New York, la grande mela candita

Evocatrice di scene swing sostenute dalla voce di Frank Sinatra e storie romantiche dal volto di Haudry Hepburn, la città New York si anticipa nel visitatore con un sentimento di rispetto misto a curiosità, ed è con questo sentimento che inizia la nostra vacanza nella Grande Mela che, a detta di tutti, durante il periodo natalizio diventa...
Scritto da: keehan
new york, la grande mela candita
Partenza il: 23/12/2008
Ritorno il: 31/12/2008
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
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Evocatrice di scene swing sostenute dalla voce di Frank Sinatra e storie romantiche dal volto di Haudry Hepburn, la città New York si anticipa nel visitatore con un sentimento di rispetto misto a curiosità, ed è con questo sentimento che inizia la nostra vacanza nella Grande Mela che, a detta di tutti, durante il periodo natalizio diventa magica. Ma New York si lascia attendere, come una vera signora di classe, perché prima di poter calpestare il suo asfalto ci aspettano uno scalo di sette ore a Londra e una notte a Newark.

Lo scalo londinese lo abbiamo passato tra una birra e un sushi. Divertente è stato pranzare allo Yo! Sushi (http://www.Yosushi.Com/), un ristorante di sushi, per l’appunto, dove le coppette che contengono le pietanze scorrono lungo un nastro trasportatore, ogni coppetta ha un colore che ne identifica il costo e l’avventore prende a piacimento dal nastro ciò che preferisce. Poi l’attesa finisce e dopo circa otto ore di volo, l’America.

La regola d’oro negli Stati Uniti è chiedere informazioni per qualsiasi cosa ed è sorprendente la cortesia e la perizia di dettagli con cui queste sono date. La richiesta d’informazioni ha uno scopo fondamentale e cioè quello di scoprire il modo più conveniente per fare una cosa, o il modo più veloce e meno costoso per arrivare da qualche parte. Seguendo questa regola, una volta superati tutti i controlli di sicurezza, abbiamo raggiunto l’albergo che avevamo prenotato per passare la prima notte in modo assolutamente gratuito, anziché pagare 18,00 dollari di taxi. Abbiamo preso il Newark AirTrain fino alla fermata P4 e da lì la navetta messa a disposizione dall’albergo.

Il jetleck non ci ha fatto dormire a lungo, così il mattino seguente di buon ora ci siamo alzati e siamo andati a New York City. Abbiamo preso nuovamente la navetta dell’albergo fino all’aeroporto e poi da lì un treno della NJ Transit che collega Newark con New York Pennsylvania Station (il costo del biglietto è di 15,00 dollari). In generale per i trasporti non vi sono biglietterie ma terminali elettronici e alla nostra prima esperienza con questi terminali ci è venuta in soccorso una signora Venezuelana che ha lavorato per un paio di anni a Vicenza, questo a dimostrazione del fatto che anche se gli italiani non sono necessariamente ovunque, un pezzo d’Italia si cela in ogni dove.

Arrivati alla Pennsylvania Station ci siamo trovati a dover affrontare la non proprio intuitiva Subway di New York, ma dopo aver chiesto qualche informazione a degli altri viaggiatori, siamo riusciti a prendere la metropolitana giusta al primo colpo, e questa ci ha portato sino al Gran Central Terminal (http://www.Grandcentralterminal.Com/). Quotidianamente saremmo passati per questa grandiosa struttura in stile Beaux Arts, evocatrice di romantici viaggi in treno, per raggiungere i vari punti della città.

Non è una cosa rara che i turisti che si trovano per la prima volta alle prese con la Subway newyorkese sbaglino treno, innanzitutto perché in linea di massima la direzione della metropolitana non viene indicata dal capolinea (come accade in Europa) ma dalla sua direzione, ovvero Uptown (se va verso nord) e Downtown (se va verso sud), poi va anche detto che allo stesso binario si fermano più numerazioni di metropolitana e quindi bisogna sempre verificare il numero o la lettere del treno in arrivo. In ogni caso il modo più conveniente per girare a New York è proprio la metropolitana e l’opzione settimanale della MetroCard permette sette giorni di corse illimitate per 25,00 dollari. Usciti dalla Gran Central Station ci siamo trovati sulla Lexington Avenue completamente circondati da enormi palazzi, e subito si lascia notare il Chrysler Building. Assieme alla Grand Central questo edificio, con la guglia Art Déco di acciaio inox che ricorda il radiatore di un’automobile, è passaggio obbligato per noi trovandosi lungo la strada per l’albergo, ma a parte avergli scattato qualche foto, non ci siamo mai fermati a visitarlo, né per altro ne vale la pena.

Il Chrysler Building è stato voluto dal fondatore dell’omonima casa automobilistica nel 1930 come edificio rappresentativo, tutte le decorazioni richiamato temi automobilistici come ad esempio i doccioni che riprendono i moti ornamentali della Chrysler Plymouth del 1929.

Raggiungiamo il nostro albergo al n. 1 del United Nations Plaza. Il Millenium U.N. Plaza Hotel (http://www.Millenniumhotels.Com/), che generalmente ospita delegati dell’ONU e capi di stato in visita, si trova in una di due colonne in vetro riflettente con interni in marmo e specchi. La nostra camera è all’ultimo piano, il trentottesimo, e si affaccia direttamente su Tudor City, un complesso di case del 1928 in stile tudor americano. Sulla destra si vede l’Empire State Building e il Chrysler Building, mentre sulla sinistra le Nazioni Unite e l’East River, sullo sfondo c’è Manhattan.

Per sfuggire alla pioggia di questa prima giornata newyorkese siamo andati al American Museum of Natural History (http://www.Amnh.Org/) il più grande museo di storia naturale del mondo. Fu fondato nel 1869 per essere inizialmente adibito ad arsenale della vicina Central Park poi, nel 1874, ebbe inizio l’edificazione dello stabile che ancor oggi occupa gran parte di Manhattan Square. Anziché comprare i normali biglietti d’ingresso abbiamo comprato il CityPass (http://www.Citypass.Com/), un carnet di sei biglietti per altrettante attrazioni di New York, al prezzo di 74,00 dollari. Il vantaggio di questo carnet non è tanto quello di risparmiare sull’acquisto dei singoli biglietti, bensì è quello di saltare le chilometriche file alle biglietterie.

Il museo si sviluppa su quattro piani, oltre al Rose Center for Earth & Space. La più bella delle esposizioni è quella sui Dinosauri al quarto piano, che non a caso è anche la più famosa. Suggestivi sono gli enormi scheletri fossilizzati delle mastodontiche creature vissute milioni di anni fa, ma molto belli sono anche i più di 600 reperti fossili esposti. In ogni sala poi sono presenti dei terminali da cui è possibile visualizzare la filogenesi dei vari animali esposti.

Tra le altre esposizioni permanenti meritano di essere visitate le Culture Halls, dedicate alle culture di diverse popolazioni americane, africane ed asiatiche con migliaia di manufatti, la Milstein Hall of Ocean Life, dove la riproduzione di una balena azzurra a grandezza naturale pende dal soffitto, e la Hall of Gems, dove è possibile ammirare lo zaffiro più grande del mondo, lo Star of India.

Abbiamo anche visitato un’esposizione temporanea sui rettili intitolata Lizards and Snakes: Alive! veramente interessante e ben fatta, con oltre 60 rettili vivi. Abbiamo anche assistito al documentario del National Geographic proiettato nel cinema iMax intitolato Sea Monsters: A Prehistoric Adventure.

Dopo aver visitato il museo siamo tornati in albergo a prepararci per la cena. Già un mese prima della partenza avevamo prenotato al Falai Restaurant ), il ristorante ammiraglia del piccolo mondo del gusto e delle golosità creato dal cuoco e pasticciere toscano Iacopo Falai.

Purtroppo quando siamo arrivati al ristorante il tavolo non c’era, quindi ci siamo dovuti accontentare del bancone del bar per cenare. Chiaramente il dispiacere per l’accaduto era grande, essendo per altro anche la sera della Vigilia di Natale, e il dispiacere è stato ancor più grande quando abbiamo scoperto che il Caffe Falai (altro ristorante di proprietà di Iacopo Falai) era praticamente vuoto e che i gestori del Ristorante non si sono preoccupati di sincerarsi dai colleghi di una possibile soluzione alla spiacevole situazione.

Non ostante la posizione tutt’altro che comoda è innegabile che abbiamo mangiato bene. I piatti sono piacevolmente sperimentali e strutturati sia in menu a prezzo fisso che in piatti a-la-cart. Nel dubbio abbiamo preso due Menu, così da poter assaggiare più piatti.

Abbiamo cominciato sorseggiando un prosecco offerto dalla casa (per scusarsi del disguido) e assaggiando vari tipi di pane. Ottimo il pane alla cipolla (voto: 7), buoni anche se non eccezionali quello agli spinaci (voto: 6) e all’uvetta (voto: 5 e mezzo). La cena vera e propria si è aperta con gelatina di miele con ricotta, emulsione di carota ed un finferlo (voto: 8) e tentacolo di polpo su cubetti di patate, mela e riso venere con emulsione al curry e nero di seppia (voto: 7). Abbiamo proseguito poi con polenta bianca con fegato di pollo, besciamella e parmigiano (voto: 8) e gnocchi di ricotta e spinaci freschi con burro nocciolato, salvia e parmigiano (voto: 7 e mezzo). Come secondo ci è stato servito un petto d’anatra, purea di patate dolci su sfilacciato di carne d’anatra, crispi di patate, un leeches semplice ed uno con polvere di liquirizia (voto: 7).

Prima di giungere al dolce ci è stato servito un intermezzo composto da un frullato di fragola, scaglie di cioccolato e scorza d’arancia candita in forno, purtroppo il frullato è risultato troppo dolce (voto: 5), e da un sorbetto di sedano su yogurt naturale, olio di oliva e sale grosso, molto interessante l’abbinamento ma ci è stato servito nell’ordine sbagliato (voto: 6).

In conclusione ci è stato servito il dolce: profitterol con panna e cioccolato fondente, leggera la panna ed in generale non troppo dolce (voto: 8); suofflet con frutto della passione, ottimo il suofflet e la sua consistenza mentre il topping di frutto della passione era troppo dolce (voto: 6).

La cena è stata accompagnata da un Vermentino di media qualità. Abbiamo speso 70,00 dollari a testa.

Il giorno dopo purtroppo il corsiage dell’albergo ci ha confermato ciò che temevamo, e cioè che buona parte dei negozi e dei musei il giorno di Natale sono chiusi, quindi giacché il ristorante che abbiamo prenotato per il pranzo di Natale si trova a Soho, a confine con Little Italy, abbiamo deciso di visitare il quartiere etnico più esteso e pittoresco di New York, Chinatown.

Siamo scesi alla fermata di Canal Street il cuore pulsante del quartiere, e percorrendo questa strada in direzione Broadway abbiamo incontrato, nonostante fosse il giorno di Natale, decine di negozietti di cianfrusaglie, frutta e verdura aperti, ristoranti cinesi, centri massaggi più o meno zen e, come se non bastasse, ad ogni angolo di strada hanno tentato di venderci delle borse false. Purtroppo non abbiamo percepito quel simpaticamente pittoresco e caotico quartiere descritto dalla guida.

Da vedere c’è poco. Abbiamo cercato e trovato l’Eastern State Buddhist Temple, ma pur avendo in esposizione più di 100 statue di Buddha non è nulla di imperdibile, stesso dicasi per il Columbus Park, prima una delle zone più malfamate della città ora rivalutata con la creazione di questo parco. Ci siamo diretti quindi verso Mulberry Street, la strada intorno alla quale si concentra tutto ciò che resta di Little Italy, il quartiere un tempo abitato da migliaia di italiani.

Percorrendo Mulberry Street verso nord, nel susseguirsi dei ristoranti dal nome italiano e i classici butta-dentro, abbiamo incontrato Umberto’s Clam House, dove il boss della mafia Joey Gallo fu ucciso nel 1972, e il Ravenite Social Club, un locale, che però non esiste più, in cui molti gangster come Lucky Luciano e John Gotti passavano il loro tempo libero. Proseguendo abbiamo incontrato la Old St. Patrick’s Cathedral, una delle più antiche cattedrali della città e precedente sede dell’arcidiocesi di New York. Prima di uscire dal quartiere e raggiungere il ristorante, abbiamo incontrato l’Old Police Headquarter, il vecchio quartier generale della polizia costruito nel 1908, ed ora adibito a condominio.

Non è rimasto molto di ciò che un tempo poteva aver caratterizzato il quartiere degli immigrati italiani e come Chinatown anche Little Italy non ha suscitato in noi particolari entusiasmi.

Dopo l’ampia passeggiata mattutina abbiamo raggiunto il ristorante che prenotato per pranzo. Punto d’incontro tra il serioso ed europeo ristorante e l’informale panetteria e pasticceria, il Caffe Falai, a Soho, è un piccolo locale completamente bianco, con alle pareti specchi di varia forma e dimensione con cornici rigorosamente bianche, in cui Iacopo Falai sintetizza le sue doti di cuoco, panettiere e pasticcere. I menu, uno per la colazione ed uno per pranzo e cena, sono meno sperimentali di quelli del ristorante, ma decisamente accattivanti. Una volta seduti abbiamo cominciato sorseggiando un Pinot Grigio Fiegel, non eccezionale, e spizzicato del pane ottimo a dir poco. Come antipasto abbiamo preso in due un polpo saltato in padella su una stratificazione di rondelle di patate al forno, fagioli cannellini, olive nere e capperi, con topping di aceto balsamico e pesto di basilico (voto: 8 e mezzo). Abbiamo poi preso come primi delle pappardelle con cime di cavolfiori, funghi e fonduta di parmigiano (voto: 7) ed un risotto con crema di funghi, olio tartufato e parmigiano (voto: 9). Dopo una pausa e due chiacchiere con il cuoco, un ragazzo piacentino, e con i responsabili, un ragazzo castelmaggiorese ed una ragazza fiorentina, abbiamo proseguito con i secondi piatti, un filetto di tonno saltato in padella, poi scaloppato, servito su un letto di insalata e fagiolini conditi con olio e sale, pancetta sminuzzata, cnel di paté di olive, uovo sodo ed avogadro (voto: 7 e mezzo). Non potevamo farci mancare i dolci, assolutamente eccezionali. Abbiamo speso per il pranzo poco più di 50,00 dollari a testa.

Dopo pranzo abbiamo visitato il Rockefeller Center (http://www.Rockefellercenter.Com/) il complesso di negozi e centri ricreativi costruito negli anni trenta dal magnate Rockefeller. Nonostante fosse il giorno di Natale e quindi molti negozi fossero chiusi, una massa enorme di gente affollava il centro e la sua pista di pattinaggio.

Il Rockefeller Center è il più grande complesso privato di questo genere con 19 edifici commerciali in stile Art Decò. Le facciate, i giardini e l’ingresso del complesso sono arricchiti dalle opere di trenta grandi artisti. Dopo aver dato un occhiata all’enorme albero di natale, un abete norvegese di circa 27 metri, che annualmente viene qui allestito, siamo saliti sul Top of the Rock (http://www.Topoftherocknyc.Com/), la terrazza panoramica al settantesimo piano del GE Building. La fila non proprio corta e i 20,00 dollari del biglietto ci hanno fanno titubare non poco, ma a ragion veduta la fila è notevolmente più breve di quella che si dovrebbe fare per salire sull’Empire State Building e la vista è veramente spettacolare. Particolare è l’ascensore che porta alla terrazza, non appena comincia la risalita il soffitto diventa trasparente lasciando intravedere il percorso dell’ascensore stesso.

Il giorno dopo la parola d’ordine è stata shopping: sulla 5th Avenue. Affiancata da eleganti edifici con vista sul parco, residenze storiche e musei, è un simbolo della ricca New York. Tra la 34th e la 59th Street è una delle strade più importanti del mondo per quanto riguarda lo shopping, al pari di Oxford Street a Londra, degli Champs-Élysées a Parigi e di Via dei Condotti a Roma. Fare shopping sulla Quinta Strada è qualcosa d’imprescindibile per ogni professionista dello shopping ed una curiosa avventura per chi non lo è.

Appena girato l’angolo della 53rd Street ci siamo immessi nel vorticoso flusso di gente, lasciandoci trasportare da questo lungo la 5th Avenue fino al negozio NBA. Dopo questo primo negozio siamo entrato in numerosi altri tra cui i grandi magazzini Sax, Abercrombie & Fitch https://www.abercrombie.com/shop/eu-it e il celleberrimo Tiffany&Co. (http://www.Tiffany.Com/). Non abbiamo mancato di visitare la St. Patrick’s Cathedral, all’incrocio tra la 5th Avenue e la 51st Street. Costruita tra il 1853 ed il 1878 in stile neogotico, la cattedrale è la chiesa principale dell’Arcidiocesi di New York. A conclusione di giornata abbiamo voluto provare un ristorante consigliatoci dall’Italia, il Gradisca Restaurant (http://www.Gradiscanyc.Com). Pur trattandosi di un ristorante italiano, il locale non è una riproduzione dello stereotipato italian, bensì predilige luci soffuse e colori scuri, creando un ambiente intimo e raccolto. Il menu è interessante purtroppo, però il bilanciamento dei sapori e delle cotture si rivelerà non accurato. Come antipasti abbiamo preso polenta fritta con finferli e fonduta di gorgonzola (voto: 6) e crème brûlée di pecorino con marmellata di cipolle rosse, purtroppo la marmellata era edulcorata con saccarosio (voto: 6). Abbiamo proseguito con pollo in crosta di sesamo con finferli e patate (voto: 6 e mezzo) , e gnocchetti di spinaci con fonduta di parmigiano (voto: 5 e mezzo).

Abbiamo speso, con un calice di vino, 52,00 dollari a testa.

Data l’enormità della collezione messa in mostra al Metropolitan Museum of Art (http://www.Metmuseum.Org/) siamo partiti di buon ora il mattino seguente così da poter essere al museo per l’ora di apertura. In effetti il numero di opere che è possibile ammirare in questa cittadina della cultura è veramente impressionante, a tratti dispersivo. Sono più di due milioni i reperti, suddivisi in diciannove sezioni, che vanno dalla preistoria fino ai giorni nostri.

Dopo aver fatto colazione abbiamo cominciato il giro nell’ala dedicata all’arte africana, della ragione autraliana e americana, la varietà dei reperti presenti in questa collezione è probabilmente la più ampia di ogni altro settore del museo e la rendono assolutamente eccezionale. Abbiamo poi proseguito la visita nella sezione dedicata all’arte moderna. Anche quest’esposizione, come la precedente, è assolutamente da vedere e annovera tra le sue opere il Ritratto di Gertrude Stein di Picasso e Autumn Rhythm (Numero 30) di Pollock. Meno emozionanti sono state le sezioni dedicate alla scultura ed arti decorative europee, all’arte greca e romana e l’arte medievale. Di contro, con i suoi oltre 36.000 pezzi, assolutamente imperdibile è l’esposizione dedicata all’arte egizia. Pezzo forte di questa collezione è il Tempio di Dendur, che dopo essere stato smontato dal governo egiziano per salvarlo dalle acque dopo la costruzione della diga di Assuan, fu ricostruito nell’ala Sackler del Met nel 1978. Altre collezioni degne di nota sono quelle dedicate all’arte asiatica e all’arte islamica. Interessanti inoltre le esposizioni temporanee intitolate Art and love in Renaissance Italy, Raqib Shaw at the MET e Provocative Visions: Race and Identity. Nonostante il fascino esercitato dalle innumerevoli cose da vedere, dopo quasi quattro ore d’intensa esplorazione la stanchezza da museo ha preso il sopravvento ed abbiamo deciso di andar via.

Usciti dal MET abbiamo fatto una passeggiata tra i palazzi in Beaux Art dell’Upper East Side, poi, non paghi dello shopping del giorno prima siamo andati al grande magazzino Bloomingdale’s, uno dei negozi più forniti della città e simbolo della vita agiata durante il boom degli anni ’80. Una volta stanchi di questo grande magazzino ci siamo mossi verso Victoria’s Secret (http://www.Victoriassecret.Com/) sulla Lexington e nuovamente da Abercrombie & Fitch. In fine abbiamo dato un’occhiata più da vicino ai ben quattro piani di gioielli di Tiffany&Co. Volevo vedere un tipico ristorante americano e quindi, come consigliato dal Gambero Rosso, siamo andati a cena al Blue Smoke nel Gramarcy, un locale puzzolente, rumoroso, assolutamente american. Oltre alla carne alla griglia con una gustosissima salsa barbecue, abbiamo assaggiato due cose tipiche americane: il macaroni and cheese, che in buona sostanza sono dei maccheroncini con una salsa che sa di sottiletta, e gli hashpappies, delle palline di farina di mais fritte, che è una cosa di cui si può fare decisamente a meno. Entrambi questi cose non sono proprio quello che si può definire un tocca sana per il colesterolo.

Un must, quando si è a New York, è il MoMA (http://www.Moma.Org). Con quasi 150.000 opere in esposizione, che vanno dai classici del postimpressionismo all’arte moderna e contemporanea, e dai migliori esempi di design fino ai primi capolavori di arte fotografica e cinematografica, il MoMA è considerato il principale museo d’arte moderna del mondo.

Il museo si sviluppa su sei piani e merita di essere visitato interamente. Al primo piano c’è il giardino delle statue, al secondo piano ci sono l’arte contemporanea, le stampe ed i media. Sempre al secondo piano e poi al quarto e al quinto si possono ammirare dipinti e sculture, mentre al terso piano sono esposte le opere di architettura, design e fotografia.

Dopo aver esplorato il museo in lungo e in largo ci siamo riposati nel Marron Atrium, una sala cubica al secondo piano in cui era allestito un enorme divano circolare su cui sdraiarsi e rilassarsi, mentre sulle pareti della sala venivano continuamente proiettati dei filmati.

Ci avevano parlato molto bene del ristorante all’interno del MoMA e non abbiamo resistito alla tentazione di sbirciare nel menu esposto all’ingresso. Le pietanze descritte erano decisamente allettanti ed i prezzi non così elevati rispetto a quanto non ci era stato riferito quindi, senza troppi ripensamenti, abbiamo chiesto un tavolo.

L’arredamento del The Modern è decisamente stiloso, come da migliore tradizione MoMA, mentre la cucina è ricercata e decisamente di ispirazione francese. Abbiamo preso come antipasto una schiacciata alsaziana con formaggio, pancetta, cipolla e pepe (voto: 6). Non avendo l’abitudine in vacanza di pranzare abbondantemente, ci siamo limitati ad una portata a testa ed in particolare petto d’anatra con salsa verde di senape, prezzemolo ed aceto accompagnato con mela in crosta di pistacchio e pepe nero (voto: 8) e quaglia in crosta di olive nere su una base di farro, paprica e salsiccia affumicata accompagnata con indivia fresca e julienne di cipolla fritta (voto: 8). In effetti, rispetto a quanto abbiamo sin ora mediamente speso a New York per i pasti, al The Modern abbiamo speso qualcosa in più (40,00 dollari a testa), ma ne è valsa sicuramente la pena.

Per il dopo pranzo la nostra scelta è caduta su qualcosa di certamente meno culturale, Macy’s il negozio più grande al mondo (http://www.Macys.Com). Macy’s occupa un intero palazzo di nove piani e vi si può trovare qualsiasi cosa a qualsiasi prezzo, ma le sue dimensioni lo rendono talmente dispersivo che alla fine siamo andai via senza comprare alcun che. All’interno si possono trovare alcune scale mobili e ascensori in lego ben conservate ed ancora perfettamente funzionanti risalenti al 1902.

Dopo una birra ristoratrice nel pub del Macy’s, e soprattutto dopo aver assistito al pittoresco tifo di alcuni avventori durante una partita di american football, ci siamo concessi quello che è detto uno dei migliori hamburger di New York. Non avendo termini di paragone dire che quello del Jackson Hole è il migliore, o uno dei migliori, hamburger della città forse è un azzardo, ma sicuramente sono grossi, succosi e poco sani, in una parola: una goduria. La scelta è tra ben ventotto tipi diversi a prezzi contenuti, serviti in una location molto pittoresca. Il giorno dopo, per evitare le lunghe file per gli imbarchi dei traghetti che portano a Liberty Island e Elis Island, siamo partiti presto dall’albergo ed abbiamo raggiunto Lower Manhattan con la metropolitana, scendendo alla fermata Bowling Green.

Il Bowling Green è un appezzamento di terreno triangolare che dal 1733 al 1776 fu affittato dalla Corona inglese ai newyorkesi per la simbolica cifra di un granello di pepe a testa. Successivamente divenne il primo parco della città ed è ora probabilmente il più piccolo. Alle spalle del Bowling Green, rispetto all’uscita della metropolitana, si erge l’US Custom House. Questo palazzo, in stile Beaux Arts, fu realizzato nel 1907 come monumento al ruolo ricoperto dalla città come porto marittimo. Di particolare interesse sono le cinque statue che rispettivamente rappresentano i cinque continenti. Lasciatici alle spalle l’US Custom House ci siamo diretti verso il molo degli imbarchi, attraversando in lunghezza il Bowling Green. Per raggiungere il molo abbiamo attraversato il piccolo e poco interessante Castle Clinton National Museum, una postazione per l’artiglieria realizzata nel 1811 per difendere il porto di New York durante la guerra tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Dopo aver superato dei controlli simili a quelli presenti negli aeroporti e un quarto d’ora di navigazione, il traghetto attracca a Liberty Island, un piccolo isolotto sovrastato dalla Statua della Libertà. Costruita sul modello del Colosso di Rodi, la costruzione della Statua della Libertà è dovuta all’attivista politico Edouard René Lefebvre e allo scultore Fédéric-Auguste Bartholdi, che nel 1865 decisero che era necessario qualcosa di monumentale per celebrare l’amicizia tra Francia e Stati Uniti. Crearono così una delle icone più conosciute al mondo al pari della Tour Eiffel o il Taj Mahal. Dopo l’11 Settembre 2001 non è più consentito raggiungere la fiaccola che la statua regge nella mano destra, ma è possibile arrivare solo fino in cima della base su cui poggia, di qui abbiamo deciso di non fermarci con gli altri turisti su quest’isola e di scattare foto direttamente dal traghetto che proseguiva per Elis Island.

Visitare Elis Island è molto piacevole senza la calca di turisti, soprattutto in una bella giornata come questa. Se pur vero che la maggior parte delle cose da vedere è all’interno dell’edificio principale la luce del sole che penetra dalle grandi vetrate è un valore aggiunto da non sottovalutare. L’isola fu il maggiore punto di raccolta newyorkese degli immigrati. Dal1892 al 1954 furono oltre 12 milioni gli immigrati che passarono per quest’isola. Oggi l’edificio principale è stato adibito a museo, l’Immigration Museum. Oltre a poter visitare le sale in cui gli immigrati depositavano i loro pochi averi, in cui avveniva il loro censimento ed in cui venivano eseguiti i controlli medici, una serie di gallerie interattive permettono di ripercorrere la storia dell’isola. Tornati sulla terra ferma abbiamo fatto una passeggiata nel Battery Park fino al Financial District. Seguendo la costa, lungo il fiume Hutson, abbiamo percorso in lunghezza quasi i 12 ettari di parco incontrando da prima la Vecchia Caserma dei Pompieri, poi proseguendo verso nord il Museum of Jewish Heritage, un edificio di forma esagonale in cui, attraverso manufatti, fotografie e documenti, viene illustrata la vita degli ebrei a New York nel XX secolo. Da ultimo abbiamo incontrato l’Irish Hunger Memorial, un piccolo labirinto di muretti in pietra calcarea e piccoli prati, il cui scopo è quello di mantenere vivo il ricordo della carestia che colpì l’Irlanda a metà del 800 e che spinse migliaia di Irlandesi a cercar fortuna nella Grande Mela. Sfortunatamente nessuna di queste cose era particolarmente interessante.

Prima di entrare nel Financial District simo passati a canto allo spazio che un tempo era occupato dalle Torri Gemelle e che oggi è un enorme cratere, Grount Zero. A parte il cratere rettangolare e il cantiere da esso contenuto non c’è molto da vedere, sono comunque impressionanti le dimensioni della voragine.

Abbiamo poi costeggiato il Trinity Building, un palazzo in stile gotico annesso all’omonima chiesa. La Trinity Church, anch’essa in stile gotico, è una ex parrocchia anglicana fondata nel 1697 da re Guglielmo III. All’interno della chiesa, lungo la navata, abbiamo potuto ammirare una bella vetrata istoriata sopra l’altare, ma il gran numero di turisti ci ha fatto desistere da una più attenta visita. Usciti dalla Trinity Church siamo entrati nel cuore del Financial District, la celeberrima Wall Street. Questa strada lunga un miglio prende il nome dal muro di protezione che gli olandesi costruirono nel 1653 per marcare il confine settentrionale di New Amsterdam. Entrando nella stretta Wall Street, dopo i primi palazzi di grandi società, s’incontra la Federal Hall, un edificio contraddistinto dall’enorme statua di George Washington che sorge nel sito del primo municipio di New York, dove si tenne la prima riunione del congresso degli Stati Uniti. Poco più in là, sul lato opposto della strada, c’è il simbolo del capitalismo americano, il New York Stock Exchange, che dopo gli accadimenti del 11 settembre 2001 non è più accessibile al pubblico. Attraversata Wall Street, siamo andati in direzione di Seaport, ma prima di lasciare il Financial District non potevamo non dare almeno un’occhiata alla Federal Reserve Bank nel cui caveau vengono conservati 10.000 tonnellate delle riserve auree del paese, in se l’edificio non è particolarmente interessante. Siamo quindi andati a Seaport. Questa zona portuale sicuramente merita una deviazione in una bella giornata di sole. Oltre a dare una parziale e pittoresca idea di quello che poteva essere il passato marittimo di New York, si gode una suggestiva vista sul Ponte di Brooklyn. Preso da un attacco di fame, dopo aver fatto l’ennesima fila alla cassa in un Abelcrombie & Fitch, ho preso un hot-dog da uno dei tanti ambulanti. E’ stato il mio primo hot dog americano in America e lui, perché questo ricordo perdurasse nel tempo, si è fato digerire solo dopo diverse ore. Ultima tappa della giornata è stata Soho. In questo susseguirsi di edifici industriali con facciate in ghisa risalenti al periodo immediatamente successivo alla guerra civile, quando il quartiere era il principale distretto commerciale della città, si respira un’atmosfera particolare, difficile da descrivere. Ciò che è nettamente più evidente è il numero impressionante di negozi di tutti i tipi e dimensioni. A causa dell’ora tarda e della nostra stanchezza, siamo andati, per oggi, solamente alla mecca degli appassionati della “mela”, l’Apple Store, e all’Ugg Store su Mercer St. La giornata è stata lunga e faticosa, ed al Caffe Falai ci eravamo trovati talmente bene che, trovandoci in zona, abbiamo deciso di tornarci. Questa volta abbiamo cominciato con una parmigiana di melanzane fatta con mezza melanzana ripiena di mozzarella su salsa di pomodoro gratinata in forno (voto: 6 e mezzo). Come primi piatti abbiamo ordinato ravioli di ricotta e spinaci in salsa di formaggi (voto: 7) e garganelli al cacao con brasato di manzo, olive nere, funghi e parmigiano (voto: 8), abbiamo concluso con un insalata di farro, pomodori, paprica e radicchio al forno con fontina (voto: 8).

La penultima giornata nella Grande Mela l’abbiamo voluta passare senza imporci ritmi serrati, così siamo partiti con calma dopo colazione per Central Park. Siamo entrati da Central Park South, all’incrocio con la 5th Avenue. Anche se non si è rivelato il percorso più efficiente, abbiamo cominciato la passeggiata attraversando il Central Park Wildlife Center, un piccolo zoo costruito negli anni trenta che in questo periodo dell’anno risulta un po’ triste. Costeggiando il Mall, siamo tornati indietro fino al Diary, un edificio in stile gotico vittoriano che oggi ospita il centro visitatori, per dare un occhiata al Wallman Rink, una pista di pattinaggio voluta dal magnate Donald Trump.

A questo punto ci siamo diretti verso nord e oltrepassato un gruppo di statue, tra cui quella di Cristoforo Colombo e William Shakespeare, abbiamo attraversato il Mall, un’elegante passeggiata fiancheggiata da panchine ed olmi americani, fino ad arrivare al Conservatory Water, un laghetto artificiale dove abbiamo fatto delle foto con la statua di Andersen e con quella di Alice nel Paese delle Meraviglie.

Dopo esserci goduti un po’ il sole, abbiamo proseguito verso nord fino alla Bethesda Foutain and Terrence, una meravigliosa terrazza riccamente decorata con al centro un’enorme fontana che si affaccia sul la lago e sul bosco che formano il Ramble. A questo punto siamo andati verso ovest lungo la 72nd fino ai Strawberry Fields, una piccola area di 1,2 ettari dedicata alla memoria di John Lennon che qui fu colpito a morte da un colpo di pistola nel 1980.

Ultima tappa di questa passeggiata è stato il Belvedere Castle da cui, come intuibile dal nome, si gode di una splendida vista sul parco e dei palazzi che si affacciano su di esso. Tra i palazzi che si affacciano su Central Park meritano menzione le così dette quattro torri gemelle di Central Park, ovvero il Dakota Building ed i San Remo Apartments, lungo la Central Parck West.

Poiché il giorno prima abbiamo visitato Soho in modo sommario, ci siamo presi l’intero pomeriggio per passeggiare nelle strade affollate di artisti locali e turisti, approfittando della bella giornata non solo per godere delle molte sfaccettature di questo quartiere, ma anche per sbirciare nei numerosi negozi di Spring Street, Mercer Street, Prince Street e Brodway.

In questa settimana almeno due volte al giorno siamo passati accanto a quello che in Italia si definirebbe un mercato rionale, ovvero il Gran Central Market nella Gran Central Station. Il giorno prima, per puro caso, ci siamo entrati rimanendo affascinati dalle cose in vendita sui banchi alimentari. Stanchi della giornata abbiamo deciso di fare la spesa ai banchi gastronomia del mercato per poi cenare in camera. Le cose che abbiamo scelto non erano male, ma dopo averle mangiate ci si rende conto perché in America ci siano gravi problemi di obesità.

Da più parti ci era stato detto che il Guggenheim (http://www.Guggenheim.Org/), al di là della struttura, non è nulla di particolare, così ci siamo tenuti questo museo come ultimo da visitare prima della partenza. In effetti, l’edificio a spirale progettato da Frank Lloyd Wrigh è una scultura di per sé e quasi offusca le opere in esposizione. Va anche detto che le esposizioni, se pur molto belle, sono meno ricche di opere rispetto ai musei che abbiamo visitato in questi giorni. In ogni caso questo museo merita una visita, magari informandosi prima sull’esposizione temporanea attualmente in corso. Nel periodo natalizio come esposizione temporanea c’era una bella mostra fotografica intitolata Catherine Opie: American Photographer.

Come tutte le cose belle, anche questa vacanza però giunge al termine e all’uscita del Guggenheim costeggiamo Cental Park completamente innevata, respiriamo l’aria fredda cercando di catturare un’ultima manciata di emozioni ed impressioni. Sulla strada per l’aeroporto il tassista indiano cerca di fare conversazione, ci invita per un tea a casa sua, ma la mente è rimasta oltre il Queensboro Bridge nell’attesa di essere riportata alla realtà della vita quotidiana una volta giunti in Italia.



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