Mykonos, colpo d’occhio e vibrazione
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Mykonos è bellissima. Ventosa, brulla e molto, molto antica. Creta, la culla della cultura occidentale, è poco lontana. Sono queste le isole su cui si sono sparpagliate le prime civiltà dell’Egeo.
Mykonos è elementare. Qui la terra si mostra nella sua nudità. Rocce scoperte, polimorfe, disposte in geometrie che riescono ad essere regolari ed irregolari nello stesso tempo. Sono come le ossa della terra. Nel paesaggio la mano dell’uomo si manifesta in due modi, opposti e complementari. Uno è quello eclatante, le case a cubo bianco, una struttura ed un colore che molto raramente si trovano in natura. Il secondo modo sono i muretti di pietre, integrati a meraviglia nel panorama, in un compromesso fra la tendenza alla regolarità della specie umana e il disordine apparente della natura. Elementare, quindi. Nel senso di sintesi perfetta fra i quattro elementi. Dopo la terra c’è l’acqua, quella di un mare luminoso, mobilissimo, digradante in toni che vanno dall’ocra, al turchese, al blu notte. È un mare vanitoso e non eccessivamente ospitale, dall’acqua molto fredda. Ma gli ateniesi dicono che è il top: fa bene alla salute, decongestiona la pelle, e li fa dimenticare della loro torrida città. Il fuoco è quello del sole, che picchia anche con la foschia. Picchia duro, nascosto dal vento, lo stesso vento che erode la terra e fa vorticare l’acqua. E che è anche l’ultimo degli elementi, l’aria. Lo spirito. Si chiama Meltemi, è il vento di nord-est. Così finalmente ho scoperto il significato del nome della casa editrice dell’aristocrazia nerd, quella che pubblica Zizek, Homi Bhabha, e Judith Butler. Quando il Meltemi soffia lo odi, quando smette di soffiare ti manca. Il vento costante ti dà l’impressione che il tempo passi più veloce, che stia sempre succedendo qualcosa. Anche quando non succede nulla. Per il principio dello scorrimento senza soluzione di continuità.
In questo il vento si sposa col mare, e il suo eterno mutare forma.
Il labirinto
Il centro di Mykonos è sorprendente. Improvvisamente le strade si restringono. La parola vicolo non rende l’idea, sono le strade più piccole che abbia mai visto. Avvolgenti, come se fossero una strada al chiuso. La parola giusta è budello. Ad ogni svolta non sai mai che cosa ti aspetta. Negozi di artigianato, boutique di articoli di lusso, negozi di vestiti con le scarpe di Melissa, ma anche tavolini di ristoranti che non si sa bene come facciano a starci. È l’applicazione concreta del concetto di labirinto. Il labirinto, la forma simbolica delle antiche civiltà dell’Egeo, rappresenta il percorso che l’uomo deve fare nel mondo durante la sua esistenza. Non sai mai bene dove ti trovi, e che cosa ti aspetta dietro l’angolo, ma sai che devi andare avanti. Trovare quello che cerchi. Uscirne. La topografia della Chora di Mykonos suggerisce anche il modo migliore per affrontare il labirinto: senza panico, con curiosità, lasciandosi trasportare, vagando. È il posto migliore per fare i flâneurs. La civiltà minoica aveva sintetizzato il labirinto dell’esistenza in una forma che ne elimina le asperità, e che si può paragonare per potenza di significato alla croce, all’albero, alla stella di David. Questa forma è la spirale. Per me quest’estate la spirale è un must. È il fulcro di due progetti che ho scritto, uno per un articolo, l’altro per una mostra. E ora la trovo ovunque, in tutti i manufatti artigianali dell’isola, in collane, ciondoli, spille, fantasie tessili. La cosa mi rende euforica. La spirale è il mio simbolo preferito.
Che cosa ho visto
Due lucertole che attraversavano la strada di corsa, spaventate dallo scooter. Erano molto più grosse del solito, verde chiaro, e correvano dritte sulle zampine invece di stare schiacciate come le nostre. Un piccolo deposito di auto arrugginite, accatastate in un campo assieme ad alcuni relitti di barche e moto d’acqua. Due bimbette in spiaggia con un cucciolo di cane piccolissimo, tutto peloso, di non più di quaranta giorni. Aveva anche la sua cabina/trasportino. Un nudista di mezza età con un cappellino fatto all’uncinetto che nuotava assieme al suo cane. Tre nudisti fra i cinquanta e i sessanta, in piedi, chi con le braccia conserte, chi con le mani sui fianchi, chi con la barba bianca. Tutti con la buzzetta. Statuari, hanno parlato fra di loro un sacco, come gli antichi nell’agorà. I nudisti sono un toccasana in spiaggia, rendono l’atmosfera rilassata, sonnacchiosa, meravigliosamente easy. Sì alle spiagge miste, no al ghetto nudista! Ho visto un locale chiuso, dietro alla chiesa di Paraportiani. Tutto bianco, con l’insegna dipinta a caratteri cubitali dentro a un riquadro blu. “LA NOTTE”, come il film che Federico Fellini non ha mai girato. Un’apparizione. Più avanti imparerò che vi si esibiva un’orchestra di musica tradizionale greca. Ho visto dei gran italiani in scooter. Gli stranieri invece di solito li vedi con la macchina o il quad. Ma il più bello di tutti è un macchinino a due posti molto cyber, il buggy. Il mio moroso mi ha raccontato che lo guidavano Bud Spencer e Terence Hill in Altrimenti ci Arrabbiamo, e mi ha anche detto che piuttosto che andare in giro col buggy lui va via a piedi. Ho visto uno Starbucks. Un negozio di frutta e verdura con dentro lo stesso odore dei fruttivendoli in Polonia. Una casa bellissima con l’orto e i gerani e le sedie di plastica blu dello stesso blu delle imposte. Dentro ci abitano due vecchietti. Qui a Mykonos le imposte delle case sono quasi tutte blu, di tutte le possibili gradazioni: dal blu primario, a quello che tende al verde bottiglia, al blu inchiostro scurissimo, al lilla, al turchino , al celeste pastellato di ultima generazione. Pensandoci bene, sono l’imitazione di tutti i colori che si possono vedere nel mare, più il bianco della spuma. Poi ho visto un’altra casa, l’unica color nocciola. Un arancio antico. Aveva una torretta e un cancello con due leoni sulle colonne, uno dei quali addormentato. La casa era abbandonata, e io ho pensato a Venezia.
Cos’altro ho visto…
Nel dedalo delle stradine del centro, in mezzo a vetrine, locali e tavolini, mi sono trovata davanti una veranda con quattro anziani, le facce tranquille di chi la sa parecchio lunga. E mi sono resa conto che in mezzo a quel delirio commerciale, loro se ne stavano davanti a casa loro, a fare le chiacchiere. Quando ho realizzato questa cosa, una delle signore m’ha sorriso. E poi, un’epifania divina! Sulla veranda di un ristorante in pieno centro, il Nautilus, c’è Rupert Everett. In persona. Quando lo riconosco distoglie gli occhi e si mette a parlottare un po’ scocciato con il suo amico, ma perlomeno sembra essersi ripreso dal devasto del lifting. Non so, avevo sempre pensato che incontrare le celebrities fosse una cosa un po’ volgare. Ma forse perché temevo di imbattermi in Briatore, Totti, o Manuela Arcuri. Rupert invece è fico. E poi a Mykonos ci sta come la ciliegina sulla torta. Un po’ come Gaultier, Bowie, oppure, potendo viaggiare nel tempo, Oscar Wilde. Se solo avessi più faccia tosta, mi sarebbe piaciuto andare a rompergli le palle: “Excuse me, sir. I know it sounds pretty crazy, but you really remind me a famous guy. The main character of an Italian comix …”
Smells like teen spirit (che cosa ho sentito)
Le puzze di scooter, camion ed autobus non omologati. Sulla cima delle montagne pietrose e riarse, odore di fieno. Scendendo, l’odore di fieno si mischia al profumo dolce di fichi maturi, non ancora guasti. Qua e là potentissime zaffate di capra. Come un milione di pecorini in una botta sola.
La shit list
Una cosa sola, il Joy. Quando il mio moroso chiede un Pina Colada, i tipi al bancone si rendono conto che non parla inglese e ripetono tre volte con aria sprezzante “What is it?” Quando gli chiedo se è possibile avere un Pina Colada, mi rispondono secchi “NO”. Non aggiungono altro, e io non indago, ma mi domando quale possa essere il problema. Gli italiani? Le donne e le coppie etero? In ogni caso un briciolo di tolleranza e di educazione non guasterebbero affatto. Evidentemente i proprietari del Joy sono così simpatici con tutti, perché ogni volta che ci passiamo davanti il locale è sempre mezzo vuoto.
Il top
Il Blanco. È un locale sulla spiaggia spigoz di Aghia Anna, di fianco a Plati Jalos. L’entourage è quasi tutto italiano. Dal bancone del bar si gode una vista stupenda sul mare, così bella che ti vien voglia di farti la stagione lì dietro. Tutto è bianco, anche i tronchi degli alberi interni al locale sono dipinti di bianco. L’ultima sera della nostra permanenza coincide anche con la serata di chiusura, e quindi ci becchiamo una super festa che sembra fatta apposta per noi, con tutti che ballano e vinello a fiumi. Kastro, a Little Venice. Davanti al locale ci sono cuscini, piccoli tavolini e lanterne, lungo un piccolo budello che finisce a picco sul mare. Dentro le luci sono soffuse e il bibop si alterna alle sinfonie e alla lirica. C’è una fila di tavolini fatta con piani di vecchie Singer dipinte di bianco, il cui pedale si trasforma in poggia piedi. Kostantin, il proprietario, è gentilissimo e assomiglia a Barry White. I primi giorni chiacchieriamo in inglese, poi si passa all’italiano. Kastro diventa la nostra tappa fissa per la conclusione delle serate. Parthenis. E’ il negozio di una marca greca di designer-clothes. Non la conoscevo, e rimango veramente stupita. Gli abiti sono tutti di colori basici, tendenzialmente lunghi, dalle linee morbide e spesso decostruite. Scendono sul corpo, a volte nascondendolo, a volte evidenziandolo. Parthenis significa vergine. Mandarini. È una pasticceria che vende piccoli dolcetti al miele e frutta secca, fette di baklava, e un espresso lungo lungo come piace a me. La proprietaria ha un cane che si chiama Rosa. Rosa ha un collarino fricchettone e convive con un micio tigrato. Si vogliono bene, non litigano nemmeno per le crocchette. La signora dice che gli animali capiscono tutto, e che sanno tutte le lingue. Io sono pienamente d’accordo.
Little Differences
La più eclatante riguarda i servizi igienici. Appena scesa dall’aereo, mi sono fiondata alla toilette. Tutti i bagni dell’aeroporto erano fuori uso, con l’acqua che traboccava fuori dalle tazze e si spandeva a formare grosse pozze per terra. Nei bagni ci sono cartelli che ammoniscono di non gettare carta nel water, ma detta così uno chiaramente pensa alla carta per asciugarsi le mani, non certo alla carta igienica. Come si fa a non gettare la carta igienica nel water?! È uno dei gesti più automatizzati dell’essere umano. E invece no, non è così, non dappertutto. Qui bisogna gettarla nel cestino, altrimenti si intoppano le tubature e succedono dei disastri. Lo scopro nella toilette di un bagno di Plati Jalos, in cui c’è un cartello con un papiro scritto in inglese che spiega questa cosa.
I piatti. Quelli in cui si mangia sono piccoli, come i nostri piattini da dolce. Invece, i piatti singoli da portata sono generalmente enormi, con porzioni doppie se non triple rispetto a quelle a cui siamo abituati. Yummi!
I locali sulla spiaggia. Bellissimi! Molto, ma molto più belli rispetto ai baretti delle nostre riviere. Sono tutti nei toni del bianco, combinato con colori naturali, dallo yuta al beige, fino alla gamma dei pastelli, azzurro, rosa, verde pistacchio. Tutti hanno delle super zone chill-out, con cuscini, divanetti, pouf, gazebo con tende svolazzanti, e soprattutto una fantastica illuminotecnica notturna, fatta di luci soffuse e una profusione di candele, dentro a lanterne di vetro dai telai bianchi.
I gatti. Sono tantissimi. Molti rossi tigrati, molti dalmata. Girano indisturbati fra le gambe della gente nei ristoranti all’aperto, dove vengono spesso utilizzati come baby-sitter per i bambini, che si incicciano i micetti più piccoli e non rompono. Nel mio albergo c’è una cucciolata con mamma fulva al seguito che ha squattato le sdraio sui balconi al pianterreno. I turisti li adorano e gli portano le scatolette.
L’animale totem del viaggio
Non è il pellicano, la mascotte dell’isola che non sono riuscita a vedere. E’ l’orso, senz’ombra di dubbio. Il primo indizio in questo senso è il flier di una serata gay, nero, con la scritta rossa BIG. Dentro la scritta la sagoma nera di un’impronta di orso. Sotto l’abstract della serata: where the greek bears play. La sera stessa noto un superbo esemplare di orso ospite nel mio albergo. L’orso, per chi non lo sa, è una precisa tipologia di maschio gay: grosso, peloso e carnoso. Si accompagna solitamente al cacciatore, muscoloso, glabro e belloccio. Anche questo orso ha il suo cacciatore al seguito. Sembra uno degli sbirri punk di BarterTown, nel terzo Mad Max. Sono una coppia bellissima, girano con i quad e si informano su come raggiungere le spiagge chill-out più rinomate. L’orso ha una pronuncia inglese perfetta, ma con il suo cacciatore parla in arabo. Passano i giorni, e continuo ad imbattermi in orsi. Fra gli altri, una bottiglia di intruglio vodkoso che si chiama Ursus. La prova lampante del ruolo totemico dell’orso l’avrò l’ultimo giorno, a Super Paradise. Ad un certo punto noto un ragazzo cicciotto con due simboli di Marte intrecciati e tatuati sul polpaccio, che si aggira per la spiaggia, chiedendo chi parla inglese. Poi propone ai suoi interlocutori di fare una foto, con un orsacchiotto piccolo e spelacchiato che si porta in giro. Nessuno accetta. Tutta la spiaggia gli ride dietro. Quando finalmente trova un volontario, dalla felicità si mette a trotterellare a passo saltellato. È uguale a Carlo Verdone quando corre. Fotografa il suo modello abbracciato all’orsetto, mentre lo vezzeggia e fa finta di baciarselo. Alla fine dello shooting, il modello riceverà una mancia. Mi domando a cosa serviranno le foto. In ogni caso, viva gli orsetti! Luiza Samanda Turrini