Monrovia, Liberia

23 novembre 2003: lavorare a Monrovia Partito da Ginevra il sei novembre per Abidjan, dove abbiamo passato la notte in un alberghetto e abbiamo mangiato libanese sotto il più pazzesco diluvio che si possa immaginare, siamo arrivati all’aeroporto militare di Monrovia con un aereo turboelica delle Nazioni Unite il sette. A prenderci non c’era...
Partenza il: 06/11/2003
Ritorno il: 18/12/2003
23 novembre 2003: lavorare a Monrovia Partito da Ginevra il sei novembre per Abidjan, dove abbiamo passato la notte in un alberghetto e abbiamo mangiato libanese sotto il più pazzesco diluvio che si possa immaginare, siamo arrivati all’aeroporto militare di Monrovia con un aereo turboelica delle Nazioni Unite il sette. A prenderci non c’era nessuno, perché credevano arrivassimo all’aeroporto internazionale. Fa effetto aspettare di fianco a muri di sacchi di sabbia, blindati bianchi e caschi blu. Finalmente arriva l’autista, e ci porta a casa, un posto carino con vista sul mare, molto verde. Vengo presentato ai colleghi, sbrigo qualche formalità, e faccio un salto in ospedale. La sera siamo tutti invitati a un torneo di bigliardo dai colleghi olandesi. Il giorno dopo, sabato, inizio a lavorare, ma qui è normale, non solo è un progetto di emergenza, ma il sabato è lavorativo. La domenica, invece, andiamo tutti al mare, una lunga spiaggia di sabbia che da sull’oceano aperto con forti onde. E’ pericoloso nuotare dove non si tocca, ma giocare nelle onde è fantastico. Lì c’è qualche bar e ristorantino, e abbiamo mangiato ottime specialità libanesi.

E così è iniziato il mio tran-tran. Devo fare una valutazione del laboratorio del Benson Hospital, interamente gestito dalla sezione svizzera di MSF. C’è un tecnico, Omar, e un assistente, John. I test effettuati sono pochi, e i più semplici. Ma le cose non sono facili: manca la corrente, e il generatore viene acceso solo quando lo chiediamo. Di continuo ci sono richieste di trasfusione di sangue, e la mia paura è che se ne arrivano tre insieme in un momento in cui Omar è oberato di lavoro, avvenga un errore di gruppaggio, cioè venga dato il sangue col gruppo sbagliato, con le conseguenze che potete immaginare. Domani ho il colloquio di assunzione con cinque candidati per la posizione di tecnico di laboratorio, speriamo ce ne sia uno o due competente, Omar da solo non basta, inoltre ci vuole qualcuno di guardia di notte e di domenica.

L’ospedale Benson è una struttura di tre piani, con annessi e connessi. La sua capacità è di ottanta letti, ed è quasi pieno. Inoltre c’è un servizio di ambulatorio con una quantità enorme di pazienti in attesa di essere visitati. E’ un ospedale generico, ma MSF vorrebbe farne soprattutto un maternità e una pediatria. La sala operatoria è aperta da poco, e vi si effettuano tagli cesarei e altre operazioni ginecologiche, la più comune è probabilmente il “curetage” che credo sia il raschiamento. L’ospedale è interamente gestito da MSF, il che significa che tutto lo staff è assunto e pagato da noi. La differenza è notevole con altri ospedali che ho visto in missioni precedenti, dove MSF interveniva solo come appoggio. La motivazione del personale è ben diversa, e è molto più facile farli lavorare, sgridarli, complimentarli. C’è pulizia, igiene, i pasti per i pazienti sono regolari e buoni, non c’è quel terribile odore che c’è nelle corsie di tutti gli ospedali pubblici nei paesi poveri, dal Senegal al Malawi all’Uganda ma anche in Russia. Ma le cose non sono facili: i medici sono pochi, tra gli espatriati c’è Helmi, burbero, barbuto e capellone, che in un certo senso manda avanti tutta la baracca, poi Philip, molto stravagante, ginecologo/ostetrico, che ha deciso di dormire nell’ospedale, e Carl, anestesista. Sono aiutati dall’unica dottoressa Liberiana, e da numerosi “PA” (physician assistants”), a metà tra medico e infermiera, ma le cui competenze non sono notevoli. C’è poi uno stuolo di infermieri e infermiere, che Helmi e Philip fanno correre.

A casa abbiamo un cuoco, Joseph, che ci prepara due pasti al giorno, ma siccome l’ospedale è lontano, la scelta è portarmi un panino, mangiare ciò che mangiano i malati, o vedere cosa offre la zona intorno all’ospedale. Ogni tanto mangio la sbobba preparata nella cucina dell’ospedale, riso e lenticchie, non male. A volte invece vado vicino all’ospedale, c’è una ragazza che sotto una tettoia ha una panca, e prepara su un fornello a carbonella banane fritte, palle di farina fritte (tipo i nostri bomboloni/kraften ma non dolci), e pesci fritti. Ma ieri sono andato un po’ più tardi, e ha preparato un secondo fornello, e i pesci li ha fatti alla graticola! Erano incredibilmente freschi, leggeri e buoni. Ho mangiato come al solito seduto sulla panca di fianco alla cuoca in un piatto di plastica. Una bambina è corsa via a cercarmi una cocacola fresca.

L’altro giorno arriva una jeep dell’organizzazione umanitaria “action contre la faim (ACF)”, ne esce una bella ragazza con il naso lentigginoso, e porta dentro quattro bambini. Mi dice “guarda le pulci che vi ho portato, c’è un medico?” Scheletrici ma gonfi, con la testa che non stava su, necessitavano terapia nutritiva ma erano anche affetti da ogni sorta di malattie. Helmi si lamenta che ACF gli porta solo casi disperati, ma sono tutti ancora vivi, speriamo bene. La ragazza ha promesso a Helmi un bacio per ogni bambino salvato. Questo modo di scherzare non è cinico, quando passi il tempo con casi di questo genere è forse indispensabile. Dal laboratorio vedo la tragedia più da lontano, ma loro ci sono dentro fino al collo tutto il giorno e a volte anche di notte. Lo stesso giorno, poco prima, era arrivata una ragazza adolescente in laboratorio mandata dall’ambulatorio, con una richiesta di test dell’emoglobina. Troviamo tre virgola tre grammi per decilitro di sangue, il minimo leggibile dal nostro apparecchio. So già che in casi simili viene richiesta la trasfusione, quindi per non perdere tempo le testiamo il gruppo sanguigno. Sul che passa Philip, mi da un saluto e chiede che succede. Dico: “abbiamo una ragazza con 3,3 grammi”. Lui la vuole vedere, le tasta il polso, e dice “rischia di morire da un momento all’altro. E’ incredibile che sia arrivata qui per conto suo. Trasfusione immediata”. Ma un donatore qui non si trova facilmente, e appunto la ragazza è venuta senza parenti. Da quando sono qui ho già donato sangue due volte, questa volta tocca a Philip. Dopo un urlaccio di Philip a un PA che le aveva messo una flebo di liquido fisiologico prima del sangue (ha già pochissima emoglobina, vuoi diluirgliela ancora?), la ragazza è stata sistemata (e salvata). A quel punto, incuriosito, ho voluto sapere cosa le aveva provocato una tale anemia. Non è stata la malaria, prima ipotesi, ma un parto, ha avuto un bambino (morto) chissà dove, e ha perso molto sangue. Sedici anni! E pare sia molto comune. Rimangono incinte, anche molto più giovani, il padre se ne frega, tutti quanti se ne fregano, il bambino forse muore, forse sopravvive, e chi paga la sua manutenzione? Non c’è da stupirsi che le varie fazioni in guerra si procurassero così facilmente dei bambini-soldato.

Volendo andare a visitare i laboratori di altri ospedali, soprattutto per capire come gestiscono la trasfusione, sono andato anche al Redemption Hospital. Enorme, molto più grande di Benson, è gestito in parte dalla sezione belga di MSF. C’è una folla infinita di persone che aspettano di essere visitate. Per raggiungerlo, si va nella parte nord della città, passando sul ponte che potevamo vedere quest’estate su tutti i telegiornali, con gruppi di ragazzi che sparavano da camion con mitragliatrici pesanti. Oltre il ponte si vedono le tracce della guerra: molti edifici sono crivellati da colpi, e non so se la situazione sia del tutto sicura, perché i posti di blocco dell’UNMIL sono molto più rinforzati, invece di autoblindo bianche ci sono veri e propri carri armati e i caschi blu hanno l’aria decisamente più attenti e cattivi (lungo la strada per andare al Benson sono un po’ sonnacchiosi). Questi posti di blocco creano code e ingorghi, ma le auto delle agenzie umanitarie hanno la precedenza. La vita però ricomincia, ci sono bancarelle e mercatini ovunque, e ragazzi che si avvicinano alle auto per vendere roba, dalle pile a gerrycan vuoti a bibite a buste di detersivo. La città è interamente priva di luce e acqua corrente, anche a Mamba Point, dove siamo noi e dove ci sono l’ONU, una specie di fortezza chiamata ambasciata americana, e un albergo di qualità. Tutto funziona con generatori e cisterne d’acqua. Non so come funziona per gli scarichi, ma da ieri sotto casa c’è un rigagnolo che esce da una crepa e un meraviglioso profumo di fogna.

Ieri sera, sabato, c’è stata una gran festa da MSF-Olanda, con tema “arancione”, tutti quelli che ci sono riusciti si sono vestiti di arancione. E’ iniziata con tutti i liberiani seduti lungo i muri, poi c’è stata un a preghiera collettiva, e una serie di discorsi. Poi per fortuna si è cominciato a bere e a mangiare, e poi a ballare al ritmo della musica di un orchestra locale. I liberiani hanno un modo tutto loro di ballare. Vorrei vedere le mie amiche italiane fare la stessa cosa a qualche ballo elegante. La ragazza muove il sedere, il ragazzo si mette dietro di lei, e a ritmo di musica, si muovono sensualmente. Oggi invece siamo come ogni domenica tornati al mare, un posto nuovo, senza ristorante, sotto delle palme da cocco. Dei ragazzi avevano una scatola thermos e vendevano bibite, noi ci eravamo portati dei panini, e abbiamo fatto gran nuotate tra le onde.

Domenica, 7 dicembre 2003: inchiostro biro e rigor mortis Sono sempre qui, vivo, vegeto e sano, anche se coperto da una specie di eruzione cutanea dovuta, pare, alla costante sudorazione. Siamo entrati nella stagione asciutta, il che significa che piove di meno, c’è più spesso il sole che fa evaporare le pozzanghere, aumentando ulteriormente l’umidità dell’aria. La mia vita procede tra l’Ospedale Benson, la casa a Mamba Point, e il New Jack, il bar di fronte da cui ci si gode il tramonto sorseggiando birra “club” ghiacciata. Le regole per la nostra sicurezza però non cambiano, e come alcuni di voi già sapete, le auto, la casa e l’ospedale sono equipaggiate di radio, e se andiamo a spasso dobbiamo portarcene dietro una. I telefoni cellulari funzionano e li usiamo, ma la radio resta il mezzo di comunicazione prediletto. Per motivi di sicurezza, inoltre, persone e luoghi hanno nomi in codice. MSF-Svizzera è “cheese”, la casa con l’ufficio è “cheese base”, l’altra casa è “blue cheese”, io sono “cheese three-seven”, le auto sono “turtle one, turtle two” e così via, mentre il Benson Hospital è “Bravo Hotel” (non so se lo sapete, ma per dire ABCD non si dice Ancona Bari Como Domosdossola, ma Alpha Bravo Charlie Delta). Ogni volta che partiamo in macchina, ecco il dialogo dell’autista con il radio-operatore: “Cheese base fort turtle 1, over” “Turtle one for cheese base, go ahead” “I am leaving your location directed to Bravo Hotel, over” “Cheese base to turtle one, over” Turtle one to cheese base, over” “Yes, who is with you, over?” “I am carrying Cheese 3-2, cheese 3-5 and – attimo di silenzio, si rivolge verso di me, bisbiglia – Roberto, what cheese are you? – Cheese 3-7 – and cheese three-seven” “well copied, over and out” E così via. Sarà una coincidenza che proprio la sezione svizzera di MSF sia formaggio? Le emozioni in laboratorio continuano, sempre legate al fatto che siamo diventati un centro trasfusionale. Dalla ginecologia arrivano richieste urgenti di sangue, che di solito non abbiamo, quindi stufi del panico costante dovuto alla mancanza di donatori, ci siamo rivolti all’Associazione Liberiana Donatori Sangue, ne abbiamo trovati due, poi abbiamo capito cosa fare: bisogna abbaiare con la famiglia del paziente. Gli diciamo con tono duro e deciso che per salvare la loro figlia/sorella/moglie, abbiamo svuotato la nostra emoteca (grande parola per un frigo con qualche sacca di sangue), e quindi sono pregati di darsi da fare per riempirla di nuovo, ricordandosi inoltre che da noi non devono pagare una lira. Sono anche stati minacciati che ci saremmo ripresi il sangue dalla loro parente. Ha funzionato, venerdì e sabato abbiamo avuto la coda di donatori, tutti famigliari di due donne salvate per miracolo, uteri e vesciche scoppiati. Ieri una ragazza piccolina, mingherlina, ma con un carattere da governante di collegio ha trascinato da noi uno stuolo di persone grandi, grosse e nerborute. Peccato che se ne siano dovuti escludere tre per epatite B. Inoltre stanotte c’è di nuovo stata un’emergenza, una “placenta previa”, cioè la placenta esce prima del bambino, emorragia spaventosa garantita, e la nostra riserva si è subito esaurita. Tali emergenze notturne inoltre fanno tirare giù dal letto il tecnico in piena notte, e stamattina, chiamato io in emergenza, ho trovato il laboratorio che era un bordello.

Qualche giorno fa abbiamo avuto un’emergenza di un altro genere: è morto un bambino, e il sospetto è la Difterite. E’ una malattia gravissima, spesso letale con i bambini, ed estremamente contagiosa. Abbiamo deciso che era indispensabile, per gli altri bambini e per la famiglia della piccola vittima, accertarsi se era veramente difterite: “Roberto, hai modo di vederlo in laboratorio”? Io, che di Difterite mi sono occupato tutta la vita, guardo sui manuali: “purtroppo no, mancano i reagenti” “va bene, portiamo un campione all’ospedale cattolico, hanno un bel laboratorio” “ragazzi, dico io, non vorrete mica che sia io a fare il prelievo nella gola del piccolo cadavere?” “no no, lo fa Pierre (un amico di Helmi in visita), che ha esperienza” “va bene, poi vi accompagno al Catholic”. Su di ciò, nessuno si è premunito di avvertire la famiglia ne l’ambulanziere, e il bambino è stato riportato a casa. Così partiamo anche noi per quella casa, e mentre aspetto in macchina con l’autista e con Helmi, sentiamo i canti a lutto provenire dalla casa. Intanto Pierre è entrato con Stewart, un PA (Phisician Assistant) liberiano, per spiegare la situazione e fare il prelievo. Torna dopo mezz’ora con i campioni, e una grossa macchia blu sui pantaloni e le mani. Ci spiega che il padre ha capito perfettamente il rischio e ha accettato subito che Pierre facesse il prelievo. Quest’ultimo ha dovuto farlo sul corpicino con tutta la famiglia in cerchio intorno. Ora era passato del tempo dal momento della morte, e il corpo era entrato in “rigor mortis”, cioè i muscoli erano diventati rigidissimi, quelli della mascella compresi. Pierre non aveva nulla per forzare la mandibola, e ci è riuscito con una biro, che si è però spezzata, riempiendo di inchiostro lui, ma anche la bocca del bambino, per fortuna da fuori pare non fosse visibile. Poi di corsa al Catholic, dove ci hanno preso i prelievi, e il giorno dopo ci hanno detto che non hanno trovato i batteri della Difterite, ma i medici continuano ad avere il dubbio e adesso tutto lo staff della pediatria è sul qui vive. Concludo questa storia macabra segnalando che mentre noi facciamo tutto gratis, l’ospedale Santo, Cattolico e Apostolico ci ha chiesto ben 40 dollari per una semplice colorazione su vetrino, e altrettanti per un esame simile del liquido cerebrospinale di un paziente, deceduto pure lui, per sospetta meningite.

Questa mattina sono andato con Philip da Omar, il mio tecnico, per il battesimo di suo figlio. Avevo tanta voglia di andarci quanta di infilarmi una supposta, perché benché fossi un po’ curioso, dopo i due anni in Senegal mi immaginavo una cerimonia musulmana in Africa Occidentale. Infatti, si è trattato di sedersi su delle panche, aspettare, aspettare ancora, poi capire che la ragione dell’attesa era l’Imam che non arrivava, poi bere la cocacola non richiesta che sennò si offendono, poi finalmente decidere di andare via anche perché non potevamo bloccare l’automobile, e allora, quando hanno capito che eravamo decisi ad andare via, hanno affrettato le cose, e anche senza Imam hanno sgozzato due pecore. Sul che alla radio Philip è stato chiamato per un’emergenza, e siamo scappati via non senza dei sacchetti pieni di cibarie (sacchetto di succo d’arancia, palline di farina fritte e un pacchetto di pasta farinosa). Philip aveva paura che la sua paziente con la placenta previa (vedi sopra) morisse, e quindi incitava l’autista a guidare come un pazzo suonando il clackson. A un posto di blocco è riuscito ad urlare a un casco blu armato fino ai denti “I am a doctor, man!”. Se non mi è venuto un infarto in quel momento, credo non mi verrà più.

Comunque la palcenta previa è probabilmente in salvo, e ci siamo rimessi dalle nostre emozioni andando a mangiare l’aragosta in un ristorante su un pontile sulla laguna, per poi andare in una nuova spiaggia, vicino all’Hotel Africa, un posto che dovrebbe essere il più bell’albergo della Liberia, con tanto di viale lampionato a doppia carreggiata per raggiungerlo, di fianco al centro congressi. Peccato che detto superalbergo sia in stato di totale abbandono, con le piante che crescono tra i gradini dell’ingresso, e immagino il centro congressi essere in condizioni simili. La spiaggia invece è molto carina, non ci sono le onde e si possono fare grandi nuotate. Stanno costruendo una specie di bar-ristorante, e domenica prossima ci sarà l’inaugurazione, con pesce alla brace portato direttamente dai pescatori per tre dollari e mezzo, a detta delle ragazze che stavano sistemando tutto.



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