Nonostante la Lada ne abbiam fatta di strada
Consigli pratici per due settimane di raid in fuoristrada in Islanda.
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La rima non è tanto per fare il verso a quel programma televisivo di molti anni fa, nel quale i Fratelli Ruggeri ironizzavano sulla società e i consumi dei paesi d’oltre cortina (c’è qualcuno che lo ricorda? Le parole della sigla finale dicevano “sulla strada di Croda, si è fermata la Skoda…”), quanto perché l’incauto noleggio di quella che la rent a car autoctona (www.geysir.is) presentava nientedimeno che come “l’Hammer sovietico” ha seriamente rischiato di compromettere un viaggio preparato, come nelle migliori tradizioni dei soggetti ansiosi e ciò nonostante moderatamente avventurosi, fin nei minimi dettagli. Pubblicità rivelatasi mendace quant’altre mai, ma alternative del resto non ne avevamo: la Lada, le cui prestazioni ci siamo assicurati per tredici giorni versando già a febbraio ben 1.380 sudatissimi euro, era l’unico fuoristrada dalla tariffa avvicinabile, e un fuoristrada, per l’itinerario che avevamo in mente noi, si prospettava come una necessità assoluta. Alla prova dei fatti, poi, molte di quelle strade che avrebbero dovuto essere sterrate sono state nel frattempo – nel frattempo rispetto all’epoca di stampa della cartina stradale e alla guida della Lonely Planet (altra nota dolente…) -sontuosamente asfaltate. Ed è vero che, in quelle rimaste unpaved, le auto normali spesso sfrecciavano superandoci senza problemi. E’ vero anche che gran parte dei turisti avevano noleggiato mostri come Land Cruiser Toyota, Land Rover, Mitsubishi e quant’altro, a costi che dovevano aggirarsi intorno ai duemila euro a settimana. Ma che dire? Il nostro non era il Viaggio della Vita, noi ne facciamo almeno uno all’anno, e il migliaio di euro in più che mi ci sarebbe voluto per un Rav 4 ho preferito lasciarlo da parte per la prossima volta. Così, via con la Lada, che quando ci è stata consegnata a domicilio presso il Keflavik Airport B & B, ha subito provocato in me e mia moglie una sotterranea e inconfessata ondata di scoramento, in quanto: – il rudere aveva già percorso ottantamila sofferti chilometri; – gli specchietti retrovisori esterni, delle dimensioni di lenti da presbite e vanamente avvolti in un triste nastro adesivo grigio, penzolavano dagli sportelli, inanimati come talpe morte; – il cofano, sollevato dall’inserviente della Geysir che evidentemente voleva richiamare la nostra attenzione sulla brillantezza anche visiva del motore, non ne voleva sapere di richiudersi, e ci sono volute un paio di sue martellate ben assestate (“russian shit!”); – il pavimento dell’abitacolo era cosparso di pezzi della plastica staccatasi dai comandi e dai già non pregevoli rivestimenti interni: manopole del sedile “ribaltabile”, del finestrino e pedale dell’acceleratore, più varie parti in plastica che nostro figlio, esperto montatore di puzzle, per tutto il viaggio ha vanamente cercato di far combaciare con qualcosa. Solo in corso di viaggio avremmo scoperto che, inoltre: – il clacson non funzionava; – nemmeno l’indicatore della benzina funzionava, e oscillava da un’incombente riserva a un livello molto prossimo al pieno; – il motore era rumorosissimo, e lasciava filtrare nell’abitacolo puzzolenti e soffocanti miasmi di gas combusti; – la funzionalità del sedile anteriore (era una tre porte), apparsa subito precaria, era assicurata unicamente da una graffetta opportunamente collocata nei sofisticati meccanismi di ribaltamento del sedile medesimo: inutile dire che l’espediente ha retto solo per qualche giorno; – avremmo passato più tempo a riempire il serbatoio della benzina (BENZINA, non gasolio!) che il nostro stomaco; – l’illuminazione del cruscotto e dell’abitacolo era assicurata da luci cimiteriali e catacombali; – il faro anteriore destro funzionava solamente se risvegliato, di tanto in tanto, con un calcio di moderata potenza; – last but not the least, l’auto sbandava spesso e volentieri sugli sterrati, e questa è una cosa che – a nostro modesto avviso – un fuoristrada degno di questo nome non dovrebbe proprio fare. Però, ecco: sono qui a raccontarla, quindi segno che è andato tutto bene, e abbiamo potuto percorrere i nostri 3.600 e passa chilometri senza eccessivi problemi. Questo è avvenuto non solo perché alla fine abbiamo imparato a controsterzare sugli sterrati, e deciso di concentrarci unicamente sulle meraviglie (perché di autentiche meraviglie si tratta) del paese, ma anche perché, sostanzialmente, la tanto vituperata Lada non ci ha tradito. Se ne ho parlato in maniera così diffusa è solo per dare qualche consiglio e avvertimento di tipo “automobilistico”. In Islanda le auto a noleggio costano in maniera esagerata; in cambio, al contrario di quanto avviene negli altri Paesi del mondo in cui ho avuto modo di guidare, nei quali le auto vengono sfruttate per venti o trentamila chilometri e poi vendute ai privati a prezzi convenienti, in Islanda sembra che accada esattamente il contrario, nel senso che viene il dubbio che le compagnie di autonoleggio acquistino auto usate. Durante il nostro itinerario abbiamo avuto modo di parlare con altri viaggiatori che si sono trovati al volante di vetture con ben 165.000 chilometri sul groppone. Come ovviare al problema? Per esempio perdendo più tempo possibile per trovare l’occasione migliore. Se tornassimo indietro, molto probabilmente noi preferiremmo spendere qualcosa in più presso un noleggiatore internazionale (Hertz, Avis o roba simile), e lo dico a malincuore. In Islanda l’autonoleggio sarà sicuramente la voce più importante del costo complessivo del viaggio, e rimanere per strada in certe remote contrade dei fiordi occidentali o orientali (per non parlare dell’interno, dove noi non siamo stati) penso che sia peggio che nel Nevada, o in Sudafrica o nella Darwin – Uluru in Australia. Soprattutto NON vi fate consegnare l’auto in albergo; recatevi VOI all’autonoleggio a ritirarla, per poter verificare cosa intendano affibbiarvi ed essere inflessibili nel caso in cui si tratti di un rudere. Anche all’itinerario, probabilmente, apporteremmo qualche lieve modifica. Condizionati dall’aver acquistato già a novembre dello scorso anno il volo Bologna – Reykjavik a/r della Iceland Express (ottimo, e non solo per il costo vantaggioso – € 850 per tre persone), che viene attualmente effettuato solo in estate e solo al lunedì. Sei giorni ci sono sembrati troppo poco, e diciannove troppi. Abbiamo quindi optato per le due settimane dal 9 al 23 agosto, e in tredici giorni effettivi non poteva starci proprio tutto. Dal momento che nella guida Lonely Planet si dicono meraviglie della regione dei Fiordi dell’Ovest, abbiamo sacrificato in loro nome l’Askja e soprattutto la regione del Landmannalaugar. Adesso probabilmente faremmo il contrario, oppure – ancora meglio – ridurremmo il tempo dedicato ai fiordi orientali. Intendiamoci: visitati in condizioni di tempo ottimali, intendendosi per tali un bel tempo stabile o variabile o, all’estremo opposto, un nordico cattivo tempo “deciso”, probabilmente la regione manterrebbe tutte le sue promesse. Tra un paio d’anni al massimo, poi, le strade principali saranno interamente asfaltate (e questo nell’interesse degli abitanti, non dei turisti), e i pro saranno allora decisamente superiori ai contro. Noi, però, ci siamo trovati a spostarci tra Patreksfjörður, Ísafjordur e Holmavik sotto un cielo bianco lattiginoso (che, da un punto di vista fotografico e anche psicologico è il peggiore che possa capitare), tra torreggianti e monotone montagne che alla lunga incupivano, su aspri sterrati, per poi arrivare a fare una sosta o a concludere la giornata in villaggi di poche centinaia di abitanti, la più vivace dei quali è stata Ísafjordur, che la guida della Lonely definisce “una vivace e cosmopolita cittadina” (sic!). E guardate che io non sono certo uno che ama la mondanità della Costa Azzurra, il Carnevale di Rio o l’Oktoberfest. Il mio sogno irrealizzato è uno stage estivo come aiutante del guardiano di un faro in Scozia o in Bretagna (sono i migliori). Certo, nel Westfjordur i chiaroscuri e i contrasti sono sontuosi, certi scorci magnifici, e la luce, quando c’è, è quella che solo alle latitudini estreme si può “assaporare”. Anche i villaggi deserti sento che mi sono rimasti dentro. Però, di fronte a certe foto del Landmannalaugar, mi chiedo se non sarebbe stato meglio qualche passo in più e qualche chilometro in meno. Tutto qui. D’accordo, per la maggior parte delle persone normali, osservare gli uccelli non è particolarmente divertente, e anche personalmente trovo molto più affascinanti i felini. Però uno come me, dopo averli ripetutamente mancati in passato nei luoghi deputati all’avvistamento, alla fine questi pulcinella di mare vorrebbe anche riuscire a vederli. In Islanda dovevano essercene a milioni, ma tutto quello che noi siamo riusciti a fare è stato di riuscire a inquadrarli con il teleobiettivo il secondo giorno, puntini neri col becco arancione che galleggiavano al largo della spiaggia di Dyrhòlaehy. Poco male: la guida assicurava che in posti come Latrabjarg ce ne sono quattro milioni di esemplari, abituati alla presenza dell’uomo, che quindi si lasciano fotografare anche a distanza ravvicinata, e che magari, tanti come sono, non chiedono di meglio che scambiare due parole con qualcuno che non sia un uccello. Quello che dovrebbe sottolinearsi meglio, magari, è che i puffins (nome britannico dei pulcinella) sono animali i cui ritmi biologici sono regolati da una puntualità elvetica, e che se la Lonely dice che fraternizzano con l’uomo “da metà giugno a metà agosto”, significa letteralmente che se a Latrabjarg ci andate la mattina del sedici non ne trovate più uno. Solo se avrete fortuna potrete beccarne – è proprio il caso di dirlo – qualche esemplare ritardatario che evidentemente, sentendosi più pulcinella che puffin (absit iniuria verbis), se la prende comoda. Così è successo a noi, che a Latrabjarg ci siamo stati addirittura il 17, mentre una nostra vicina di casa, che c’è stata l’11 perché ha fatto il nostro stesso giro ma in senso orario, pare abbia realizzato un intero servizio fotografico (puffins di fronte e di profilo, puffins col pesce in bocca, famiglie intere di puffins, puffins in primo piano e puffins in formazione). Quindi regolatevi di conseguenza. Se poi vi interessa sapere dove vadano a finire queste bestie dopo la mezzanotte del giorno di Ferragosto, chiedete ad altri che io non lo so. Non alle due fricchettone che hanno scritto la guida della Lonely, perché neanche loro lo dicono. Le due fricchettone americane, appunto (sempre che la colpa sia loro, e gli errori e le incongruenze non dipendano invece dagli “emendamenti” conseguenti alla traduzione in italiano). A volte danno decisamente l’impressione aver scritto quella guida senza esserci nemmeno state, in Islanda – non dappertutto, almeno, visto il modo in cui palesemente confondono un villaggio con un altro, o forniscono indicazioni superficiali sullo stato di una strada, o si entusiasmano sulle atmosfere di certi villaggi che solo i fumi di qualche sostanza allucinogena può indurre a descrivere come, che so, vivaci e cosmopoliti. Tuttavia, dal momento che il linguaggio della Lonely l’ho ormai assimilato, vorrei soffermarmi un po’ sulle cose DA NON PERDERE: la tappa da Skogar a Hofn è da sindrome di Stendhal naturalistica: i cacciatori di paesaggi la sera stenteranno a prendere sonno. Da non perdere neanche la zona del Lago Myvatn (non tanto per il lago in sé, quanto per l’area geotermale di Hekla e di Krafla, nonché per la Laguna Blu, che a me è piaciuta più di quella più famosa presso Reykjavik), la penisola di Snæfellsnes, specie il versante sud e magari facendo base a Stykkishólmur. Per i fiordi dell’Ovest vale quanto ampiamente detto sopra, mentre per quelli dell’est la cosa migliore sono la cittadina di Seydisfjordur e i valichi per Seydisfjordur stessa e per Neskaupstaður. Temo che anche il Landmannalaugar vada classificato come imperdibile. Poco da segnalare per i B&B. Sono pulitissimi, ma i proprietari in genere poco espansivi e le camere piuttosto anguste e disadorne. “E chi se ne frega”, direte voi: sono perfettamente d’accordo. Quelle con bagno costano in genere un buon 30% in più. Noi ci siamo regolati prendendone una metà col bagno e un’altra senza. Scelta azzeccata, perché spesso ci è accaduto che gli unici occupanti eravamo noi, e quindi il bagno personale lo abbiamo avuto ugualmente. La particolarità, rispetto ai B & B americani, irlandesi o…sudafricani, è che difficilmente entrerete nelle case dove vivono gli islandesi, perché le camere da affittare sono generalmente – almeno per quanto abbiamo potuto verificare noi – collocate in abitazioni separate (bungalows o intere case che siano). Va sottolineato altresì che sia gran parte degli Edda Hotels (hotel nel periodo estivo e scuole per il resto dell’anno) che delle guesthouses concedono sistemazioni di vario genere, che vanno dalla combinazione con sacco a pelo in dormitorio all’aggiunta di un “extra mattress not made up” in camera privata, ideale per chi ha bambini. La più completa è quella “made up” (cioè con biancheria in uso) in camera con bagno privato, laddove disponibile. Penso che di quelle dove abbiamo soggiornato noi valga la pena di segnalare solo: – i bungalow dell’Edda Hotel di Vik (http://hoteledda.is/en/hotels/hotel-edda-v%C3%ADk), per la collocazione scenografica; – la Guesthouse Steinhusid (http://steinhusid.vefir.net)di Holmavik (camere letteralmente anguste, ma è un’antica casa in legno ottocentesca perfettamente restaurata, con cucina superattrezzata e un bel soggiorno. La proprietaria, però, ci è subito stata un po’ sulle scatole; – La Guesthouse Mjóeyri (http://www.mjoeyri.is/) a Eskifjörður, nei fiordi orientali, che dispone di cinque ottimi e superattrezzati bungalow, e la cui proprietaria, apparentemente fredda, è invece molto disponibile. Se ci andate, portatele i saluti degli italiani a cui si era scaricata la batteria della Lada verde (anche se resta da capire come mai, lei che si era accorta che avevamo lasciato i fari accesi per buona parte della notte, non ci abbia avvertiti: forse la riservatezza del popolo scandinavo si spinge fino a questi eccessi?). A Reykjavik, altamente consigliabile evitare il Central Apartments: è TROPPO centrale! Per risparmiare qualcosa sulle pazzesche tariffe richieste per soggiornare nella capitale, avevamo pagato in anticipo i 103 euro per la notte, e quando siamo arrivati abbiamo scoperto che, dopo due settimane trascorse nei silenzi subartici, avremmo dovuto pernottare all’esatto centro geometrico di un triangolo alle cui estremità si tenevano altrettanti concerti rock (c.d. Eventi culturali) e i cui lati erano disseminati di bancarelle dove fumigavano carni arrostite di animali vari, corpi di ballo underground, uomini sui trampoli, ubriachi e, tragico a dirsi, MIMI! C’era perfino quello che si esibiva nel numero della parete invisibile!!! Un po’ provinciali, indubbiamente. Abbiamo resistito finché abbiamo potuto, poi ce ne siamo andati a dormire altrove, lasciando in beneficenza i nostri centotre euro e augurandoci un loro utilizzo per scopi sanitari. La mattina dopo, nella capitale tirava tutta un’altra aria. Pioveva. Fabio Cerretani – oblomov2@tele2.it (ultimo romanzo pubblicato: “La nostalgia languida dell’ombra”, Ilisso, 2009) P.s.: Una sorpresa: non si mangia affatto male. E’ che si spende molto. Meglio organizzarsi da soli, almeno qualche volta, avendo cura di scegliere guesthouses con uso di cucina (anche personale) e portandosi provviste da casa. Link utili: – Per l’autonoleggio: http://www.visitreykjavik.is/desktopdefault.aspx/tabid-10/12_view-77/ – Per l’itinerario: http://www.visitreykjavik.is/desktopdefault.aspx/tabid-10/12_view-77/ – Per il cambio valuta: http://www.oanda.com/lang/it/currency/converter/ – http://www.snaefellsnes.is/ensk_main.html