando l’ennesimo e certamente non ultimo salto della quaglia della vacanza, ma il tempo è tiranno. Quindi birrificio per fare onore alle tradizioni locali. La toccata e fuga ci lascia una bella impressione della città. Sopraelevata a parte.

21-23 agosto: entroterra dell’Oregon

Si torna alla natura. Pasta e io dobbiamo sopportare alberi ancora per un po’, ma teniamo duro e veniamo ricompensati: ci aspetta il quasi deserto. Che non è il deserto rosso che mi fa pensare al sud ovest, ma quello di alcuni western con i cespuglietti e i sassi chiari e giallastri. L’obiettivo principale è il John Day Fossil Bed National Monument, che oltre ad avere un nome lunghissimo è un bel parco con alcuni ambiti clou distanti tra loro qualche decina di chilometri. Essendo quasi deserto in quest’area tra un paesello e l’altro possono esserci mezz’ore di quasi nulla. La giornata inizia in direzione est, lungo la bella strada panoramica che attraversa il Columbia River Gorge costeggiando il fiume. Qualche decina di chilometri ancora nel verde, con sosta a un paio di cascate tra cui le Multnomah Falls che sono affollate di gente come lo stadio della finale dei mondiali, quindi il paesaggio cambia: dal verde al giallo. Cioè sassi ed erba secca. Cioè la versione locale del deserto. Ci voleva. Sul fondo della vallata il Columbia River continua a scorrere ampio e imperterrito, affiancato da binari sui quali passano treni merci chilometrici. Il paesaggio ci affascina parecchio e il sole è con noi. Tra gli scorci migliori visti finora. Nel pomeriggio lasciamo il fiume e percorriamo chilometri e chilometri nella pianura riarsa addentrandoci ulteriormente verso l’interno dell’Oregon; a farci compagnia per un bel pezzo, in lontananza, il Mount Hood con la cima innevata. A fine pomeriggio raggiungiamo la prima delle nostre tre mete previste all’interno del John Day: la Clarno Unit. Bella senza eccessi, con i suoi costoni di roccia che emergono nel paesaggio collinare. Comunque apprezziamo. Siamo arrivati un po’ tardi e il sole tramonta quasi subito; la sosta è breve. Rimontiamo in macchina e puntiamo su Mitchell. Lungo il tragitto guidiamo nel buio del deserto con la paranoia della fauna in strada. Sani e salvi sia noi che gli animali aspiranti suicidi che hanno provato a buttarsi sotto al Tahoe, raggiungiamo l’unico albergo locale che è tanto kitch quanto fokloristico: legno ovunque, telefono a forma di cervo, foto di lupi e di cowboy (ciao Clint), pelle d’orso appesa al muro, e altre amenità di design. Meraviglioso.

La mattinata inizia con il gatto dell’albergo che si mangia un topo tra la porta di ingresso e la nostra macchina. Qualche chilometro a siamo alle Painted Hills, l’attrazione principale del John Day. Sono colline rocciose estremamente fotogeniche. Viste dal vivo sono quasi all’altezza delle aspettative, cioè molto belle e suggestive. Sembrano veramente calate da marte nel contesto circostante che è fatto di colline brulle e secche, molto più consuete. Dedichiamo a quest’area qualche ora, godendoci i panorami (i fossili non ci interessano), quindi rimontiamo in auto, e puntiamo alla terza meta, il Blue Basin nella Sheep Rock Unit. Passeggiata di 2-3 ore in un paesaggio a tratti lunare. Ho ai piedi le tiger che non sono esattamente adatte. Prima di lasciare il John Day ripassiamo a Mitchell per l’ennesima volta, ci siamo affezionati a questo paesello… va a capire perché. Scartiamo l’ipotesi abbozzata per il giorno successivo, cioè di addentrarci ulteriormente verso il centro degli States in direzione Alvord Desert e Steens Mountain per percorrere l’omonima Loop Road, quindi ci spostiamo a sud ovest per la notte.

Dopo la sveglia copriamo i chilometri che ci separano dal Crater Lake. Lo raggiungiamo a metà mattinata. C’è un gran sole, sono ricomparsi gli alberi e davanti a noi lo spettacolo è bellissimo. Cito: “è la cosa più blu che abbia mai visto”. Frase letta prima di partire, forse teatrale, ma assolutamente condivisibile. Lo specchio d’acqua si è formato nel cratere di un vulcano estinto: è molto profondo e ha un perimetro relativamente ridotto. L’effetto conseguente è che in una giornata di sole come oggi il lago prende il colore del cielo e lo rispara al mondo con un’intensità mai vista (da me) in natura. Bellissimo. Gli giriamo attorno a piedi e in macchina per qualche ora. A metà pomeriggio il cielo si copre e quindi facciamo in tempo a vedere il blu del lago che lascia il posto a un grigio molto affascinante, ma che sicuramente non regge il confronto cromatico. Più che soddisfatti rimontiamo in auto e continuiamo la nostra discesa.

La giornata successiva è per molte ore di trasferimento: percorriamo qualche centinaio di chilometri lungo l’interstate 5, rientriamo in California e puntiamo su San Francisco, in anticipo di un giorno rispetto al programma. Visitiamo il campus dell’università di Berkeley dove in questi giorni c’è l’accoglienza matricole, esperienza simpatica.

24-27 agosto: San Francisco

Last days a San Francisco: l’esperienza ci ha insegnato che chiudere in città la vacanza è una buona soluzione per gestire la stanchezza accumulata col girovagare delle settimane precedenti. E in effetti siamo piuttosto cotti. Allora sotto con San Francisco, città che molti descrivono con grande entusiasmo. Iniziamo la mattinata attraversando il Bay Bridge e sfruttiamo le ultime ore di disponibilità del Tahoe per seguire un percorso turistico suggerito per le auto, che ci conduce in vari quartieri cittadini e della periferia. C’è il sole, non è affatto scontato in questa zona che ha un microclima tutto particolare, evvai. Possiamo godere di visuali abbastanza limpide sulla baia, con il Golden Gate e Alcatraz in bella vista. In centro città restiamo a bocca aperta davanti ai pazzeschi saliscendi che il buon Steve affrontava in cinematografica allegria al volante della sua Mustang nera. Al pomeriggio restituiamo il Tahoe, ed entriamo nel più consono ruolo di turisti urbani appiedati. Che a San Francisco significa anche ansimanti e ricchi di acido lattico. Serata al famoso Pier 39 del Fisherman’s Wharf.

Ci sveglia un bel sole, ci è andata bene anche oggi. Giriamo ancora a piedi per il centro e per gli immediati dintorni, saliamo sulla torre di Coit, fotografiamo e percorriamo a piedi i celebri (in foto, più che di nome) tornanti con aiuole fiorite di Lombard Street (ad averci pensato ieri con l’ecomostro a quattro ruote…). Tram. Quartieri vari. Mi rapisce il piccolo giardino di Yerba Buena davanti alla St. Patrick church, dove tanta gente svacca al sole. Troppa grazia, e infatti il mattino dopo è nuvolo. Chissenefrega, volevamo affittare le bici e lo facciamo lo stesso. Seguiamo l’itinerario turistico consigliato dal bike rental. Non siamo allenati e si vede, ma tutto sommato ci si muove bene e le salite basta prenderle al giusto ritmo. Ovviamente non sono le montagne russe del centro perché quelle nemmeno Contador strafatto di doping riuscirebbe a scalarle, ma i saliscendi periferici con pendenze più umane. Iniziamo con il Golden Gate Park dove diamo un’occhiata alle zone gratuite del museo d’arte De Young e di quello di scienze naturali, uscito recentemente dal pennarello verde del buon Renzo Piano. Quindi risaliamo in sella e ci muoviamo lungo la costa nord ovest della penisola, salendo fino al Golden Gate. Lo percorriamo in bici, ed è cosa buona visto che a piedi ci andrebbe non poco tempo, ma non attraversarlo sarebbe un peccato. Andata, ritorno, (senza investire nessuno tra la folla di pedoni) e chiudiamo il giro lungo la costa nord est, per poi rientrare in centro. Mai affittato prima una bici visitando una città, ottima cosa. Ultima sera per Karen, che al mattino seguente riparte per Parigi. La vacanza è comunque agli sgoccioli anche per noi torinesi. Aspettiamo che Alex torni dall’aeroporto e dedichiamo l’ultima mattina a rigirarci con tutta calma il centro. C’è il sole, svacchiamo un po’ a Union Square, ancora un giro da Macy’s, ultimi acquisti, insomma ce la prendiamo comoda. Nel primo pomeriggio recuperiamo i bagagli e salutiamo SF e la costa ovest.

28 agosto: New York

Troppe ore di attesa tra un volo e l’altro per restare in aeroporto. La scampagnata a Manhattan ci sta tutta. Notte in aereo praticamente in bianco. A La Guardia aspettiamo un’oretta che apra il deposito bagagli, quindi con occhiaie da panda prendiamo un taxi per New York per riempire le ore che ci separano dal volo per l’Europa. Prima meta: Guggenheim, che per me è un edificio meraviglioso partorito dalla mente di un genio. La cieca ammirazione deve fare i conti con l’orario di apertura: la porta è sbarrata e ci vorrà un po’ prima che apra. Lisa non è mai stata a NYC, allora improvvisiamo toccate e fuga nei posti più significativi. O meglio che erano piaciuti di più a noi altri tre. Dal Guggenheim attraversiamo a piedi Central Park, quindi in metro dritti filati al Brooklyn Bridge Park che con la sua vista fantastica su Manhattan è l’altro mio must newyorkese, poi Battery Park, Ground Zero, Times Square, Broadway, Flat Iron; alle 15 siamo di nuovo davanti al Guggenheim, finalmente lo vedo con il sole e senza il ponteggio davanti alla facciata, il che compensa il camioncino dei gelati posteggiato davanti all’ingresso e che è un presenza inevitabile nel 90% delle foto. Fine del bignamino yankee, taxi e si torna in aeroporto. Ciao ciao States, voliamo verso casa. In mezzo un’altra notte in aereo e uno scalo troppo lungo al De Gaulle prima del volo verso Torino.

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