Nepal: drammi e immensità sul tetto del mondo

Ringraziamenti e spese Dietro a una pazzia che fai c’è quasi sempre un pazzo che te ne ha parlato facendotela sembrare normale. Nel caso del mio avvicinamento al Nepal, sono almeno tre le persone che, più o meno casualmente, si sono succedute per trasformare il volere in potere. Il mio capo, Monica Lacoppola, che mi ha fatto intervistare il...
Scritto da: Silvio Mini
nepal: drammi e immensità sul tetto del mondo
Partenza il: 15/11/2004
Ritorno il: 31/12/2004
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
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Ringraziamenti e spese Dietro a una pazzia che fai c’è quasi sempre un pazzo che te ne ha parlato facendotela sembrare normale. Nel caso del mio avvicinamento al Nepal, sono almeno tre le persone che, più o meno casualmente, si sono succedute per trasformare il volere in potere. Il mio capo, Monica Lacoppola, che mi ha fatto intervistare il suo amico fotografo appassionato d’Africa, Fulvio Bugani, il quale, attingendo al suo campionario di piccoli esploratori, mi ha gentilmente dato il nome di Marco Porta, esperto alpinista con svariate spedizioni in Nepal alle spalle. Un camminatore entusiasta da cui, durante un tranquillo aperitivo bolognese, ho avuto i nomi dell’hotel Harati per soggiornare a Kathmandu e dell’agenzia nepalese Cho-Oyu Trekking (http://www.Cho-oyutrekking.Com/) per pianificare la camminata su per la valle dell’Everest.

Dell’agenzia i più prodighi di cure sono stati Beni, la ragazza che ha risposto alle mail e Krishna, il ritardatario che ci ha aiutati con gli spostamenti da e per l’aeroporto. All’agenzia fanno poi capo anche Sete, la nostra guida, e Lahl, il ragazzo che ci ha fatto da portatore: loro meritano però queste righe tutte per loro perché durante i sette giorni di cammino sono stati più amici che aiutanti.

Infine c’è Antonio Serra senza cui tutto questo non sarebbe semplicemente esistito. Contro ogni pronostico abbiamo condiviso quindici giorni al limite dell’assurdo senza mai litigare. Anzi, abbiamo cooperato ogni sera: io scrivevo e lui gentilmente rileggeva, limando gli eccessi di soggettività e integrando i particolari dimenticati.

Buona lettura e per chi volesse seguire le nostre orme, la spesa sarà di circa 1300 euro: 500 tra albergo, voli interni, guida alpina e portatori; 200 di spese locali in pasti, trasporti e biglietti d’ingresso ai siti d’arte e ai parchi; e 600 di aereo. Cifre a cui vanno aggiunti investimenti iniziali per le vaccinazioni (antitifica ed epatite A) e il materiale da trekking (zaino, scarpe, sacco a pelo, calzini, racchette, occhiali). E’ poi ovvio che, specie per i voli, si registrano variazioni sensibili a seconda del periodo, della compagnia e dell’età.

Silvio 15/16 dicembre 2004 In volo su terre solo immaginate Ore 20.40. In treno, vuoto, solito percorso da Forlì a Bologna. Sala d’aspetto della stazione centrale in attesa di Antonio e dell’Eurostar per Milano. Tutto già noto: c’è il tempo per pensare. Alla paura, in primo luogo, ma è poca perché ormai si è in gioco. La paura era più delle settimane prima, quando ancora non avevi comprato il biglietto, quando ancora potevi tornare indietro e preferire il mascarpone con chi vuoi all’Everest e fatti tuoi. Ora c’è solo la tensione in vista del nuovo, quale che sia la forma in cui si manifesterà. Poi ci sono i saluti degli amici che arrivano su un cellulare pronto a spegnersi per lungo tempo. Qualcuno guarda avanti e ti chiede di risparmiare il fiato per il Cammino di Santiago. Qualcuno guarda al passato e ti ricorda che sei stato un buon amico. Qualcuno ti conosce ormai poco e ti chiede cos’è che ti porta altrove. Infine ci sei tu che pensi a quello che vedrai. E’ impossibile non farlo, ma è altrettanto impossibile non ricadere nello stereotipo. A volte ti immagini alla Messner, protagonista di un video clip avventuroso che ti ritrae a suon di batteria lungo le pendici dell’Everest. A volte ti immagini alla Terzani, più riflessivo e intimista, in silenzioso congiungimento con la spiritualità della cultura locale. E a volte ti immagini come Angela, pacato narratore di un viaggio che nasce per essere raccontato. Insomma, alla fine tutto profuma di già noto ed è un po’ fastidioso quando accetti di sederti per 8 ore su un aereo coltivando la speranza opposta.

Alla stazione di Milano ci sono le solite facce losche. Nel cuore della notte non c’è nessun bus. Optiamo per il taxi, guidato da un simpatico quarantottenne che ci accompagna su e giù per le rampe di Linate fino a farci trovare una porta aperta per entrare e attendere su una panchina, in mezzo ad altri viaggiatori dormienti, le 7.30, ora dell’imbarco per Vienna. Dopo vari anni a digiuno di voli, la tranquillità è poca sull’aeroplanino della Tyrolean Air che ci ospita, ma c’è calma a sufficienza per scrutare fuori dal finestrino i cieli che attraversiamo: le nebbie di Milano, le nubi che la sovrastano, il blu delle Alpi del sud e il grigio della perturbazione bloccata a nord. Giunti a Vienna in ritardo, rimane solo il tempo per correre attraverso tutto l’aeroporto e salire sul Boing delle 10.30 per Kathmandu, un volo che, tormentato da svariati vuoti d’aria, ci depositerà in Nepal alle 22.45 ora locale. Il paesaggio che scorre fuori dall’oblò nel corso delle 8 ore di viaggio è da esame di geografia: Carpazi, Mar Nero, Mar Caspio e nel finale le luci dell’India.

Le ultime che vediamo prima dei tenui bagliori notturni di Kathmandu. Dove è morbido l’impatto con la burocrazia, ma duro tutto il resto. In auto, dall’aeroporto all’albergo, si sta seduti con un perenne senso di insicurezza. Guidano alla sinistra come gli inglesi, ma per evitare le buche si accentrano e si schivano all’ultimo. Troppo all’ultimo per non pensare a un frontale. Per tranquillizzarci proviamo a guardar fuori, ma nei pochi angoli illuminati balugina la decadenza di un falò di rifiuti. E’ ufficiale: come ci conferma anche un posto di blocco con filo spinato, siamo fuori dall’Europa.

Provvidenziale è l’arrivo all’albergo: miserabile nella facciata che guarda alla strada, ma silenzioso grazie al giardino stile inglese su cui si affaccia la nostra finestra. Così è più facile avviarsi nel sonno verso una notte che ci ha tolto un giorno, quello cominciato all’alba volando in direzione est a quasi 900 Km/h. Spegniamo la luce e dal comodino, che sostiene la lampada nel paese del buddismo e dell’induismo, spunta una Bibbia in inglese. Mistero di Dio.

17 dicembre 2004 Kathmandu: tra strade grigio terra e cielo grigio smog Dopo una notte fredda, dormita alla faccia del fuso orario, ci alziamo alle 9.30, svegliati dalle donne delle pulizie, che, non vedendo cartelli sulla maniglia d’entrata, tambureggiano sulla porta urlando “house keeping, house keeping, house keeping”. Senza smettere fino alla nostra assonnata e lenta comparsa. Scendiamo e ci abbuffiamo di tè, latte, pane, croissant, marmellata e uova con pancetta. Serve tutto per provare a uscire, perché, come osserva Antonio, “le finestre sembrano due televisioni”. Il campionario di umanità che vi scorre è da fiaba horror: risciò che sembrano pavoni, vecchi con sacchi di grano sulle spalle, monaci, motociclette anni ’70, auto non databili e camion polverosi. Tutti in movimento senza regole, schegge impazzite tra cui non sai come camminare. Non sai se stare nel fossetto, putrido come una fogna e ostacolato qua e là dalla presenza di un venditore di ravanelli. Non sai se stare nel mezzo, perché tutti vi tendono e ci si ingarbuglia. E non sai da che parte stare attento, perché tutte sono buone per essere investito.

Volevamo raggiungere l’agenzia, ma, guardando più a noi stessi che a cartelli che non esistono, ci perdiamo. Attratte dal nostro incerto incedere ci fermano una, due, tre aspiranti guide, finché un ragazzo più simpatico e insistente della concorrenza ci fa suoi. Ci spillerà 15$, una pazzia per il Nepal, scopriremo poi, ma si rivela indispensabile perché troppe energie mentali sono calamitate dalla diversità che ti circonda per poter pensare anche all’orientamento.

La “bellezza” che più spicca è la povertà. Una povertà più povera di quella che si può immaginare, perché non cancella i comfort della vita, ma la vita stessa, uccidendo 8 bambini su 10 e lasciando ai sopravvissuti una speranza grigio marrone come la cappa di smog che nasconde il sole. La gente, circondata da case prive di infissi e con pavimenti fangosi dove nulla c’è da rubare, vive ai bordi delle vie senza confine tra pubblico e privato. Alle spalle ha cortili in cui si intravedono i lati tradizionali della miseria: mucche scheletriche, topi morti e acquitrini in cui si beve e ci si lava. Di fronte ha strade dove scorre il lato moderno del degrado: strisce di terra mal asfaltate su cui mezzi a due, tre e quattro ruote si fanno spazio tra i pedoni a suon di clacson emettendo fumate nere e puzzolenti. Gli angoli su cui cadono gli occhi ospitano donne coi loro sacchi di spezie, vecchi con patate, carote e cipolle, matrone che tessono le loro lane grezze e barbieri che radono pelli umide di fogna.

La spiritualità si eleva da questa materia scolorita e puzzolente con i tempietti che popolano ogni via, con i colori dei petali che i fedeli offrono agli dei, con le bandierine che sventolano dai tetti, con gli animali che circondano gli edifici sacri e con le persone che vivono sotto le volte in legno o sopra i gradini in pietra. Buddismo e Induismo si compenetrano. Gli stupa, luoghi sacri per la prima religione, prolungano le loro scalinate fino alla porta dei templi cari alla seconda e i cilindri buddisti, che ruotando fanno salire le preghiere fino all’Illuminato, scorrono rumorosamente sopra i fumi provenienti dagli altari incensati con le invocazioni per le divinità indù. Nel complesso si materializza una sensazione di trascendente che non nasce dalle linee architettoniche, ma dal pullulare di vita che le circonda. Come per esempio il volo delle migliaia di piccioni che tubano attorno al tempio di Ytim Bahal, le centinaia di scimmie che si rincorrono sui gradini di Swayumbatinath (Conosciuto anche come Monkey Temple – Tempio delle Scimmie) e i corvi che gracchiano nella Durbar Square (E’ la piazza in cui si affaccia il palazzo del re, detto appunto durbar).

Tra la miseria che radica a terra e la religiosità che proietta oltre il cielo si inserisce il commercio: un mondo ancora più caotico degli altri, dove può succedere di tutto. Fra i rumori di un vocio sordo e continuo, le auto irrompono piantando gli specchietti nella schiena, i vecchi estraggono coltelli gurkha lunghi 40 cm da stracci sporchi e i santoni si strusciano sui pali di legno come segno di augurio.

E’ tutto intricato come i fili della luce, matasse che pendono a mezz’aria lasciando ciclicamente al buio la città. E’ tutto debole, come il bagliore della nostra lampadina, accesa ma fredda. Ed è tutto sorretto da un equilibrio instabile, come i muri che cedono ai colpi di canne di bambù.

18 dicembre 2004 Bhaktapur: a spasso tra le vestigia del Medioevo regale E’ la volta di Bhaktapur. E’ segnalata come la più bella città del Nepal. Probabilmente lo è veramente ma ne parleremo dopo perché oggi è il nostro primo giorno (sarà anche l’ultimo) sui local bus del Nepal. Vi siamo saliti per percorrere i tredici Km in direzione est che separano Bhaktapur da Kathmandu. Poche migliaia di metri coperti in un’ora all’andata e un’ora al ritorno trascorse senza mai annoiarsi. Salendo, la prima cosa a cui corre l’occhio è la fatiscenza degli esterni e degli interni. I pullman sono parallelepipedi, poco più grandi di un nostro caravan a nove posti, al cui interno si susseguono alcune fila di seggiolini – 3 a blocchi di 2+1 con il corridoio nel mezzo – e panchine alla militare in coda, dove c’è anche una porta, la seconda oltre a quella collocata dietro il vano dell’autista. Bastano pochi minuti di marcia per capire però che la maggiore stranezza di questi automezzi è il loro modo di procedere. Lento perché l’intero tragitto è una fermata. Un ragazzo, lo stesso responsabile della riscossione delle 10 rupie di biglietto (dieci centesimi di euro), rimane sempre alla porta e con fischi, urla e gesta raccatta dalla strada quanta più gente possibile. Sempre fermi, dunque, lungo strade dove ogni ripartenza è un’impresa. Le file di auto, trattori, camion e motociclette sono ininterrotte e nessuno ti lascia spazio: così, mentre i clacson impazzano, si consuma la lotta per la precedenza, una battaglia fatta di mosse avventate per infilarsi in uno spiraglio improbabile, attraverso incroci a quattro strade regolati solo in un caso da un semaforo. Il rituale si ripete alle luci dell’andata, ore 11, e al buio del ritorno, ore 17, consumandosi in uno scenario interamente urbano perché l’espansione della capitale ha colonizzato le campagne che una volta separavano le due città. Si procede in mezzo a case diroccate, bidonville, bancarelle sui marciapiedi, campi di cricket, miniere, donne al lavaggio lungo il fiume, muratori su impalcature di bambù, fast food luridi e hotel senza diritto di esistere.

Lo stacco a questo continuum di miseria arriva solo inoltrandosi lungo l’erta di gradini che porta al centro di Bhaktapur. Non c’è nulla di roboante a sancire il cambiamento, ma, cosa rara nel Nepal urbanizzato, si percepisce una sensazione di ordine. Un fosso pulito lungo la strada, una pavimentazione composta da raffinate geometrie, una biglietteria per l’entrata (10$) ricavata nel legno e poche auto all’orizzonte. E’ soprattutto questo, un po’ di ritrovato silenzio, che ti dà l’impressione di un luogo medioevale. Sopiti i clacson, passeggi per la prima volta nel terzo mondo che ti aspetti: mestieri che scendono in strada, mercati che colorano le piazze, fieno sotto i piedi e animali che scorazzano qua e là. Ordinatamente, silenziosamente, dignitosamente. Attorno templi e palazzi sempre raffinati, a volte affascinanti. C’è l’angolo da scoprire dove si nascondono travi decorate, sacchi di spezie profumate e cortili pieni di verde. E c’è la bellezza evidente di un’antica sede reale. Lo scorcio più bello, forse per la musica o forse per la gente impegnata ad allestire il mercato, è quello di Dattatraya Square: templi a nord e a sud, porticati a est e a ovest e un monastero parallelo alla via di ingresso. Tutto perfetto nell’asimmetria che contraddistingue la gestione degli spazi anche negli altri centri nevralgici della città: la Durbar Square di cui godiamo uno scorcio sorseggiando un black coffe, e la Thamodi Tole, dove saliamo nel tempio di Nyatapala, passando in mezzo a bambini che giocano sulle schiene delle massicce statue poste sui gradoni d’accesso. I monumenti invadono lo spazio e si coprono vicendevolmente con le loro forme – quadrate o ovali – e i loro tetti – a cupola, a cinque o a tre livelli, in legno, in paglia o in pietra. Il colore che predomina è il marrone del legno lavorato che fa riflettere il sole e che contrasta con le tinte forti che riempiono le vie giù in basso. Una di queste, la via del commercio, la percorriamo tutta fino a giungere ai vasi stesi sulla piazza di Kumalé e al quartiere degli intoccabili, da cui però torniamo indietro in fretta per la paura di essere toccati noi da gente che vive tra muri fradici in case adagiate su escrementi.

Per contrasto a questa strada di lacrime, è carino il ristorante dove mangiamo. Affacciato sulla via del commercio è stato ricavato da un’abitazione privata in cui si entra attraversando un negozio di vestiti. Un luogo dove le professioni si mischiano allo stesso modo dei sapori newari (nome di una delle più povere tra le 70 etnie nepalesi) che propone la cucina: il nostro piatto è composto da riso fritto al centro e, tutto attorno, cipolle, carote, arachidi, radici di ginger, fritte a loro volta e speziate. Una portata povera ma saporita, seguita da uno yogurt dalla consistenza eterea.

La sera porta infine con sé due sorprese. La prima è uno scorcio di Himalaya: vette innevate che si stagliano dietro al verde delle colline più vicine. La seconda è la prima conoscenza senza fini commerciali con la popolazione locale: una ragazza nepalese che mi chiede cosa penso del suo paese e un ragazzo indiano in visita agli amici. Alla prima rispondo ovviamente sottolineando le differenze ma non la povertà.

Emozioni a sufficienza per una giornata che si conclude con bistecca di yak all’Everest Steak House. Un posto che riusciamo a trovare al primo tentativo: un bel colpo in una città dove le vie non hanno nome e la gente ignora il modo di consultare una cartina.

Sono le 11, ora di dormire se i cani che guaiscono fuori ce lo concedono.

19 dicembre 2004 Pashupatinath e Bodnath: il sacro secondo indù e buddisti Si poltrisce. Sveglia alle 10.30, forse alle 11. Comunque tardi, perché dopo la colazione conosciamo tre connazionali in partenza per il pranzo. Tutti di Bergamo: Simone Moro, alpinista sponsorizzato dalla North Face; Bruno, vecchia guida alpina; e Michele, “giovane” marmotta per la prima volta in Nepal. Sono tutti di ritorno da tre settimane su nelle valli dell’Everest dove andremo noi, ma in procinto di separare i loro destini: Simone arrampicato su per un ottomila coi suoi amici russi e gli altri due a casa per le abbuffate natalizie. La combriccola è piuttosto sboccata, sdegnosa verso la cultura locale e fredda rispetto alle bellezze architettoniche, ma si rivela una buona conoscenza per gli acquisti di occhiali e racchette da trekking, che mi porto a casa per una spesa complessiva di 1400 rupie (14 €).

Abbandonati i bergamaschi partiamo in direzione di Pashupatinath, il complesso di templi induista a est della città. Da noi dista circa cinque Km, troppi per una città senza cartelli come Kathmandu. Optiamo quindi per il taxi e, come suggerito dalla Routard, concordiamo subito l’esborso, ma da scadenti nepalesi strappiamo 150 rupie (1,5 €), tagliandone solo 50 al prezzo d’apertura. Il viaggio è la solita avventura. Il taxi, una Suzuki Maruti, non è molto meglio dei bus e chi lo guida ha lo stesso stile anarchico degli autisti di pullman. Si procede con un’inversione a U in una strada a doppio senso larga tre corsie, con il taglio della strada a un trattore e con la gim-cana tra la folla del quartiere di Thamel. Manovre che occupano 15 minuti e che ci segnano le facce a tal punto da risvegliare il sarcasmo del conducente. “What about our traffic?”, è la sua domanda retorica. “Your job would be more relaxing in Italy”, è la nostra risposta sibilata prima di scendere a Pashupatinath.

Un luogo che ti dà il benvenuto con l’immagine classica dell’induismo: le mucche sacre che scorazzano sotto i portici del tempio. Un antipasto a cui segue il piatto forte: il fiume sacro, affluente del Gange, e le sue rive dove si succedono le cremazioni. Da una parte del ponte i poveri, dall’altra i ricchi che ardono su pire più eleganti e colorate. La vista in sé non è dissimile da quella di una serie di falò qualunque: pochi arbusti, qualche legno, la fiamma e tanto fumo. Se non fosse per un paio di gambe che spuntano lugubri, evocando morte, tutto sembrerebbe un’ordinaria scena di vita agreste. Ed è propria questa normalità, quasi sciatta, che ti sgomenta osservando quei resti umani che vengono sciacquati via dai familiari con secchiello e scopone. Salutiamo i fumi di morte salendo verso l’alto come loro lungo la ripida scalinata che conduce in un giardino fitto di alberi secolari, templi abbandonati e frotte di scimmie in lotta. Da lì si gode una bella vista della periferia est della città, una ex campagna ora urbanizzata dove scendiamo per raggiungere Bodnath, il più grande stupa buddista del Nepal dopo Swayumbatinath. Attraversiamo un quartiere strano: pieno di bidonville distese fino alle piste dell’aeroporto, ma anche punteggiato di case ben messe, complete di infissi e pareti verniciate. Camminiamo per circa 30 minuti prima di sbucare su una grande via proprio di fronte allo stupa di cui avevamo già adocchiato la cima da tempo.

Il luogo emana pace e accoglienza ed è più solare dei templi indù, vietati ai non credenti. Ci aggreghiamo alla massa di monaci e fedeli e con loro giriamo intorno alla costruzione in senso orario facendo roteare i cilindri con le preghiere da inviare all’Illuminato. E’ un tripudio di colori sotto la fila di bandierine che sventolano in cielo quando sali le scale fino al quarto ordine di gradini, quello che ti porta dal quadrato alla base alla cupola circolare che sorregge la torre con gli occhi di Buddha e la pagoda sulla cima. Quattro strati sovrapposti, simboli dei quattro elementi della natura di cui ogni stupa si compone per conservare le spoglie sacre del principe Siddharta. Giriamo più volte attorno alla cupola, poi ci fermiamo a osservare qualche immagine di preghiera e di gioco: un monaco e un fedele impegnati con gli inchini rituali su lastre di legno e tre bambini in corsa sui gradini coi loro zaini di scuola.

Mentre il cielo si vela e il vento si alza, noi ci fermiamo per pranzo su una terrazza vista stupa dove degustiamo momo osservati dagli occhi blu di Buddha (I momo sono una sorta di grandi cappelletti che, all’interno di una pasta grossa e dura, contengono verdure cotte ed eventualmente carne di pollo o vacca. Solitamente sono serviti con al centro una salsa piccante e speziata in cui devono essere bagnati). Restiamo lì a lungo, fino al tempo del ritorno, di un altro viaggio in taxi e di un altro rientro nella pace dell’albergo. Da cui usciamo in tarda serata per raggiungere la Tibets Cantina per una cena a base di spiedini di pollo e riso con verdure. Porzioni enormi che non riusciamo a finire né buttando giù i bocconi con il piccante tè di ginger, né ascoltando le sollecitazioni del cameriere, che è stato in Europa, sogna l’Italia, balbetta l’italiano e ha tanta voglia di parlare con noi, così ricchi da poter spendere 12,5$ a notte all’hotel Harati.

Sazi, depositiamo una bella mancia e rientriamo in albergo. Domani è il giorno uno del trekking, del volo interno da Kathmandu a Lukla e dei primi passi verso l’Everest. Missione per cui prepariamo l’attrezzatura: gli zaini piccoli con borracce, K-Way, burro-cacao e rupie; gli zaini grandi con vestiti e sacchi a pelo; e la valigia con i panni sporchi e il surplus che resterà in albergo assieme ai documenti. C’è stato tutto e anzi tra le cianfrusaglie ha trovato posto anche la paura di volare. Quella brutta, che aumenta anziché diminuire all’avvicinarsi del momento.

20 dicembre 2004 Patan: regale come l’oro del suo tempio “Chi vuole che tutto funzioni (o che funzioni in qualche modo) deve andare a passare le vacanze sulle montagne svizzere”. (Stan Armington) E’ stato il giorno dell’attesa, di ciò che doveva essere e non è stato. Quattro ore di attesa all’aeroporto, dalle 7 alle 11, per aspettare il volo per Lukla alla fine cancellato. Quattro ore finite nella noia dopo una sveglia concitata: alle 5.30 ci chiamano dalla reception; alle 6 siamo nella hall; ci aspetterebbe un tè caldo ma chi ci deve accompagnare all’imbarco ci dice che non c’è tempo; via attraverso i piccoli falò di Kathmandu fino all’aeroporto; l’incontro con la guida nel parcheggio; il check-in dei bagagli; le perquisizioni; la sala d’attesa e un secondo tè che rimane sul pavimento perché ci chiamano in anticipo; di corsa verso il pulmino e dopo la terza perquisizione in marcia verso l’aeroplano. Tutto di fretta, poi stop. Non si scende dal pullman: dopo quindici minuti fermi a scrutare le fasi di controllo e rifornimento dell’aereo, ci dicono che il cielo di Lukla è coperto e che si torna al terminal fino a contrordine. Che non arriva più fino alle 11 quando lo speaker annuncia l’annullamento. Delusione e nuova attesa per il recupero del bagaglio ci accompagnano mentre dall’agenzia ci tornano a prendere. Nel viaggio verso l’hotel ci ferma anche un taxista incavolato perché siamo in cinque. Lo pagano, ripartiamo e, nonostante lo sciopero generale, prenotiamo un autista a 500 rupie per Patan.

La strada verso questa terza città reale del Nepal, a sud di Kathmandu, è più scorrevole grazie all’astensione dal lavoro, ma l’autista – faccia poco rassicurante – non ci lesina le solite emozioni. Vale comunque la pena di provarle, perché Patan, pur non avendo la bellezza diffusa di Bhaktapur, vanta due siti – la Durbar Square e il Golden Temple – di assoluto valore. Quest’ultimo spicca per la minuzia delle decorazioni ricavate nell’oro che lo ricopre, mentre la prima cattura per la densità di edifici sacri e profani racchiusi in poco spazio. Tra questi anche il palazzo reale in cui entriamo per visitare il museo d’arte religiosa più blasonato del Nepal. E’ composto da due ordini di corridoi dove luccicano, nei loro colori oro, rosso, grigio e nero, i manufatti bronzei con cui il regno ha celebrato le sue divinità buddiste e induiste. Nelle schede a muro apprendiamo le chiavi di lettura per riconoscere dei, dee e loro funzioni, ma sono troppe per essere raccontate (…E ricordate). Il museo, riportato ad antico splendore con sovvenzioni austriache, è anche sede di un ristorante immerso nel verde che scegliamo per il pranzo. E’ pieno di inglesi e più caro della media, ma, dopo tre giorni di spezie e dopo un mattino a digiuno, fa piacere un burger consumato in pace.

Usciti da lì tardiamo poco a recuperare un altro taxi, a cui strappiamo un ritorno per 300 rupie, perché in bocca c’è l’amaro per le cime perdute e negli occhi poco spazio per altri templi. Siamo saturi di traffico, smog, taxi e luoghi religiosi. E’ tempo, dopo una cena a base di pollo e jasmine tea, di riposare la mente stancando le gambe su per la valle di Lukla. Dove speriamo di atterrare domani, vedendo premiata la nostra seconda sveglia alle 5.30. Abbiamo fede, anche se a darci la buona notte anticipata c’è un black-out del sistema elettrico: tutto buio nella capitale, come in un clima da caccia alle streghe.

21 dicembre 2004 L’equilibrio instabile del volo verso il tetto del mondo “La pista, lunga 450 m, è situata a una certa altitudine sul versante di una montagna e, snodandosi su una china, presenta un dislivello di circa 60 m. Fra le due estremità. (…) La pista è priva di strumentazioni e tutte le manovre dipendono solo dalle capacità visive dei piloti”.(Stan Armington) L’inizio di giornata ricalca quello della precedente. Sveglia alle 5.30, preparazione dello zaino, discesa nella hall, caricamento dei bagagli sull’auto dell’agenzia, corsa verso l’aeroporto, check-in, controlli degli zaini, sala d’attesa dalle 7 alle 10, la chiamata per Lukla e l’arrivo col pullman vicino all’aereo. Tutto uguale al giorno prima solo che questa volta montiamo su, rolliamo sulla pista e – tappi alle orecchie, pastiglia in bocca e cinture al ventre – decolliamo.

Il rumore è quello dei film sul Vietnam: brooommm. Manca la mitraglietta, per fortuna, ma ci sono tanti altri piccoli elementi di terrore: le vibrazioni di un ventilatore, le oscillazioni di una lavatrice e i vuoti d’aria che sembrano più vuoti del solito. Il viaggio è così tormentato che, tra qualche sguardo ai vicini in preghiera, non ti accorgi neppure dell’avvio delle manovre d’atterraggio, fase tormentata alla stessa maniera delle altre. Capisci che ti stai ricongiungendo a terra solo perché dall’oblò spuntano macigni e prati sempre più vicini e perché dal finestrino del pilota, seduto un metro di fronte a noi, si profila la pista d’atterraggio di Lukla. E’ una curva in salita. Ci sbattiamo contro e, quando ancora salticchiamo, giriamo a destra per parcheggiare dopo una curva in piega.

Scendendo dall’aereo di Stursky&Hutch il mondo ti sorride. Riscopri il futuro dopo trenta minuti ancorati al presente. Fuori c’è un po’ di foschia, i monti più alti sono nascosti, ma camminiamo lo stesso leggeri nel corpo e nell’anima. Trotterelliamo in mezzo alle case di Lukla seguendo Sete, la nostra guida, che qui conosce tutti e nei suoi 33 anni (14 dei quali di trekking) è stato anche a 8100 m. Si esce dal paese e tra morbidi sali-scendi su fondo pietroso, si procede incrociando sherpa con ceste di grano, yak con tre o quattro sacchi, spaccapietre e agricoltori. Tutti calmi. Al ritmo di un masso che si sgretola e di una mucca che arranca in salita. Tutti tolleranti di fronte agli eventuali ingorghi che si possono formare quando una carovana di sherpa si incrocia con una fila di yak.

Passa un’ora e ci fermiamo a pranzo. Il solito riso, la solita zuppa, le solite verdure e il solito tè nero. Solo meno saporiti. Fa un po’ freddo stando fermi, ma la terrazzina in cui sostiamo è l’ideale per catturare qualche assaggio della vita e dell’ambiente. Prima della salita che parte di fronte a noi si fermano per il riposo gli sherpa: non si tolgono la loro cesta, ma se ne sgravano dal peso ponendole sotto il bastone dalla “testa” larga con cui si aiutano nel cammino. Un piccolo stratagemma per chi ha solo i piedi per portare cibo e attrezzature in quota. E qui la quota non manca. Pur essendo in pieno fondovalle abbiamo infatti già toccato i 2800 m. Una bella altitudine che non si percepisce a causa della vegetazione: ci sono ancora alberi d’alto fusto e, dove mancano, la presenza dell’uomo, delle case, delle tea room, delle mulattiere e dei terrazzamenti fa dell’ambiente uno scenario rurale pulsante di vita.

Dal nostro primo posto tappa, Phakding, a quota 2600, le attività pomeridiane consistono nella custodia del bestiame e nel lavaggio delle pentole con cui sarà preparata la nostra cena. Mentre la temperatura scende e l’unica parte di pelle scoperta è la mano che scrive, la memoria torna all’entrata in paese, frazione a cui si accede attraversando un ponte di 200 m. Sospeso a più di 20 sulle rapide del fiume. Impressiona, ma si supera bene con l’adrenalina del volo ancora in circolo.

Non abbiamo orologio, ma, occhio e croce, saranno circa le 4 e la sala da pranzo si sta riempiendo dei nostri compagni di lodge. Dietro abbiamo una comitiva di inglesi e avanti e indietro dalla porta vediamo un cinese. Il melting-pot che mi aspettavo di trovare.

22 dicembre 2004 Namche: dove il mondo non fa più rumore Un salto indietro a ieri sera. Dalle 4, ora in cui ho scritto le ultime parole, alle 8, quando ci siamo coricati, sono infatti occorse alcune novità. In primo luogo il finale del pomeriggio ci ha fatto assaggiare le rigidità del clima: con le stufe a legna ancora spente, la temperatura del nostro lodge è scesa verticalmente e noi per scaldarci non abbiamo trovato di meglio che stenderci orizzontalmente nei nostri sacchi a pelo vestiti di tutto punto, ovvero con calzamaglie, calzini e tuta nelle gambe, maglietta di cotone, maglia di lana, maglioni e giubbotto nel busto, e guanti, sciarpa e cuffia per le estremità rimaste. Un elenco lungo, ma in cui nessun elemento era superfluo.

Scampati al congelamento con due ore di sonnellino, siamo scesi per ordinare la cena. Al piano di sotto siamo stati accolti da due belle sorprese. Il piacevole teporino emesso da una stufa in ghisa al centro della sala e una festosa combriccola di australiani in viaggio con Adventure Travels verso l’Everest Base Camp. Ci siamo seduti vicino alla fonte di calore e vinte le prime timidezze ci siamo messi a giocare a carte con la nostra guida, un ragazzo australiano in viaggio da solo e il suo smirnir (Nome nepalese per guida alpina). Troy, questo il nome dell’avventuroso figlio della terra dei canguri, dopo averci mostrato il libro di Maurice Herzog sulla conquista dell’Annapurna, ci dice di essere lì da solo per poter vivere il viaggio come una sfida. E’ un po’ sognatore e un po’ Indiana Jones e con sguardo entusiasta ritorna alla tappa precedente del suo peregrinare in Nepal: Jomson, alle pendici del Munstang, località raggiunta in aereo da Pockara dopo 8 ore di pullman da Kathmandu. Lì, sulle montagne diventate oggetto della nostalgia di Terzani, dice di aver passato giorni in completo isolamento, contento di aver la sensazione di essere stato il primo uomo bianco della zona.

Con Troy, che sogna di emulare una ragazza in viaggio per l’Asia in bicicletta incontrata in India, condividiamo anche i primi passi del mattino. Sveglia alle 7, tè, pane e marmellata, qualche manovra a quattro mani per lavarci i denti con acqua bollita presa a prestito dalla cucina e poi via: io, Antonio, la nostra guida e lo sherpa, Lahl, un ragazzino di 16 anni che sembra procedere indisturbato dai 20 Kg dei nostri zaini. Il primo tratto di strada sotto il cielo azzurro del mattino ci lascia in dote le prime vette dell’Himalaya: sulla destra il Kusum Kunguru, 6369 m., e sulla sinistra il Karyalung, 6611 m. Abbiamo tutto il tempo di osservarle, perché il sentiero procede pianeggiante lungo le rive del Dudh Koshi, costeggiandolo a volte a destra e a volte a sinistra, oltrepassandolo su ponti sospesi. Mano a mano che ci inoltriamo nella valle, però, la pianura finisce. Il sentiero si trasforma gradualmente in una scalinata di roccia: il passo rallenta e il sudore fa la sua comparsa. Su per i tornanti che solcano la costata ovest della valle, incrociamo vari sherpa che, ci dice la guida, portano per 400 rupie al giorno (4 €) viveri e bevande da Jiri – ultimo avamposto raggiungibile in auto – a Namche Bazar, la cittadina a 3440 m. Che è anche la nostra meta. Traguardo che, dopo una prima occhiata all’Everest tra le punte degli alberi, raggiungiamo verso le 13, assetati e affamati per il lungo cammino senza soste. Ordiniamo un lauto pranzo: momo, patate fritte, torta al cioccolato e tè al limone. Poi, liberatici dalla biancheria sudata, aspettiamo che le pietanze siano pronte gustandoci il sole che nuvole birichine coprono ciclicamente. “Che pace”, sussurra Antonio. E in effetti gli unici rumori che turbano queste case, abbarbicate a mille altezze diverse e unite da strade mai piane, sono gli zoccoli delle mucche, i fischi dei bovari, i rimbrotti di una mamma al suo bambino e ragazze alle prese con il bucato. Per assaporare questo silenzio fuori dal tempo si può anche accettare di fare la pupù su una turca che devi pulire buttando giù l’acqua dalla latta e non devi sporcare buttando la carta igienica nell’apposito bidone, non troppo lontano dalla faccia di chi è chino in posa espletiva.

Mentre scrivo socializzo con il gestore, che si affaccia curioso a controllare i miei appunti. Poi chiacchiero un po’ con la guida che mi illustra il suo prossimo trekking, e faccio attenzione al racconto di Antonio che dopo pranzo aveva rotto il ghiaccio con Lahl, ascoltando le sue speranze di diventare guida. Tra una parola e l’altra si fa sera e ordiniamo la cena: bistecca di yak con patatine fritte che la cuoca ci cucina al fianco. Fuori – sono ormai le 6 – il buio è sceso su Namche e per noi è tempo di riposo.

23 dicembre 2004 Khumjung: povertà senza colore alle pendici dell’Everest “Quelli che in Europa erano problemi da superare, in Asia divennero limitazioni da accettare”. (Michael Pallin) Lo spettacolo è iniziato. L’avevamo intuito ieri sera quando, finita la nostra partita a ramino, eravamo usciti per strada rubando all’oscurità le vette innevate del monte Nupla a 5885 m. Di altitudine. Ma questa mattina, abbandonata Namche salendo verso nord in un sentiero ripido e stretto la fantasia si è potuta fermare. L’occhio correva più forte di lei: a destra, a sinistra, di fronte, alle spalle, cime a 360 gradi, così grandi da far scomparire in un minuscolo luccichio le pale di un elicottero poi atterratoci vicino per la fuga nostra e degli yak al pascolo. Lo sguardo puntava sempre all’insù, staccandosi da piedi impegnati a camminare verso i 3753 m. Di Khumjung, località raggiunta da una mulattiera ritagliata su di un prato secco.

Camminando, non fai altro che guardare. I click delle macchine fotografiche aumentano di intensità, anche se la nostra guida ci invita ad attendere: poco più in là, giusto dietro la collinetta che si frappone tra noi e l’orizzonte, c’è un punto panoramico migliore occupato da un albergo giapponese pressurizzato (150$ a notte) il cui nome dice tutto: “Everest view”. Sono proprio i vapori della neve che sublima sulla cima più alta del mondo a fare da sfondo alle tazze di tè che consumiamo assieme a Sete e Lahl, circondati da turisti australiani, inglesi e nipponici. Gli 8848 m. Dell’Everest, che i nepalesi chiamano Sagarmatha, disteranno da noi circa 15 Km e l’imponenza delle altre cime, a loro volta tutte over 6000, maschera un po’ le reali dimensioni di un blocco di pietra solo parzialmente innevato. Circondati da giganti di roccia modellati da un’aria piena come quella dei quadri di Leonardo, ci avviciniamo alla nostra meta di giornata. Ne scorgiamo i primi tetti, le linee geometriche dei recinti di pietra e l’odor di povertà. Più pulita di quella di Kathmandu, ma senza colori, opprimente come una campana di vetro. Chi nasce qui difficilmente se ne andrà e infatti non ama il paesaggio che vede. “Do you like mountains?”, chiediamo a una bambina a cui scattiamo una foto. “No”, ci risponde. Quelle cime più che frecce di pietra verso il blu le sembrano sbarre cadute dal cielo per bloccarla lì per sempre.

Mentre l’altezza cresce, il comfort cala. La stanza è più piccola. Dal bagno è scomparsa l’acqua, sostituita dalle foglie. E il sudore dei giorni che passano si stratifica su di noi congelandosi per il freddo. Fuori, lo stupa che ci fa compagnia è quasi scomparso nella nebbia serale e dentro il crepitio della stufa che brucia escrementi di yak stenta ad asciugare l’aria umida in cui si propagano i suoni e le danze di una Tv collegata a un lettore Dvd. Ci fanno vedere una soap di produzione indiana: è un musical romantico. Soporifero.

24 dicembre 2004 Tengboche: l’abbraccio degli 8000 Le giornate iniziano sempre prima. Non è colpa delle tappe da percorrere, ma dell’altitudine, che non ti fa dormire, e dello stile di vita, che è gradualmente più spartano. A letto sempre prima la sera: un po’ prima delle 8, ieri. E sempre più freddo dove ti stendi, in quelle gelide alcove lontane decine di metri dal primo surrogato di bagno. Vivi insonne e questa mattina i nostri occhi si sono aperti in contemporanea con il sole verso le 6 del mattino. Colazione a base di tè, toast, Mars scaduto da un anno e poi, alle 7, in marcia verso Tengboche, a quota 3860.

La partenza è in discesa, ma gran parte del percorso è una lunga salita che inizia dopo l’ennesimo attraversamento del fiume su ponte sospeso e prosegue lungo un crinale di nuovo alberato su superficie sabbiosa. Passo dopo passo, con una sola pausa di cinque minuti, raggiungiamo la nostra meta alle 11. Ci sediamo, ci scaldiamo con un tè, ci togliamo gli abiti sudati e poi, bardati di biancheria asciutta, ci godiamo il sole in un anfiteatro dai 6000 in su: a ovest, l’Ama Dablam (6814), considerata una delle più belle vette dell’Himalaya, e l’Amphu Gyabjen (5630); a nord, più in lontananza, il trittico con l’Everest (8848), il Lhotse (8501) e il Lhotse Shar (8393); a nord est, il Cho Oyu (8153); e a sud la valle del Dudh Koshi che abbiamo risalito sin dalla partenza da Lukla.

Giusto il tempo di sgranchirsi le ossa che si fa ora di pranzo. Nel menù compare la pizza e dopo giorni di dhal bhat e momo ci concediamo questa parentesi di cucina nostrana. Buona, sia la mia pagnotta al pomodoro e formaggio, sia quella di Antonio alle verdure. Vanno giù leggere e ne condividiamo alcuni bocconi con Rachid, marocchino addobbato di turbante che vive a Ginevra e lavora aggiustando imbarcazioni. Seduto al nostro fianco ci racconta della sua gita in Perù, del suo viaggio in Bolivia e del suo giro in aereo per osservare dall’alto le enormi sculture azteche. Scampoli di una terra lontana che di lì a pochi istanti ci manda un suo rappresentante: Manuel dal Messico. Seguito a breve da una coppia di australiani e, in un momento imprecisato, da una coppia di Giapponesi ora alle prese con i pop-corn. C’è un po’ tutto il mondo insomma.

Digerita la nostra abbuffata di pizza e di cultura internazionale, facciamo pochi passi per raggiungere il monastero buddista che nobilita il luogo. E’ un edificio quadrato a cui si accede salendo una scalinata inaugurata da una porta austera. Percorriamo i gradini, attraversiamo il cortile e, senza scarpe, facciamo il giro della sala preghiere, in senso orario, in rigoroso stile buddista. I colori sono rosso e oro, emozionanti, ma purtroppo l’atmosfera risente dell’assenza dei monaci più anziani in soggiorno a Kathmandu per le celebrazioni del periodo e per il clima rigido che sta affliggendo anche noi.

Si fa sera. Nella stanza riscaldata fa -3. E’ impossibile resistere e alle 7 la nostra posizione è già orizzontale, da aspiranti dormienti.

25 dicembre 2004 Natale tra vichinghi e uomini yak E’ Natale anche qui, ma te ne accorgi solo perché qualche avventore particolarmente romantico ti saluta con un “Merry Christmas”. Per il resto l’unica traccia in comune col presepe è il freddo che si simula con la spolverata di farina sul muschio. Troppo freddo, così che abbandonare Tenboche è una liberazione. Ogni passo in discesa è un passo verso una temperatura accettabile. Un passo prima incerto a causa della discesa ripida, ma poi più rilassato nel tratto pianeggiante che ci riconduce a Namche tagliando a mezza costa la sponda est del fiume. Uno dei tratti più belli del trekking: senza la fatica della salita, senza lo sguardo puntato a terra della discesa, senza la disperazione di molti altri giorni senza doccia, camminare risulta un’operazione semplice, meccanica, che lascia correre lo sguardo sulle cime toccate ieri e sulla valle mai apparsa profonda come ora. C’è tempo di chiudersi in se stessi e di riscoprire a ogni ansa del sentiero uno scorcio più bello del precedente: più soleggiato, più nitido, arricchito da uno stupa, inframmezzato dai rami di un albero o cadenzato dai campanacci di uno yak. Uno spettacolo rilassante come il ritorno al lodge di tre giorni prima che ora ci appare come una reggia per il suo rubinetto di acqua gelida vicino alla camera.

Asciugati dal sudore sembriamo due lucertole a caccia del raggio di sole più tiepido, stesi sulla scalinata esterna dove non manchiamo di fare conoscenza. Prima ci avvicina per giocare la figlia dei proprietari: una bimba di 6 anni che si appassiona al cappello di Antonio, ci sussurra frasi all’orecchio e alterna scambi di 5 a colpi di arti marziali. Poi, dopo il pranzo a base di momo, è la volta di una coppia di vichingi di Bath. Sono alti, biondi e pacati. Sono arrivati in India 3 settimane fa e dopo il trekking vi ritorneranno per un totale di quattro mesi. Probabilmente sono i rampolli di una famiglia di freakettoni di cui hanno ereditato l’idealismo. Specie lui che mi attacca una pezza di politica internazionale, spaziando da Bush a Blair, passando per lo sviluppo democratico dell’Asia e il recupero del latino come lingua europea. Un pazzo come la moglie che impavida si “gode” una hot shower ficcandosi nuda in un gabinetto di lamiera che avrebbe fatto tremare una marmotta valdostana.

Mentre il sole è scomparso dietro una grigia coltre di nubi, dalle quali scende anche qualche fiocco di neve, ci ritiriamo nella sala interna dove si constata il solito freddo: la stufa è spenta e la porta è ovviamente aperta. Per fortuna il caldo arriva da una parentesi di festa. Gli inglesi, rivelatisi un carpentiere e una donna delle pulizie occasionale, hanno portato un piccolo pudding e a noi l’agenzia di trekking ha regalato una torta di cacao. Condividiamo il tutto coinvolgendo anche gli altri avventori di giornata. In primo luogo, un ingegnere americano residente in Alaska: è in pellegrinaggio solitario per i monti del Nepal da un mese, è ormai simile a uno yak per il suo carico di sporco ed è pure un ex amico del vichingo per un lontano incontro precedente. E poi una giapponese e un gruppo di tre monaci tibetani che però rifiutano le lusinghe del cacao e la venalità di una foto collettiva.

E così si fa tardi nel corso di uno dei Natali più pazzi del mondo.

26 dicembre 2004 Ultima tappa: sogni, dolori e incubi Chiudendo a stento occhi tormentati da una corrente fredda, tiriamo fino alle 6.30 del mattino, orario in cui la nostra guida ci sveglia per coprire l’ultima e più lunga tappa del nostro trekking. Da Namche Bazar a Lukla, un percorso prevalentemente in discesa che però ci impegna ansa dopo ansa, saliscendi dopo saliscendi, fino alle 3 del pomeriggio: sette ore di cammino se vi si sottrae l’ora trascorsa a Phakding per pranzare. Guardando a valle è più facile che all’andata scorgere i profili dei paesini arroccati lungo il sentiero e le sagome di alcune colline coltivate a terrazzamenti. Il paesaggio però non è protagonista. Nella prima fase, quella della discesa più dura, l’occhio è puntato sugli scalini ripidi che scendiamo. Nel tratto pianeggiante centrale il pensiero corre al giorno successivo, alla doccia e alla lavata che non ci siamo più dati – mani e denti a volte esclusi – dal 21 di dicembre. E nel tratto finale la fatica è ormai scritta nelle smorfie della faccia e negli echi dolorosi provenienti dalle ginocchia.

Comunque è finita: il viaggio tra il massimo splendore della natura e la pochezza materiale degli uomini che vi camminano volge al termine. La prossima sarà l’ultima notte in cui rantoleremo nei nostri sacchi a pelo dopo una cena in giubbotto consumata al primo imbrunire di fianco a una stufa tiepida. Un’ultima nota mentre fuori cala la solita nebbia anticipatrice della notte. Per tornare a Kathmandu, lasciando questo posto vigilato col coprifuoco a partire dalle 18.45, dovremo volare di nuovo. Dopo le storie degli altri viaggiatori incontrati quelle piccole eliche che ci faranno lievitare sui crepacci nepalesi sono ancor di più protagoniste dei nostri incubi. Che viviamo a occhi aperti perché nessuno riesce a dormire a sufficienza per sognare davvero.

27 dicembre 04 A cena con nobili fuori dal tempo Nel Khumbu può capitare che venga regalata una Kata, una sciarpa bianca talvolta decorata. (…) Gli sherpa offrono la kata ai lama di alto rango, ai parenti, agli amici, agli ospiti e agli dei in segno di rispetto.(Tsedo Lana) Il risveglio alle 6.30 è un misto di gioia e nostalgia. Da un lato l’umore si rasserena per l’avvicinarsi della doccia, ma dall’altro c’è il distacco da Sete e Lahl, reso commovente dall’abbraccio e dalla kata che ci mettono al collo prima del nostro imbarco. Un gesto che scopriamo essere preghiera di buon augurio e che suona sincero dopo lo scambio dei recapiti avvenuto la sera prima. Utili per pianificare un viaggio al contrario: Sete in Italia, lui turista, noi guide. Questa o la prossima primavera.

C’è però poco tempo per soffermarsi a guardare indietro. Davanti ci sono i 60 metri di dislivello della pista di Lukla, il decollo, il traballio, le preghiere del nepalese seduto di fronte ad Antonio, le valli coperte di nuvole basse, l’Himalaya a nord e, finalmente, l’atterraggio a Kathmandu. Come all’andata, la terra sotto i piedi ci riconcilia con la vita, stampandoci qualche sorriso ebete e infondendoci la pazienza per aspettare l’auto dell’agenzia in ritardo. Trenta minuti: poco male. Un’attesa in più per gustare al meglio il ricongiungimento con l’acqua, sotto la quale, seppur solo tiepida, restiamo mezz’ora ciascuno sfregando una pelle che raccontava di sudate lunghe sette giorni. Belli tonici, gustiamo specialità indiane, parliamo con un tedesco in partenza per Pockara, inviamo una mail ai familiari e rispondiamo a una telefonata di Beni, la ragazza dell’agenzia che ha risposto alle mie prime mail, la quale ci invita a una Cultural Dinner. L’appuntamento è per le 6 fuori dall’albergo. Lei stessa, che parla fluentemente l’italiano, ci viene a prendere raccontandoci durante il viaggio delle settecentesche lotte tra i regni nepalesi di Patan, Bhaktapur e Kathmandu e della gara, simile a quella delle signorie italiane del Quattrocento, a fare una Durbar Square più bella delle altre. Sempre in auto apprendiamo inoltre maggiori particolari sulla serata. Sarà cena di gala, perché, per salutare un gruppo di “nobili” inglesi, siederà con noi anche il top manager dell’agenzia. Un boss locale che ha organizzato l’happening in un palazzo degno delle Mille e Una Notte: restaurato dall’attuale proprietario, lo stabile ha un cortile su cui si affacciano finestre decorate e interni drappeggiati che contribuiscono a rafforzare l’atmosfera soffusa creata dagli inchini del personale. Guidati da Beni, saliamo al primo piano, ci laviamo le mani nella vasca rituale, ci togliamo le scarpe e ci sediamo a gambe conserte attorno ai bassi tavoli tipici della cultura nepalese. Giusto il tempo di prendere posto che facciamo conoscenza con i commensali. Gente fuori dal tempo, vestiti come avventurieri ottocenteschi: ricchi, incredibilmente ricchi, eleganti nelle maniere e preoccupati solo di cancellare dai loro corpi le insidie del tempo. Con loro si parla delle rispettive esperienze di viaggio. Parole che hanno come sfondo le danze delle varie etnie nepalesi e come contorno le portate di un menù ad assaggi. Aperitivo con grappa di riso versata dall’alto in piccolissimi bicchieri simili agli altarini indù. Arachidi, soia e pop-corn come antipasto. Carne secca di cervo e cinghiale alla griglia come proseguio. Un maestoso dhal-bhat come piatto centrale composto di una base di lenticchie e riso e un contorno speziato di montone, pollo, verdure lessate e funghi. E infine yogurt con pezzi di frutta per concludere un pasto bagnato dalle bollicine della Everest Beer nepalese.

Ci alziamo da tavola alle 22.30. Troppo tardi per trekker abituati a coricarsi alle 19.30. Così appena entrati in camera cediamo alle lusinghe di un letto degno di questo nome.

28 dicembre 2004 Rossi e Pantani per relax all’occidentale Finalmente si poltrisce. Abbandoniamo le nostre sveglie all’alba seguite dalla militaresca preparazione dello zaino e, dopo uno sguardo al tempio delle scimmie visibile dalla nostra nuova camera al quarto piano, ci adagiamo al tavolo per consumare una colazione all’inglese parlando di Marco Pantani e Valentino Rossi. Una parentesi di occidente e di immaginario televisivo.

Dopo giorni trascorsi in mezzo ai clacson di Kathmandu, alle cime dell’Himalaya e alle nuvole del Nepal, lo sfondo principale della giornata è il giardino dell’albergo: caldo, silenzioso, con gli sdrai, i tavolini e le siepi. Ideale per rilassare la mente e prepararsi allo shopping pomeridiano. Iniziamo con il tè, al cui prezzo non riusciamo a sottrarre neppure un centesimo. Rubiamo una manciata di rupie dalla cartoleria dei prodotti in riso. E strappiamo l’affare al negozio di cuffie.

Tra un passeggio, un’altra scorpacciata di sole e il buio di un black-out elettrico facciamo ora di cena. Il posto scelto è Les Yeaux. Un ristopub economico che ci ospita nella sua terrazza sul tetto, fredda ma temperata da un piccolo falò. Con musica reggae gustiamo specialità messicane – tacos di pollo – e nepalesi – vegetable chowmein (Spaghetti simili a quelli cinesi di soia serviti assieme a verdure bollite). Tutto buono. Peccato solo che non ci sia nessuno ad animare tavolini e loggiati in paglia, dove d’estate, sotto l’umido della stagione delle pioggie, si consuma probabilmente il revival dei tempi hippy.

Ma ora è inverno e a conciliarci il sonno penserà il trillio della stufetta elettrica che ci hanno dato per scaldare un albergo privo di termosifoni.

29 dicembre 2004 Kirtipur: una collina per dominare la miseria In mezzo, acque grigie e sode come lava. Ai lati, sulle rive, bambini che razzolano tra i rifiuti. L’ultima tappa del nostro viaggio, in taxi fino a Kirtipur, 9 Km a ovest di Kathmandu, è l’ennesimo bagno di povertà. Donne che lavano i panni in fogne ai margini della strada. Uomini che erigono fondamenta solide come il fango bagnato. Lattanti che rincorrono se stessi perché non possono raggiungere altro.

E’ questo che si vede più che il tempio a tre tetti del Dio Tigre di stampo tailandese, più che il tempio di Uma Maheshavara che domina la collina, più che il panorama della capitale e delle sue colline terrazzate. Elevi lo sguardo alla ricerca dell’arte, ma ti ferma sempre un tetto crollato che impolvera tra le macerie cani morti, vecchi mendicanti e matrone dalla pelle raggrinzita. Troppo per nervi che dopo quindici giorni anelano al riposo. Troppo, così che torniamo a Thamel, il quartiere ricco del turismo, dove ci sono almeno le merci dei negozi a coprire la sofferenza della donna e del bambino che vivono vicino al nostro albergo: sotto il tetto di un piccolo tempio, in mezzo al traffico roboante della rotonda di Chetrapathi, scaldando l’acqua con un falò di bottiglie di plastica, polistirolo e sacchi dell’immondizia.

30/31 dicembre 2004 L’atterraggio sulla geografia della propria memoria Il Nepal ci fa pesare alcuni suoi controsensi fino alla fine, fino all’aeroporto dove siamo sottoposti a sei controlli, palpazioni e continue richieste del boarding pass. Controlli inutili perché Antonio conserva nella sua tasca il vietatissimo accendino e nessuno glielo trova durante le sevizie che patiamo dalle 21, ora dell’arrivo, alle 2 di notte, ora della partenza dell’aereo. In viaggio: da Kathmandu a Vienna dove arriviamo dopo otto ore abbondanti, alle 6 ora europea; e dalla capitale austriaca a Bologna che ci dà il benvenuto alle 10 del mattino. Dopo un volo su aereo a elica che ci riconduce a terre di nuovo note per trascorsi umani e professionali: Trieste, Grado, Venezia, Chioggia, Padova, Ferrara, il Cimone, l’Abetone. Nomi che la penna traccia in fretta, sbadatamente, segnalandomi che è giunta l’ora di darle riposo.



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