Mosca d’inverno 2
Ismailovsky Park
Un'altra domenica di neve e gelo con il pallido sole che finge di scaldare i meno tredici di stamane. Che nostalgia, quelle domeniche di gennaio a Ismailovsky Park a Mosca. Stesso gelo sferzante, stesso sole malato, solo l'aria secca che non ti fa sentire il freddo ma ti fa prudere il naso e le guance. Mi alzavo presto per...
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Ismailovsky Park Un’altra domenica di neve e gelo con il pallido sole che finge di scaldare i meno tredici di stamane. Che nostalgia, quelle domeniche di gennaio a Ismailovsky Park a Mosca. Stesso gelo sferzante, stesso sole malato, solo l’aria secca che non ti fa sentire il freddo ma ti fa prudere il naso e le guance. Mi alzavo presto per buttarmi nella Metro a godere ogni volta di qualche diversa stazione. Stupendi ambienti, testimoni di un’epoca dove al centro dell’impero si voleva dimostrare la ricchezza anche se non era necessaria. Dalla Komsomolskaija o dalla stupenda Arbatskaija, fino alla Teatralnaija e alla vicina Ploshad Revoluzy dove prendevo la linea blu per Ismailovo. Passava la severa e monumentale Electrostanzija e finalmente si usciva in mezzo a montagne di neve nei sobborghi segnati dalle Krushove, parallelepipedi squallidi e giallastri costruiti in tutta fretta e al risparmio nel dopo Stalin, per placare la fame di case dei moscoviti. Un lungo rettilineo stando attento a non scivolare sul ghaccio tra due ali di babuske che vendevano calze, pantofole, mutande, improbabili valenky o robaccia cinese e finalmente una collinetta in mezzo ad un parco sterminato dove sorgeva un enorme mercatino in cui si poteva trovare tutto quello che c’era di interessante in Russia. Una Disneyland dello scambio. Pagati dieci rubli di ingresso, cominciava subito la sfilata di bancarelle dove mi piaceva attardarmi a guardare, a cercare di chiacchierare, a penetrare un poco di quell’anima russa che permea ogni manifestazione di vita. Trascuravo il mercatino degli animali in basso, per risalire a poco a poco la collina in modo circolare, quasi una montagna del purgatorio che conduceva alla cima liberatoria. Montagne di suveniri aspettavano di essere sceti, valutati, contrattati. Scatolette di Palech finemente miniate, le belle ceramiche blu di Djiel che esigevano ogni volta un mio obolo, piatti e stoviglie di legno laccato rosso e giallo, bambole riccamente vestite, spille dipinte, ogni volta pretendevano un riscatto prima di lasciarmi libero. Nel giro superiore i banchi dell’ambra e di altre pietre, le vecchie curiosità di argento come quel bel portasigarette su cui ho scorto un’incisione struggente “Al mio piccolo gattino, 1917”. Come non rimanere attoniti e commossi al pensiero di quella giovane contessa che aveva preparato il regalo perchè il suo bell’ufficiale la ricordasse in qualche lontana destinazione e poi la Rivoluzione che spazza via tutto e stabilisce nuovi ordini, nuove gerarchie. Le macchine fotografiche poi, prendevano molto della mia attenzione: i gioielli della tecnologia russa, Le Kiev maestose, le piccole Zorki copie della Leica, le Horizon curiose con il loro obiettivo rotante vicine ai molti oggetti vecchi, macchine da scrivere fine secolo o i militaria, berretti, binocoli, bussole, daghe. Uno spazio a parte prendevano i distintivi e le medaglie, una vera e propria mania sovietica, che anziani dal volto duro vendevano dopo averle portate appuntate sul petto con orgoglio per anni. Passavo poi almeno un’oretta nello spiazzo dei pittori. Un gran numero di persone esponevano le loro opere intorno ad un vasto spazio circolare e si attaccava bottone facilmente. Il freddo pungeva, ma mi strigevo bene la dublionka e mi calcavo attorno alle orecchie la shapka di volpe che naturalmente avevo acquistato lì la prima volta, nei banchi delle pelli. Poi ancora i bei servizi di cristallo (ulteriore lascito), infine tralasciando le mille altre cose arrivavo alla cima della collina, che serbavo per il finale, trattenendo il desiderio di correrci subito appena arrivato. Già dal basso della scalinata si potevano vedere i cento tappeti esposti su tralicci a far brillare i colori nel sole radente. Una saga rutilante di rossi cupi, di azzurri smaglianti, di gialli pallidi, di rosa antichi. I venditori, quasi tutti caucasici dalle scure pelli rugose, si appollaiavano dietro le cataste di tappeti per difendersi dal vento che sulla cima della collina era più forte. Tutte le tipologie della produzione russa erano esposte. Grandissimi Sumak pelosi, Khazak e Shirvan geometrici assieme a tutte le loro varianti caucasiche, Adler smaglianti, scuri Bukhara e Samarcanda coloratissimi. Una volta fui folgorato da un Chichi rosso fuoco strepitoso, ma il tizio non era certo appeso a un pero e voleva 5000 dollari, così non cominciai neppure la trattativa, ripiegando però su una curiosa sacca da sella Yomud che mi lenì la delusione. Poi con i miei pacchetti me ne tornavo lentamente all’uscita per lasciarmi andare al ventre della metro prima di tornare in albergo. La maggior parte della gente leggeva libri, sulla metro di Mosca. Sarà anche un popolo di ubriachi, ma che recita a memoria Pushkin e Majacovsky. Freddo intenso, saudade, nostàlghia da annegare con 100 grammi di Stalichnaija come diceva Eugenio. Vado a farmi un bicchierino di Amaro del Carabiniere che il papà di una mia carissima amica mi ha regalato a Natale. Na sdarovije.