Natura incontaminata cercasi
Viaggio a Ischia e Procida
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In viaggio Oggi è il 24 luglio 2010. Mi trovo, assieme a mio figlio, sul pullman di Imperatore Travel che mi condurrà a Ischia. A un certo punto: effetto speciale. Da, da, da dan! Dei piccoli video a scomparsa scendono dalla loro sede nel tettuccio e ci propinano un DVD su Ischia, isola dei tesori nel quale prevale una visione bucolica del paesaggio ischitano; manco a dirlo la colonna sonora, in alcuni passaggi, è quella di Pirati dei caraibi! La voce narrante, a parte descrivere i prodotti tradizionali –pomodorini, aglio, peperoncini piccanti, coniglio di fossa cucinato “all’ischitana”, limoncello-, e spiegare come avviene la lavorazione artigianale di vasi, ceramica e fischietti, giura che sull’isola si può ammirare ancora una natura selvaggia. In seguito esprimo il mio scetticismo al riguardo quando l’accompagnatore di Imperatore Travel disturbando i miei tentativi di spararmi una pennichella, viene a chiederci come va, facendo battute e tentando di rendersi simpatico. Un po’ stizzita gli spiego che accarezzo l’idea di trovare almeno un angolino dove la natura incontaminata la faccia ancora da padrona e che avrei preferito visitare l’isola in dicembre, per avere il privilegio di godermi le spiagge deserte; solo che i parchi termali per Natale sono chiusi, uffa! Lui dopo aver ascoltato un po’ quali sarebbero le mie aspettative mi augura, con ironia conciliatrice, buona fortuna! Chiacchierando con altri passeggeri l’assistente di Imperatore Travel commenta che l’ultima eruzione a Ischia risale all’epoca medievale, mentre la presunta attività vulcanica è stata portata di recente alla ribalta da un certo Guido Bertolaso, a capo della protezione civile, che avrebbe fatto fuggire potenziali villeggianti accennando a un “colpo in canna” del Monte Epomeo. Giunti a Napoli, mentre attorno all’autobus rombano motorini e vespe i cui conducenti possono o meno indossare il casco di protezione, l’accompagnatore ci parla degli antichi decumani romani e di quello principale Spaccanapoli. Al porto ci viene distribuito il biglietto per il traghetto e ci vengono fornite le istruzioni per l’imbarco imminente. La partenza è fissata per le 16.50. L’arrivo per le sette meno venti circa. Ci uniamo a un drappello di arditi passeggeri che decidono di trascorrere la traversata sul ponte. Saliamo quindi sopraccoperta per vedere salpare la nave Medmar. La costa ci segue sempre da vicino, mentre, in lontananza, il Vesuvio veglia sul golfo di Napoli come un nume tutelare. Poco a poco ci avviciniamo a Procida che stava a braccetto del boscoso isolotto di Vivara finché una mareggiata non ha spazzato via quasi per intero il ponte che li univa. Riconosciamo infatti i piloni rimasti, che sembrano resti archeologici. Il cielo non riesce mai completamente a liberarsi dalle nubi e il sole compare e scompare: a volte in fondo alle nuvole filtra una lama di luce intensa che incendia il mare, come adesso, verso l’approdo di Procida. Poi, finalmente, eccole, le due gobbe di Ischia: il monte Epomeo svetta a destra, semisbiadito nella foschia, il monte Vezzi a sinistra, più nitido e vicino; infine si staglia in primo piano, al centro, quello che è l’emblema dell’isola d’Ischia: il Castello Aragonese. Attorno alle sei e mezza si scende al garage surriscaldato e tutti assieme si sale sul pullman, caratterizzato da un ambiente asfittico. Dal porto di Ischia la corriera gran turismo ci deposita, con i nostri bagagli, su un piazzale, dove veniamo smistati in pulmini più piccoli. Il nostro nuovo autista si chiama Aniello e mentre guida ci tiene a fare subito una precisazione: gli ischitani non sono napoletani e l’isola è tranquilla, non è un covo di ladri, né un luogo pericoloso, perciò alla sera si può uscire senza timore. Dobbiamo pazientare ancora un po’, però, per varcare la soglia dell’Hotel Bristol -ubicato nell’evocativa via Marone, nell’abitato di Ischia- per colpa del traffico intenso: il rischio è quello di prendere sotto qualcuno, o se sei un pedone di essere stroncato in un attraversamento. Aniello, che sta per mettere sotto una tipa, pigia sul pedale e frena contemporaneamente, sul limite delle labbra, una parolaccia. Dopo essere stato sul punto di perdere le staffe, per un battibecco con un poliziotto in borghese che si è intromesso criticando la sua maniera di condurre il mezzo, cerca di convincere due ferraresi anziani che la cosa più sensata da fare per conoscere l’isola è prenotare un giro guidato. Con Imperatore Travel, naturalmente. Finalmente ci scarica davanti al cancello del Bristol, che si trova in una traversa della strada preferita dai villeggianti per il passeggio. Alla reception apprendiamo subito un dato fondamentale e cioè che la cena sarà tutte le sere dalle 20 alle 21 (eccetto lunedì, giorno in cui verrà anticipata di mezz’ora per via della festa di S. Anna). Oggi ci attende, di primo, una pasta con mozzarella e pomodoro. E di secondo per me, pesce –scorfano-, per Fede carne di vitello. Prima di coricarci facciamo una camminata sul viale dello shopping, ovvero il corso Vittoria Colonna, piuttosto affollato. Notiamo le bottiglie di limoncello, messe in mostra in molte vetrine di negozi di specialità, assieme a grappoli di rossi peperoncini, biscotti al mandarino e limoncello, scorzette al limone ricoperte di cioccolato fondente e caramelle al limone. Ci viene offerto anche un assaggio di cioccolatini ripieni al limoncello. Entriamo a dare un’occhiata alla chiesa di S. Maria delle Grazie in S. Pietro e in seguito ci fermiamo a fotografare un gruppo di uomini dal copricapo bianco, vestiti in costume rosso, bianco e nero, che si affrontano ritualmente nella danza con spade di legno, la “Ndrezzata”, e quando uno dei partecipanti ci consegna una pubblicità per la festa di S. Anna di lunedì a Ischia Ponte diamo una leggiucchiatina ai dettagli del programma. Sulla spiaggia ormai completamente immersa nell’oscurità, in lontananza, si vedono le luci tremolanti della costa e il faro che lampeggia in maniera intermittente. Il primo giorno di permanenza: domenica 25 luglio Mi sveglio con le palpebre gonfie e saluto il nuovo giorno con uno sbadiglio colossale. Dopo colazione ci avviamo per una passeggiata in direzione Ischia Ponte ancora una volta lungo il corso Vittoria Colonna: stamattina la strada si è completamente svuotata della folla di ieri sera. Oltrepassiamo la cattedrale e il museo del mare. Camminiamo a passo di marcia fino alla spiaggia dei pescatori dalla quale scatto un’istantanea del castello in cima al suo isolotto di roccia trachitica, che si intravvede fra le spine di una pianta grassa. Alla destra del ponte Aragonese, che stiamo percorrendo per raggiungere l’isolotto, si costruiscono i carri-zattera per il palio di S. Anna di domani. Io non sono tanto propensa ad andarci, in primo luogo per l’ora dello spettacolo pirotecnico (classico, a mezzanotte), in secondo luogo per la quantità di gente che ci sarà, e infine perché essere spettatore di solito è una palla mostruosa, senza contare che non ci si potrà sedere e allora molto probabilmente finirò per ritrovarmi con i piedi pesanti come blocchi di cemento. Sono le nove, proprio adesso apre il museo del Castello Aragonese, che a dispetto del nome, più che un castello, è una specie di minuscola cittadella fortificata, la cui architettura -costituita da edifici sacri e profani-, si sviluppa intorno a piazzette, cortili, terrazze e comprende archi, vicoli acciottolati, sentieri e gradinate. Una volta pagato il biglietto ci infiliamo in un tunnel e poi un ascensore ci porta su, a circa 100 metri di altezza sul livello del mare, all’inizio dei due itinerari possibili: quello di Levante e quello di Ponente. Senza necessità di fare testa o croce, imbocchiamo per primo l’itinerario di Levante, il più lungo; anche se in realtà andiamo a zonzo fra i resti di monumenti di varie epoche, senza leggere l’opuscolo consegnatoci in biglietteria. Insomma, innanzitutto accediamo alle vestigia della cattedrale dell’Assunta, distrutta agli inizi dell’Ottocento da cannonate nemiche, dove, in tempi migliori, era stato celebrato il matrimonio della principessa Vittoria Colonna con il marchese di Pescara della famiglia d’Avalos, come ricorda una targa affissa a una parete del tempio diroccato. Quindi scendiamo una scala che conduce alla cripta, dove scorgiamo resti di affreschi trecenteschi, in particolare in alcune lunette delle cappelle si vedono delle figure di santi che reggono la palma del martirio. Una volta usciti passiamo attraverso la casa del sole, un ambiente spoglio e non particolarmente attraente; vediamo una cantina per la conservazione del vino dove c’è un torchio e qualche damigiana; infine, proseguendo lungo un sentiero, raggiungiamo la chiesa di San Pietro a Pantaniello, a pianta ottagonale, deserta e vuota, con grandi finestroni. Ci concediamo una breve sosta all’ex-carcere borbonico con grate, porte “blindate” e serrature. A quanto pare sbattevano non solo i criminali comuni ma anche i prigionieri politici in fondo a questa gattabuia. Pochi passi ancora e ci ritroviamo seduti su una panchina del terrazzo degli ulivi, a contemplare la principale torre angioina del castello (dall’esterno, perché il maschio non si può visitare all’interno), a goderci un paesaggio meraviglioso -il mare scintillante, la costa e le isole ne sono i protagonisti assoluti- e a spizzicare qualcosa da mangiare. Quand’ecco sbucare fuori un gattino che vuole condividere la nostra merenda. “Miaoooo!!!” si mette a miagolare e, fissandomi con interesse, mi strofina la schiena contro le gambe; poi con fare estremamente determinato affonda gli artigli nel mio ginocchio nel tentativo di addentare un boccone di panino al prosciutto. Lo scaccio. Ci rialziamo. Sembrava un’oasi di pace… Spinti da un intenso fastidio alla vescica andiamo verso le toilettes che si trovano accanto al ristorante “Il terrazzo”. Poi torniamo giù fino alla chiesetta di S. Maria delle Grazie dove ci accoglie una musica celestiale emessa dagli altoparlanti. Lungo il sentiero del sole, delimitato da una staccionata in legno, ci sono cactus incisi da qualche screanzato con la firma e la data dell’altro ieri. Il sole brilla alto nel cielo e non c’è ombra; lo sguardo prima è attratto dagli oleandri in fiore, poi si tuffa nel mare cobalto, sul quale pare galleggiare l’isola di Capri. Ci stupiamo del fatto che a terra, i lampioncini, ora spenti, siano costituiti da una lampadina contenuta in un bottiglione di vetro verde rovesciato; inoltre ci fa sorridere l’indicazione “chiesa madonna della libera uscita”: forse la patrona dei militari in libera uscita? Ma no, la madonna si fregia solo dell’epiteto “della libera”, mentre uscita è la segnalazione di come si fa ad andarsene da questo posto. Ormai siamo arrivati nuovamente al punto in cui gli itinerari si biforcano ed è quindi la volta del percorso di ponente, dove si trova il convento delle monache clarisse trasformato in struttura ricettiva. Non manca un bar per turisti e il terrazzo dell’ennesima chiesa, stavolta dedicata all’Immacolata; salendo una rampa di scale ci addentriamo, a destra nell’androne del convento, abbellito da rampicanti e vasi di ortensie e, a sinistra, in un cortile, per poi sfociare su un altro terrazzo dal quale si vede la superficie blu di una caletta vicina, regolarmente punteggiata dal bianco di innumerevoli yacht di dimensioni ridotte. Penentrando in alcuni ambienti sotterraeni giungiamo alla tetra cripta delle monache: qui ci sono gli scolatoi, dimessi troni in pietra – a dire il vero somiglianti a latrine- che servivano per deporre le spoglie delle sorelle defunte, finché non si riducevano a nudi scheletri. Come atto di devozione mi siedo sullo scranno col buco, nel posto del cadavere. Spero che adesso non sia più un luogo malsano come ai tempi in cui fiorì il convento (le suore ci lasciavano la pelle quando venivano qui a pregare e meditare sulla morte). E’ arrivato il momento di tornare sui nostri passi fino all’ascensore e all’uscita. *** Siamo sull’autobus CS (circolare sinistra) e la nostra meta è la costa settentrionale dell’isola, dove si trova la baia di S. Montano. Per essere sicuri di smontare alla fermata giusta chiediamo all’autista di avvisarci al momento opportuno. Verso le undici e mezza, dal punto in cui siamo scesi, seguiamo una strada tortuosa, che costeggia la china di una collina da un lato ed è affacciata sull’abitato di Lacco Ameno e il mare dall’altro. Ancora qualche falcata e siamo davanti all’ingresso del parco termale. Il prezzo è ancora quello relativo alla giornata intera e siamo costretti a sganciare 32 euro a cranio. Solo più tardi mi accorgo che di fianco all’entrata del parco c’è un viottolo che porta alla spiaggia di S. Montano e che al botteghino fanno pagare solo pochi euro. Insomma, ormai è fatta. Lasciamo zaino, vestiti e macchina fotografica al guardaroba e dotati solo di costume, cuffia, asciugamani e bottiglietta d’acqua e cominciamo la risalita delle terrazze raccordate da sentieri che costituiscono il nocciolo del percorso termale. Questo è disseminato di piscine di svariate forme e dimensioni e a diversa temperatura. Dopo che Fede si è cavato le scarpe –le sue ciabatte le ha lasciate in albergo- ci gustiamo uno scroscio caldo piazzandoci sotto il templare , ovvero doccioni a differenti altezze che sputano acqua a 32 gradi; poi ci addentriamo in una grotta, –onfalos-, con un pozzo scavato nel tufo e una sauna bordeggiata da un rivolo d’acqua bollente che scorrendo emette un piacevole gorgoglìo. All’esterno ci sono delle docce tiepide e un secchio che si può colmare di acqua gelida in caso qualcuno volesse ottenere refrigerio dopo il bagno turco. Putroppo la zona più gettonata è proprio questa, della cosiddetta antroterapia. Qui parlano tutti a voce alta anziché con un tono ovattato, come sarebbe indicato. Perciò esco dalla caverna e mi cerco un posto tranquillo, più in su. Infine lo trovo e mi parcheggio nella piscina ubicata nel punto più alto del parco, che rappresenta, a mio modo di vedere, l’apice della goduria, denominata “Nesti, fonte della vita” nella quale ci si può crogiolare in un’acqua a 30 ° centigradi. Si tratta, a dire il vero, di tre vasche collegate fra loro le cui acque precipitano a valle in una cascatella. Nel bacino più a monte scendono dei ruscelletti che sembrano scaturire dalla montagna e ci sono dei bocchettoni per l’idromassaggio. La prospettiva è abbastanza ampia e abbraccia gran parte dell’insenatura di S. Montano, chiusa tra i costoni rocciosi dei monti Vico e della Guardiola. Facendo il percorso a ritroso, ma stavolta imboccando un vialetto a destra, più in basso scopriamo Chiaia di Luna, una sorta di stagno roccioso dal quale si può accedere a un piccolo antro incuneato nella montagna, rigato da lacrime calde che colano giù dalle pareti (Chiaia, tra l’altro, è il nome di una spiaggia di Forìo). Ci sono amache multicolore sospese fra due pini, sulle quali Fede ed io ci culliamo, con vista sull’esclusivo hotel Mezzatorre, sull’arenile sabbioso e sul mare, che da qui assume una tonalità smeraldina. E’ a questo punto che sentendo bambini e ragazzini gridare ogni volta che arriva un’onda gigante Fede pensa di fare il bagno in mare, nella baia di S. Montano, che sappiamo essere l’antico luogo d’approdo degli Eubei, i greci che fondarono la colonia di Pithecusa. Dunque io resto a Chiaia di Luna beandomi sotto una pioggia di tiepide goccioline, circondata dallo stillicidio che scende nell’antro della montagna e immagino che Fede si unisca ai cori lanciando un urlo acuto tutte le volte che giunge un microtsunami, anche se non so se in mezzo a tutte quelle voci ci sia anche la sua. Ma tutto è destinato a finire. Prendiamo la via del ritorno verso le cinque e mezza. In lontananza scorgiamo il masso a forma di fungo di Lacco Ameno. Il primo autobus che passa non ci considera neanche: troppo affollato. Altri passeggeri accorrono a frotte, rimanendo, come noi, a terra e frustrati. Finalmente un n. 1 si degna di fermarsi e riesce ad accoglierci nel suo ventre, anche se ci ritroviamo stipati come sardine e qualcuno ci insulta perché gli pestiamo i piedi per ricavarci un posticino a debita distanza dalle porte, che si aprono di scatto verso l’interno, massacrando talloni, dita delle mani ed altre membra del corpo incautamente lasciate alla loro mercè. Alle sette, prima di cena, compare in albergo Antonella, l’assistente del tour operator, che ci consegna, come previsto, due biglietti dei trasporti pubblici con validità tre giorni. Restiamo ad attendere l’ora di cena attorno alla piscina termale quadrata del Bristol, dall’acqua color verde erba. Il secondo giorno di permanenza: lunedì 26 luglio Siamo di nuovo rinchiusi in un autobus. Una donna straniera, dall’accento slavo, domanda in giro se ci sono spiagge. Ma dove vive? Ischia è un’isola e ha 34 km di costa, qualche spiaggia ci dovrebbe essere, no? Oggi, per prima cosa scendiamo a Forìo, sul lungomare, per poi addentrarci nell’abitato dove, innanzitutto immortaliamo la fotogenica cupola gialla della chiesa di S. Gaetano. Passeggiamo nella via dello shopping e ci spingiamo fino al bianchissimo santuario della Madonna del Soccorso che ha la facciata rivolta verso il paese e il retro affacciato sul mare. Ci hanno detto che qui la gente ci viene soprattutto all’ora del tramonto per cogliere il raggio verde. Bisogna sapere che dall’epoca della scuola superiore mi perseguita ancora il ricordo della pellicola “Le rayon vert” di Eric Rohmer, un film francese noiosissimo in cui non si faceva altro che aspettare che il sole scendesse lentamente per vedere baluginare un sottile filo di luce verdognola un istante prima che la palla infuocata sparisse dietro l’orizzonte. Sono appena le dieci e mezza del mattino, non se ne parla nemmeno di stare con gli occhi incollati all’orizzonte per assistere al fenomeno. Non ho un vestito propriamente castigato, bensì sono in costume da bagno e pantaloncini, abbigliamento alquanto indecoroso che mi impedisce di entrare in chiesa, perciò ci concediamo un pic nic dietro al santuario, appoggiando yogurt e pane sul muretto. Si vedono il porto e la spiaggia di S. Francesco a destra e uno scoglio a sinistra. Di fronte, in lontananza, si distingue appena la sagoma dell’isola di Ventotene. Una volta conclusa l’esplorazione di Forìo riprendiamo l’autobus fino a Panza (toponimo curioso, ma sul quale stravince “punta della pisciazza”, il più bizzarro). Dalla fermata camminiamo in scioltezza giù per la strada che porta alla baia del Sorgeto. Raccogliamo, sul margine della carreggiata, qualcosa che sembra un pezzetto di terra, ma dev’essere un tocchetto di poroso tufo, perché non si schiaccia sotto la pressione delle dita come farebbe la terra. In seguito scendiamo una caterva di gradini; ed è qui che, improvvisamente, zacchete: un calabrone mi conficca il pungiglione nella crapa, mentre mi metto il berretto. Dev’essersi sentito intrappolato fra la testa e il tessuto e aggrovigliato in mezzo ai capelli. Contro il bruciore corro subito ai ripari: ho con me uno stick all’ammoniaca e me lo passo tempestivamente sull’area dolorante. In basso scorgiamo delle pozze naturali riparate, delimitate da scoglietti. Fede mi attende sulla riva mentre io mi tolgo il gusto di stare in ammollo nelle polle bollenti, aggrappata a delle roccette collegate da passerelle verdi. Noi bagnanti siamo tutti stretti gli uni agli altri accanto alla fonte che riversa in mare un’acqua a 90° -difatti un cartello avverte che ci si può ustionare- che si mescola immediatamente con quella marina, più fresca. Sprofondo nell’acqua regalandomi un trattamento gratuito di talassoterapia in questa baia stupenda, incorniciata dai promontori di capo Negro e punta Chiarito. Ogni volta che un’onda oltrepassa gli scoglietti si prova un brivido che nasce dal contrasto caldo/freddo. Qualcuno si spalma sul viso una maschera di fango, sostanza raschiata sfregando fra loro dei ciottoli neri raccolti sul fondo. La fatica della discesa e della risalita manterrebbero questa caletta scarsamente frequentata se non fosse per la possibilità di raggiungerla via mare, prendendo un taxi-boat da Sant’Angelo. Ecco infatti un’imbarcazione a motore che si infila fra gli scogli e si sgrava del suo carico di persone proprio di fronte al bar-ristorante La Sorgente che gestisce anche un piccolo stabilimento balneare con candidi ombrelloni e sedie a sdraio. Con il costume fradicio appiccicato al corpo torno su per i gradini, con Fede asciutto che porta lo zaino al mio fianco. Di nuovo prendiamo l’autobus fino al borgo di pescatori di Sant’Angelo, da dove ci mettiamo alla ricerca del vicolo per raggiungere la spiaggia dei Maronti. Dopo la sfaticata della salita -che ci permette però di avere una buona panoramica del promontorio di basalto lavico di Sant’Angelo- infiliamo a precipizio la discesa verso l’arenile sabbioso dei Maronti, ma poi freniamo di fronte all’ingresso del parco termale Aphrodite Apollon per fare qualche foto e all’istante veniamo chiamati da una signora dall’aspetto di una Moira Orfei bionda, la quale ci rifila alcuni dépliant sul parco termale. Giunti alla spiaggia ci guardiamo un po’ attorno per scovare le celeberrime fumarole, segno di un’attività vulcanica tutt’ora in corso. Chiediamo ragguagli a un bagnino: le fumarole sono lì, dove si vede la recinzione e un cartello che avvisa “ attenzione, sabbia calda (100°)”. Dato che la sabbia secca emana comunque un calore infernale ci spostiamo verso il bagnasciuga, nel quale sprofondiamo un poco mentre camminiamo. Anche se a detta di tutti questa è la spiaggia più bella dell’isola, sorprendentemente non è sovraffollata. Evidentemente non è granché alla moda al momento, o forse non c’è molta affluenza perché è l’ora della siesta. L’acqua è cristallina e stiamo a contemplarne il brillio e la trasparenza, rilassandoci cinque minuti seduti su uno scoglio. Anziché proseguire dritto fino a punta della Signora, dove la spiaggia termina, ci addentriamo, impressionati e quasi increduli, in una specie di profondo canyon, seguendo le indicazioni per le terme di Cavascura. Ci accorgiamo che la gola sfocia in un anfiteatro roccioso, che fa da corona alle antiche terme romane; ciò significa che se fossimo venuti qui nel periodo in cui Ischia si chiamava Aenaria avremmo incontrato dei Romani che si curavano con vapori bollenti in questi loculi ricavati all’interno nicchie modellate nel tufo? Pagando la modica somma di un euro a persona ci danno il permesso di ficcare il naso, senza però autorizzarci a utilizzare nulla di questo ruspante angolo di benessere tinteggiato di celeste. Vediamo una coppia di francofoni, madre e figlio -che invece hanno sganciato dodici euro-, che stanno ricevendo un trattamento completo. Dentro a una nicchia si erge, in piedi, di spalle, una signora attempata in “topless”, mentre un operatore irrora manualmente le sue carni avvizzite con un getto d’acqua a pressione che fuoriesce da una manichetta. Ci soffermiamo un momento davanti al terrazzo dell’elioterapia –una manciata di ombrelloni e di lettini-, infine ce ne andiamo. Per raggiungere la fermata dell’undici, che porta a Barano, bisogna continuare a camminare fino all’altro capo della spiaggia dei Maronti. Nel centro di Barano, dopo un’estenuante attesa al sole –questo è l’unico momento del nostro soggiorno in cui il caldo è veramente opprimente- prendiamo l’autobus per Fontana. Come al solito chiediamo all’autista di farci il favore di metterci giù alla fermata più comoda per imboccare il sentiero per il Monte Epomeo. Lo chauffeur di linea è sorpreso della nostra decisione di spingerci fino alla vetta. Ci dice che secondo lui sono un po’ più di tre chilometri da Fontana. Perché non rimanere piuttosto in spiaggia a prendere il sole o farsi una nuotatina? Be’, gli rispondiamo che l’ascesa al monte Epomeo è l’impresa che corona il nostro viaggio. Dalla piazza principale di Fontana seguiamo le frecce marroni per il percorso pedonale verso il Monte Epomeo, che ci sovrasta con la sua presenza superba, dato che la cima si trova a quasi ottocento metri di altitudine sul livello del mare. Ci arrampichiamo con movimenti lesti fino a un negozietto di souvenir, dove è possibile prendere a prestito un bastone per la salita o montare a cavallo per fare un po’ di equitazione. Ci avevano detto che era possibile guadagnare la vetta a dorso di mulo, ma una ragazza che sta sulla porta del negozio ci fa la proposta di ascendere a cavallo. – “No, grazie” ci affrettiamo a rispondere. Più avanti siamo costretti a schivare una gigantesca popò di quadrupede… Il sentiero terroso e polveroso poco per volta si trasforma in una “via cava” e finisce poi per restringersi in una angusta canaletta rocciosa. Iniziamo a scorgere, al di là di alcuni cespugli di ginestre in fiore, un panorama mozzafiato: in primo piano un vigneto, in lontananza una mulattiera serpeggiante e, a perdida d’occhio, il mare. Camminiamo su dei lastroni pietrosi su cui sono incisi vari gradini e rivolgiamo lo sguardo all’insù, verso la cima dell’Epomeo, forse uno dei pochi luoghi qui rimasti abbastanza inalterati nel tempo. Aggiriamo i resti dell’eremo di S. Nicola, una chiesa rupestre d’origine quattrocentesca scavata nella roccia tufacea. Ci spingiamo sempre più in alto e alla fine ci rendiamo conto che finalmente abbiamo compiuto l’ascesa del Monte Epomeo. Sulla vetta Fede si rannicchia su una minuscola piazzola concava al centro della quale campeggia una specie di paracarro, per mangiare, al riparo dal vento, una fetta biscottata con una nutellina. Ci ritroviamo completamente circondati dal cielo e sferzati dalle folate di una brezza frizzante. Mi siedo e mi affaccio sull’orlo di un immenso dirupo che da un’altezza vertiginosa precipita bruscamente verso il basso; mi ritraggo presa da un capogiro. Poi, con la macchina digitale, faccio una zumata su Forìo, dove siamo stati stamattina, ingrandisco il particolare della baia di S. Montano, dove eravamo ieri; vedo anche che alcune persone stanno ad ammirare lo stesso paesaggio sublime da un balcone naturale che si trova all’incirca a duecento metri da noi, più in basso: chissà come si fa ad andarci… Veniamo infastiditi dall’arrivo di un gruppo di ragazzi e ragazze che oltre a cicalare allegramente fra loro, oh, sacrilegio, fumano! Ci chiedono gentilmente se possiamo scattare loro una foto. Al bar La Grotta, ricavato da un blocco tufaceo, con un balcone che trabocca di gerani, compro un gelato confezionato per Fede. La signora che gestisce la trattoria ci invita a uscire sul retro del locale, dove tramite un corto itinerario possiamo raggiungere il punto panoramico che ho adocchiato prima. Da lassù ci lanciamo a capofitto nella discesa; percorriamo un sentiero diverso rispetto all’andata, che comincia a sinistra del bar. Poi sentiamo uno scalpitio di zoccoli e in breve incrociamo i due ragazzini del maneggio che vengono su: uno è in sella a un cavallo, mentre l’altro tiene l’animale per le briglie. Prendiamo di nuovo l’autobus CS che tra Fontana e Barano si fa tutti i tornanti a manetta, malgrado sia costretto a frenare spesso per non fare un frontale con gli altri veicoli e soprattutto con il CD che sale nel senso di marcia opposto. Ormai nei pressi di Ischia Ponte riconosciamo il profilo dell’acquedotto settecentesco dei Pilastri, costruito con blocchi di pietra lavica disposti su due ordini di archi (io l’ho visto riprodotto su alcune cartoline) poi, in hotel, ci gustiamo i manicaretti del Bristol. La sera scartiamo definitivamente l’idea di andare a vedere i fuochi d’artificio e ci corichiamo presto. Il terzo giorno di permanenza: martedì 27 luglio Alla mattina facciamo la conoscenza di un nuovo autista della EAV, un buon affabulatore, benché forse eccessivamente logorroico (ecco perché c’era scritto “non parlate al conducente”!). Comunque ne approfitto per farmi spiegare per filo e per segno come raggiungere il bosco della Maddalena per domani. – Siamo arrivati alla sua fermata. Era ora! Fede ed io ci dirigiamo al promontorio di Punta Caruso, sul quale sorgono i giardini La Mortella. Be’, non subito; solo dopo esserci smarriti per una decina di minuti, proprio il tempo che serviva per arrivare puntuali alle nove davanti all’entrata. Appena varcato un portone ci ritroviamo immersi in un giardino dalla vegetazione rigogliosa, costituito addirittura da rarità botaniche subtropicali, dove ci deliziamo con la vista di una distesa di piante ornamentali. In una serra, sulla superficie di uno stagno, vediamo galleggiare delle ninfee, persino quella dalle foglie gigantesche sulle quali, nei documentari, trotterellano piccoli uccelli senza sprofondare: la victoria amazonica. Le orchidee se ne stanno abbarbicate ai tronchi d’albero e in una voliera non lontana svolazzano pappagallini coloratissimi. Purtroppo anche le zanzare sono aggressive e spietate: è come se da un momento all’altro ci fossimo ritrovati catapultati ai tropici; mi schiaccio un insetto che mi succhiava un polpaccio, quindi un altro sulla caviglia. Passeggiando scopriamo che i giardini rappresentano una bellezza condensata in un spazio limitato di meno di due ettari: sono distribuiti su vari livelli –c’è la valle, o giardino inferiore e la collina, o giardino superiore- e sono l’espressione del gusto del paesaggista Russel Page e della moglie argentina del compositore inglese William Wotton. Le ceneri del musicista sono custodite in una pietra vulcanica che prende il nome di William’s Rock sulla quale c’è una lapide commemorativa; a pochi passi di distanza si trova il tempio del sole, una serra costruita in muratura, dedicata ad Apollo, la cui decorazione interna ricorda antichi luoghi di culto. Il “tempio” è suddiviso in tre ambienti che simboleggiano i momenti fondamentali dell’esistenza: la nascita, la vita adulta e la morte. Forse l’elemento di questo giardino che mi colpisce maggiormente è la Sala Thai, un padiglione thailandese circondato da fiori di loto nel quale ci si imbatte subito dopo aver ammirato la cascata del coccodrillo, battezzata così perché lì un lucertolone di bronzo tende un agguato alle rane standosene a fauci spalancate sopra a una vasca. Usciamo dal giardino superiore, dove si trova il parcheggio delle auto e vorremmo andare verso la foresta di Zaro, nel cuore della quale si erge La colombaia, residenza storica estiva del regista Luchino Visconti. Dico sarebbe nostra intenzione perché puntualmente ci confondiamo, chiediamo a varie persone e da ultimo imbrocchiamo la strada giusta. La villa di Luchino Visconti è in restauro e riapre fra una settimana, ma una donna di mezz’età che bazzica lì attorno ci chiede: -Volete vedere? Noi annuiamo e quindi ci incoraggia: -D’accordo, allora vi accompagnano le ragazze. Le ragazze sono bambine che avranno sì e no dieci anni: volano su per le scale veloci come razzi. Corrono dentro, fuori, su e giù, sembra quasi che vogliano scappar via da noi, che le seguiamo divertiti e incuriositi. In un paio di ambienti c’è una piccola mostra di architettura. Finestre ad arco acuto ci regalano squarci improvvisi sul mare, ma in tutta fretta eccoci già sulla terrazza di una torre tinteggiata di un bianco abbacinante, dallo stile medievaleggiante; abbiamo appena il tempo di scattare qualche foto verso un declivio abbastanza dolce e molto boscoso che si tuffa nel mare e verso la –a noi già nota- torre del complesso alberghiero Mezzatorre, immersa in una vegetazione di pini e lecci, che le “ragazze” ci sfuggono nuovamente… Per mostarci una lapide nel parco dove si legge “Qui riposa Luchino Visconti”. *** Alle tre siamo al Poseidon una sorta di Disneyland del relax e del piacere. Ci forniscono un orologio con banda magnetica che serve per entrare, per il quale bisogna versare una cauzione di cinque euro. Però poi per chiudere lo zaino nell’armadietto ci vuole una moneta da un euro, che non ho. Mi rivolgo prima alla boutique-edicola e poi al bar per poter cambiare una banconota da 10 euro. Sono già stressata di brutto. Leggo anche che se uno osa uscire dopo le sei e cinquanta non gli restituiscono più la cauzione del fottuto bracciale a forma di orologio da polso. Lascio la macchina fotografica nel credenzino a pagamento assieme a tutto il resto. Infilo i capelli scarmigliati nella cuffia e mi immergo insieme a Fede in una piscina termale che si trova nei paraggi del guardaroba. Quindi dai 30° dell’Afrodite passiamo ai 34° dell’Ischia e ai 36° dell’Arethusa poi, affrontando un certo sbalzo termico, affrontiamo impavidi i 40° della piscina Apollo. Insomma ho l’impressione che l’acqua sia di un colore turchese artificiale mentre, come già accennato, la temperatura è identica a quella di una brodaglia. Se paragonassimo questo luogo a un sapore direi: stomachevole. Dev’essere lo stress, che non diminuisce nemmeno dopo una copiosa sudata nella sauna, la cui pesante porta di accesso sembra quella di una prigione. La grotta dov’è ubicata la sauna è talmente calda che se non esco dopo 10 secondi mi prende un malore. Se non altro qui in questo bagno turco si bisbiglia perché c’è un cartello che impone silenzio. Dopo un primo momento di esplorazione mi viene in mente di mettere qualcosa sotto i denti e di cominciare a fare qualche foto, perciò devo riaprire l’armadietto e poi introdurre un altro euro per poter richiudere. Un nome accattivante Grotta del Vino solletica la mia curiosità. Chissà che struttura termale sarà… Svelato l’arcano: si tratta di un bar. Non lontano dalla spiaggia scopro anche la sorgente calda che alimenta i giardini Poseidon: l’acqua scaturisce da una fonte a 90° e poi prosegue rasoterra in un ruscelletto bollente dal quale non mi allontano fino a che vedo il segnale Olimpionica. Non mi tuffo nella piscina olimpionica, bensì la aggiro per raggiungere l’Asklepio, una piscina coperta nella quale mi immergo con piacere. Non è troppo frequentata e ha un tetto di vetro trasparente dal quale penetra la luce del sole. Comunque prima di andarmene da questi giardini termali ho l’opportunità di scegliere la mia zona preferita. E’ la vasca a 40° di un gruppo kneipp ubicato nel punto più alto del parco. Distesa in posizione supina sul muretto della piscina con gli occhi scalo una parete di roccia a balze sopra di me mentre ascolto il monotono borbottìo dell’acqua che sgorga da una fontana di pietra grigia e mi lascio solleticare dalla carezza dell’acqua che scivola via attraverso gli sfiori. *** A sera, per cena: sorpresa! Bucatini con pomodorini di Ischia e coniglio alla cacciatora con contorno di patate! Supponiamo che il roditore sia stato allevato in fossa come vuole la tradizione ischitana (se veniamo a sapere che è stato allevato in gabbia non lo assaggiamo neanche). I nostri vicini di tavolo -una coppia anziana di Avellino-, ci anticipano che il Parco Castiglione, dove intendiamo andare domani, è simile al Poseidon, solo che è un bel po’ più piccolo. Il quarto giorno di permanenza: mercoledì 28 luglio La nostra escursione di oggi è al Bosco della Maddalena. Ci inoltriamo su per un’erta salita ombreggiata e noto con soddisfazione che c’è un certo affiatamento tra me e Fede. Il percorso è formato da cerchi concentrici attorno al cratere Rotaro, un ex-vulcano, come mostrano vari pannelli illustrativi disseminati lungo il sentiero. Una bacheca giace rovesciata. La lasciamo dove sta e continuiamo le nostre scorribande nei boschi. Non ci sono fontanelle dove rifornirsi d’acqua, ma ce la facciamo a centellinare quella delle nostre scorte. La discesa è un’ordinata sfilata di pini marittimi, oltre la quale l’obiettivo della digitale cattura alcune belle immagini del porto di Ischia. Riprendiamo l’autobus per Lacco Ameno, dove ci regaliamo una granita al limone in un bar prima della visita a Villa Arbusto, che ospita i tesori ritrovati durante le campagne di scavi archeologici sull’isola. Spicca sul resto degli oggetti la coppa di Nestore, una tazza d’importazione greca, risalente all’epoca dell’antica Pithecusa -nome di Ischia attorno al VIII sec. A.C.- e le copie dei marmi votivi venuti alla luce per caso nella seconda metà del Settecento a Buonopane che testimoniano il culto reso dai Romani alle ninfe Nitrodi. All’una, quando si può entrare con il biglietto ridotto pomeridiano, andiamo al parco termale Castiglione, dotato persino di funicolare. Ci sono due saune e una zona privata, riservata a coloro che alloggiano nel residence, dove si trova una piscina 40 °. La maggior parte del tempo sonnecchio su una sedia a sdraio, ma mi impegno per usufruire di tutte piscine, compresa una coperta, dove naso e gola vengono irritati dalla schiuma al cloro prodotta dall’idromassaggio. Ancora tossicchiante mi rinchiudo per un po’ nello stanzino del bagno turco. Fede è massacrato dopo quest’ultima giornata di terme e non ne vuole più sapere. Il quinto giorno di permanenza: giovedì 29 luglio Alle 8.30 salpa la nave per Procida. Il primo colpo d’occhio quando sbarchiamo al porto è deludente. Di fronte a noi si erge un muro rosa pallido, tutto scrostato. E’ vero che le case alte, multicolori, sono pittoresche, ma solo da lontano. Qui si sente l’aumento della pressione antropica. Il famoso Casale Vascello, un cortile cinto da una schiera di abitazioni su tre livelli, non è per nulla ben conservato né valorizzato. Gli articoli e opuscoli che ho letto su Procida non si soffermavano su alcuna attrattiva in particolare (eccetto l’autenticità), mentre il romanzo L’isola di Arturo ambientato a Procida non l’ho mai avuto per le mani. La fortezza, che è stata anche un carcere, è assai malandata e ho l’impressione che i cannoni, rivolti verso una caletta, in basso, potrebbero tranquillamente radere tutto al suolo senza produrre gravi danni… Insomma: fuggiamo a gambe levate. Sulla banchina del porto ci mettiamo ad aspettare l’aliscafo delle 10.35, che ha un leggero ritardo. Restiamo alcune ore in camera a riposare. Nel primo pomeriggio, mentre Fede schiaccia un pisolino, vado sulla terrazza dell’hotel, da cui si vede il tetto coperto di tegole maiolicate della chiesa di S. Maria delle Grazie in S. Pietro, a due passi da qui. Verso le tre ci avviamo per il giro “mordi e fuggi” dei rimanenti parchi termali. A Buonopane, presso la Sorgente Nitrodi, ci lasciano dare un’occhiata gratis. Sgambettiamo su e giù per i vialetti ai margini dei quali vi sono pianticelle di mirto, lentisco, alloro, salvia, timo, rosmarino e altre aromatiche; fotografo svogliatamente una vasca ornamentale con papiri e ninfee. Al parco termale Tropical di S. Angelo ci permettono di dare una sbirciatina pagando un euro a testa. Infine ci spostiamo a piedi verso l’Aphrodite-Apollon (qui ci vogliono tre euro per passeggiare tra statue, fontane e piscine). Prima di riprendere il CS da Sant’Angelo ci beviamo una dissetante spremuta di arance, limoni e granita in un chiosco ubicato in posizione strategica sul lato opposto del capolinea degli autobus di Sant’Angelo. Il sesto giorno di permanenza: venerdì 30 luglio Allo spuntar del giorno mi sveglio tutta eccitata: oggi è l’ultima giornata di permanenza e per questo vogliamo addentrarci nelle pieghe più nascoste del territorio ischitano. Innanzitutto, da Ischia Porto, prendiamo l’autobus per Campagnano. In piazza un bivio si pone davanti a noi come un dilemma insolubile. Ci imbattiamo in un tipo che ci suggerisce di andare di fianco alla chiesa a destra, lungo una stradina costiera praticamente priva di traffico. Poi comunque non c’è nemmeno l’ombra di un’indicazione su come raggiungere San Pancrazio, la nostra meta, e nessuno a cui chiedere. Nell’aria c’è un odore dolciastro di fico e mentre inspiriamo questo aroma ammiriamo splendidi scorci dell’isolotto lavico su cui sta aggrappato il Castello Aragonese, finché non arriviamo a un belvedere trasformato in pattumiera (forse è stato il vento a spargere l’immondizia) dove sta parcheggiata una motocarrozzetta, un micro-taxi abbandonato. Non ci raccapezziamo più. Consultiamo una mappa sgualcita e poco dettagliata dell’isola. Guidati dall’istinto ci immettiamo in un viottolo polveroso in mezzo a terrazzamenti con vigneti e orti dove, sui tralci, maturano i pomodorini di Ischia. Procediamo baldanzosi per la viottolo adventure dopo che una giovane coppia ci ha rassicurato: andiamo nella direzione giusta. Siamo fortunati, il terreno è lievemente in discesa. Alla fine prendiamo atto del fatto che ci troviamo di nuovo alla casella di partenza e senza essere passati per punta San Pancrazio; ma ci vuole ben altro per farci desistere dai nostri propositi. Invochiamo una delle sante patrone dell’isola: – Restituta, aiutaci tu! (devo fare una breve digressione: questa è una santa cartaginese che di martirio se ne intende: sopportò il tormento del fuoco in mare –stava per diventare una torcia umana-, ma grazie a una botta di culo ciò che finì per incendiarsi fu invece la barca degli aguzzini, mentre lei tornò a riva in dolce compagnia: gli angeli la “restituirono”, appunto, sana e salva). Al bar non ci è difficile impossessarci delle informazioni necessarie per arrivare al ristorante di Piano Liguori; tuttavia, prima di incamminarci nuovamente acquistiamo una Coca Cola e un tè freddo al supermercato. La pendenza aumenta e sento una molle stanchezza risalirmi nelle membra. L’entusiasmo si smorza: la salita è ripidissima, inoltre il cielo si sta incupendo. Cerco di sincronizzare la mia andatura con quella di Fede, ma è impossibile: aumenta a poco a poco il suo vantaggio mentre io sto arrancando. Veniamo superati da un ragazzo a bordo di un vespino, messo a dura prova su per il pavé. In una cavità della parete rocciosa, a sinistra, vediamo un cimitero di vespe (battezzato da Fede il vespaio). C’è anche un ape car parcheggiato malamente sul ciglio del sentiero. Più avanti ecco una gialla cabina telefonica in disuso. Ancora oltre vediamo un cancello creato riciclando reti permaflex e un cartello con le informazioni naturalistiche che è stato imbrattato con una freccia nera indicante il ristorante. Scendiamo la rampa di scale che porta al ristorante, in questo momento deserto. Il rumore dei nostri passi richiama l’attenzione del gestore, al quale chiediamo come fare a raggiungere punta San Pancrazio. Ce la mostra, infatti da qui si vede benissimo: è una lingua di terra protesa sul mare e proprio sotto di noi si snoda il nastro polveroso del sentiero, che è quasi tutto in discesa. Arriviamo in picchiata alla cappella di S. Pancrazio e ci addentriamo anche in un uliveto fino a una ripida scarpata che sovrasta il mare. Rimaniano estasiati dal panorama selvaggio. Il ritorno, però, è sfiancante: la marcia è lenta, ma continuiamo a risalire verso il ristorante (ci viene l’acquolina in bocca all’idea delle bruschette con pomodorini, capperi, olive che ci aspettano). Ci siamo ben guadagnati queste bruschette che divoriamo sotto a un pergolato, con un micetto che ci guarda ansioso, con occhi spalancati. Al pomeriggio Fede decide di rimanere ad oziare in stanza. Io scendo ancora una volta in autobus verso la costa occidentale per vedere i giardini Ravino. *** Camminando lungo un vialetto mi addentro nell’opulento giardino, zeppo di succulente: ci sono spinosi fichi d’india, enormi cactus globosi e un’infinità di altre piante grasse. Mi siedo stravaccata nel salottino del lounge cafè in stile coloniale e poi, una volta uscita dal giardino, proseguo a piedi fino alle spiagge di Cava dell’isola e di Citara, ubicate tra Forìo e Panza. Sto a ciondolare sull’arenile sabbioso di Citara lambito dal mare e mi metto a pensare a come doveva apparire questo posto quando i colonizzatori greci Eubei giunsero qui. In lontananza scorgo un scoglio bizzarro che ha un nome: è lo scoglio degli innamorati. Il ritorno non è piacevole: mi tocca restare in piedi sull’autobus. Ho i piedi gonfi e la novità del paesaggio non riesce più a distrarmi: ormai conosco a memoria la strada verso Ischia Porto. *** La partenza è il 31 luglio. Aniello ci viene a prendere alle 5.45 all’hotel. Mi alzo insonnolita, indugio davanti allo specchio. Poi esulto di gioia al pensiero di tornare a casa anche se non all’idea dell’ulteriore estenuante tragitto in pullman. Nella valigia, come un trofeo, porto a casa la macchina digitale traboccante di foto e due confezioni di biscotti al limoncello e mandarino. In fin dei conti penso di aver trovato il tesoro di natura incontaminata che cercavo.