NICARAGUA – COSTA RICA – PANAMA’ di Prima Parte
Domani mattina, finalmente, un volo della Delta Airlines ci porterà in Centro America. Prima tappa: Nicaragua.
Sono ormai mesi che prepariamo questo viaggio. Domani, dopo uno scalo intermedio ad Atlanta, arriveremo a Managua e da lì subito a Granada, la Gran Sultana, primo passo di un cammino lungo tre settimane che ci porterà a scivolare verso sud, attraversando il Costa Rica fino a Panama, su quella sottile striscia di terra stretta tra due oceani che unisce il Nord America e il Sud America. Quella sottile striscia di terra che, se la guardi sul mappamondo, sembra un picciuolo a cui è attaccato un grosso frutto succoso, un nastrino di raso da cui pende una variopinta decorazione di Natale, un filo di lana che si dipana da un fitto gomitolo aggrovigliato.
Siamo pronti a srotolare la nostra storia, la nostra avventura. E intanto, questa notte, dormiremo un sonno senza sogni. Il sogno, è così, inizia domani.
10.8 Milano – Atlanta – Granada Quando arriviamo a Malpensa, una sorpresa poco piacevole ci accoglie: il nostro volo per Atlanta è in ritardo di un’ora e, contando che negli USA originariamente avremmo avuto “solo” due ore e trenta per prendere la coincidenza diretta a Managua passando per la famigerata immigration statunitense, un po’ di preoccupazione ci assale.
Ma decidiamo di non darci peso, andrà come deve andare.
E infatti il volo scorre liscio, un occhio distratto ma costante alla velocità del vento contrario riportata sugli schermi in cabina (abbiamo scoperto che una variazione di 50Km/h del vento contrario potrebbe anche farti perdere una coincidenza) e le 10 ore passano.
L’aereo atterra, noi ci scapicolliamo all’immigration, in un quarto d’ora superiamo i controlli, preleviamo qualche dollaro on the way e in un tempo da record mondiale siamo all’imbarco per il volo diretto a Managua, che apre giusto un minuto dopo il nostro arrivo.
Ce l’abbiamo fatta. E in tutto questo, causa fuso orario, il tardo pomeriggio americano per noi inizia ad essere notte. Ma non è ancora tempo di cedere alla stanchezza. Il nostro volo per il Nicaragua è in partenza e in aereo, guardando i volti indigeni dei passeggeri che mi circondano, inizio a sentire finalmente il profumo del Centro America.
Tre ore e mezza di volo e l’aereo atterra nel buio dell’aeroporto internazionale Sandino di Managua.
Eccoci. Dopo un viaggio infinito, dopo mesi di sogni e programmi, ci siamo.
L’aeroporto è piccolo, gli zaini ci vengono riconsegnati in un attimo e in pochi minuti siamo già sul taxi prenotato dall’Italia, in direzione Granada, precorrendo la Panamericana, sinuoso nastro di asfalto che attraversa da nord a sud tutto il continente americano, dall’Alaska fino alla Patagonia. Un tetto di stelle ci guarda dall’alto, mentre tagliamo eccitati la notte nicaraguese, con i suoi odori, i suoi pueblitos, la sua gente che passeggia quieta ai bordi della strada.
In 50 minuti siamo a Granada, Hotel Con Corazòn. Una cerveça sorseggiata nel patio fiorito e poi, finalmente, buenas noche Nicaragua.
11.8 Granada La giornata inizia presto. Complice il fuso orario e la voglia di avventura, ben prima delle 7 apriamo gli occhi sul nostro primo giorno in Nicaragua.
Granada ci accoglie ancora sonnolenta, il Parque Central si sta a poco a poco animando, qualche nuvola nel cielo non nasconde il sole, che inesorabile sin dalle prime ore del mattino arroventa l’aria umida.
Granada è viva, colorata, chiassosa, con le sue casette basse e variopinte, le bancarelle di frutta tropicale, i taxi strombazzanti, le scolaresche in divisa e le sue magnifiche chiese color pastello.
Prendiamo al volo un autobus che ci porta a Masaya. In effetti chiamare autobus quelli che girano in Nicaragua non rende l’idea: sono vecchi scuolabus gialli un bel po’ scalcagnati, che sbuffano dense nuvole di fumo nero e che arrancano a fatica sulle stradine acciottolate, fermandosi ogni pochi metri a raccogliere chiunque stia aspettando sul ciglio della carretera. A poco a poco salgono uomini e donne, carichi di frutta e verdura, diretti nei vari mercati, nonché venditori ambulanti che con occhi dolci e stanchi propongono ai passeggeri distratti la loro variegata mercanzia.
Il viaggio per Masaya dura poco meno di un’ora, scandito dalle urla del ragazzo che, arrampicato sul retro del bus, avverte con insistenza i passanti della destinazione finale, quasi come a voler convincere anche coloro che se ne stanno tranquilli sulle sedie a dondolo fuori dalle porte delle case.
Giunti alla stazione dei bus (un grande piazzale impolverato proprio di fronte al mercato dell’artigianato), prendiamo un taxi per il Volcan Masaya.
Arrivati in cima, lungo un’agevole strada asfaltata che serpeggia tra antiche colate di lava ormai solidificate, uno spettacolo mozzafiato ci attende: l’immenso cratere del vulcano, che sputa un grigio fumo di zolfo, sovrastato dalla croce piantata nel terreno nel 1521 da Padre Boladilla a guardia di quella che all’epoca si credeva fosse la bocca dell’inferno. E ad osservare questa grande voragine spalancata, le cui profondità scompaiono tra i fumi nocivi nelle viscere della Terra, pare impossibile non credere che laggiù in fondo vaghino in eterno le anime dei dannati.
Le regole di sicurezza dicono che non si può stare qui più di 20 minuti a causa dei gas tossici e infatti gli occhi iniziano presto a bruciare. Saliamo quindi sul nostro fidato taxi, che nel frattempo ci ha aspettato, e andiamo a Catarina, piccolo pueblo famoso per il suo mirador, da cui la vista spazia sull’incantevole laguna de Apoyo e poi oltre, fino a Granada, che da qui non è altro che una piccola manciata di case in lontananza, con il Volcan Mombacho alla sua destra e l’immenso Lago Cocibolca sullo sfondo. Dicono che nelle giornate più limpide si può arrivare a vedere il profilo inconfondibile dell’Isla Ometepe, ma in ogni caso, anche con qualche nuvola a macchiare l’orizzonte, il panorama è incantevole.
Mangiamo qualcosa in uno dei tanti ristorantini vista laguna, accompagnati dalle note malinconiche di due mariachi che evocano le gesta del Comandante Che Guevara (particolarmente amato in questa terra di oppressi e rivoluzionari), e quindi, con un paio di bus presi al volo in coincidenze quasi perfette, torniamo a Granada, giusto in tempo per arrampicarci sull’angusta scala a chiocciola che ci porta in cima alla torre della campane della Iglesia Las Mercedes. Dall’alto di questo campanile ammiriamo i tetti bassi della città e la meravigliosa Cattedrale giallo ocra baciata dal sole che le tramonta in fronte, con lo sfondo blu intenso del lago più grande del continente americano, soprannominato non a caso Mar Dulce. Una cartolina indimenticabile.
Il sole sta ormai calando dietro le montagne e noi passeggiamo appagati lungo le strade vivaci di questa seducente cittadina coloniale, respirando a pieni polmoni l’aria fresca che viene dal lago e che sa di viaggio e di libertà, mentre tutto attorno a noi il pueblo si prepara all’ora dell’aperitivo animandosi di gente, musica, colori, maschere e chiacchiere. Ci sediamo ad un tavolino all’aperto lungo la Calle La Calzada e sorseggiando una meritata Tona fresca osserviamo sereni la sera scendere leggera sulla Gran Sultana.
12.8 Granada – Isla Ometepe Il sole sorge presto sul nostro secondo giorno in Nicaragua e con lui i nostri occhi si aprono, pronti a colmarsi di nuove immagini e nuovi panorami.
Lasciamo a malincuore l’accogliente Hotel Con Corazòn (due notti e ci sentivamo già a casa) e sotto un sole cocente attraversiamo il mercato di Granada, sino al punto in cui parte il bus diretto a Rivas.
Puntuali alle 9.30 spaccate salutiamo con un pizzico di dispiacere la Gran Sultana. E’ sempre così quando si viaggia: bastano un paio di giorni per affezionarsi ad un posto e arriva sempre troppo in fretta il momento di doverlo lasciare. Il bello, però, è che c’è sempre un altro posto che ti aspetta e la partenza, così, è un poco più dolce.
Poco meno di due ore e siamo a Rivas, da dove un taxi preso al volo ci porta a San Jorge, piccolo molo da cui uno scalcinato battello azzurro è pronto a salpare in direzione della Isla Ometepe. Il tragitto di un’ora scorre via liscio come le acque scure del lago. Oggi grossi nuvoloni plumbei corrono veloci nel cielo, ma la foschia non ci impedisce di ammirare l’incredibile profilo dell’isola, la più grande isola lacustre del mondo, con i suoi due imponenti vulcani che svettano dalle acque sino a toccare le nuvole. Ogni tanto il sole fa capolino, accendendo il verde intenso della vegetazione tropicale che ricopre interamente questa meraviglia della natura.
Il battello attracca al molo di Moyogalpa, piccolo e polveroso pueblo alle pendici del Volcan Concepciòn, e da qui l’ennesimo chicken bus sferragliante ci porta al punto in cui parte il sentiero sterrato che conduce alla spiaggia e alla Finca Venecia, l’hotel che ci ospiterà per le prossime due notti.
Percorriamo lentamente il sentiero sotto un sole ormai splendente, immersi nella natura e nel canto delle cicale, e ogni tanto scorgiamo tra le fronde alcuni uccelli blu dalla lunga coda piumata che volteggiano eleganti da un albero all’altro.
Arriviamo alla Finca e, tempo di prendere possesso della nostra cabana fronte lago e di toglierci di dosso i vestiti pregni di sudore, subito ci lanciamo nelle acque salmastre del Cocibolca, a rinfrescarci lo spirito e a lavare via la stanchezza.
Il Volcan Concepciòn è lì alle nostre spalle, imponente, minaccioso, con le nuvole che ne coprono la cima come soffice panna montata. E’ uno dei vulcani più attivi e capricciosi del Centro America e forse anche questo contribuisce ad alimentare il fascino che esercita su di noi.
Il tempo scorre lento tra un bagno ed una passeggiata lungo la sottile spiaggia che si inoltra nella Reserva Charco Verde, e mentre ci dondoliamo oziosi su un’amaca di stoffa grezza sorseggiando una creveça fresca, salutiamo il sole che si tuffa nel lago e colora l’orizzonte di rosso e di viola.
La notte è scesa presto, ma altrettanto presto il ristorante della finca chiude la cucina, e considerato che nei dintorni è l’unico posto dove poter mangiare qualcosa, alle 19 ci sediamo a tavola ad attendere una gustosa cena a base di pesce di lago e platano fritto.
13.8 Isla Ometepe Dopo una notte cullati dal lieve sciabordio del lago, veniamo svegliati all’alba dal canto di mille uccelli. Usciamo un poco assonnati sulla veranda della nostra cabana e, oscillando su di una sedia a dondolo, ammiriamo volatili di specie sconosciute e dai colori sgargianti cinguettare sui rami degli alberi tutt’attorno.
Oggi il cielo è coperto da una fitta coltre di nuvoloni grigi, a tratti cade un’intensa pioggia tropicale e noi, per niente dispiaciuti, aspettiamo che smetta dondolandoci sulle amache e godendoci lo spettacolo di questa natura selvaggia e protagonista.
Ad un tratto la pioggia smette di cadere e il cielo si apre un poco, non tanto da far uscire il sole, ma quanto basta per montare a cavallo e inoltrarci nella Reserva del Charco Verde e poi più su, fino al Mirador del Diablo, da cui si gode una magnifica vista dei due vulcani e di gran parte dell’isola.
Torniamo quindi alla Finca Venecia e, smontati da cavallo, saliamo su due mountain bike con l’obiettivo di raggiungere l’altro lato dell’istmo che unisce i due vulcani, e più precisamente una piccola laguna chiamata Ojo de Agua.
Dalla finca sono 10 Km di cui buona parte in salita. Iniziamo a pedalare di buona lena sulla strada acciottolata che compie un anello attorno al Volcan Concepciòn, il quale domina il paesaggio e muto e immobile assiste alla nostra immane fatica.
Fatta eccezione per qualche pastore a cavallo che ci supera con la sua piccola mandria di buoi e pochi pickup che passano sbuffando diretti chissà dove, ci siamo solo noi, la strada e il vulcano.
Dopo circa tre chilometri percorsi un po’ in sella e un po’ a piedi, fortunatamente passa un bus che va nella nostra direzione: con un gesto disperato lo fermiamo, carichiamo le biciclette sul tetto e dopo 10 minuti veniamo lasciati all’imbocco del sentiero sterrato che porta alla laguna.
Nessuno ci ha visto: montiamo di nuovo sulle bici, percorriamo gli ultimi 300 metri fino all’Ojo de Agua e arriviamo trionfanti, pronti a goderci il meritato bagno nelle fresche e trasparenti acque termali di questa pozza nascosta nella giungla. A sentire quello che dice il vecchio bigliettaio a cui paghiamo i pochi cordoba per l’ingresso, quest’acqua di origine vulcanica ha poteri miracolosi, basta immergersi una volta per lavarsi di dosso almeno 5 anni di età. Direi che è proprio quello di cui abbiamo bisogno in questo momento.
Mentre siamo a mollo nella verde laguna iniziamo a chiacchierare con un signore nicaraguese trapiantato in Florida, tornato nella sua terra natale in vacanza con moglie e figli nati negli Stati Uniti, il quale con passione e rammarico ci racconta della guerra civile che neanche vent’anni fa dilaniava questo paese, quando fratelli con lo stesso sangue nelle vene si ammazzavano a vicenda solo perché uno stava coi sandinisti e l’altro con i contras. Una guerra stupida e inutile, come tutte le guerre lo sono, che costrinse migliaia di nicos, tra cui lui, a fuggire dal proprio amato Nicaragua in cerca di un’altra terra dove piantare radici amare. Oggi povertà e disoccupazione gli impediscono di rimpatriare, se non per qualche sporadica vacanza, e noi, sinceramente coinvolti dalla sua storia, gli auguriamo con tutto il cuore di poter ritornare un giorno a vivere in questo meraviglioso paese così tormentato e fiero.
Purtroppo per noi è ora di andare, staremmo ancora a chiacchierare con il signore nicaraguese e la sua famiglia, ma dobbiamo prendere la via prima che faccia buio. Montiamo nuovamente sulle biciclette e ci apprestiamo ad affrontare la lunga strada per la nostra finca, speranzosi che il benefico bagno nell’Ojo de Agua ci abbia restituito almeno una qualche energia.
Appena imbocchiamo la carretera principale, per fortuna la stessa scena dell’andata si ripete: un bus provvidenziale ci carica le bici e in men che non si dica siamo indietro alla Finca Venecia.
La sera passa sorseggiando Rum Flor de Cana e chiacchierando con una coppia di olandesi. La notte poi, cullati dai suoni della natura, continuiamo a sognare sereni.
14.8 Isla Ometepe – San Juan del Sur E’ tempo di salutare la Isla Ometepe. A mattina inoltrata un bus stracolmo ci riporta a Moyogalpa e da qui, su di una lancha ancora più scassata di quella dell’andata, salpiamo per la terra ferma. Seduto sul mio seggiolino troppo stretto osservo l’isola farsi via via più lontana e penso che sarebbe stato bello avere più tempo a disposizione per esplorarla ancor più a fondo. Il lago è particolarmente calmo oggi e il lieve beccheggio della barca mi concilia il sonno. Le palpebre si fanno pesanti e gli occhi mi si chiudono a tratti, guardo la cima del Volcan Concepciòn svanire tra le nuvole ovattate come in un sogno che s’interrompe all’improvviso.
Arriviamo in poco tempo all’imbarcadero di San Jorge e subito cerchiamo informazioni sul modo migliore per raggiungere la costa del Pacifico. Dopo rapide ma intense consultazioni, decidiamo di dividere un taxi con una coppia di simpatici ragazzi svizzeri, Aurelio e Franziska, e in mezz’ora siamo a San Juan del Sur. Eccoci finalmente al mare, sull’Oceano.
Prendiamo possesso della nostra stanza (Hotel Gran Oceano) e subito ci sediamo in uno dei ristorantini sulla spiaggia, a mangiare un ottimo pulpo all’ajillo e a godere della meravigliosa vista sulla baia a mezzaluna, dominata da un grande cristo posto in cima ad una ripida scogliera sul lato nord.
Il sole splende alto nel cielo e il mare è una tavola colorata di un blu intenso che al tramonto si tinge di mille sfumature di rosso.
15.8 San Juan del Sur Oggi inizia una giornata completamente dedicata al mare.
Alle 10.30 parte da San Juan una specie di camioncino che, carico di surfisti e di tavole, arriva fino a Playa Madera, una baietta un po’ più a nord dove le onde pare siano perfette per essere cavalcate. Ci uniamo all’allegra combriccola e ci godiamo la mezz’ora di strada sterrata in mezzo alla natura, chiacchierando del più e del meno con ragazzi provenienti da tutto il mondo. E’ fantastico avere l’opportunità di poter continuare a cambiare lingua: un po’ di italiano tra noi, spagnolo con la stragrande maggioranza delle persone che incontriamo, inglese con gli altri viaggiatori americani ed europei. E lo spagnolo, che di certo non è una lingua che abbiamo studiato, ci viene sempre più fluente ogni giorno che passa.
Playa Madera è una piccola spiaggia circondata da grosse formazioni rocciose. Le onde si alzano in spumeggianti creste bianche al largo e si allungano sulla spiaggia compatta come lingue di marea. C’è una piccola costruzione in pietra dove dei nicos servono qualche piatto caldo e affittano tavole da surf, intorno solo rocce, alberi, sabbia, mare e surfisti che scivolano leggeri sulla linea dell’orizzonte.
Decidiamo di provare anche noi ad agarrare la ola, affittiamo due tavole e per un’ora cerchiamo di imparare la lezione impartitaci da Orlando, simpatico surfista di Granada che tra un’onda perfetta e un culo perfetto pare decisamente più interessato alla seconda opzione.
Cento cadute rovinose, venti litri d’acqua di mare ingeriti e zero metri surfati dopo, abbandoniamo i nostri progetti di svolta fricchettona (già ci vedevamo girare il mondo capelli al vento a caccia dei migliori point break…) e ci dedichiamo ad un bel paio di ben più rigeneranti birrette, stesi sulla spiaggia, massaggiandoci doloranti i vari muscoli indolenziti e contusi.
Ci godiamo ancora qualche ora di relax, mangiamo pizza cotta su un fuoco improvvisato tra le rocce e alle 17 il camioncino ci riporta a San Juan del Sur. La giornata finisce passeggiando lungo le tranquille viette di questo delizioso paesino di mare, dove le basse case coloro pastello e le immancabili sedie a dondolo di fronte ad ogni porta, i piccoli localini che sparano musica dai ritmi tropicali, i ristorantini sulla spiaggia e i ragazzi del posto impomatati e vestiti a festa, tutto aiuta a creare un’atmosfera genuina che sai di bei tempi andati, quando niente era ancora cambiato e tutto sembrava ancora potesse succedere.
16.8 San Juan del Sur – Montezuma La sveglia suona molto presto questa mattina. Ci aspetta un lungo viaggio che ci porterà in Costa Rica e il nostro obiettivo è raggiungere Montezuma, estremo sud della Penisola di Nicoya, nemmeno noi sappiamo bene come.
Inizialmente avevamo pensato di cercare un bus che, via Rivas, ci portasse a Sipoà, ultima cittadina nica prima del confine. Ma alle 7 di mattina, lasciato l’hotel, ci ritroviamo per strada in una situazione surreale, nessuno in giro, giusto un paio di passanti assonnati e un taxista che ci avvicina e ci dice che, essendo domenica mattina, gli autobus non partono perché tutti gli autisti sono a dormire per riprendersi dalla ciuca del sabato sera. A noi sembra decisamente una storiella fantasiosa, però ci guardiamo in faccia e, considerato che vorremmo riuscire ad arrivare al confine il più presto possibile per evitare le proverbiali code di cui abbiamo avuto notizia e che alle 7 del mattino non abbiamo poi così tanta voglia di girovagare in cerca di un fantomatico autobus, facciamo finta di crederci. Con 10 $ ben investiti saremo direttamente al confine in circa 20 minuti.
Carichiamo gli zaini sul taxi e partiamo. Ovviamente chiediamo al taxista come mai lui sia già in giro a caccia di clienti e non a letto come tutti a smaltire la sbornia e ci risponde che qualche anno fa era un mezzo alcolizzato, ma che ormai ha smesso completamente di bere. In compenso fuma una sigaretta via l’altra, guida a velocità folle e ascolta la messa alla radio ad un volume indecorosamente alto. Mentre guardiamo la campagna sfrecciare fuori dal finestrino pensiamo che, forse, era meglio fosse stato ubriaco.
Durante il tragitto verso il confine costeggiamo il Lago Cocibolca e abbiamo così l’occasione di salutare il meraviglioso Nicaragua portandoci nel cuore l’ultima straordinaria immagine dei due vulcani dell’Isola Ometepe che si stagliano all’orizzonte.
Adiòs Nicaragua, un paese con un grande cuore puro, non ancora contaminato dai soldi e dalla prepotenza del turismo di massa.
Ce ne andiamo con il rimpianto di non avere avuto più tempo per poterlo esplorare maggiormente, ma con la consapevolezza di aver trovato una perla di rara e sincera bellezza.
Sarà che è mattina presto, sarà che è domenica, fatto sta che attraversiamo abbastanza agevolmente la burocrazia della frontiera e in meno di un’ora, superate tutte le varie postazioni di controllo ed espletate tutte le formalità doganali, siamo dall’altra parte, in Costa Rica! (continua) (per commenti, domande o per condividere esperienze di viaggio, tra i forum di viaggio ne trovate uno intitolato “Nicaragua – Costa Rica – Panamà”)