Namibia, avventura possibile senza spendere troppo
MERCOLEDì 29 AGOSTO 2012
Se la passione per i viaggi si misurasse in base al tempo che un individuo è disposto a passare chiuso in un aereo per raggiungere la meta desiderata, allora stavolta io e Giovanni ci meritiamo il titolo di veri amanti dell’avventura!
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Arrivare in Namibia (luogo su cui è ricaduta la scelta di quest’anno) ci costa infatti un’interminabile giornata a zonzo per aeroporti e su e giù dagli aerei. Per noi, che non sopportiamo né star seduti né essere rinchiusi, è un grande sforzo, ma ci consoliamo con la certezza che quello che ci attende in Namibia ci farà rapidamente scordare queste lunghe e noiose sorvolate.
Tutto ha inizio ieri pomeriggio all’aeroporto di Venezia, dove ci imbarchiamo verso Francoforte. Arrivati in Germania ci attende una sosta di quasi 5 ore e alle 20.45 il nostro airbus diretto a Johannesburg, finalmente, decolla! Il volo è tutt’altro che tranquillo e per gran parte della notte veniamo sballottati dal temporale: Giovanni, come al solito, dorme come un ghiro; io invece non trovo pace per quasi 11 ore. A Johannesburg altra pausa di due ore e poi saliamo sul volo per Windhoek… l’ultimo! Dopo aver fatto avanti e indietro per il continente europeo e quello africano (ecco perché i biglietti ci sono costati “solo” 1000 euro a testa, a/r), ci siamo: stiamo per arrivare in Namibia! L’aeroporto di Windhoek non è più grande di quello di Treviso, nonostante la città conti più di 400mila abitanti. Subito entriamo in contatto con l’irritante scortesia degli impiegati : sono maldisposti, poco propensi ad aiutarti, si irritano se devono ripetere due volte la stessa cosa e ti trattano malissimo anche se sanno perfettamente che sei un turista e sei lì per portare soldi! Sembrano scocciati di dover lavorare e per ogni mansione ci sono almeno 2-3 lavoratori in eccesso che stanno lì a ciondolare senza far niente ma nonostante questo guai ad andare a disturbarli! Scopriremo durante il viaggio che questo comportamento poco amichevole si riscontra soprattutto nelle città e da parte delle donne.
Ci rincuora il fatto di ritrovare subito la nostre valigie che ci eravamo convinti fossero state spedite dall’altra parte del mondo, visti i mille cambi d’aereo, e invece. Prima di dirigerci all’uscita (ore 11.30), dove è venuto a prenderci il ragazzo della Namibia Car Rental (NCR), ci rechiamo al banco della “Be Local” per farci dare il telefono satellitare prenotato da casa. Anche qui solita scortesia ma nessuna traccia del nostro telefono. Nessuno si scomoda per darci qualche informazione in merito e noi, desiderosi andarcene al più presto dall’aeroporto, lasciamo perdere, raggiungiamo il nostro autista al parcheggio e saliamo sul furgoncino che ci condurrà a Windohoek (l’aeroporto dista 45 km dalla capitale). Durante il tragitto, mentre osserviamo il paesaggio dai sedili posteriori, cominciamo a renderci veramente conto di essere arrivati in Africa e ci prende una forte emozione!
Arrivati all’ufficio della Ncr, sbrighiamo le pratiche e possiamo ritirare il nostro pick up Nissan 4×4 con roof tent. L’impiegata ci aiuta a risolvere il problema del telefono satellitare chiamando un’altra compagnia e confermandoci che alle 16 un addetto passerà alla nostra guesthouse a portarci il telefono. Fantastico! Il ragazzo che ci ha condotti fin qui ci illustra per filo e per segno tutte le caratteristiche del jeeppone, dell’equipaggiamento (un po’ scarso a dire il vero)e della tenda e ci fa vedere come si monta/smonta quest’ultima. Facciamo notare che le gomme sembrano essere un po’ usurate ma ci dice di non preoccuparci e noi non insistiamo perché siamo ansiosi di partire. Chiaramente alla fine sganciamo una mancia al ragazzo (qui è un rito quasi obbligatorio, qualsiasi sia il servizio eseguito, anche il più piccolo) che lui fa sparire nelle tasche alla velocità della luce. Il noleggio della macchina comprende anche un’assicurazione base ma noi, via internet, ne abbiamo fatta anche un’altra, più completa, che non si sa mai…
Sono circa le 14 quando, col nostro carrozzone, lasciamo la Ncr e iniziamo l’avventura, da soli. Beh, per oggi l’impresa consiste solo nel destreggiarsi alla guida sulle strade incasinate di Windhoek e, col volante a destra e il senso di marcia a sinistra, la cosa non è affatto semplice! Per fortuna Giovanni è bravissimo.. Ci fermiamo in un piccolo centro commerciale a fare provviste e anche là è tutta una richiesta di mance a destra e a sinistra: ci stiamo già scocciando.
Finalmente arriviamo alla guesthouse “Terra Africa” (54 euro a testa con colazione), un posto davvero delizioso, in una zona tranquilla, con un rigoglioso giardino e delle camere molto curate. Ci rilassiamo un’oretta in attesa del nostro satellitare e alle 16, puntuale, ecco il ragazzo che doveva passare a consegnarcelo. Il satellitare non è indispensabile ma noi abbiamo considerato che, avendo intenzione di rimanere per 14 giorni da soli in terre sperdute, non sia male avere la possibilità di contattare qualcuno in caso di emergenza (il noleggio ci costa 160 euro per 15 giorni compresi 30 minuti di chiamate prepagati). Alle 17.30 lasciamo l’alloggio per tornare al supermercato e comprare un adattatore per le prese di corrente: sembra che quello universale che ci siamo portati dall’Italia qui non entri da nessuna parte. E già che siamo fuori, lasciato il supermarket, guidiamo direttamente verso “Joe’s Beer House”, nonostante non siano neanche le 18! Ma chi se ne importa: la fame c’è, ormai è buio (qui tra le 18 e le 18:30 il sole tramonta)e siamo stanchi morti. Joe’s Beer House è un celeberrimo locale della capitale, molto “africano” e, anche se è frequentato per lo più da turisti, ha un’atmosfera incantevole e si mangia benissimo. L’attesa è lunga (ma qui in Africa ci dovremo abituare alla lentezza!) ma ne vale la pena: con 36euro ci pappiamo due enorme piatti carne (kudu, orice, struzzo, coccodrillo e compagnia bella)con verdure e patate, accompagnati da birra e acqua. Niente, niente male! Tornati al lodge, alle 21 siamo già stecchiti sul letto.
GIOVEDì 30 AGOSTO 2012
Che dormita! Ci voleva!
Alle 06:30 iniziamo a caricare la roba in macchina e poi schizziamo alla sala della prima colazione dove ci lanciamo su tutto il ben di Dio che c’è al tavolo self-service. Finito di ingozzarci di cereali, pane e marmellata, yogurt, succo, ecc. ecc. lasciamo il Terra Africa e passiamo a salutare Anita all’ufficio della CardBordBox. Anita è la ragazza che ci ha aiutati a prenotare gli alloggi e alcune attività e a farci un’idea sulle distanze da percorrere. È gentilissima esattamente come si era mostrata nelle mail e insieme riguardiamo alcune tappe difficili dell’itinerario su una cartina che lei stessa ci aveva fatto recapitare al Terra Africa. La salutiamo e prima di lasciare del tutto questa brutta città ci fermiamo a fare il pieno alla jeep e a riempire le due taniche di riserva. La benzina costa poco meno di 1 euro/litro che, rispetto all’Italia, sembra un sogno ma la Nissan ha l’aria di una che beve parecchio.
Man mano che ci allontaniamo dalla capitale, l’Africa ci appare in tutta la sua bellezza e tutta la sua vastità. Percorriamo la B1 verso Nord in direzione Otjiwarongo: è una strada asfaltata e drittissima che attraversa il bush con continui sali scendi che seguono le forme del territorio (la Namibia è tutt’altro che piatta!). Nonostante questa strada sia praticamente l’unica strada, appena passata Okahandja, riusciamo a sbagliare direzione e ci tocca tornare sui nostri passi. Mai distrarsi: è la regola d’oro da rispettare! Il primo animale che inaugura i nostri avvistamenti è un maestoso struzzo. È così strano per noi incontrare questi esseri che ci sembrano quasi irreali, finti, ci pare di trovarci in uno zoo. Invece qui gli animali stanno a casa loro, liberi nelle terre selvagge.
Alle 13 tutti i posti da pic-nic sono sotto un sole infuocato quindi tanto vale accostare vicino ad un recinto di vitelli da carne e mangiare qualcosa mentre osserviamo i mandriani impegnati a caricare le bestie su un camion enorme. La Namibia sta lentamente seguendo le orme del Sudafrica e sta sviluppando molto il settore degli allevamenti di bovini.
Superata Otjiwarongo (orrenda città pure questa) svoltiamo sulla D2440 in direzione del “Cheetah Conservation Fund” (CCF). Dal punto in cui si svolta sono 44 km di strada non asfaltata ma percorribilissima e noi siamo contenti perché queste sono le strade che ci aspettavamo di trovare in Africa, rosse e polverose. La rotta? Facile, sempre dritti. Siamo solo noi e la savana e i primi veri incontri con gli animali li facciamo proprio qui. Poca roba, ma per noi sono già visioni molto emozionanti: vediamo dei facoceri, un orice, un minuscolo dik-dik e uno sciacallo.
Al Ccf ci accoglie una guida molto gentile (costata 13 euro a testa) che ci illustra il tipo di attività che si svolge qui e, ovviamente, ci conduce dai ghepardi! Sono dei gattoni più piccoli di come ce li immaginavamo, ma di un’eleganza indescrivibile. Si avvicinano a noi e ci fanno pure le fusa! Siamo senza parole… Mai avremo pensato in vita nostra di vedere così da vicino questo snello felino che ammiravamo solo nei documentari in tv! La guida ci spiega che la Namibia è la nazione africana che ospita il più cospicuo numero di ghepardi in libertà ma anche che essi stanno diminuendo soprattutto a causa della massiccia presenza degli allevamenti di bestiame: i ghepardi attaccano le capre, gli allevatori li uccidono, semplice. Al Ccf perciò, oltre a prendersi cura dei cuccioli rimasti orfani e garantire loro una vita in cattività, cercano di fare in modo che l’uomo e il ghepardo possano instaurare una convivenza. Allo scopo allevano qui una particolare razza di cani, il Pastore dell’Anatolia, ottimo per la guardia del gregge e poi vendono o regalano i cuccioli agli allevatori: in questo modo l’allevatore avrà salvo il suo bestiame (i ghepardi hanno il terrore dei cani) e il ghepardo avrà salva la vita, in modo semplice ed economico. La guida, continuando a darci interessante informazioni sui ghepardi, ci conduce a vedere altri esemplari presenti al centro (ce ne sono circa 40) e questi particolari cani da guardia. Siamo molto soddisfatti di essere venuti fin qui ma quando finiamo il giro sono già le 17 passate ed è meglio se torniamo a Otjiwarongo e ci mettiamo alla ricerca della nostra guesthouse. Ripercorriamo i 44 km di sterrato col sole che tramonta e con una gran moltitudine di animali che saltano fuori da ogni parte! È quasi buio e fa fresco: il momento migliore per gli avvistamenti! Se è così qui, mi chiedo cosa vedremo all’Etosha!
Quando arriviamo in città è ormai buio e siamo un po’ preoccupati perché non sappiamo come fare a trovare il “Bush Pillow” ma, per un colpo di fortuna, entriamo nella via esatta e il b&b; ci appare davanti come un miraggio (posto carino, a 46 euro a testa con colazione). Per cena ci rechiamo in un ristorante poco distante, il “C’est si bon”, l’unico in zona. Con l’equivalente di 32 euro ci servono un’ottima bistecca di manzo con patate arrosto, pollo alla griglia con patate fritte, due french salad, acqua, birra e un delizioso dessert. È dura però far capire che non desideri che il cibo venga inondato di salse o fritto, per loro è impensabile mangiare senza schifezze. E alla fine scatta la mancia… Dopo un giretto in macchina per la città (veramente orrenda, quasi paurosa), rientriamo al lodge e alla 21.30 siamo già belli addormentati.
VENERDì 31 AGOSTO 2012
Ci alziamo alle 06:15, carichiamo la jeep e corriamo a far colazione. Anche al Bush Pillow il primo pasto della giornata è abbondante e ottimo (a parte quella macedonia che sa di cipolla…mah…), ma non abbiamo molto tempo: alle 8 dobbiamo essere di nuovo al CCF per assistere alla corsa dei ghepardi. Questa è una delle tante attività che il centro offre ai visitatori (20 euro a testa). Si entra in una vasta area dove si svolge questo gioco molto gradito ai gattoni: un pezzo di stoffa viene legato ad un filo che scorre veloce sul terreno, lungo un percorso di 400 metri e i ghepardi, lasciati liberi, si divertono ad inseguire lo straccio, come fanno i mici domestici quando gli si muove davanti uno spago. Alla corsa siamo presenti solo noi, lì insieme a 4 ghepardi liberi (e ad un addetto con bastone in mano!). Il momento in cui i ghepardi scattano è segnato da un brivido che scende lungo le nostre schiene: prendono velocità, balzano, cambiano di colpo direzione, accelerano di nuovo. Guardarli è un’emozione unica! Non raggiungono mai la massima velocità (110 km/h, solo quando cacciano), perché si tratta di un gioco e non hanno motivo per sprecare tanta energia. Non superano i 65 km/h ma anche così sembrano comunque dei fulmini! Nonostante la velocità “ridotta”, i felini si stancano presto e dopo circa 20 minuti di gioco iniziano a sdraiarsi per terra in cerca di ombra e riposo. Gli addetti allora sanciscono la fine della corsa e riportano gli animali nei recinti, facendo loro qualche carezza.
Torniamo indietro fino a Otjiwarongo, dove ci fermiamo a fare la spesa e, come ieri, la città è ancora piena di gente che vaga e ozia. Ovviamente i turisti come noi sono i bersagli ideali per chi non ha niente da fare e magari le tasche vuote! Basta, siamo stanchi di elargire soldi a tutti! Incontriamo anche due italiani incazzatissimi con le autorità del posto che –così raccontano- hanno inflitto loro una multa ingiusta per eccesso di velocità. Probabilmente non mentono sull’ “ingiusta” perché dicono che è bastato allungare una mancia ai poliziotti e tutto è stato sistemato! Ci consigliano, comunque, di mantenerci sotto i limiti di velocità e di stare all’occhio. Finalmente lasciamo l’orribile Otjiwarongo e prendiamo la direzione verso Outjo.
La strada corre sempre dritta in un paesaggio piuttosto monotono e la cosa non cambia neanche dopo aver passato Outjo e aver preso per Kamanjab. Tutto è secco, quasi bruciato, non c’è nulla di interessante da fotografare ma sappiamo che alla fine di questa traversata entreremo nell’Etosha e un sogno che dura da mesi prenderà forma! Anche a Kamanjab (come del resto a Outjo) troviamo i soliti tiratardi che accorrono a spillarci soldi… Alla stazione di servizio del piccolo centro scopriamo con orrore che sta macchina beve come una sanguisuga! Comunque altro non possiamo fare se non approfittare della pompa e fare il pieno… e il portafoglio piange!
Da Kamanjab continuiamo per Ruacana (verso Nord): lungo la strada dovremo trovare il nostro “gate” per l’Etosha! Fatti appena dieci km ecco che ci appare una splendida giraffa, proprio lì, sul ciglio della strada! Arriviamo finalmente a Galaton Gate: era ora, oggi abbiamo macinato più di 400 km, per fortuna quasi tutti su strada asfaltata. Oltrepassato il cancello, siamo ufficialmente nel parco nazionale! Manca solo la registrazione a Otjovasandu, il pagamento della tassa di soggiorno (circa 6 euro a testa al giorno) e saremo liberi di goderci questo paradiso in terra. Sbrigate le ultime scartoffie ci dirigiamo verso il “Dolomite Camp” (90 euro a testa con colazione)dove trascorreremo la nostra prima notte all’Etosha. Questo lussuoso lodge si trova nella parte ovest del parco, accessibile solo a chi effettua (con largo anticipo)una prenotazione presso questa accomodation. I 40 km che separano il Dolomite Camp dall’ingresso ci costano, sì, una gran fatica perché ormai siamo lessi ma ci fanno assaggiare già da stasera un po’ di wild life. Infatti, nell’ordine, ci attraversa la strada un enorme orice, troviamo caccone di elefante ovunque (si riconoscono dalle dimensioni: quale altro culo potrebbe espellere delle simili quantità di roba?) e facciamo un incontro ravvicinato con tre elegantissime giraffe! Il bello di questo parco è che gli animali non si vedono come dei minuscoli puntini in lontananza ma ti appaiono lì, a due passi dalla macchina, quasi come se ti venissero a cercare. Il Dolomite Camp è inserito in maniera talmente armonica nella natura che non ci si rende neanche conto di essere arrivati finchè non ci si sbatte addosso! E’ costituito da una serie di piccoli bungalow/tende col tetto in paglia che si adagiano, ben distanziati l’uno dall’altro, sui fianchi di una collina al centro di una savana che più savana non si può! Non è consentito salire lassù con le auto: un addetto viene a prendere noi e i nostri bagagli con una di quelle macchinette che si usano nei campi da golf e ci conduce al nostro stupendo bungalow, dove non c’è traccia di muri o di cemento, solo il materiale di cui sono fatte le tende da campeggio, legno e paglia. Dentro vi è ogni tipo di comfort e ogni unità è dotata di una terrazza affacciata sull’enorme pianura. Da lì facciamo in tempo a goderci il tramonto di stasera. Sembra un sogno: una palla di fuoco che velocemente scompare dietro l’orizzonte e per km niente di niente che possa impedire agli occhi di scorrazzare per l’immensa savana e di ammirare indisturbati il tramonto. È un panorama “senza limiti”, senza niente che lo fermi o lo confini, solo la linea dell’orizzonte.
Prima di andare a cena attendiamo ancora un’oretta perché Giovanni ha scelto questo luogo unico al mondo per farsi venire la febbre. Per raggiungere il ristorante bisogna chiamare di nuovo il ragazzo con la macchinina perché – dato che il lodge è totalmente privo di recinzioni- potrebbe essere pericoloso girare per la collina da soli col buio. Il ristorante è un’altra magnifica capanna/tenda e vi sono già presenti altri commensali ma c’è un gran silenzio e tutto è perfettamente integrato con l’ambiente circostante. Le portate del menù sono fisse, tranne che per i secondi per i quali vengono offerte quattro scelte. La cena non è male, se non fosse per le pesantissime salse che ricoprono ogni pietanza. Appena finiamo, ecco di nuovo il ragazzo con la macchinetta che ci riporta al nostro bungalow. Anche stasera a letto come le galline.
SABATO 01 SETTEMBRE 2012
Ci alziamo che sta per farsi giorno decisi a non perderci l’alba sulla savana. Lo spettacolo, manco a dirlo, mozza il fiato. Assistiamo silenziosi al sorgere del sole che, lentamente, tinge di rosa l’immensa pianura intorno a noi. Non c’è nulla da dire, le parole sarebbero in più. Nemmeno le foto renderanno giustizia a tanta bellezza: una foto è pur sempre un “ritaglio”, un pezzo di questi panorami infiniti. Non c’è modo di rendere l’idea di spazio che si trova davanti a questi paesaggi.
Piuttosto infreddoliti facciamo ritorno alla nostra capanna che è già giorno. In Namibia di notte è piuttosto freddo e alla mattina si parte ben vestiti, togliendo strati di roba man mano che il sole inizia a scaldare. Verso le 06.40 ci dirigiamo alla tenda della prima colazione dove troviamo il solito po’-po’ di roba! Finita l’abbuffata paghiamo e senza aspettare il ragazzo con la macchinina scendiamo al parcheggio a piedi, portandoci da soli le valigie. Ci mette un po’ a disagio tutto questo essere serviti e riveriti… Lasciamo a malincuore il Dolomite Camp e la sua straordinaria veduta sulla pianura africana. Ci aspetta un’intera giornata a zonzo per il parco tenendo la direzione per Okaukejo, 190 km a est. Okaukejo è uno dei tre alloggi presenti nella parte del parco aperta ai turisti: per poter rimanere all’interno dell’Etosha è necessario aver prenotato con largo anticipo un pernottamento in queste accomodation altrimenti ogni sera, prima del tramonto, si è costretti a raggiungere una delle uscite e lasciare il parco.
Seguiamo quasi sempre la pista principale, sterrata ma percorribile senza problemi anche se non si guida una 4×4. A neanche un chilometro dalla partenza ecco l’incontro con la prima mandria di zebre. Anche se in seguito scopriremo che la zebra è un animale pressoché onnipresente nel parco, il primo incontro con questi cavalli a strisce ci lascia di sasso! Ci fermiamo in tutte le pozze esistenti sul percorso dal Dolomite Camp a Okaukejo il che ci permette di ammirare da vicino giraffe (una con il suo cucciolo!), orici, antilopi (vediamo due maschi in lotta, con le corna incastrate), gnu, struzzi, miliardi di springbok, facoceri, scoiattoli e, arrivati alla pozza di Ozonjuitji m’Bari, ben dieci elefanti all’abbeveraggio! Sono enormi, padroni incontrastati della pozza che è affollata da molti altri animali, impediti però di avvicinarsi all’acqua da quei bestioni con le zanne! Durante la giornata ci sfrecciano attorno anche nugoli di uccelli di ogni tipo e uno in particolare attira la nostra attenzione presso la pozza di Okondeka: è un Secretary Bird, dalle gambe rosse e lunghe e provvisto di un curioso ciuffo in testa. Nel parco è assolutamente vietato scendere dalla macchina, per nessun motivo. Se scappa, bisogna aspettare di raggiungere una toilette (sorta di enormi gabbie), entrarvi con la macchina e richiudere il cancello in fretta! Ma dal Dolomite Camp alla prima toilette è lunga! La nota negativa del percorso di oggi è che per circa 40 km abbiamo guidato non in mezzo ad un parco ma a un inferno nero e desertico: dev’essere passato un incendio di recente, la savana è bruciata come cenere, non si vede un filo d’erba verde, né un animale o un albero e le pozze sono secche e abbandonate… Un vero peccato.
Arriviamo a Okaukejo verso le 15 e prendiamo subito possesso della nostra piazzola: stasera si inaugura la roof tent! Il campeggio è molto spartano ma i servizi ci sono tutti (bagni, docce, acqua calda, elettricità) compresi un ristorante, un piccolo market, un distributore di benzina e una piscina. Insomma, non manca nulla! Ci mettiamo a montare la tenda: due o tre manovre e, oplà!, è bella e pronta! Il buio inizia a scendere: è ora di preparare la pappa. Per stasera niente ristorante: abbiamo deciso di fare i campeggiatori o no? Sfruttiamo quindi l’attrezzatura fornitaci con la jeep e le nostre scorte alimentari e ci prepariamo una romantica cenetta al buio. Finito di sistemare ci rechiamo alla pozza del lodge: c’è tantissima gente ma nonostante ciò regna un silenzio incredibile. Tutti osservano, senza fare il minimo rumore, lo spettacolo che si sta svolgendo attorno all’acqua, a pochissimi metri di distanza. Cinque o sei giraffe si stanno abbeverando, allargando le zampe in quella goffa posizione che sono costrette ad assumere per arrivare a terra col collo. Attorno alla pozza ci sono poi parecchi rinoceronti: sembrano fatti di roccia, non di carne, sono granitici. E sono anche dei grandi attaccabrighe. Appare anche un elefante, enorme: si avvicina all’acqua con la sua andatura lenta e barcollante ma non è difficile capire come mai una bestia del genere non abbia alcun nemico nella savana. Infine, eccoli, si materializzano come due fantasmi, perfettamente mimetizzati nella luce gialla che illumina la pozza. Il re e la regina: il leone e la leonessa. Si avvicinano furtivi all’acqua, tanto che all’inizio neanche li vediamo, ci accorgiamo solo che tutti gli altri animali sono sull’attenti e smettono di bere e le giraffe cominciano ad allontanarsi. Solo l’elefante sembra indifferente. L’atmosfera è tesissima. A un certo punto un rinoceronte si scoccia e li caccia con grande sollievo da parte delle giraffe che, guardinghe, si riavvicinano all’acqua. Restiamo lì in tutto… non lo so, il tempo ci è sfuggito davanti a un tale spettacolo! Lasciamo la pozza decisi a tornarci a metà della notte per vedere che succede.
DOMENICA 02 SETTEMBRE 2012
Alle 02.30 (stanotte è entrata in vigore l’ora legale e le lancette scivolano in avanti di un’ora, riportandoci allo stesso fuso orario di casa) usciamo infreddoliti dalla roof tent ma, mossi due passi nel deserto campeggio, un ruggito assordante ci pietrifica. “L’ho già sentito diverse volte anche prima” bisbiglia Giovanni. Sembra che l’animale sia lì, nel buio, dietro a quella jeep o a quella tenda, a neanche 30 metri da noi. Razionalmente capiamo che non può essere così (il campeggio è recintato), ma in giro non c’è anima viva, solo noi, le tenebre e… un leone che ruggisce arrabbiato! Pavidi facciamo dietrofront e torniamo a rifugiarci nella tenda, al sicuro (??). Puntiamo però la sveglia alle 05.30 quando in giro ci sarà sicuramente qualcuno e magari meno leoni! Rimango sveglia un’oretta ad ascoltare i tremendi versi provenienti dalla savana che mi gelano il sangue. Sono rumori agghiaccianti, sconosciuti alle nostre orecchie e ho davvero l’impressione che le belve siano acquattate sotto la nostra tenda! Riconosco i ruggiti dei leoni e poi delle risate argentine: forse le iene? E, verso mattina, altri nuovi versi, probabilmente lotte tra rinoceronti.
Suona la sveglia e noi ci riproviamo: usciamo dalla tenda, in giro c’è altra gente. Bene, si va alla pozza! Peccato che sia completamente deserta. Sentendoci un po’ scemi per la paura di stanotte, ritorniamo alla tenda e dormiamo un’altra mezz’ora. Poi ci alziamo definitivamente e cominciamo a disfare il nostro rifugio: anche se passeremo un’altra notte a Okaukejo la roof tent va sempre smontate e rimontata, mica si può lasciarla alla piazzola e andar via senza! In men che non si dica la tenda si ricompatta sopra il tettuccio della macchina e noi siamo pronti ad andare a fare colazione al ristorante del resort. Abbiamo deciso così sia per poter partire più in fretta, sia perché di mattina fa veramente freddo e mettersi a mangiare all’aperto non è per niente entusiasmante. Il buffet offre un sacco di cose buone da mangiare e, anche se non è propriamente economico (11 euro a testa), possiamo riempirci le pance a volontà e saltare tranquillamente il pranzo! Finito di mangiare ci rechiamo alla reception e sentiamo le guardie dire che stanotte i leoni si sono avvicinati più del solito al campo e che avevano ruggito prepotenti: allora abbiamo avuto ragione a spaventarci!
Alle 07:15 i cancelli di Okaukejo vengono aperti e noi possiamo cominciare con le nostre esplorazioni. Dopo neanche due km dall’uscita del camp ecco un enorme elefante proprio lì, accanto a dove passiamo noi. Chissà se è lo stesso di ieri sera, quello della pozza.. Giriamo una stradina secondaria e andiamo a vedere il “Pan”: è una vastissima piana secca e bianca che, nella stagione delle piogge, riesce a trattenere l’acqua e a fornirla agli animali per buona parte dell’anno. Adesso però è completamente arida, un deserto. La sua estensione sembra non avere confini e occupa buon parte del parco.
Lasciamo il Pan e ci dirigiamo verso sud, di nuovo distanti dalla pista principale, per andare a vedere delle pozze dove incontriamo zebre (beh, dov’è che non ci sono zebre?), springbok (idem), orici, gnu, struzzi, kudu (finalmente! Le loro corna attorcigliate sono stupende!), facoceri, elefanti e antilopi. Il paesaggio non è monotono come ieri: si passa dall’aridità totale del Pan, al giallo della savana, al rosso-brunastro delle macchie alberate. Le pozze sono meravigliose, piene zeppe di animali e noi li osserviamo andare e venire, bere, litigare, saltellare.
Mentre ritorniamo dalla pozza di Aus verso la strada principale la macchina inizia a dar segno che qualcosa non funziona: invece di avanzare normalmente va avanti a balzi e si sente un forte odore di benzina. Cavoli, qua ci tocca tornare a Okaukejo… Siamo indecisi sul da farsi. In situazioni come questa basta un semplice guasto alla macchina e si è già in balia dell’imprevisto e bisognosi di aiuto. Non vediamo quindi altre soluzioni se non quella di tornare a malincuore a Okaukejo prima di rischiare di rimanere bloccati del tutto. Sulla via del ritorno passiamo di fronte alla pozza di Newbroni che è affollatissima. C’è anche un enorme branco di elefanti che si sta lentamente allontanando dalla pozza. Ma io sono occupata contattare l’autonoleggio visto che ci avevano assicurato l’assistenza 24 ore su 24, in qualsiasi località della Namibia, anche la più remota. L’impiegato che risponde al telefono, però, è evasivo e non riesco a capire bene ciò che dice. Capisco solo che questa assistenza non è possibile: ti pareva! Torniamo quindi alla nostra piazzola, incazzati e senza sapere cosa fare. Per fortuna tre ragazzi della piazzola vicina corrono in nostro soccorso, tentando di capire cos’ abbia sta macchina e parlando al telefono con il meccanico della Namibia Car Rental. Vanno anche a far un giro in auto insieme a Giovanni ma non vengono a capo di nulla: ci consigliano perciò di provare a riprendere i nostri game driving e vedere come va. Così facciamo: torniamo in pista e la jeep sembra funzionare anche se non va bene come ieri. Di sicuro, a Tsumeb, la faremo controllare: non vogliamo neanche pensare a cosa potrebbe succedere se si rompesse del tutto lasciandoci soli nella Skeleton Coast… Meglio non rischiare!
Continuiamo a girovagare fermandoci in ogni pozza e ammirando le moltitudini di animali intenti ad abbeverarsi. Una delle più ricche è proprio quella di Newbroni. Fotografiamo anche svariate specie di uccelli, alcune di taglia extra-large come il “kori bustard”. Qualche scatto al Pan e poi facciamo rientro al camping che sono le 17 passate.
Montiamo la nostra super tenda e verso le 18:30 ceniamo tutti contenti perché dopo il cambio dell’ora c’è un sacco di luce in più alla sera. Alle 20 partiamo per un game driving notturno. Lo so che sembra una cosa da pensionati ma è il solo modo per poter visitare il parco di notte. Saliamo dunque su questa camionetta assieme ad altri 6 turisti e per tre ore scorrazziamo per l’Etosha in versione notturna. Incontriamo animali prettamente notturni (come la stranissima “volpe con le orecchie da pipistrello”) e altri che sono attivi di giorno ma che con il buio assumono comportamenti diversi. Ad esempio di notte le giraffe si vedono accucciate per terra, cosa che con la luce non farebbero mai. Scopriamo che gnu e springbok, di notte, restano molto vicini alle zebre che sono il primo animale a captare la presenza di predatori e a fuggire nella direzione opposta: gli altri animali, quando le vedono partire, le seguono a ruota! Abbiamo la fortuna di osservare anche un rinoceronte nero con un piccolo mentre la guida ci spiega che questo mammifero è uno degli animali più aggressivi e pericolosi della savana! Man mano che il tempo passa fa sempre più freddo, siamo praticamente congelati. Poi tre incontri da manuale: il primo è quello con due leonesse che si stanno abbeverando presso una pozza. Un brivido ci percorre la schiena quando io e Giovanni realizziamo che esattamente in quel punto, poche ore prima, ervamo scesi dall’auto per fare la pipì, infrangendo le severe regole del parco. Bravi furbi. Il secondo incontro avviene subito dopo ed è impagabile: stavolta altre due leonesse hanno appena agguantato una povera zebra e la stanno tenendo ferma a terra! Alzano la testa, ci squadrano minacciose, accecate dalla luce rossa che punta loro addosso la guida, ma poi continuano indifferenti la loro opera. La guida ci consiglia caldamente di tornare in questo punto domani mattina: ovvio che lo faremo! Il terzo incontro speciale è con due feroci iene, uno degli animali che più eravamo curiosi di vedere. Sembrano cani ma hanno la testa più piccola e tozza e la loro andatura assomiglia vagamente a quella degli scimpanzé: il loro aspetto è davvero terrificante! Alle 23 rientriamo a Okaukejo , giro veloce alla pozza (vuota) e poi ci infiliamo nella tenda.
LUNEDì 03 SETTEMBRE 2012
Sveglia allo 06 e smontaggio rapido della tenda. Colazione super, visita inutile alla pozza e poi… via! Oggi c’è tanta strada da fare e soprattutto tante cose da vedere (sperando che la macchina non si metta a fare scherzi!). Abbiamo fretta di ritornare al punto in cui ieri notte abbiamo visto la povera zebra divorata dalla leonesse. Quindici km dopo ecco un gruppetto di auto ferme sul bordo della carreggiata con la gente che scruta tra l’erba della savana: è il posto di ieri! E infatti ci sono non due ma ben cinque leonesse che banchettano con i resti della zebra, di cui ormai si scorgono solo le costole. Le leonesse mangiano ignorando noi e gli altri curiosi, tutti intenti a scattare loro miliardi di foto. A un certo punto una delle leonesse si alza e si allontana dal gruppo e dall’erba spuntano cinque testoline che seguono la femmina: sono i cuccioli! Sono bellissimi e veramente piccini. Rimaniamo in contemplazione della scena per quasi mezz’ora. La leonessa coi cuccioli ed un’altra che sembra gravida si allontanano sempre più dal gruppo e inaspettatamente si muovono verso di noi. Camminando lente arrivano a pochissimi metri dalla nostra macchina , sempre coi leoncini al seguito. Alla fine scompaiono dentro ad un passaggio che c’è sotto la carreggiata: volevano rifugiarsi lì sotto, ecco perché venivano verso di noi! Tutti se ne vanno; io e Giovanni rimaniamo invece per altri 20 minuti per vedere se il gruppetto si fa di nuovo fotografare ma purtroppo gli animali sono ben decisi a restare dove sono, al sicuro. Comunque sia, aver assistito ad un episodio del genere basterebbe per essere soddisfatti per il resto della giornata, ma per noi questo è l’ultimo giorno all’Etosha e non vogliamo accontentarci.
Continuiamo il viaggio e, senza fare altri incontri interessanti, arriviamo ad Halali, il più centrale dei tre resort del parco, dove però non pernotteremo. Ci fermiamo giusto il tempo di andare in bagno, poi proseguiamo verso sud fino a incrociare la Rhino Drive. La percorriamo quasi per intero ma oltre a non essere assolutamente frequentata da rinoceronti (a dispetto di quanto evoca il suo nome!), la strada si trova in condizioni abbastanza disastrose, forse a causa dell’ultima stagione delle piogge.
Raggiungiamo la pozza di Goas che, in realtà, è costituita da due bacini d’acqua, uno grande e colmo di uccelli, springbok, kudu, orici, ecc, e uno più piccolo e più nascosto. Giriamo attorno al primo per raggiungere la pozza minore e, subito dopo una curva, un grosso gruppo di elefanti con i piccoli ci attraversa la strada. Durante questi giorni di game driving abbiamo visto un’infinità di questi bestioni dotati di zanne. Gli elefanti dell’Etosha sono i più grandi dell’Africa anche se però hanno zanne molto corte a causa di carenze alimentari e degli scontri per accaparrarsi la poca acqua delle pozze. Anche in questo branco ci sono alcuni esemplari davvero giganteschi. Li stiamo filmando mentre sfilano a pochi metri da noi quando all’improvviso questi si bloccano e cominciano ad agitarsi e ad indietreggiare. Non capiamo che sta succedendo finché non sentiamo un verso che ci è diventato familiare: c’è un leone nei paraggi! E infatti eccolo lì, un maschi bello grosso che si è trovato – suo malgrado – sulla stessa rotta dei giganti buoni e che ora è costretto a darsela a gambe levate. Gli elefanti, infatti, si sono ricompattati, hanno messo i piccoli al centro del branco e ora avanzano prepotenti verso l’acqua. Noi, ancora inebetiti da questa scena degna di un documentario, riavviamo la macchina e seguiamo il gruppo che va a fare il bagno. Ci fermiamo molto vicini agli animali che si stanno immergendo in acqua e che usano la proboscide per farsi la doccia e a momenti non ci accorgiamo di una familiare figura che riposa sotto allo stesso albero che sta facendo ombra anche a noi: è il leone di prima! Ora si è messo tranquillo ed è sul punto di addormentarsi. Gli scattiamo una raffica di foto e di primi piani, ma il felino non se ne cura, anche se davvero non siamo a più di tre metri da lui! Dopo quasi un’ora lasciamo la pozza di Goas e ci dirigiamo verso l’”Etosha Lookout”, incontrando molti altri elefanti lungo la strada. All’Ethosa Lookout si ha la possibilità di guidare sopra il Pan e di spingersi verso l’interno di questa sconfinata distesa di sale. Fa un caldo micidiale e non riusciamo a resistere a lungo anche perché è quasi impossibile tenere gli occhi aperti a causa del riverbero della luce sul suolo bianchissimo. Scendiamo un attimo dalla macchina (qui chiaramente non ci sono pericoli!) per scattarci una foto, poi lasciamo in fretta il Pan.
Ci fermiamo a mangiare qualcosa all’area di sosta che troviamo sulla strada per Springbokfontein nella quale è consentito scendere dall’auto ma non si sa in base a cosa visto che di recinzioni non c’è traccia e qualsiasi bestia potrebbe trasformarci nella sua merenda! Cerchiamo di fare il più in fretta possibile…
Risaliti in macchina e percorso qualche chilometro si para di fronte a noi l’ennesimo gigantesco elefante che passa, camminando con la solita lentezza, a pochissimi metri dalla jeep: se allungassi una mano potrei toccarlo!
Siamo sul percorso verso Okerfontein quando una macchia bianca tra l’erba bassa attira la nostra attenzione: è uno stupendo esemplare di rinoceronte bianco, ben più grande del fratello nero. Sembra fatto di roccia!
Stanchi morti, super impolverati e a pomeriggio inoltrato decidiamo di fare l’ultima deviazione della giornata, stavolta verso la pozza di Ngobib e mai potevamo fare scelta migliore. La pozza, all’inizio, sembra deserta come altre ma non ci mettiamo molto ad accorgerci che, sdraiati vicino all’acqua, ci sono cinque leonesse e un leone gigante! Stare soli di fronte a questi bestioni fa un po’ impressione, soprattutto quando puntano lo sguardo dritto verso di noi, ma sono incontri unici che sappiamo si scolpiranno in maniera indelebile nelle nostra memoria. Gli animali comunque sono indifferenti alla nostra presenza e noi possiamo rimanere ad osservarli in tutta tranquillità, assistendo addirittura ad una scena che neanche Piero Angela: il leone che si accoppia ripetutamente con le leonesse! Siamo sbalorditi di fronte a tutta questa fortuna: quando mai potrà ricapitarci nelle vita di assistere dal vero a momenti come questo? Dopo circa 20 minuti ecco che arriva un enorme elefante che passando appena dietro alla nostra macchina (che brivido!) si dirige arrogantemente verso la pozza e usando la proboscide a mò di manganello fa allontanare tutti i felini, che si sdraiano annoiati poco più in là. Gli elefanti non hanno davvero alcun nemico nella savana! Il bestione si mette a bere e a farsi la doccia pescando l’acqua con la proboscide e spruzzandosela poi sulla testa e sul resto del corpo, esattamente come facciamo noi quando ci laviamo. Rimaniamo un sacco di tempo in contemplazione degli animali e delle loro pigre attività. Poi – a malincuore- dobbiamo allontanarci da tanta meraviglia perché il sole sta calando. Sulla via verso Namutoni fotografiamo due arcigni avvoltoi appollaiati in cima ad un albero. Pochi chilometri dopo un possente rinoceronte nero ci appare subito dopo una curva, lì sul bordo della carreggiata. Vogliamo fermarci per scattargli un bel primo piano ma non facciamo neanche in tempo a rallentare che l’animale abbassa il corno e ci carica! Scappiamo con una super accelerata e per un pelo non ci ritroviamo l’abitacolo sfondato: ce l’aveva detto la guida, ieri notte, che i rinoceronti hanno un gran brutto carattere!
Per tutta la giornata abbiamo tenuto un occhio sempre puntato su un incendio che divampava in lontananza: ora il fuoco si trova proprio nella zona che stiamo attraversando e arrivati alla pozza di Kelkheuwei ci ritroviamo con le fiamme ardenti a pochi metri dall’auto! Evidentemente è arrivato il momento di raggiungere il campeggio: per oggi abbiamo fatto il pieno di adrenalina!
Namutoni è un forte che fu eretto dai tedeschi per ostacolare le rivolte degli owambo e il candore delle sue pareti, lo fanno sembrare quasi un miraggio in piena savana. Entriamo nell’area del campeggio (20 euro per la piazzola + 10euro a persona)e ci mettiamo a montare la nostra tenda che è quasi buio. I servizi sono un po’ spartani, ma puliti. C’è da dire che abbiamo trovato più puliti i campeggi in Namibia che in Italia! Stasera niente cenetta da zingari perché è tardi e siamo stanchi e affamati: ci dirigiamo all’interno del forte e per 17 euro a testa prendiamo parte alla cena a buffet del ristornate del resort. La quantità di cibo a disposizione basterebbe a sfamare dieci squadre di calcio: noi scegliamo orice ai ferri e assaggiamo tutti i contorni. Ah, che mangiata! Dopo cena, visita veloce alla pozza illuminata (che è un vero pacco) e finalmente ci infiliamo nel nostro nido sopraelevato. Buonanotte!
MARTEDì 04 SETTEMBRE 2012
La notte a Namutoni è stata molto più silenziosa di quelle a Okaukejo, animate da urla e versi e con gli sciacalli che rovesciavano ogni bidone della spazzatura, provocando un tremendo fracasso.
Ci svegliamo alle 06, al buio richiudiamo la tenda sopra al tettuccio e ci dirigiamo verso il ristorante di ieri sera per la prima colazione, che costa esattamente come a Okaukejo, ovvero 11 euro/testa. Stamattina dobbiamo lasciare l’Etosha, ma prima di uscire dal parco decidiamo di ripercorrere la strada di ieri per andare a vedere se nelle pozze lì intorno ci sono animali. Niente animali ma in compenso ci ritroviamo di nuovo molto vicini all’incendio e riusciamo a scattare qualche foto al fuoco che divora veloce l’erba secca. Che paura però… Una guida ci dice che questo grande incendio, ormai esteso lungo tutta la linea dell’orizzonte, è stato appiccato apposta – come sono soliti far qui – per bruciare l’erba vecchia e far nascere quella nuova e verde, in vista dell’imminente stagione delle pioggie. Facciamo altri incontri mozzafiato con gli elefanti e uno divertente con un gruppetto di manguste golose, ma poi arriva il momento di lasciare definitivamente questo paradiso in terra.
Quasi non parliamo per tutta la strada fino a Tsumeb, ognuno chiuso nei suoi pensieri, probabilmente entrambi impegnati a rivivere i meravigliosi attimi di questi giorni e convinti che pochi altri luoghi al mondo potranno farci provare le emozioni che ci hanno regalato questo parco e gli animali che lo abitano. Non ci sarà documentario in tv che non ci farà tornare col pensiero qui all’Etosha.
Dopo aver lasciato Namutoni prendiamo la strada per Tsumeb (molto noiosa) e giungiamo in città verso le 11. Anche Tsumeb – come tutti gli altri centri “grossi” – presenta il suo bel quantitativo di gente sfaccendata e poco raccomandabile. A noi però fermarsi in questo postaccio serve per trovare un meccanico a cui far vedere sta cavolo di macchina. Per fortuna in un concessionario della Toyota si mostrano disponibili ad aiutarci. Il responso è che il filtro della benzina è intasato per colpa di sporcizia presente all’interno del serbatoio e tocca sostituirlo. I meccanici si offrono di parlare loro per telefono con il tizio della Ncr per aiutarci a descrivere bene il guasto. Il conto dobbiamo pagarlo noi per ora ma mi auguro vivamente che alla fine i soldi ci vengano restituiti!
Puntatina al supermercato, poi sfrecciamo via da questa orribile città dirigendoci verso Grootfontein per andare a vedere l’Hoba Meteorite. Si tratta del meteorite più grande del mondo (misura circa 3 x 2 metri) ed è composto quasi del tutto da ferro. Il sito si visita in 3 minuti: c’è solo sto sassone e l’entrata costa 10 N$ a testa (1€ circa). Interessante, nulla di più.
Ripartiamo puntando la macchina verso Otjiwarongo per raggiungere il lodge di stanotte, il “Frans Indongo”, a 26 km a nord della città, lungo una strada secondaria (la D2433). Il lodge è a dir poco meraviglioso con le sue capanne col tetto in paglia, un rigoglioso giardino verde e ricco d’acqua, un’alta torre di osservazione in legno e un’ampia terrazza che si affaccia sulla savana circostante, dove pascolano orici, dik-dik, kudu ed eland. E’tutto armonicamente integrato con l’ambiente. Peccato che per noi, viaggiatori-poveri-muniti-di-tenda, la destinazione non sia questo paradiso. Infatti, il posto in campeggio che abbiamo prenotato per soli 25 euro non si trova lì all’interno del lodge tra tanta bellezza e opulenza, ma a 4 km di distanza, in mezzo a quelle terre selvagge e dimenticate dal Signore. Per arrivare è assolutamente necessario essere alla guida di una 4×4 visto che bisogna arrampicarsi su per una paurosa salita di pietre. Il camping poi… non esiste! È solo uno spiazzo in mezzo a una tetra boscaglia, senza corrente elettrica e con i bagni a 1 km di distanza dalle “piazzole”. Ovviamente siamo solo noi a usufruire di tutti questi comfort. Soli per chilometri e chilometri. Dopo qualche attimo di smarrimento e tentennamento (da parte mia perché Giovanni invece è felice come un bambino che ha trovato il vaso della Nutella!), montiamo la tenda che è quasi buio e in cielo cominciano a fare capolino le prime stelle. Una linea rosa all’orizzonte rende tutto magico… Poco più tardi un autista, inviato dal lodge, viene a prenderci per accompagnarci a cena (che bello vedere qualcuno!): come potremo altrimenti muoverci ora che la roof tent è già aperta? Alle 20 noi e gli ospiti (ricchi) del Frans Indongo siamo seduti a tavola in un bellissimo ristorante con tetto in paglia. L’atmosfera è davvero piacevole e molto “africana”, anche se non si capisce bene che ci facciano due strani zingari (noi) seduti in mezzo a gente benestante e tirata a pallino. La cena comunque è gradevole e abbondante: a dispetto di quanto ci aspettavamo, qui in Namibia non si mangia male, forse ci mettono un po’ troppe salse, ecco. Finito di mangiare (19,5 € a testa), il tizio di prima ci riporta al nostro rifugio into-the-wild e ci abbandona lì, soli, al buio totale. Il cielo stellato sopra di noi è di una bellezza che fa quasi piangere. Possiamo ammirare la Via Lattea in tutto il suo splendore e, coi nasi puntati all’insù, ci sentiamo davvero parte di questo straordinario mondo. Ci illudiamo di essere gli unici spettatori che si stanno godendo questo spettacolo. Di sicuro lo siamo nel raggio di decine di chilometri! Saliamo sulla tenda… Giovanni dorme, io resto sveglia a lungo… Versi dalla savana… E noi due, soli…
MERCOLEDì 05 SETTEMBRE 2012
Sopravvissuti alla notte into-the-wild, ci svegliamo prestissimo. Fuori dalla tenda è ancora buio pesto. Con le lampade frontali accese smontiamo la tenda. Ormai ogni nostro gesto è divenuto automatico e ognuno si è preso i suoi compiti: io scendo per prima dalla tenda e comincio a levare i ferri che tengono sollevato il telo esterno; Giovanni invece arrotola i sacchi a pelo ei n meno di 10 minuti siamo pronti per partire! Facciamo colazione, sempre avvolti dal nero della notte: caffè solubile, pane vecchio e marmellata. Siamo a posto, si parte. Il cielo intanto inizia a schiarire.
Passiamo per Otjiwarongo e da lì prendiamo di nuovo per Outjo; deviamo poi per Khorixas e arrivati in paese ci fermiamo in una sorta di baracca con la scritta “crafts” bella in vista. Si tratta di uno dei tanti “negozi” dove la gente del luogo vende prodotti realizzati a mano per raccattare qualche soldo. Con l’equivalente di 25 euro portiamo via una collana, un elefantino di legno e un braccialetto. Usciti da Khorixas la strada di asfalto ci dice addio e ha inizio una carreggiata ghiaioso-pietrosa, in certi tratti percorribile senza problemi, in molti altri piena di sassi e buche. Siamo nel meraviglioso Damaraland! Avanziamo con un continuo (e certe volte vertiginoso!) saliscendi tra le colline e, ovviamente, la velocità di marcia si riduce: per non farsi male è meglio non superare i 60-70 km/h. La prima tappa la facciamo presso la Petrified Forest: per entrare è obbligatorio pagare una visita guidata (40 N$ a testa , 4 euro circa) più altri 20 N$ per il parcheggio (notare che siamo gli unici visitatori e che il parcheggio è uno spiazzo vuoto nel deserto…). Conosciamo così Arnold, un gentile ragazzo damara che ci fa da guida lungo i sentieri fino ad arrivare agli alberi pietrificati. Di tanto in tanto, Arnold ci fa sorridere facendoci sentire qualche espressione nella sua strana lingua, piena di quegli strani “click” ottenuti facendo schioccare la lingua in parti diverse della bocca. Per noi ovviamente risultano impossibili da riprodurre! La Petrified Forest non è niente di sbalorditivo ma sicuramente merita di essere visitata anche perché è proprio qui che vediamo i primi esemplari della celeberrima welvitschia. Ci imbattiamo in due di queste particolari piante subito dopo l’ingresso nella “foresta”: non sono molto grandi ma nonostante ciò hanno già 300 anni (o almeno così ci assicura Arnold). Di sicuro non è la bellezza la caratteristica che contraddistingue le welvitchie. Forse è proprio sapere che vivono tanto a lungo (anche fino a duemila anni) a renderle affascinanti. Finita la visita salutiamo Arnold e ci fermiamo al parcheggio per mangiare qualcosa. Giovanni non esita a tirare fuori il suo fedele sacchetto di biltong, la carne secca che qui adorano tutti e che da quando siamo arrivati è diventata il cibo preferito anche di mio marito!
Riprendiamo la strada e, dopo un’oretta di sobbalzi, arriviamo a Twyfeltfontein dove siamo intenzionati a vedere i famosi petroglifi di 6000 anni fa. Anche qui la visita del sito prevede il pagamento obbligatorio di una guida e anche qui ci capita un simpatico ragazzo damara. Con lui saliamo per gli stretti sentieri e visitiamo le incisioni sotto un sole che ci arde vivi, ma la nostra guida ci aiuta a sorridere con i soliti “click”. I petroglifi sono straordinari e lo scenario in cui sono incastonati lo è altrettanto. La visita termina in circa 45 minuti. E’ sempre buona cosa lasciare una mancia a chi ci ha accompagnato nella visita perché a quanto pare le mance dei turisti sono l’unica fonte di guadagno per i ragazzi che lavorano qui. Ci dirigiamo poi alle Organ Pipes e alla Burnt Mountain: toccata e fuga giusto perché sono lì vicine e fare una foto è quasi d’obbligo. E’ decisamente arrivato il momento di sfrecciare verso Palmwag, dove trascorreremo la notte, ma la strada da fare è ancora tanta. Sfrecciare non è il termine più adatto perché su queste strade è davvero il caso di non aumentare troppo la velocità anche perché più si corre e più si solleva polvere (uno degli elementi onnipresenti in questo viaggio! E’ sottile e penetra dappertutto!). Incuranti del fatto che il sole sta già calando dietro alle montagne, continuiamo a fermarci ogni 5 secondi perché vediamo qualcosa di imperdibile da fotografare. Mica per niente è risaputo che i panorami del Damarland sono tra i più affascinanti al mondo. Variano di continuo, tingendosi di mille colori diversi: i gialli, i rossi, i neri e i verdi si susseguono e si mescolano, lì a macchie, qui a fasce, e i nostri occhi guizzano veloci nel tentativo di non perdersi neanche un pezzettino di questo coloratissimo arcobaleno. La strada è punteggiata di minuscole baracche fatte con quattro pali di legno che la gente del posto usa per attirare i turisti e vendere loro qualche improbabile pezzo d’artigianato. Ma il Damaraland è per lo più una terra disabitata, praticamente un deserto. Percorrendolo si capisce bene perché da Outjo a Swakopmund non si trovino altre città: in questo territorio, talmente vasto che sembra non avere confini, non vi è quasi traccia di acqua, i pascoli sono inesistenti, le distanze incolmabili, le strade che lo attraversano impervie. Nonostante ciò ci capita di incontrare, oltre alle baracche-negozio, piccoli aggregati di abitazioni messe insieme con legno e lamiera o paglia e fango e intorno ad esse si scorgono recinti per le capre, pezzi di vecchie auto, bambini vestiti di stracci, gente seduta ad aspettare che passi qualche turista. Prima di scattare una foto a questi scorci di Namibia è sempre bene chiedere il permesso anche se poi succede automaticamente che le persone allunghino la mano per farsi pagare. Facciamo sosta in due di questi mini villaggi, entusiasti di conoscere qualche abitante e poter scambiare due parole. Fuori dalle città, nelle quali scortesia e maleducazione regnano sovrane, abbiamo scoperto che la gente è gentile e sempre disponibile a darti una mano… anche se non richiesta! Probabilmente hanno imparato che poi i turisti sanno sempre ricompensare per l’aiuto offerto.
Siamo a 20 km dalla nostra meta, ed ecco che udiamo un rumore improvviso ma riconoscibilissimo: una ruota è andata. Proprio quello che ci voleva, persi qua in mezzo al niente, stanchi morti e con la notte che ci morde le caviglie. D’altronde sapevamo che poteva accadere e in strade come quella che stiamo percorrendo (la C43) possiamo solo ritenerci fortunati che non sia successo prima! Dopo neanche 5 minuti che stiamo trafficando per sostituire la gomma, ecco che si fermano quattro ragazzi del luogo desiderosi di darci una mano: si agitano, sbraitano, esplodono in larghe risate ma in poco tempo abbiamo una gomma aggiustata dove prima c’era quella bucata e possiamo rimetterci in marcia, ovviamente solo dopo aver scattato la consueta foto tutti insieme e dopo aver sganciato la solita mancia di ringraziamento!
Arriviamo al Palmwag Lodge che è praticamente buio e prendiamo subito possesso della nostra piazzola. Il camping è veramente un bel posticino, con piazzole molto spaziose, provviste di ben due tettoie e… bagni privati (il tutto per 58 euro a notte). C’è anche un servizio di lavanderia dove consegniamo i nostri vestiti impolverati ma in realtà è un lusso inutile perché in Namibia il clima è sempre talmente secco che ci si mette un attimo a lavare ed asciugare i vestiti da sè! Per cena, stasera, ci arrangiamo: scatolette e carne secca è il ricco menù che offre la nostra scorta di generi alimentari. Al posto della tv, prima di andare a dormire, ci intrattiene il cielo stellato più stellato che ci sia! Non si trovano né città né paesi nel raggio di centinaia di km, neppure il campeggio è illuminato. Si vedono le stelle persino lungo la linea dell’orizzonte, basse basse, e la via lattea è in 3D!
GIOVEDì 06 SETTEMBRE 2012
Sveglia col buio, come al solito, pronti per una colazione fai-da-te. Abbiamo appuntamento alle 07 con una guida del lodge che ci accompagnerà a fare una camminata sulle meravigliose colline attorno a Palmwag. Il giro dura poco più di un’ora e costa circa 12€ a testa. In realtà la nostra intenzione era quella di andare a visitare i villaggi Himba con il giro organizzato (fare da soli è difficile perché i villaggi Himba sono molto lontani da Palmwag -120km più o meno- e per parlare con queste tribù c’è assolutamente bisogno di qualcuno che conosca la loro lingua). Ma costava veramente troppo: 145€ a persona! Abbiamo ripiegato quindi sulla passeggiata che si rivela un’esperienza davvero piacevole. Lasciamo il camping che fa un freddo cane (e anche stanotte ne abbiamo patito parecchio in tenda!), col sole che sta facendo capolino dietro l’orizzonte. Il paesaggio, già spettacolare di per sé, ci lascia a bocca aperta quando si tinge dei meravigliosi colori dell’alba. A neanche 20 metri dal punto di partenza, vicino al corso d’acqua che attraversa la proprietà, l’impronta di una zampa felina attira la nostra attenzione. “Leopard!” esclama la guida, indicando la traccia con la punta del bastone. Così vicino alla nostra tenda? Aiuto! Ci basta vedere l’impronta del leopardo per provare subito una fortissima emozione, figurarsi cosa vuol dire vederlo dal vivo! Saliamo sulle colline e Max, la guida, si ferma di continuo per illustrarci le caratteristiche delle piante che incontriamo e degli animali che scorgiamo dai pendii. Qui, ad esempio, pascolano le zebre di montagna che sono diverse da quelle dell’Etosha: più piccole e con il ventre completamente bianco, hanno le strisce bianche e nere che scendono fino agli zoccoli. Ci soffermiamo a lungo accanto a un “mopane tree”, pianta estremamente importante per gli indigeni che ne utilizzano il tronco per costruire le loro case, la corteccia dei rami per fabbricare corde e le foglie per combattere i bruciori di stomaco. Anche in queste colline troviamo molte welvitschia e Max ci fa sapere che è la pianta nazionale della Namibia. Arriviamo alla cima di una collina, un punto molto panoramico: intorno a noi c’è solo bellezza, a 360°.
Rientriamo al campeggio verso le 9 e portiamo la ruota bucata all’officina del lodge per farla riparare. Il meccanico è molto gentile e riesce a ripararci la gomma, quando pensavamo di doverne acquistare una di nuova. La verità è che al noleggio ci hanno rifilato una macchina con le gomme consumate nella speranza che le finissimo del tutto e la riportassimo indietro dotata di pneumatici nuovi! Finito con la riparazione andiamo a fare il pieno di benzina alla stazione vicina al lodge, l’unica nel raggio di decine e decine di km. Dopo pranzo, come da accordi, ci troviamo con la guida di stamattina (Max) per andare a visitare un villaggio Himba non molto lontano da Palmwag. In questo modo, optando cioè per la visita ad un villaggio più piccolo e meno “famoso” e andandoci con la nostra macchina, risparmiamo un bel po’ di dollari! Il tragitto è di circa 25 km lungo i quali Max continua a darci interessanti informazioni sul Damaraland e ci rivela che la zona intorno a Palmwag è la più ricca di fauna tra i territori non recintati. E, infatti, attorno a noi compaiono ovunque orici, springbok, kudu, giraffe e persino due stupendi elefanti del Damaraland. Vederli qui, completamente liberi, è ancora più incredibile che all’Etosha. Ad un certo punto,ecco dei recinti e una manciata di casette fatte di sterco di vacca: siamo arrivati al villaggio Himba. Max ci confida di non avere avuto contatti frequenti con questa minuscola comunità, quindi bisognerà vedere se saranno ben disposti o meno verso i turisti. Per questo abbiamo portato con noi dei doni: due sacchi di farina e uno di zucchero. Ci avviciniamo e sotto una barcollante tettoia di legno troviamo sedute due donne intente ad acconciarsi i capelli, ognuna con un bebè attaccato al seno. Una terza donna, più anziana, è seduta di fronte ad esse mentre un nutrito gruppo di bambini di tutte le età gironzola intorno a noi. Ci sorridono timidamente e sono tutti vestiti con gli abiti tradizionali: anche i bimbi più piccoli indossano bracciali, cavigliere e collane e risultano talmente belli da sembrare bambolotti! Le femmine portano due curiose treccine che scendono sulla fronte fino agli occhi: raggiunta la pubertà cominceranno a farle scendere dalla parte opposta, verso la nuca. Max, che riesce a farsi capire perché originario di una tribù molto vicina agli himba (i djemba) parla con loro e poi traduce per noi. Le donne, con dei gesti, ci fanno vedere come ottengono quella mistura rossa che si spalmano sulla pelle: utilizzano una pietra rossa proveniente dal nord, la frantumano e poi la mescolano al burro di capra da loro prodotto; infine ricoprono la pelle e i capelli col composto ottenuto e per testarne la consistenza me ne faccio spalmare anch’io sul braccio. Scopriamo che la vita al giorno d’oggi non è affatto facile per queste antiche comunità: la loro sopravvivenza è fortemente legata al bestiame che allevano perché da esso ottengono il latte da vendere per poter acquistare altri indispensabili prodotti. E, in effetti, sparse un po’ dappertutto intorno a noi ci sono una miriade di piccole caprette, sedute insieme ai bambini, chiuse in qualche malfermo recinto o vaganti tra le abitazioni. Non sono mandate al pascolo insieme ai capi adulti in quanto verrebbero immediatamente predate dagli sciacalli e al villaggio sono i bambini ad occuparsi di loro. Il problema maggiore è che molti dei prodotti di cui gli himba necessitano sono reperibili solo sul mercato e quindi serve il denaro per poterli ottenere. La stessa pietra rossa che serve a produrre l’unguento per la pelle deve essere acquistata perché a Palmwag è assente; stesso discorso per le medicine per curare i bambini. Gli himba ci danno il permesso di entrare in una delle loro minuscole abitazioni che funge sia da dormitorio sia da cucina. In ognuna vive una delle mogli del capo-villaggio con i rispettivi figli. All’interno di una di queste capanne incontriamo un’altra anziana che mi chiede degli antidolorifici: per caso ne ho nella borsa e non esito a lasciarle l’intera scatola. In molti sono portati a pensare che le visite a queste tribù, ormai largamente abituate ad un ampio passaggio di visitatori, sia qualcosa di “falso”, che esiste solo per dilettare i turisti. Io questo non lo so, so solo che quella gente lì ci vive veramente, che c’erano sul serio le mosche dentro al latte che bevevano, che i bimbi erano davvero pieni di tosse (ma nonostante ciò ci sorridevano divertiti). So che usano una polvere (ricavata da dei semi) per profumare i teli sui quali riposano dato che non hanno modo di lavarli. Tutto questo era reale. Ecco perché – anche se ciò è tipico del turista pecorone – abbiamo lasciato loro volentieri dei soldi per averci permesso di fotografarli. Se avessi bisogno anch’io di trasformarmi in un animale da circo per poter sopravvivere lo farei. Comunque queste persone mi sono sembrate fiere di ciò che sono e mi auguro che questo li aiuti a non perdere mai la loro identità di popolo. Salutiamo gli himba e lasciamo a Max 400N$ (40 euro)per averci accompagnato da loro. Arrivati di nuovo al campeggio ecco il colpo di fortuna che mancava a questa bella giornata: un’altra gomma bucata! Non è possibile! Di nuovo in officina per l’ennesima riparazione e meno male che c’è questo meccanico super-gentile. Poi, dato che Palmwag –come ho detto- si trova al centro del nulla più totale e che le nostro scorte alimentari sono agli sgoccioli, per cena non ci resta che recarci al bar del campeggio. Il ristorante del lodge infatti è chiuso perchè ci sono pochi ospiti. Il posto non ci ispira granchè ma, serviti i piatti, dobbiamo ricrederci perché sono ottimi! La bistecca di kudu è da leccarsi le dita! E per tutto sto ben di Dio spendiamo solo 229N$ (neanche 12 euro a testa). Dopo cena ci tiene di nuovo compagnia il cielo stellato…
VENERDì 07 SETTEMBRE 2012
Ore 05.30 : suona la sveglia, è buio, si smonta la tenda e si carica la macchina. Oggi c’è tanta strada da fare. Andiamo a fare colazione (160N$) e poi si parte: direzione Skeleton Coast. Ci tocca ripercorrere tutta quella tremenda strada fatta mercoledì per arrivare a Palmwag (la C43) con le dita incrociate sperando di non bucare di nuovo. Prendiamo poi la C39 verso Torra Bay e all’orizzonte si materializza un muro di nebbia da far spavento. Dopo pochi km ci troviamo in pieno deserto e completamenti avvolti dalle nebbie, uno spettacolo tetro ma molto affascinante. Arriviamo all’ufficio di Torra Bay e compiliamo il permesso per accedere al parco naturale. A quel punto varchiamo i cancelli ed entriamo ufficialmente nella Skeleton Coast. Per tutta la giornata percorreremo la C34 verso sud, con il deserto alla nostra sinistra e l’oceano a destra…e noi due miseri umani chiusi in una macchinina in mezzo a questi due mostri! La nebbia si alza, esce il sole, il vento tira sempre molto forte e fa freddo. Incontriamo pochissimi altri temerari durante il tragitto: ecco perché è buona cosa arrivare qui con delle taniche di benzina piene e tutte e due le ruote di scorta a posto. Comunque per ora il fondo stradale si mostra molto meno pericoloso di quello trovato per arrivare a Palmwag! Non è consentito abbandonare la strada principale e scorrazzare per il deserto ma di tanto in tanto si trovano vie secondarie che si allontanano dalla pista per andare a vedere un relitto o una laguna. I relitti che riusciamo a fotografare non sono un granchè: pezzi di nave ormai completamente disintegrati dal mare e dal vento. Ci fermiamo a pranzare nei pressi di una laguna con i fenicotteri a pochi metri da noi. Continuiamo il viaggio fermandoci di tanto in tanto a scattare qualche foto all’indescrivibile paesaggio o per brevi passeggiate sul deserto che qui è di mille colori dati dalle rocce di diverso tipo che lo compongono. A volte è nero, verde dove è ricoperto di cespugli, le vene di quarzo lo tingono di bianco, poi diventa rosso, giallo, in alcune zone persino rosa per via del sale. Arriviamo a Ugabmond, mostriamo alla guardia il permesso fatto a Torra Bay e ci scattiamo la classica foto al cancello con i teschi. La guardia ci dice che al Miglio 108 troveremo un distributore: meno male perché ormai il serbatoio è a secco! Peccato che al Mile 108 non ci sia niente di niente! Qua mi sa che dovremo usufruire della taniche di scorta: ecco perché è importante averle con sé. Ci fermiamo a passeggiare lungo la spiaggia: incontriamo i resti di un vecchio relitto e una miriade di otarie morte, portate lì dalla corrente. Verso le 17 arriviamo al Cape Cross Lodge che è l’unica struttura presente a Cape Cross: qui si possono trovare camere estremamente confortevoli e un campeggio per i più temerari dato che con questo freddo non dev’essere piacevole dormire in tenda o mangiare all’aperto. Nel frattempo il mal di stomaco che mi tormenta da stamattina si aggrava: dev’essere stato qualcosa che ho mangiato… Dalla terrazza della nostra camera ci godiamo un incredibile tramonto sull’oceano con gli sciacalli che scorrazzano furtivi sul bagnasciuga. La cena servita al ristorante è a base di pesce e davvero ottima, ma io sto sempre peggio. Con lo stomaco dolorante mi infilo sotto le coperte nel tentativo di difendermi dal freddo (mi sa che ho la febbre!)
SABATO 08 SETTEMBRE 2012
Durante la notte il mio mal di stomaco, se possibile, si intensifica ancor di più: quando si viaggia in Paesi lontani bisogna sempre far molta attenzione a non mangiare niente di crudo e all’acqua che si utilizza. A me pareva di essere stata ben attenta, ma evidentemente non è bastato. Comunque sia, alle 7:30 scendiamo a far colazione: il buffet è ricchissimo, ma io mi limito ad un the caldo. Passeggiamo un po’ lungo la spiaggia: fa molto molto freddo e il cielo è plumbeo, tutt’intorno c’è un’umidità pesantissima. Altro che Africa! Tornati al lodge, la solita sorpresa: abbiamo un pneumatico a terra! Grrr! Due ragazzi del lodge si danno da fare per aiutarci, ma la situazione è questa: una gomma di scorta è stata rappezzata alla buona, quella che abbiamo appena trovato a terra è già stata aggiustata ieri e ora i ragazzi stanno tentando di ripararla con della schiuma, la seconda ruota di scorta – quella fissata sotto alla macchina – sarebbe in buone condizioni ma si è incastrata e non ha alcuna intenzione di muoversi da lì. Non funziona niente in questa macchina, con tutti i problemi che ci ha dato abbiamo perso una montagna di tempo! Anche ora: siamo qui, fermi, a lottare per liberare la ruota da sotto alla macchina. Mentre i ragazzi continuano a provarci, ecco che si rompe pure anche l’asta del cric! Perfetto, siamo a posto. Con i nervi a fior di pelle per aver perso l’intera mattina per niente, lasciamo il lodge alle 11 passate e ci rechiamo a vedere le otarie, a 3km da lì. Le otarie sono uno spettacolo davvero curioso: una moltitudine di animali urlanti spaparanzati sulla spiaggia! Sono carine e non puzzano tanto quanto dicevano le guide.
Lasciamo Cape Cross e arriviamo alla deliziosa Henties Bay, un paesino di pescatori adagiato in riva all’oceano, il classico luogo dove uno sognerebbe di ritirarsi a vivere! La prima tappa la facciamo in un’officina per aggiustare il prezioso cric e vedere se si può riparare il pneumatico rattoppato con la schiuma. Il gommista scuote la testa e dice che la gomma è sventrata dall’interno e che è già stata aggiustata troppe volte. In pratica ci hanno rifilato una ruota di scorta usurata e ora noi siamo costretti a comprarne una di nuova se vogliamo continuare il viaggio in sicurezza. Col fumo che ci esce dalle orecchie sborsiamo 2100N$ per il nuovo pneumatico ma ci ripromettiamo che, se alla Ncr si mostreranno contrari al rimborso, lo squarceremo col coltello davanti ai loro occhi! Non ci stiamo proprio a far loro un regalo da 200 euro! Per calmare gli animi ci rechiamo a pranzare in un suggestivo baretto di pescatori, il Fishy Corner, un locale piccolissimo che serve deliziosi piatti di pesce. L’atmosfera è davvero tipica, con i muri pieni di scritte lasciate dai visitatori e di foto dei pescatori e dei loro trofei. Giovanni si fa fuori una mega paella e non esita a dichiarare di non aver mai mangiato pesce più buono! Il bello è che il ricco pasto, comprensivo di pane, vino, acqua e solo una coca per me (sigh!), ci costa in tutto 13 euro!! Risaliamo in macchina e lungo la strada per Swakopmund ci fermiamo a fotografare l’enorme relitto di un peschereccio che non sembra essere tanto antico, anzi. Segno che la Skeleton Coast è un posto temuto dai naviganti anche ai nostri giorni.
Arrivati in città prendiamo possesso della nostra camera al Beach Lodge, struttura in riva all’oceano che ricorda una grande nave , le cui camere sono dotate di enormi oblò affacciati sull’Atlantico e di spaziosi terrazzi. Peccato che da stamattina il cielo sia sempre rimasto nuvoloso, grigio come non mai e le temperature siano decisamente invernali! Decidiamo di fare un giro in città ma a parte un concerto hip-hop per ragazzini non c’è altro movimento e i negozi sono tutti chiusi, nonostante sia sabato pomeriggio. Swakopmund sembra un pezzo di Germania trasferito in Africa potrebbe anche essere scambiata per un paesino del far west. Il giro turistico della città non ci entusiasma molto e in generale l’intera giornata è stata poco stimolante: potendo tornare indietro, avremo evitato di far tappa qui e avremo aggiunto piuttosto qualche notte in posti più selvaggi. Per consolarci, visto anche che nessuno dei due ha voglia di cenare ci spingiamo fuori città con la macchina, in direzione di Walvis Bay, lungo una strada che corre incastrata tra le dune del deserto e le onde dell’oceano. Dopo un’oretta di vagabondaggio torniamo al nostro albergo e, pieni di freddo, ci lanciamo sotto al piumone.
DOMENICA 09 SETTEMBRE 2012
Dopo due giorni un po’ sotto tono, la giornata di oggi è stata finalmente carica di belle emozioni! Inizia bene da subito quando, al risveglio, mi accorgo di aver dormito senza i forti dolori dati dal mal di stomaco. La colazione al Beach Lodge è ottima e super abbondante. Prima delle 8 stiamo già guidando verso Walvis Bay e precisamente verso Mola-Mola, un’agenzia che organizza uscite in barca ed escursioni a Sandwich Harbour. Arriviamo allo yatch club di Walvis Bay, un angolo di città davvero pittoresco e proprio lì c’è l’ufficio di Mola-Mola. Alle 9 arriva l’imbarcazione che ci condurrà da Walvis Bay a Pelican Point e a salire siamo in 12. Fa un freddo micidiale, il cielo è ancora grigio e io indosso persino i guanti e la calzamaglia di lana! Il conducente della barca è un ragazzotto bianco, simpatico, che parla un inglese misto afrikaans di cui non si capisce molto. Ci conduce a vedere, come prima cosa, un nutrito gruppo di fenicotteri (maggiori e minori): appena ci vedono, i volatili si alzano in volo, librandosi nell’aria come fuscelli e mostrandosi in tutti i loro intensi colori. Arriva anche un pellicano che, al richiamo del ragazzo, si avvicina alla barca aspettando che gli venga lanciato qualche pesce. I pellicani sono uccelli molto particolari, di dimensioni notevoli, con un’apertura alare pazzesca e un becco che somiglia ad un lavandino! Continuando il giro avvistiamo un’altra colonia gigante di otarie del Capo, ma osservandole dall’acqua il contatto più ravvicinato lo si ha con quelle che giocano tra i flutti: saltano come matte intorno a noi, agili e velocissime. Fanno morire dal ridere! Non sembrano più le salsicce spaparanzate sulla sabbia che abbiamo visto ieri! Salutiamo le otarie e subito dopo incontriamo i delfini del Benguela che zig-zagano attorno alla barca comparendo qua e un istante dopo dall’altro lato! Ci accompagnano per più di mezz’ora, felici come bambini. All’improvviso il conducente inverte la rotta e punta a massima velocità verso il mare aperto dicendoci solo un misterioso “Surprise!”. Ma noi abbiamo già capito: ha ricevuto via radio una preziosa soffiata e –come immaginavamo- poco dopo vediamo dritto davanti a noi il dorso di una balena che emerge dal pelo dell’acqua! Che incontro mozzafiato! Il ragazzo poi ci conduce a vedere una zona della baia in cui vengono prodotte le ostriche della Namibia, a detta sua le migliori al mondo perché si sviluppano in queste acque molto fredde. Il giro sta per terminare: facciamo rotta verso Pelican Point scortati di nuovo dai nostri amici delfini e scendiamo dalla barca verso le 11:30. Ora inizia il bello! A riva ci attendono tre Land Rover che, cavalcando le dune del deserto, ci condurranno alla spettacolare Sandwich Harbour. Il nostro pilota si chiama Nico ed è un ragazzone biondo e palestrato che ricorda un po’ Big Jim. Sicuramente sa il fatto suo in materia di fuoristrada! A bordo con noi ci sono altri due italiani e un simpaticissimo americano. Nico sfreccia velocissimo sulla sabbia, lasciandosi alle spalle Pelican Point e portandoci ad un’azzurrissima laguna piena zeppa di fenicotteri. Dopo aver scattato qualche foto si inizia a salire con la jeep verso le dune vere e proprie ed è come essere sulle montagne russe! La prima discesa, poi, è adrenalina pura perchè il deserto appiattisce i dislivelli e non ti aspetti di scendere a quella velocità e con una tale pendenza! Ci salgono le budella in gola e cacciamo tutti un urlo! Nico, poi, esagera con le gimkane per rendere tutto ancor più emozionante! Ci fermiamo ad osservare i gechi (che vivono sepolti sotto la sabbia e usano i grandi occhi per raccogliere la pochissima umidità esistente) e per scalare a piedi qualche duna, godendoci il deserto in tutto il suo splendore. Tira un vento fortissimo ma da quando siamo sbarcati a Pelican Point il cielo si è aperto e ora non c’è nemmeno una nuvola. Il contrasto tra le dune color paglia e il cielo blu è da poster! Continua però a fare molto freddo. Nico ci offre da bere e poco più tardi, assieme agli occupanti delle altre due jeep (siamo una ventina di persone in tutto), ci fermiamo in una zona ai piedi delle dune, dove non tira vento, per un piacevolissimo pranzo domenicale in aperto deserto! Ci vengono offerte le celebri ostriche e un sacco di altre cose deliziose da assaggiare e dell’ottimo vino. Anche la compagnia è piacevole e scopriamo che i nostri compagni di avventura provengono un po’ da tutto il mondo Con le pance piene (e il mal di stomaco che è tornato a farmi visita) saliamo nuovamente sulle jeep e corriamo verso Sandwich Harbour. Alcuni tratti del percorso, cunicoli schiacciati tra le enormi dune e l’arrabbiato oceano, sono da brivido ma Super-Nico non perde neanche per un secondo lo sguardo beffardo di chi la sa lunga e si lancia verso il pericolo con noi appesi ai maniglioni come bimbi spaventati.
Arriviamo, infine, alla spettacolare Sandwich Harbour: una baia di una bellezza devastante, raggiungibile solo con escursioni guidate come questa. Saliamo in cima alle dune più alte per poter ammirare dall’alto il magnifico pezzo di mondo in cui siamo capitati. La scalata è piuttosto faticosa: si sale di tre passi e la sabbia ti porta giù di due, ma solo dalla cima delle dune è possibile scattare fotografie indimenticabili alla baia. Dopo mezz’ora passata ad ammirare il panorama e a farsi torturare dal vento (sulla cima delle dune è potentissimo!), torniamo alle jeep e iniziamo il viaggio di ritorno verso Walvis Bay con il nostro Big Jim che continua a regalarci intensi attimi di adrenalina, in particolar modo quando finge di sbagliare manovra e lascia cadere la jeep a tutta velocità, in retromarcia, giù da una duna altissima! Oggi, è vero, abbiamo fatto un po’ di turismo “da comitiva” ma non avremo visto tante cose stupende altrimenti e, alla fin fine, è stata una giornata molto divertente, con un bel cielo azzurro e gente simpatica. Prima di arrivare in città, ecco le saline che scintillano al sole col loro intenso rosa, tonalità dovuta alla presenza di un particolare batterio. Tornati alla yatch club e salutati tutti, rimaniamo ancora un po’ al molo a godere del sole del tardo pomeriggio. Walvis Bay è molto più carina di Swakopmund, ha più l’aria di un paese di mare, con il suo pittoresco molo e tutte quelle belle accomodation affacciate sull’oceano. Un locale con un’enorme terrazza che sporge verso il mare attira la nostra attenzione: stanno suonando dal vivo e c’è una bella atmosfera. Appena messo piede sul posto ecco che ci appare il simpatico americano conosciuto oggi, Martin. Beviamo una birra con lui, mentre il pomeriggio diventa sera, l’oceano si tinge dei colori del tramonto e il cantante continua a suonare per noi.
LUNEDì 10 SETTEMBRE 2012
Lasciamo il Beach Lodge di primo mattino, dopo un’ottima prima colazione, per me sempre in formato ridotto (maledetto mal di stomaco!). Il trasferimento di oggi è lungo e ci costerà un’intera giornata in auto: dobbiamo infatti raggiungere Sesriem nel parco del Namib-Naukluft. Da Walvis Bay ci immettiamo nella C14 che diventa subito sterrata e piuttosto sconnessa. Ci fermiamo poco dopo presso il Vogelfederberg, una formazione rocciosa che somiglia a una tettoia, dalla sommità della quale riusciamo ad ammirare uno strepitoso panorama. I paesaggi che attraversiamo oggi sono incredibilmente affascinanti: le montagne che ci circondano sono ognuna di aspetto diverso dall’altra e anche i loro colori mutano in continuazione. Si corre in mezzo a vaste praterie, poi si sale verso strabilianti punti panoramici (vedi il Kriess Se Rus), più avanti ancora ci si arrampica fino al passo di Kuiseb, la cui scalata presuppone una guida molto attenta! Ci spingiamo fino al Gaub Canyon, che di sicuro merita una foto. Dopo il passo di Kuiseb si arriva ad un punto che per chi viaggia può diventare un’emozione particolare: l’attraversamento del Tropico del Capricorno. Io e Giovanni ci scattiamo la foto di rito sotto al cartello. Una sessantina di km dopo giungiamo a Solitaire che ha l’aspetto di una vecchia frontiera, una sorta di ultima Thule. Solitaire ospita niente di più che un distributore, un panificio col tetto in paglia e un pittoresco negozio di alimentari e la sua atmosfera ci fa sentire veramente lontani dal mondo conosciuto. Questo minuscolo insediamento alle porte del deserto può essere un utile punto d’appoggio per chi intende passare qualche giorno nel parco del Namib. Noi però siamo diretti a Sesriem, 85 km più a sud, in pieno deserto, dove abbiamo prenotato per tempo una piazzola nell’unico campeggio sito all’interno dell’accesso a Sossusvlei. Questo costituisce la garanzia di riuscire a vedere il sole che sorge dalle dune del deserto, domani mattina. Non c’è altro modo, altrimenti si entra quando il cancello apre (dopo le 7) e ci si gode le luci del mattino, ma niente alba. Il camping non è altro che una serie di piazzole di sabbia dotate di un albero per fare ombra e…nient’altro. Il nostro però è davvero un bellissimo albero. Ma non restiamo a lungo al campeggio: rimontiamo in macchina ed entriamo nel Sossusvlei per andare a fotografare le dune baciate dalle luci del tramonto. Incredibile a dirsi ma la strada che porta da Sesriem a Sossusvlei è asfaltata! Ci si resta quasi male dopo giorni interi di sballonzonamenti su e giù per queste piste tremende! Non ce lo aspettavamo proprio ma di sicuro non ci lamentiamo. Dopo 45 km arriviamo alla Duna 45, la più famosa, e non perché sia la più alta ma per la sua particolare curvatura. La riconosciamo già da lontano perché è l’unica duna che ha sempre qualche visitatore che percorre la sua cresta: gli omini, lassù, sembrano formichine tutte in fila. Lo spettacolo è stupendo: al tramonto le dune diventano rosa e la pianura giallo limone! Facciamo appena in tempo a iniziare la salita che il sole scompare dietro alle montagne all’orizzonte, dipingendo di rosso fuoco i fianchi della nostra duna. Quando torniamo alla macchina è già buio pesto e lungo la strada incrociamo un sacco di animali. Arrivati al cancello due ragazzi iniziano ad insultarci perché siamo usciti con mezz’ora di ritardo dal parco (sono le 19:50). Peccato che nessuno ci avesse detto di questa regola, compresa la scortesissima impiegata che ci ha rilasciato i permessi (pagati 17 euro a testa!). In più dietro di noi c’è ancora un sacco di gente che deve uscire. Niente, non ascoltano le nostre ragioni, non ci lasciano neanche parlare. Ci intimano però che dobbiamo dar loro dei soldi. Ecco cosa volevano i furbastri! Appena intuiscono che Giovanni sta per perdere le staffe, continuando a minacciarci e a insolentirci, aprono il cancello e ci lasciano andare. Era una tecnica per spillarci dei soldi. Bisogna tristemente ammettere che, insieme ai problemi della macchina, quella della continua richiesta di denaro è stata l’altra questione che ci ha fatto tribolare durante questo viaggio: tutti sono pronti a usarti come bancomat vivente! E dispiace dirlo ma, salvo alcune eccezioni, in Namibia abbiamo trovato molta maleducazione e poca disponibilità da parte degli addetti al turismo, soprattutto nelle zone di maggior afflusso. Ma non sono mancati casi di scortesia anche al bar o al supermercato. E pensare che noi ci siamo sempre posti in maniera gentile e che qui siamo venuti a fare i turisti il che equivale a portare soldi!
Tornati alla nostra piazzola, apriamo per l’ultima volta la fedele roof-tent e ci prepariamo la solita cena al buio, aiutati solo dalla luce delle lampade frontali. Poi inizia il triste riordino di tutti gli oggetti e le attrezzature da campeggio forniteci con la macchina perché non le useremo più. Chiudiamo sedie e tavolino per l’ultima volta e, col groppo in gola, ci infiliamo nella tenda.
MARTEDì 11 SETTEMBRE 2012
Anche domani mattina suonerà la sveglia, ma oggi è l’ultima volta che ci fa alzare per partire verso qualche avventura; domani sarà semplicemente per andare a Windhoek e volare a casa. Usciamo dalla tenda che non sono neanche le 05:30 ma tutto il campeggio è in fermento, come noi. Il cielo è ancora colmo di stelle. Alle 06 siamo tra i primi di fronte al gate per Sossusvlei e dietro di noi si forma una lunga colonna di macchine. Appena i cancelli aprono inizia lo spettacolo della stupidità. Per riuscire ad arrivare per primi alla Duna 45 (non si sa perché), i visitatori si trasformano in piloti pazzi di Formula 1 lanciandosi in sorpassi azzardati, tagliandosi la strada l’uno con l’altro, frenando all’improvviso e tentando di passare a destra e a sinistra! Scene assurde! Credevo che solo noi italiani fossimo capaci di cose tanto insulse e invece… Se qualcuno si aspetta che la salita per vedere l’alba dalla Duna 45 sia qualcosa di magico, rimarrà deluso. O meglio, lo spettacolo del sole che sorge e degli strabilianti giochi di luce che si creano è imperdibile, certo. Ma di sicuro l’atmosfera non è quelle che ci si aspetterebbe di trovare in un deserto! Tutti in colonna, uno dietro l’altro, spintonandosi e maledicendo chi cammina lento o non fa passare gli altri. Non capiamo cosa stiamo inseguendo: l’alba è lì per tutti! A volte, per la mania di scattare a tutti i costi una super foto si perde lo spettacolo che si sta compiendo davanti ai propri occhi (e si dimentica la buona educazione!). Quando la pianura e le dune sono completamente inondate dalla luce del giorno torniamo giù, a dire il vero un po’ amareggiati, spintonati da chi scende dalla cima correndo all’impazzata e rovinando tutta la vellutata superficie delle dune. Bisognerebbe ricordarsi sempre –a maggior ragione quando si viaggia – che abbiamo il dovere di lasciare la minor impronta possibile del nostro passaggio.
Tornati alla jeep prendiamo il fornello e ci prepariamo un ottimo caffè appoggiati al cassone della macchina con tanto di fetta di pane e marmellata! Continuiamo poi verso Sossusvlei, fino al parcheggio dove c’è l’obbligo di fermarsi se non si è alla guida di una 4×4 (ed è consigliato farlo anche in caso contrario!): da lì in avanti, infatti, la strada lascia spazio ad una pista di sabbia decisamente poco battuta e con alto rischio di arenarsi! Noi, ovviamente, che siamo sempre molto prudenti, inseriamo le quattro ruote motrici e affrontiamo impavidi gli ultimi 5 km di sabbione! Non è per niente facile guidare su un fondo del genere perché la macchina va dove vuole e sono guai se ti fermi, ma di certo è stra divertente! Arriviamo a Deadvlei dove lasciamo momentaneamente l’auto e camminiamo per circa 1,5 km sulla sabbia fino a giungere a una bianca distesa, simile ad un lago morto, reso spettrale dalla presenza di numerosi alberi secchi e contorti. Il contrasto di colori tra il bianco del lago, il nero della corteccia degli alberi, il rosso delle dune (che diventa sempre più intenso con l’avanzare delle ore) e il blu del cielo, fa quasi male agli occhi. Intorno a noi esistono solo queste quattro intensissime tonalità di colore. Decidiamo di tentare la scalata della duna più alta partendo proprio dal lago secco. L’impresa si rivela tutt’altro che una passeggiata: fa un caldo atroce e la sabbia entra inesorabilmente nelle scarpe, stritolando i piedi. E’ molto meglio procedere a piedi nudi, almeno finché la sabbia non si fa rovente. Arrivati in cima alla duna, percorriamo tutta la sua cresta e possiamo fotografare dall’alto il Deadvlei (mai nome fu più appropriato!). Una volta ridiscesi e tornati alla macchina non ci restano che le ultime gimkane sulla sabbia per arrivare – finalmente! – a Sossusvlei: si tratta di una grande pozza d’acqua che assomiglia molto ad un laghetto di montagna, circondata da mastodontiche dune. Il caldo è da svenimento ma Giovanni vuole comunque provare a raggiungere la vetta della duna più alta. Io no, resto giù e mi limito a fare il giro del laghetto. Quando ce ne andiamo sono le 11.30 e penso sia l’orario limite perché il caldo sia ancora sopportabile, poi è meglio rimandare l’escursione alla mattina successiva. Per dimostrare che anche le donne sanno cavarsela in qualsiasi situazione, mi metto io alla guida della jeep e mi godo il ritorno a zig-zag sulla sabbia, slittando di qua e di là. Tornati a Sesriem ci fermiamo vicino al bar del campeggio per un pranzo a base di pene e scatolette seduti fuori dalla macchina: è il nostro ultimo pranzo. Ci dirigiamo poi al Sesriem Canyon, poco lontano, sfidando il caldo micidiale delle 13. Scendiamo giù e camminiamo tra le pareti verticali di questo luogo estremamente suggestivo. La cosa incedibile è che nelle piccole pozze d’acqua presenti tra gli anfratti della rocce ci sono dei pesci! E nemmeno tanto piccoli, sembrano dei pesci gatto. Lì, nel bel mezzo del deserto… mah… misteri della natura.
Lasciamo il canyon quand’è decisamente giunta l’ora di raggiungere il lodge di stanotte, il Desert Homestead, a 30 km a sud-est di Sesriem. Il lodge è costituito da una grande casa in stile namibiano e da alcune piccole e graziose capanne col tetto di paglia con la porta che dà direttamente sull’immensa piana desertica. Cominciamo a dare una sistemata ai bagagli in vista della partenza di domani mattina. Dovremo metterci in strada prima dell’alba perché ben 330 km ci separano da Windhoek e con queste strade qua vuol dire impiegarci molte ore!. Alle 17 però lasciamo stare tutto e partiamo per un meraviglioso giro a cavallo che durerà fin dopo il tramonto. Ci accompagna una graziosa ragazza namibiana che, mentre ci facciamo cullare dall’andatura dei nostri destrieri, ci racconta di lei, del Desert Homestead, ci chiede del nostro viaggio e ci dà alcune curiose informazioni sulla flora e la fauna che ci circondano. Siamo solo nei 3, i cavalli e un interminabile e stupendo panorama che ci abbraccia a 360°. Ci concediamo anche delle divertenti e velocissime galoppate su quelle terre aride e selvagge e siamo colmi di belle emozioni. Dopo un’ora e mezza arriviamo ad un punto particolarmente panoramico dove gli inservienti del lodge ci fanno trovare un tavolino e delle sedie e dei drink da gustare davanti al tramonto più spettacolare della storia! Questi trattamenti comunque non ci piacciono per niente: ci sembra di essere i ricchi coloni in visita alle loro residenze di campagna, con gli schiavetti neri che ci tengono i cavalli mentre noi ci rilassiamo. Non sapevamo che avevano organizzato sta cosa e di certo avremo preferito bere una birra a canna seduti in sella, ma ormai… Il cielo comunque ci mozza il fiato: decisamente il più bel tramonto di tutto il viaggio! La differenza la fanno delle leggere nuvole che appena il sole scende sulla linea dell’orizzonte si infiammano di un prepotente color rosa e il cielo si fa così intensamente colorato da sembrare un dipinto. Torniamo al lodge che è già buio, davvero soddisfatti dell’esperienza vissuta. Non facciamo nemmeno in tempo a scendere da cavallo che ci fanno accomodare al ristorante dove ci viene servita un’ottima cena (l’ultima cena! Sigh…). Abbiamo spesi meno di 20 euro a testa. Sulla parete del bar, tra le bottiglie, ci sono degli enormi e stranissimi gechi impegnati ad acchiappare gli insetti che volano vicino alla luce del neon. Dopo cena le ragazze namibiane che lavorano al lodge ci allietano la serata con un piccolo spettacolo fatto di allegre canzoni tradizionali e balli popolari. Sembrano divertirsi molto mentre le loro voci squillanti risuonano per il deserto. Andando verso la nostra capanna, per l’ultima volta io e Giovanni giriamo il naso all’insù per salutare quello stupendo cielo africano che anche stanotte è acceso da miliardi di stelle.
MERCOLEDì 12 SETTEMBRE 2012
Ci alziamo alle 04:30 e in fretta (e in silenzio) carichiamo le valigie nella jeep. I gesti sono meccanici, come se volessimo fare il più velocemente possibile, in modo da non sentire il dispiacere. Sembra proprio una delle tante mattine di questo viaggio: ormai ci eravamo abituati a scivolare fuori dal sonno in piena notte per partire per qualche avventura. Invece questo è il giorno in cui bisogna dire addio a questa meravigliosa terra. Un ragazzo del lodge è stato così gentile da alzarsi per farci trovare i breakfast pack da portare con noi.
La strada che conduce a Windhoek è lunga e con il fondo sconnesso, non si può marciare veloci. Ma i luoghi che attraversiamo sono – ancora una volta – di una bellezza maestosa e ci viene regalata l’ennesima alba da cartolina. Impieghiamo tre ore e mezza solo per arrivare a Rehoboth. Da lì prendiamo la B1 (asfaltata) e in un’oretta eccoci nella capitale. Poco prima di entrare in città l’ultima sorpresa di questo viaggio: uno scatenato gruppo di babbuini che ci attraversa la strada e raggiunge, saltando, i cespugli vicino a noi! E’ l’ultimo saluto da parte degli animali di questo fantastico Paese: grazie mille per esservi offerti ai nostri occhi e per averci regalato tanti bei ricordi da portare a casa con noi, per sempre.
Arrivati nella city facciamo scorta di billtong al supermercato e poi riportiamo il catorcio alla Namibia Car Rental, pronti alla guerra nel caso in cui dimostrassero di non volerci restituire i soldi spesi per il filtro della benzina e il pneumatico nuovo. E invece – incredibile a dirsi – senza fare alcun genere di storie ci accreditano sulla carta l’intero rimborso spese e ci accompagnano in aeroporto. Beh, meglio di così non poteva andare!
Percorsi 4.100 chilometri