Messico, topes e habaneros

Il nostro viaggio nella penisola dello Yucatan, 50% Playa del Carmen e 50% in giro on the road tra rovine e città coloniali
Scritto da: Vertical
messico, topes e habaneros
Partenza il: 06/07/2011
Ritorno il: 28/07/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
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Dopo la Route66 dell’anno passato, in cui in pratica l’oceano lo abbiamo visto solo dalla macchina, avevamo una crisi d’astinenza da spiaggia e quindi nel momento di pianificare il viaggio la priorità doveva essere proprio il mare. Dato però che non mi piace andare in vacanza in villaggi turistici o cattedrali nel deserto, in cui oltre al mare c’è assolutamente il nulla, ci voleva un posto in cui oltre al mare superbo si potesse anche visitare “qualcosa di diverso” .

La penisola dello Yucatan si affaccia sul mar dei Caraibi, a poche centinaia di metri corre la seconda più grande barriera corallina al mondo e appena all’interno decine e decine di siti Maya nella foresta, città coloniali e riserve faunistiche incontaminate.

Direi che come meta non è niente male!

Come al solito la logistica me la sobbarco tutta io, e vedo di capire se anche questa volta è possibile organizzare da casa il meno possibile, lasciandoci la libertà di decidere giorno per giorno come muoverci e cosa visitare.

Parto così in cerca di info da un forum che frequento per altri interessi, ma in un primo momento ricevo delle informazioni un po’ scoraggianti: guerra civile, violenza contro turisti, polizia corrotta, stagione sbagliata (luglio) che alla fine quasi mi convincono a cambiare meta. Poi vengo contattato da un ragazzo Italiano che si è trasferito a Playa del Carmen per lavoro un anno fa, che mi rassicura su tutto ed anzi si offre pure di aiutarmi con l’alloggio.

Vabbe’ speriamo bene, con anticipo clamoroso (marzo per luglio) prendiamo solo i biglietti aerei per Cancun e stop. Fino a 10 giorni prima di partire non sappiamo neppure dove andremo a dormire, il mio “gancio” insiste che se prenota troppo presto capiscono che è per un turista e il prezzo sale, così invece ci ha garantito che fissiamo l’appartamento a “prezzo Maya”, ci ha detto 250€ …per tutto il mese!

Noi non abbiamo idea di fermarci tutta la vacanza a Playa, ma mi piace l’idea di avere una “base” a costo contenuto da cui poi partire e ritornare dopo il giro automunito che ho in mente.

Anche per questo racconto come l’anno passato non aspettatevi una “guida” con luoghi e prezzi, quanto piuttosto un vero e proprio “diario” con esperienze e sensazioni… per quanto riuscirò a trasmetterle.

Partiamo dunque da Venezia il 6 luglio al brillante orario delle 6.45 di mattina, checkin alle macchinette automatiche dell’Air France: bella innovazione….magari se ne funzionasse più di una (una!) e non costringesse a mettere tutti i dati a mano la gente sarebbe più tranquilla.

Il volo è piuttosto “articolato”: Venezia-Amesterdam-Atlanta-Cancun, ma cercando di togliere uno scalo il prezzo lievitava automaticamente sopra “il millino”, mentre così ci costa 850€ che è ben più accettabile.

Arriviamo allo scalo di Atlanta, che l’anno passato era stato mostruoso con migliaia di persone in coda per immigrazione e body scanner, e quest’anno è quasi deserto, infatti il funzionario dell’immigrazione si permette anche di perdere tempo prendendomi per il culo quando si accorge che eravamo passati di lì esattamente un anno prima: “ …ma l’anno scorso la ragazza con cui viaggiavi non era una mora e alta?”. Lì per lì non mi aspettavo battute, di solito sono sempre superseri, così rimango un po’ attonito, poi vedo che mi sorride e sto al gioco dicendo una cosa del tipo: “ no no, guardi, mi sta confondendo con un’altra persona, ammiccando verso la Livia”….mi sa che non gli passa niente a fare quel lavoro tutto il giorno.

Altro volo e siamo a Cancun, siamo partiti da casa alle 4 di mattina, sono le 9 di sera ( più 7 ore di fuso) e non abbiamo dormito quasi nulla. Ci manca solo un ultimo tratto di corriera fino a Playa Del Carmen : sono un po’ preoccupato perché l’aereo ha fatto ritardo, sicuramente abbiamo perso quella delle 9 e non so se ce n’è un’altra più tardi. Usciamo dalle porte a vetri dell’aeroporto e siamo letteralmente assaliti da tassisti e tour operator come neanche nelle Cicladi smontando dai traghetti. Complice anche il caldo tropicale che ugualmente ci stende e il poco sonno siamo completamente disorientati ; chiedo indicazione per il bus al primo che trovo e “il furbo” mi indica una corriera appena partita “ era quella, è l’ultima di oggi , ti porto io in taxi!”. See see…bravo…ci hai provato, l’ultima partiva un’ora dopo!

Ancora 60 minuti e finalmente arriviamo a Playa. Siamo al terminal in centro, velocemente tutti si dileguano e rimaniamo quasi soli con i nostri bagagli. Il mio gancio che doveva aspettarci lì non si vede….ammetto che per un paio di minuti sono stato un pelo agitato, in fin dei conti non l’ho mai visto di persona, l’ho conosciuto su internet 4 mesi fa e mi trovo in Messico senza sapere se e dove dovrò andare a dormire. Dopo 5 minuti per fortuna arriva e per la prima notte ci accompagna in un alberghetto vicino all’appartamento definitivo, che si sarebbe liberato solo il giorno dopo. Siamo talmente stanchi che avremmo dormito anche su una panchina!

Il giorno dopo facciamo un primo giro perlustrativo per Playa, il tempo è bruttino: piove e sembra di essere in un bagno turco, l’acqua che cade dal cielo è calda e neppure stando sotto la pioggia ci si rinfresca. Per il jet lag siamo come degli zombie che si aggirano per la città con pochissimi turisti, anche perché è mattina presto. Tutti i negozi sono chiusi e non ci sono ancora tutti gli imbonitori che ti chiamano per vendere le loro chincaglierie, i giorni successivi non mancheranno mai. Siamo intontiti e dopo aver percorso tutta la strada principale ( la 5a Avenida) ed essere ritornati indietro lungo spiaggia, mangiamo e torniamo in albergo perché il meteo è davvero deprimente e non consente di fare nulla.

La sera ci spostiamo nel nostro appartamento: è piuttosto spartano ma confortevole e comunque non mi aspettavo una cosa molto diversa, è molto spazioso ma anche decisamente caldo e la presenza dei soli ventilatori da soffitto si farà sentire nelle giornate più calde. La zona in cui si trova invece è all’apparenza inquietante. Playa infatti è una città che ha avuto una crescita demografica paurosa negli ultimi anni: in 10 anni è infatti passata da villaggio di pescatori a città con oltre 200.000 abitanti, richiamando persone da mezzo Messico. In pratica appena ci si allontana di qualche isolato dal mare e dalla zona pedonale si piomba in mezzo alla zona residenziale di tutti i lavoratori della città con una varietà incredibile di costruzioni, dalla catapecchia in lamiera con gente che dorme nelle amache alle villette ristrutturate con i cocci di vetro sui muretti. Siamo a solo 500 metri dalla 5a avenida ma è praticamente un altro pianeta rispetto al mondo dei resort, con bambini che giocano in strada, venditori di hamburger che lavano i loro carrettini , i cani che abbaiano sui tetti e una sensazione di povertà generalizzata che realmente stride con la ricchezza del centro.

Il giorno successivo ci sembra di essere degli alieni a camminare nella nostra zona verso la spiaggia, la gente che ci guarda incuriosita; per camuffarci con gli autoctoni entriamo in uno degli innumerevoli “abarrotes” , delle specie di empori che in teoria vendono generi alimentari, in pratica al 90% vendono solo roba da bere, nella nostra zona ce ne sono a decine ad ogni angolo ( “un abarrotes es una benedicion del senor!”) e ci prendiamo un bottiglione da 2,5 litri di coca, così già ci sentiamo molto più “messicani”, qui bevono coca a fiumi, peggio che in USA!

Facciamo la nostra prima calata in spiaggia, il mare è splendido nonostante il cielo coperto, anzi forse proprio grazie al cielo coperto i colori sono incredibili , l’acqua è cristallina e caldissima, in spiaggia non c’è quasi nessuno , boh, evidentemente subodoravano quello che sarebbe accaduto da lì a mezz’ora: in pochi minuti all’orizzonte dal mare appare un fronte nero e prima ancora di riuscire a raccogliere le nostre cose siamo annegati da una tempesta tropicale in piena regola. Da noi in questi casi ci si può aspettare tutta una giornata uggiosa, mentre qui un’altra mezz’ora e il cielo è completamente sgombro, il sole per la prima volta da che siamo qui fa capolino e saggiamo la potenza del sole dei tropici, devastante, tocca rifugiarsi sotto una palapa con un “cubetazo” (cestello con ghiaccio) di bottigliette di Corona!

Nei primi giorni avevamo in programma di restare in zona Playa, così il giorno successivo prendiamo dal centro il traghetto per Isla Cozumel che si trova esattamente lì di fronte a circa 45 minuti di viaggio. La zona del porto ora è piuttosto (anche troppo) turistica, ma non appena si lascia il centro ci si rende conto che il resto è totalmente selvaggio, d’altronde fino agli anni ’70 qui non c’erano neppure le strade! La fortuna del luogo si deve alla persona di Jacques Cousteau che per primo alla fine degli anni 50 esplorò i fondali straordinari della barriera corallina di Palancar e proprio lì vogliamo recarci. Noleggiamo uno scooter e via sparati verso sud sull’unica strada dell’isola. Il posto è straordinario, km di mangrovie costeggiano la nostra strada e ogni tanto si aprono magnifiche viste sul mare con la barriera corallina a volte a pochi metri dalla costa. Livia (sostiene) di aver visto un coccodrillo a bordo strada, io ero concentrato nella guida e non vedo nulla; boh…potrebbe anche essere perché poi effettivamente arrivati a Palancar il maya che ci accoglie ci chiede se vogliamo vedere il coccodrillo (che invece è andato via) ma ciò indica che la zona era adatta.

La spiaggia dove giungiamo è unica, tutte palme basse e palapas collegate da passerelle di legno, la caletta è minuscola, una stretta lingua di sabbia bianchissima su cui in pratica trova spazio una sola fila di sdraio. Tanto non c’è quasi nessuno e gli unici turisti arrivano qui come noi per partire con i barchini verso la barriera corallina che vediamo brillare appena sotto il pelo dell’acqua ad un centinaio di metri dalla riva, uno dei posti migliori per snorkeling o immersioni. Evidentemente ancora confusi dal fuso alle 11 abbiamo fame e pranziamo in un baretto; non appena terminato mi informo sul tour alla barriera e mi avvisano che parte tra 10 minuti, giusto il tempo di prepararsi, e il prossimo è tra 2 ore! Azz, ottimo il tour con ancora i fajitas di carne e peperoni nel gozzo! La guida ci accompagna in un lungo giro con maschera e pinne attraverso la barriera Palancar e la laguna di Colombia, il fondale è meraviglioso, con pesci di ogni genere e formazioni coralline a volte vicino al pelo dell’acqua mentre in altre zone si aprono dei baratri subacquei profondi decine di metri. Il giro avviene in c.d. drifting, cioè facendosi portare dalla corrente che è abbastanza forte nella zona, quindi non serve pinnare più di tanto, ma nonostante questo dopo quasi un’ora e mezza siamo abbastanza provati fisicamente (magari anche la digestione dei fajitas non ha giovato!), in più ad un certo punto sento qualcosa pizzicare la schiena, alzo la testa e siamo nell’occhio di un temporale; proprio in mezzo al mare con la pioggia battente è anche abbastanza inquietante.

Tornati a riva il meteo è migliore ma ancora coperto, ce ne freghiamo e riprendiamo lo scooter per completare il giro dell’isola con il tratto più selvaggio della strada, quello che si affaccia proprio sull’oceano Atlantico; una zona quasi del tutto priva di costruzioni e costantemente battuta in tutte le stagioni dell’anno da venti fortissimi provenienti dal mare. Lo scooter in due forse non è l’ideale, ma questo tratto ci lascia senza parole: alla nostra sinistra km e km di mangrovie a perdita d’occhio, e alla destra una linea ininterrotta di spiagge desolate e scogli battuti dal vento. Sulla sabbia soltanto i segnalini dei punti in cui i ricercatori hanno indicato il posto in cui le tartarughe hanno deposto le loro uova. Appena affianco e sopra di noi scivola planando nel vento per diversi chilometri un magnifico avvoltoio nero che evidentemente non aspetta altro che un colpo d’aria più forte ci faccia rotolare sull’asfalto per banchettare con i nostri resti. Completato il giro dell’isola riusciamo ad aggirare la perturbazione evitando di prendere acqua, ma la giornata non promette nulla di buono, così ritorniamo sulla terraferma e infatti arrivati a Playa diluvia e ci rifugiamo nel terminal dei traghetti. Guardiamo fuori la pioggia fittissima e ci sentiamo parecchio sconfortati: siamo qui da 3 giorni e alla fine abbiamo già preso più pioggia di quanta preventivavo di trovarne in tutto il mese. Si affacciano le peggiori aspettative di settimane e settimane di perturbazioni, uragani e vento che alle volte, raramente per fortuna, in luglio possono capitare.

Alla fine invece quello per fortuna sarà l’ultimo giorno di brutto tempo delle vacanza. La pioggia o l’acquazzone magari sono capitati ancora ma solo fenomeni rapidissimi che dopo mezz’ora lasciavano il cielo più limpido di prima, ed anzi in certi casi erano assolutamente auspicabili per rinfrescare un po’ l’aria.

Il giorno successivo decidiamo di recarci alle rovine di Tulum, che si trovano circa 60 km verso sud. Per arrivarci ci avvaliamo di quella magnifica organizzazione di trasporti che si chiama “collectivo”. Si tratta in pratica di tutta una serie di minibus semiprivati che battono con frequenza di 5-10 minuti tutta la riviera tra Cancun e Tulum. Si trova una fila infinita di questi van in centro a Playa; non appena un’auto è piena, parte: vanno velocissimi e si può chiedere di smontare praticamente dove si vuole. In più sono anche economicissimi, visto che questi 60km ci costano meno di 5€ a/r! La cosa secondo me divertente è il fatto che appena partono e mentre sono a pieno carico la velocità tenuta dall’autista è sostenuta ma accettabile; non appena si libera un posto, l’obiettivo primario di quello che guida è arrivare per primo alla fermata successiva sperando ci sia qualcuno che aspetta, per ricoprire prima possibile il “buco”, così si lanciano veloci come palle di cannone per arrivare prima degli altri collectivi ( mentre noi ci guardiamo con gli altri turisti nel timore che all’improvviso si stacchi una ruota per le buche).

La zona delle rovine di Tulum è forse il sito archeologico più fotografato di tutto il Mexico, con le costruzioni proprio a ridosso della scogliera a picco sul mare. Veniamo attirati da un bagarino che cerca di venderci ad un prezzo ridicolmente alto un passaggio col trenino per evitare il tragitto fino all’ingesso, saranno 500 metri e il trenino è mezzo pieno di americani, no comment. Dentro, tutta la zona è curatissima, con la tradizionale erba rasata tipo campo da golf e un numero impressionante di iguana di ogni colore e dimensione che spadroneggiano in giro per il sito. Proprio sotto le rovine il mare abbastanza mosso smuove la sabbia bianca della riva creando un contrasto di colori meraviglioso. Oggi finalmente c’è un bel sole, il cielo è limpido e fa un caldo notevole. Facciamo un lungo giro per il sito, che è invaso di gente e poi quando non ce la facciamo più per il caldo ci dirigiamo verso la spiaggia che si trova poco più a sud, a circa un km dall’uscita, che credo si chiami “Playa Paraiso”.

Per raggiungerla passiamo attraverso un resort piuttosto spartano con tutta una serie di capanne con tetto di paglia poggiate direttamente sulla sabbia; pare abbastanza decadente ma superata l’ultima duna ci affacciamo sulla spiaggia e vediamo la sabbia bianca candida. Per gli standard messicani è ancora abbastanza presto e quindi in pratica ci siamo solo noi: una meraviglia. La spiaggia degrada lentissima verso il mare e quindi la risacca delle onde è chilometrica; forse quanto di più simile alla visione che ci si affacciava nella mente quando pensavamo a : “spiaggia caraibica”. Ci piazziamo sotto una palma sulle sdraio di uno dei baretti, che sono a libera disposizione dei clienti se si consuma: una Sol = 1 euro! In più alla faccia di tutte le raccomandazioni lette su guide e racconti ci mangiamo tutta una serie di macedonie di frutta tropicale già sbucciata prese direttamente dai venditori che passano con le ceste lungo la spiaggia, buonissime!

Tornati a Playa ci sentiamo già talmente “inseriti” da azzardare anche un viaggio sui piccoli “combi” che fanno la spola lungo la Av.30, in pratica sono il corrispettivo dei nostri autobus urbani; chi vuole si compra un furgoncino scassatissimo con un paio di panchette dentro , scrive sul vetro con il pennarello il tragitto che intende “battere” e tutto il giorno fa avanti indietro sulla stessa strada che attraversa per lungo la città. Chi vuole salire fa un cenno in qualsiasi punto e loro si fermano, si pagano 5 peso a testa all’autista al volo e quando si vuole scendere si dice una cosa tipo “baha” e lui si ferma 5 metri dopo. Normalmente non è mai necessario aspettare più di 30 secondi anche di notte, ce ne sono centinaia,un servizio di una efficienza assurda.

In tutti questi mezzi di trasporto la cosa più difficile è sapere quando e quanto pagare: nei piccoli combi si paga appena saliti, prezzo fisso 5 peso; nei collectivi si sale e ci si limita a dire dove volete che vi faccia smontare, si paga quando si scende e il prezzo è un po’ “casual” , comunque differenze di spiccioli; nel collectivo che fa il diretto per Cancun invece si paga quando si sale, mentre nei bus di linea il biglietto va preso dalla bigliettaia prima di salire; poi ci sono i Taxi, anche questi a centinaia che costano prezzo fisso in città 20 pesos, salvo che saliate o arriviate sulla 5av. perché in quel caso può costare anche 30 o 40 pesos: in pratica una babele.

Il giorno successivo di nuovo via con combi + collectivo e ci facciamo lasciare alla spiaggia di Akumal, una delle località che in assoluto più ci sono piaciute tra quelle nei dintorni di Playa. Si tratta di una cala di magnifica acqua bassa, chiusa dalla barriera corallina alla distanza perfetta per muoversi anche da soli con maschera e pinne. Inoltre il motivo per cui tanta gente viene qui è perché sul fondale proprio a ridosso della riva cresce l’alimento principe della dieta delle tartarughe marine, una specie di alga molto tenera ( seagrass) che loro brucano incessantemente tutto il giorno. Non appena ci si avvicina al mare si viene istruiti dai custodi della baia, che avvisano di non toccare assolutamente né i coralli né le tartarughe. Poi ci si immerge ed è una esperienza incredibile come all’improvviso si avvistano le testuggini che pigramente brucano la loro erbetta, vederle volare con le loro pinne sotto il pelo dell’acqua , riemergere pochi secondi per respirare e poi nuovamente gettarsi in basso a strappare i fili d’erba dal fondo. In certi momenti eravamo accerchiati anche da due o tre di questi animali magnifici, una esperienza emozionante. Poco più in là i coralli con tutti i pesci multicolore, le spugne “cervello” , gli impressionanti barracuda, le razze: il tutto a neanche 100 metri dalla riva, un posto davvero incredibile. Speriamo che riescano con la loro sorveglianza a mantenerlo inalterato nel tempo.

La sera ritornando in città vediamo ogni giorno la incredibile differenza che passa tra la zona turistica, con tutti i locali e i ristoranti curatissimi, i negozietti di souvenir ed i venditori che abbordano i passanti con le offerte più incredibili e la zona “semituristica” appena più a nord. Tengo a precisare che a parte il primo giorno non abbiamo mai mangiato sulla quinta mentre appena fuori si trovano tantissimi localini decisamente più “tipici”, dove alla fine si mangia (quasi) sempre bene spendendo la metà e soprattutto si vive un po’ della atmosfera locale. Non metto nomi perché alla fine il bello è proprio andarsi a cercare questi posti, anche rischiando solo in base all’ispirazione.

Il giorno successivo prendiamo accordi per il noleggio dell’auto per il giorno dopo da un rivenditore locale che alla fine si dimostrerà probabilmente non troppo onesto (racconterò più avanti), magari nel dubbio se cercate altro è meglio, non Perico Rent Car. Per oggi invece, dopo l’esperienza delle tartarughe ad Akumal vogliamo approfondire la conoscenza di questi animali e ci rechiamo in una spiaggia piuttosto isolata chiamata Xcacel su cui in pratica non esistono strutture ricettive di sorta e che anche per questo motivo è il luogo in cui più di ogni altra spiaggia del Messico scendono a riva per deporre le uova.

Il collectivo ci scarica all’inizio di una stradina sterrata appena visibile dalla statale, salvo un cartello che indica “Santuario de la Tortuga Marina”. La strada è mezza allagata e quindi dobbiamo guadare a piedi dei minilaghi profondi 20 cm di fango e limo, una bellezza. Poi si arriva ad una guardiola dove i custodi ci catechizzano su tutto ciò che non si può fare nella riserva, facciamo una offerta e si entra. Sulla costa c’è solo una piccola casa utilizzata dai ricercatori naturalistici e nulla altro. Arriviamo in spiaggia e siamo solo noi, nessun altro all’orizzonte in tutto il km e più di estensione della cala. Oggi è piuttosto ventoso e il mare è molto mosso, la spiaggia è completamente selvaggia, gli unici segni della civiltà sono le decine di segnalini di legno con la data conficcati nella sabbia ad indicare i nidi: la spiaggia ne è piena e dal mare vediamo tutte le tracce delle pinnate faticose lasciate la notte precedente dalle tartarughe nel loro tragitto dall’acqua fino alle dune. Facciamo fatica a trovare un posto dove stendere l’asciugamano senza rischiare di schiacciare una tana. Per fortuna dopo poco arriva un’altra coppia, altrimenti già vedevo Livia non troppo tranquilla a rimanere completamente da sola in un luogo così isolato e selvaggio. Con questa nuova “compagnia” decido allora di andare a fare qualche foto al cenote che ho letto si trova poco all’interno tra le mangrovie dietro la spiaggia. Anche qui completamente da solo, il sentiero è ben segnato, ma un paio di iguana che fuggono veloci mi fanno sobbalzare. La stradina dapprima corre meravigliosa tra le dune e le palme lussureggianti per poi infilarsi dritta nelle mangrovie, proprio come indica il cartello “Mangalar” che trovo. L’intrico si fa sempre più fitto, il sentiero sabbioso lascia il passo al fango e poi all’acqua vera e propria; sto quasi per tornare indietro al pensiero della qualità dell’acqua dove sto immergendo i piedi quando per fortuna in fondo vedo si apre la radura con la pozza di acqua verde smeraldo. Non appena mi avvicino scorgo qualcosa scivolare lentamente sul pelo dell’acqua; già mi vedevo aggredito da un coccodrillo e invece si tratta di una ragazza, completamente sola, che fa snorkeling tranquillamente. Rispetto ad altri cenotes visti nei giorni successivi questo è piccolino e neppure particolarmente ricco da esplorare, ma la sua bellezza risiede proprio nell’isolamento e nell’atmosfera selvaggia che gli fa da contorno, proprio nel mezzo della jungla. Per tutto il giorno rimaniamo in questa spiaggia dove alla fine non arrivano più di una ventina di persone in tutto il tempo che rimaniamo lì, purtroppo il mare mosso non consente di vedere i fondali antistanti ma abbiamo modo di divertirci con delle onde a riva davvero potenti rispetto agli standard europei. Faccio solo un rapido giro con la maschera presso la barriera corallina al margine nord della baia, dove i coralli arrivano praticamente a riva, ma la corrente laterale è talmente forte che è impossibile contrastarla e la presenza di almeno 3 barracuda giganti vicinissimi alla riva mi inquieta non poco (nonostante abbia ricevuto rassicurazioni sulla loro innoquità).

Il giorno dopo come preannunciato abbiamo in mente di abbandonare la stabilità dell’appartamento per andare a fare un giro di una settimana in più o meno tutta la penisola dello Yucatan. Vogliamo ovviamente approfondire la visita ai siti Maya, vedere qualche riserva naturalistica e le principali città coloniali.

Prendiamo l’auto al noleggio: mi avevano consigliato se avevamo idea di visitare dei posti poco turistici di prendere un’auto di “basso profilo” per non attirare l’attenzione, ma forse ci siamo fatti un po’ prendere la mano, ci rifilano uno scassone di Chevrolet con più di 150.000km, speriamo bene, per fortuna l’aria condizionata funziona benissimo, altrimenti sarebbe molto dura. Mi fermo al primo distributore fuori Playa, faccio il pieno, cambio una banconota di grosso taglio, faccio per ripartire, mi viene un dubbio e riconto i soldi, mancano 100 pesos; smonto e il tipo mi fa vedere il mazzo dei soldi dalla tasca, ha già fatto sparire il “pezzo grosso”. Sono già pronto a piantare su un casino, ma un collega, che evidentemente conosce le “abitudini” dell’altro, tira immediatamente fuori lui i 100 mancanti e si scusa. Simpatici! Gli avevo pure lasciato la mancia….

La prima sosta la facciamo appena fuori Playa, presso il Cenote Cristalino, che effettivamente è molto bello e ben attrezzato per stare lì a prendere il sole e nuotare nell’acqua fresca. Avendo però lastricato quasi tutti i bordi sembra più una piscina che un laghetto naturale. Ci fermiamo comunque pochissimo perché le zanzare sono fameliche e ci assalgono, quindi ripartiamo in direzione Tulum.

L’idea è quella di andare a visitare la zona naturalistica poco più a sud, la c.d. Riserva della Biosfera Sian-Ka’an (che è patrimonio dell’Unesco), cercando di spingersi fino alla penisola di Punta Allen. Purtruppo, non appena passati oltre la splendida zona hotelera di Tulum con tutti gli ecoresort immersi tra le palme a ridosso del mare, ci rendiamo conto che questa meta sarà irrangiungibile. La strada infatti per tutelare la biodiversità della zona viene volutamente mantenuta rigorosamente non asfaltata e dopo le piogge abbondanti dei giorni passati è assolutamente impraticabile con un’auto “normale” (e sarebbe un incubo anche con un fuoristrada). Cerchiamo di arrivare almeno fino a Boca Palia, dove si trova il simbolico ingresso del parco; chiedo qualche info al centro informazioni che si trova dove finisce l’asfalto e mi confermano che “la carretera no es buena, ma tu prova”; io ci ho anche provato, ma 10 minuti buoni per fare un km non credo sia un gran bell’andare. A malincuore dobbiamo desistere; poi al ritorno in aereo parleremo con degli amici e loro anche con i fuoristrada ci avevano messo quasi 3 ore a fare poco più di 40 km! Lo terremo buono per un viaggio futuro.

Tornati al bivio vicino a Tulum visto che siamo presto decidiamo di andare subito a fare un tuffo nel c.d. Gran Cenote che è proprio lì a pochi chilometri ed era consigliato come il migliore per lo snorkeling. Effettivamente questa volta non si sbagliavano, il posto è unico: si scende una scaletta di legno che porta sul fondo, dove si trovano altre passerelle per raggiungere i diversi pozzi. Uno di questi si immerge in profondità in una grotta appena sopra il pelo dell’acqua, con una serie di colonne di calcare tipo foresta subacquea. Con la maschera si vedono in fondo al buco le luci dei sub che riemergono dalle camere immerse più interne, e voltandosi indietro verso la luce un azzurro sfavillante si staglia attraverso stalattiti e stalagmiti. Dalla parte opposta della grotta un tunnel semisommerso conduce ad un’altra camera più piccola con il sole che sbuca tra i rami in alto; sott’acqua pesci colorati e rondini che sfrecciano sopra la testa. Tutto intorno un giardino lussureggiante con radici pensili dal soffitto fino all’acqua e distese di fiori di loto, palme e fiori tropicali. Sicuramente il cenote più bello tra quelli che abbiamo visitato.

Ora ci aspetta un tratto di strada piuttosto lungo, passiamo km e km di nulla più assoluto, il traffico è inesistente, possono passare anche 10 minuti senza incontrare un’auto e stiamo in teoria correndo su una delle strade più frequentate dello stato. L’auto funziona bene ma in un posto così solitario, in mezzo alla foresta sembra proprio di essere “soli”, ancora più che l’anno passato attraversando i deserti dell’Arizona; guido in punta di dita. La strada è letteralmente “rubata” alla foresta, che incombe per chilometri a destra e sinistra ininterrotta. A volte assolutamente in mezzo al nulla si vedono stradine sterrate staccarsi dalla strada principale e infilarsi nella jungla, intorno dappertutto cartelli di proprietà privata con filo spinato e simboli di morte; ingenuamente sorrido domandandomi a cosa cavolo serva tanta segretezza per un ranch nella jungla, salvo poi ricordarmi quale sia in assoluto il più fiorente mercato del Messico e perché necessiti di tale “ riservatezza”.

A pranzo ci fermiamo in un posto che si chiama Felipe Carrillo Puerto: una cittadina anonima ma crocevia di molte strade. Per la prima volta da che siamo partiti proviamo la sensazione di essere in assoluto gli unici turisti (ed anzi gli unici bianchi) in tutta la città, ed in genere credo che non vedano fermarsi molti turisti. Cerchiamo di mangiare qualcosa al mercato locale come consigliato dalla LP, ma gli avventori pescano direttamente con le mani la roba da mangiare da delle bacinelle di plastica, questo è troppo anche per noi. Mentre ci aggiriamo adocchio una bettola dalla parte opposta della strada con il tradizionale forno “pibil” in cui solitamente cucinano la carne alla brace; il proprietario si sbraccia a più non posso in una mimica pollo-caldo-magiare-buono che ci diverte così decido di entrare: credevo facesse il simpatico invece era proprio muto! Il locale è assolutamente improponibile: muri al grezzo, tavolini di plastica nuda, per bancone un tavolaccio di legno laidissimo e consumato a forza di tagliarci il pollo con l’accetta. Livia si rifiuta di mangiare lì, io invece voglio andare fino in fondo, prendo mezzo pollo alla brace….ed è straordinario! Anche Livia a forza lo assaggia e immediatamente ne ordina mezzo anche lei. La madre del tipo va a prenderci 6 lattine di birra al market di fronte perché loro avevano solo Coca. Ci lanciamo in una conversazione surreale con questo personaggio divertentissimo e quando le diciamo che per arrivare lì in Messico dall’Italia abbiamo preso l’aereo ci dice che pensava fossimo arrivati in auto….hmmm, la geografia non deve essere il suo forte….poco dopo infatti ci confessa che in 50 anni non è mai uscita neppure dalla sua città, mamma mia. Alla fine ci fa un prezzo assolutamente casuale di meno di 6€ per polli, contorni, riso, birre, in due.

Ripartiamo in direzione Mahahual che si trova nuovamente sulla costa. Questo paesino di pescatori è decisamente isolato, inoltre ha subito dei danni pazzeschi nel 2005 in occasione dell’uragano Katrina. La strada per raggiungervi è in pratica un rettilineo ininterrotto di oltre 50km completamente disabitato e in mezzo alle piante visibilmente colpite e sradicate dal passaggio dell’uragano. Ad un certo punto si vede in lontananza il faro e appena oltre il mare: la strada finisce così, in spiaggia, si può solo fare inversione e tornare indietro, una cosa meravigliosa. Il paesino sta piano piano risorgendo dalla devastazione poco più a sud; ci sono anche già delle costruzioni nuove molto carine, le strade non sono asfaltate ma hanno saggiamente costruito una lunga passeggiata pedonale proprio a ridosso della spiaggia con baretti e ristoranti piccoli e caratteristici. Quando arriviamo noi lo troviamo praticamente deserto, ma il tutto dipende dal fatto che fortunatamente in quei giorni non c’erano navi da crociera, che attraccano al molo qualche km fuori dal paese. Quando accade il paese si trasforma ed è un brulicare di turisti chiassosi.

Noi invece ci possiamo godere la spiaggia nel silenzio più assoluto ed è la succursale del paradiso. La barriera corallina è circa a 100 metri dalla riva, ma evidentemente è molto compatta perché all’interno della laguna l’acqua è immobile , come in un atollo. Si può camminare quasi fino alla barriera e l’acqua non arriva mai oltre la vita, con sfumature di mille colori di azzurro. Qui sembra di essere proprio in un altro pianeta, un posto semplicemente meraviglioso. La sera ceniamo direttamente in spiaggia e siamo in assoluto gli unici clienti di tutti i localini della zona…. e sbagliamo clamorosamente le ordinazioni prendendo pesce più o meno per un reggimento: il pasto più costoso di tutta la vacanza. Vabbè, cena comunque in posto unico.

Se già lì a Mahahual non c’erano più di una ventina di turisti in tutto, vogliamo spingerci ancora oltre e quindi la mattina dopo viaggiamo per altri 50km ancora più a sud, durante i quali non incrociamo una macchina che sia una, e dove la strada finisce nel microscopico paesino di Xcalak. Qui non c’è assolutamente nulla se non qualche capanna diroccata e un tremendo pontile di cemento che si inoltra nel mare per 150 metri il cui scopo ad oggi mi sfugge dato che l’acqua era comunque bassissima come può testimoniare il peschereccio arenato che vediamo poco più al largo. Siamo nella estrema punta a sud di questa parte del Mexico. Appena a poche miglia marine si trova l’isola di San Pedro, la famosa “Isla Bonita” della canzone di Madonna, ma trovandosi in Belize abbiamo qualche remora a farci portare là, e soprattutto a lasciare l’auto in questo posto desolato. Mentre siamo lì a valutare cosa fare vediamo arrivare il bus di linea che passa una volta al giorno e osserviamo smontare la bellezza di 2 persone: una coppia turisti europei zaino in spalla la cui espressione nel momento in cui si rendono conto del posto in cui sono capitati è assolutamente impagabile. Facciamo comunque un sopralluogo nella zona e fuori dal paese arriviamo in una specie di resort molto spartano con capanne ed una atmosfera che più rilassata non si potrebbe; ci sono anche un paio di coppie di turisti che evidentmente cercavano un posto ai confini del mondo: lì lo hanno trovato di sicuro. Mentre ripartiamo vediamo i due backpackers che anche loro già risalgono nella corriera verso altre direzioni.

Prossima destinazione un luogo su cui abbiamo delle grosse aspettative, avendo visto delle foto meravigliose in rete. Infatti andando verso la citta di Chetumal ad un certo punto la strada costeggia Bacalar, una laguna immensa di acqua dolce ma con mille sfumature di blu, azzurro e quasi bianco nei punti in cui il fondale è più basso. Troviamo da dormire in un B&B appartatissimo con prato inglese, palme e pontile li legno. Dalla nostra terrazza vista lago sdraiati sulla amaca pare di essere in Polinesia. Purtroppo ce lo godiamo poco perché vogliamo vedere il “famoso” balneario di Bacalar, che secondo la guida richiama molti turisti. In effetti quando ci arriviamo c’è una bella folla, addirittura gente arrivata con le corriere, ma giuro che tra le 2-300 persone presenti eravamo in assoluto gli unici “bianchi”. Quando siamo entrati in pratica è stata una scena tipo saloon western: pianista che smette di suonare e tutti che si girano a guardarci. Passiamo lì quasi tutta la giornata, un posto bellissimo con una soffice erbetta sul bordo di questa laguna dai colori magnifici, in acqua un sacco di persone in ammollo (ah, l’ho già detto che quasi tutti i messicani fanno il bagno vestiti? ecco….lo fanno..) noi facciamo l’errore di prendere degli snack da un bambino che gira tra gli ombrelloni con il suo cestino di platanos fritti ed evidentemente tutti gli altri venditori ci scambiano per un bancomat assiepandosi per venderci qualsiasi cosa; nell’arco di 4 ore prendiamo: churros con zucchero, wurstel e patatine fritti entrambi, cestino di frutta fresca, cocco da bere, polpa di cocco, braccialetto di corallo nero, orecchini di pavone e nel mezzo una porzione per due di pesce alla griglia veramente buonissima. Se passate di lì vi consiglio vivamente la sosta, potendo valeva la pena fermarsi anche un paio di giorni ed esplorare la laguna con kayak o barchette perché è di sicuro un posto unico.

Il giorno dopo ripartiamo a malincuore in direzione Chetumal, che alla fine si dimostra una città bruttina e caotica affacciata su una baia color verde marcio molto poco invitante. Pare incredibile ma la guida sostiene che alle volte arrivino fin sulla costa i lamantini in cerca di cibo, boh! Ci fermiamo 5 minuti e ripartiamo subito, deviazione assolutamente evitabile.

Poco fuori da Chetumal inizia quello che viene definito “Corridoio Archeologico”: una strada che attraversa trasversalmente tutta la penisola da mare a mare passando per moltissimi dei siti Maya magari non più famosi ma di certo più incontaminati del Messico. La prima sosta la facciamo al sito di Kohunlich dove la guida sostiene “vi sentirete come Indiana Jones nel tempio maledetto”. Già la strada per arrivarci in effetti è un safari tra le buche, poi arriviamo al parcheggio del sito e….siamo soli, non c’è neppure un’altra auto. Ci addentriamo nella foresta girovagando tra le rovine e le diverse strade sacre lastricate che si snodano tra piante di palma gigantesche e ricoperte di liane rampicanti. In mezzo a quel silenzio rotto solo dal canto degli uccelli l’atmosfera è abbastanza inquietante, per spaventare Livia scherzo di possibili agguati improvvisi da parte dei giaguari e alla fine mi spavento più io. Scaliamo il palazzo de los 27 scalones, facciamo un paio di foto idiote nel “juego de pelota” e visitiamo El Edificio de los Mascarones in completa solitudine, uno spettacolo, ci sembra di essere i primi scopritori del sito (un dettaglio i cartelli e l’erba rasata).

Da lì ripartiamo sempre verso est fino a che la strada comincia a costeggiare la Riserva della Biosfera di Calakmul, che è il secondo sito Unesco che abbiamo in programma di visitare. Ad un certo punto si stacca dalla strada principale una stradina secondaria che si infila direttamente dentro la foresta pluviale. Paghiamo una specie di pedaggio per poter percorrere questa strada letteralmente rubata alla jungla che ci porterà dopo oltre 60 km ad infilarci proprio nel mezzo della riserva. Per i primi 20 km la strada è anche molto bella,quasi tutta dritta con gli alberi che si chiudono a volta sopra l’auto: in mezzo alla strada e ovunque intorno a noi una moltitudine di farfalle di tutti i colori, decine di migliaia, svolazzano pericolosamente davanti al mio parabrezza. In teoria, proprio per evitare di fare una strage, la velocità massima consentita su tutta la strada sarebbe di max 30km/h, ma a malincuore devo ammettere che non potevamo permetterci 4 ore di viaggio andata e ritorno a quella velocità ….ed il radiatore ed i tergicristalli dell’auto purtroppo mi sono testimoni , una mezza ecatombe. Dopo i primi 20 km la strada si trasforma e diventa una specie di budello strettissimo, con curve e controcurve, salite discese e dossi assolutamente continui. Sembra di infilarsi proprio in mezzo alla foresta, dopo un tempo eterno arriviamo quasi stremati alle rovine di Calakmul dove la strada si interrompe; a forza di girare il volante mi fanno quasi male le braccia. Questo sito è solo parzialmente riportato alla luce, si presume che sepolte ci siano ancora oltre 6000 costruzioni sparse su un’area di oltre 20 km/q. Inoltre a differenza di altre località più famose qui tutte le piante a ridosso delle costruzioni disseppellite non sono state tagliate e quindi tutta la città è completamente immersa in una foresta fittissima in cui è anche molto difficile orientarsi. Nonostante la mappa e le indicazioni, praticamente ci perdiamo tra i vari sentierini tracciati nella jungla, e tutto ciò scopriamo essere la assoluta normalità, perché durante il giro anche altri turisti confusi ci chiedono info sulla direzione da prendere per raggiungere questo o quel palazzo. Alla fine riusciamo a raggiungere la piazza principale e ci arrampichiamo sulla Estructura I (credendo fosse la Estructura II, ma vabbè….) ; fa un caldo impressionante, umidità vicina al 100% ed un sole feroce. Questa piramide è alta oltre 50 metri e quando arriviamo in cima il cuore sembra uscire dal petto, robe da infarto. Dalla terrazza sommitale lo sguardo spazia a 360° sulla riserva che si stende con le sue piante ininterrotta: siamo esattamente nel centro del nulla, ci sono quasi 100km in ogni direzione senza praticamente neppure un segno di civiltà, bellissimo. Scesi dalla cima girovaghiamo ancora tra i vari palazzi (e troviamo anche la vera Estructura II), in giro ci sono veramente pochissimi turisti e forse anche grazie a questa solitudine avvistiamo tutta una serie di animali esotici: diversi tacchini ocellati dal piumaggio multicolore, tutta una famiglia di scimmie urlatrici nere appollaiate sugli alberi (che invece sono molto silenziose), un sentiero infinito di formiche tagliafoglie intente a disboscare completamente un cespuglio, ed un animale assurdo simile ad un procione tipico della zona che si chiama “coato”, che inseguo per decine di metri nel tentativo (fallito ) di immortalarlo in maniera accettabile. Mancherebbe solo l’avvistamento del simbolo incontrastato della riserva, il famoso giaguaro, ma forse è meglio così. (non è vero, avrei pagato per vederlo anche solo da lontano).

Tornati all’auto ci rendiamo conto che sono le 4 e siamo in piedi solo con la colazione; presso le rovine non c’è assolutamente nulla, manco un distributore automatico così tocca riprendere la strada del ritorno. Quando alla fine dei soliti 60 km usciamo dalla riserva, tra le curve continue, la tensione alla guida nel timore di investire gli animali che ogni tanto ci attraversano la strada e il digiuno usciamo come fossimo scesi da un ottovolante.

In più ci mancano ancora un milione di km per arrivare a Sabancui, un paesino vicino alla costa del Golfo del Messico che è la meta che ci siamo prefissi per oggi. Tra rovine, km e km di guida in strade assurde oggi siamo veramente stanchi, per di più a ridosso della meta troviamo anche degli assolutamente opportuni lavori in corso con quasi 20 km di strada bianca, mancavano proprio! In compenso arriviamo in questo paesino sperduto ed è assolutamente…..orrendo. Una povertà assoluta, con gente che vive nelle case al grezzo senza porte e finestre, dorme nelle amache e gira con delle specie di trabiccoli a tre ruote (tipo apecar) su strade polverose. Dormiamo in un albergo che la LP definisce: una facciata esterna fatiscente, ma con camere pulite e moderne: non è vero, l’interno è per lo meno cadente quanto l’esterno e forse anche più sporco, vi risparmio i dettagli per pudore. Usciamo per cercare almeno di mangiare qualcosa e Livia mi chiede perché tutti la guardano: vedi tu, shorts bianchi e maglietta rosa confetto, sembri appena scesa dalla Grand Princess. Non riusciamo a trovare neppure un posto minimamente umano dove cenare (e i nostri standard minimi sono molto abbordabili eh!), alla fine finiamo in un locale microscopico che vende pizza….e scarpe: da una parte i tavolini e dall’altra le vetrinette con le scarpe, assurdo. La pizza cotta nel forno a gas, un forno domestico, una alla volta, mezz’ora a pizza! Vediamo il tramonto dal muretto affacciato sulla laguna mentre bambini fanno il bagno in mezzo a bottiglie e immondizie varie: una serata surreale.

La mattina ripartiamo verso nord lungo la costa del golfo del Messico in direzione Campeche. Tutta questa zona è abbastanza solitaria e decisamente poco turistica, anche perché il mare è un po’ verdino e poco invitante. Attraversiamo però un paesino molto caratteristico di nome Champotòn che probabilmente è la capitale mondiale dei venditori di gamberi. Ci sono decine e decine di localini che vendono solo quello, in giro nelle nostre città di mare si trovano ancora i carretti che vendono i gelati, qui i carretti vendono cocktail di scampi. Da qui abbandoniamo la costa e torniamo verso l’interno dove troviamo probabilmente la più alta concentrazione di “topes” di tutto il Messico. Questi oscuri strumenti di tortura non sono altro che i nostri “dossi dissuasori di velocità”, l’unica differenza è che qui ce ne sono a migliaia, non sempre segnalati e alle volte di dimensioni o forme che sembrano fatte apposta per danneggiare l’auto. Certi sono dei veri e propri gradini in cui occorre proprio fermarsi pena la distruzione delle sospensioni. In prossimità dei centri abitati se ne trovano delle serie anche di 10 consecutivi e i locali che lo sanno bene, si appostano con dei banchetti in corrispondenza dei dossi più violenti per vendere roba da mangiare ai passanti. Al centesimo tope della giornata li odierete anche voi.

Più avanti si trovano le rovine di Edznà, che non sono vastissime ma veramente molto ben conservate, con la piazza principale di erba verdissima e curata come un green e gli edifici imponenti tutto intorno. L’edificio “de los cinco pisos” (di cinque piani) dell’acropoli è veramente meraviglioso, purtroppo per motivi di sicurezza ora è vietato salirvi in cima ma quando si poteva avevano messo una corda per facilitare la scalata vista la ripidezza dei gradoni. Tutto il sito sorge però su una depressione tipo lago ed infatti è famoso anche per tutte le opere idriche di recupero delle acque piovane, praticamente è una dannata palude! Per nostra somma fortuna abbiamo seguito i consigli della guida e abbiamo i pantaloni lunghi e tonnellate di autan addosso: vediamo infatti un’altra coppia che bella bella si aggira per il sito in infradito, gonnellina e canotta e sono letteralmente assaliti da uno sciame di zanzare enormi. Dopo pochi minuti li vediamo correre verso l’uscita prendendosi a sberle, le gambe già tutto un bubbone: una scena meravigliosa.

Anche noi non ci fermiamo molto di più perché siamo ancora provati dalla giornata di ieri e vogliamo arrivare presto a Campeche per rilassarci in piscina e visitare per bene la cittadella fortificata, anche questa patrimonio dell’Unesco (il Messico è il VI paese al mondo per numero di siti patrimonio dell’umanità!).

Campeche è sicuramente la cittadina più bella tra quelle visitate: tutta la parte storica del centro, la cittadella fortificata, è un intrico di stradine strettissime fiancheggiate da bellissime case e palazzi coloniali multicolori. Tutta la cittadella è circondata dalle mura e dai bastioni costruiti dopo che pirati e bucanieri la avevano messa per secoli a ferro e fuoco e presenta la tipica forma a reticolo con tutte le strade rigorosamente a senso unico. Alloggiamo all’hotel Lopez che è proprio dentro la cittadella in una vecchia casa colonica ristrutturata, con la piscina al centro della corte, molto accogliente. Dopo un paio d’ore di relax ripartiamo per la visita della città; come primo obiettivo dato che è sabato ci rechiamo al mercato cittadino che si trova appena fuori le mura della cittadella. Dico subito che si tratta di una esperienza per certi versi scioccante; il mercato è tutto al coperto tra capannoni, pergolati e tende con tutta la roba ammassata ogni dove, nella zona del vestiario devo camminare piegato perché il passaggio è a “misura messicano” , nella parte della frutta un caldo umidiccio assurdo, atmosfera di penombra e un odore penetrante di alimenti mezzi frollati; poi si entra nel reparto macelleria e sembra di entrare sul set di un film horror, pezzi di carne ammassati ovunque alla rinfusa, con rigagnoli di sangue fino al pavimento, macellai che scannano quarti di bue a petto nudo in mezzo ad un nugolo di mosche e ovunque un odore nauseabondo di marcio in cui è assolutamente impossibile resistere. Scappiamo a gambe levate verso l’uscita e l’aria aperta, sembra di ritornare nel mondo dei vivi dopo una vacanza nell’oltretomba. La sera ci sono moltissimi turisti nella piazza centrale, prima di cena assistiamo alla tradizionale “Loteria Campechana”, in pratica mezzo paese gioca a tombola nel sagrato della chiesa. Assistiamo all’uscita di un matrimonio in cui vediamo credo la sposa più brutta che io abbia mai visto, temo che lo sposo la prima note avrà una brutta sorpresa, per me era un uomo; mentre nel palco al centro della piazza inizia uno spettacolo di danza con le bambine di una scuola di ballo locale in costumi tipici e ridiamo come degli idioti guardando l’unico bambino maschio della compagnia, che a 3 anni balla tutto compito nel suo abito tradizionale con fusciacca rossa in vita. Ceniamo da Marganzo, un locale abbastanza turistico dove però gustiamo la più buona cochinita pibil del viaggio (maialino cotto nelle foglie di palma), ed un cocktail al tamarindo che ci lascia un po’ attoniti.

La mattina dopo sveglia prestino e indirizziamo l’auto verso Merida, ma prendiamo la cosiddetta “strada lunga” attraverso l’interno perché vogliamo vedere le rovine della zona Puuc, detta così perché caratterizzata da una architettura geometrica molto tipica e unica. Puuc letteralmente vuol dire “colline” e infatti la strada è una specie di rollercoaster con dossi, salite e discese in cui in teoria sarebbe auspicabile procedere con calma. Noi però abbiamo tante cose da vedere e quindi alle volte pare di decollare, con gli ammortizzatori che arrivano a fine corsa. In teoria i siti visitabili sono moltissimi, alcuni con solo pochi edifici ma varrebbe la pena vederli tutti. Noi facciamo delle scelte e decidiamo di fermarci a Labnà sulla “Ruta Puuc”, un breve tratto di strada in cui si trovano 3 siti nell’arco di 10 km. Labnà è veramente magnifica, immersa tra alberi della gomma ricoperti di liane grosse come un braccio, i muri dei palazzi di un bel giallo che si staglia tra l’erba verdissima e il cielo e tutte le decorazioni geometriche perfettamente conservate: pare finto da tanti dettagli si sono conservati. Poco più avanti ci fermiamo anche a Kabah, che è impossibile mancare dato che è esattamente lunga la strada verso Merida (ed anzi le rovine si estendono su entrambi i lati della strada). Lì stranamente troviamo anche parecchia gente, infatti scopriamo poi che quella domenica l’ingresso è gratuito per i Messicani e quindi in molti approfittano per una gita turistica lungo la Rotta Puuc. Il palazzo più rappresentativo è quello “Delle Maschere” ma dato che si trova in cima ad una piattaforma piuttosto elevata notiamo che la maggior parte dei visitatori la ignora totalmente, mah. In realtà si tratta un uno dei palazzi più impressionanti, con tutta la facciata ricoperta da quasi 300 maschere stilizzate del dio Chaac, il dio della pioggia dal caratteristico naso a proboscide. Al tempo in cui fu costruito doveva essere veramente una esperienza scioccante, per chi ci viveva, trovarsi di fronte allo sguardo inquisitore di queste centinaia di occhi e facce mostruose. L’ultima tappa di questa lunga giornata passata da un sito all’altro ci vede all’entrata della città di Uxmal. Secondo il mio modesto parere questo sito archeologico è in assoluto il più bello tra tutti quelli visitati, meglio anche di Chichen Itzà, Tulum ecc.ecc.. La varietà, la dimensione e il numero degli edifici è impressionante. La prima struttura che si incontra è la piramide dell’indovino, dalla forma molto originale ma appena sotto alla piramide seguendo il percorso tracciato si entra nel c.d. Quadrilatero delle Monache che è veramente da togliere il fiato. Tutte le facciate degli edifici sono riccamente decorate in motivi geometrici Puuc, con bassorilievi super dettagliati di animali, facce stilizzate del “solito” dio Chaac, e rappresentazioni di Quetzalcoatl, il serpente piumato. Si potrebbe rimanere mezza giornata solo qui alla ricerca di dettagli e significati dentro ogni palazzo. Dalla cima della collina scendiamo verso il juego de pelota dove osservo che eccezionalmente è presente anche il cerchio di pietra che faceva da “canestro”; salvo poi avvicinarmi è vedere che è…di cartapesta! Che tristi, se dovete metterlo finto fatelo di roccia, così almeno non si vedono le ammaccature! Ancora decisamente maestoso è anche il palazzo del Governatore, con la sua enorme gradinata e posto in posizione sopraelevata rispetto al resto del sito. Tra le decorazioni bellissime del frontone scorgo anche una iguana di ragguardevoli dimensioni che senza fatica scala una facciata completamente verticale, esseri diabolici eheh! Ci prendiamo diverse ore girovagando per il resto della città e ogni scorcio è curatissimo; la differenza rispetto ai siti ancora immersi nella jungla è di sicuro notevole, qui non si ha di certo l’impressione di essere un “esploratore” con la folla di turisti in short e infradito, ma la ricchezza dei palazzi e delle decorazioni giustifica un turismo di questo tipo. Solo verso la fine della visita inseguendo con la macchina fotografica un motmot, quegli uccellini blu elettrico con la coda lunga tipo timone, arriviamo in una zona un po’ isolata e in pratica finiamo in una palude dove le zanzare ci assalgono, uno scorcio avventuroso che volentieri avrei evitato.

Arriviamo dunque a metà pomeriggio a Merida, che a differenza delle altre cittadine passate fino ad ora è abbastanza estesa e dato che si rischia di perdersi in una planimetria poco intuitiva attacco il navigatore che ci porta direttamente di fronte all’albergo che abbiamo scelto. Da questo punto di vista Merida ha una offerta stranamente molto ampia, ma incrociando guida e recensioni su Tripadvisor non riusciamo a trovare un hotel a costo decente con recensioni positive. Sembra che la scelta sia tra il farsi spennare o il dormire in una topaia. Ad un certo punto leggo di un piccolo hotel con delle buonissime recensioni: il nome è anche evocativo: “Hotel del Peregrino”. Arrivati lì il posto è splendido, è un alberghetto piccolissimo, con camerette curatissime tutte nuove. Dappertutto ceramiche smaltate a fiori colorati, assolutamente da consigliare, essendo a 5 minuti a piedi dal centro è anche estremamente tranquillo e l’auto la parcheggiamo esattamente di fronte all’ingresso senza fare giri inutili. Mentre ci docciamo, fuori si scatena un mezzo diluvio estivo che stranamente pare non esaurirsi nei canonici 30 minuti, così decidiamo di uscire sotto la pioggia, che è comunque caldissima e ci dirigiamo verso il centro. Merida è una specie di Campeche, ma più in grande: i palazzi coloniali sono più imponenti, le strade più larghe, le chiese con più navate e i turisti più numerosi. Con un ritardo di 30 minuti rispetto alla normalità il cielo si schiarisce e la serata ci regala un tramonto dai colori pazzeschi che mi permette di fare delle foto magnifiche. Sotto il porticato del governatore troviamo una bravissima orchestra di musicisti di una certa età tutti abito in lino bianco e panama che suona per tutta una serie di locals impegnati nel ballo, una atmosfera molto “cubana”. Dalle parti della chiesa incappiamo nella trattativa commerciale più assurda della storia. Vedo infatti un negozio di artigianato locale che pare più “originale” degli altri e veniamo subito abbordati in strada dal proprietario. “Da dove venite?”, “Italia!”, “Italia! Entrate entrate, qui prezzo maya, no prezzo gringolandia!” ehehe. “Cosa stavate cercando, calendario Maya??”; nooo, il calendario maya è orribile, cercano di piazzartelo ovunque, non lo userei manco per il tiro a segno , questo non glielo dico, ma guardando in giro vedo un paio di amache, ma non come le volevo io, così gli dico “ cercavo una amaca, ma non come quelle”. “Vieni vieni di qua” e mi invita nel retrobottega; entriamo e ,giuro, ci saranno state 500 amache di ogni tipo e colore dentro quella stanzetta! Ok, ho capito, siamo fottuti, da qui non si esce senza amaca. Il tipo ne prende una matrimoniale, ce la appende, ci fa stendere tutti e due, ci mette addosso una copertina multicolore e una bottiglia di tequila in mano, poi mi chiede la macchina fotografica e ci fa una foto ricordo! Spettacolo. Era anche molto simpatico, alla fine me l’ha messa sul patetico “ Italia aiuta il Maya, Maya aiuta Italia” e ovviamente abbiamo comprato la amaca più cara del negozio, però bellissima e a un terzo del prezzo che mi aveva sparato all’inizio. Siamo usciti che era buio con la assoluta certezza che un “commerciale” di tale livello venderà decine e decine di amache al giorno , alla faccia del “povero maya”. Cerchiamo di andare a cena in un posto che si chiama “La Chaya”, che pare assolutamente tipico, dove comunque non avrei saputo cosa ordinare perché dal listino non si capiva nulla, ma ci tocca rinunciare perché la coda è assurda! Andiamo dunque a cena al Portico del Peregrino ( tutti pellegrini a Merida!) dove mangiamo molto bene, anzi direi i migliori camarones del viaggio. La sera per la prima volta troviamo una città assolutamente viva fino a tarda notte, lungo le vie della piazza centrale ci sono decine di bancarelle che vendono roba da mangiare di ogni tipo come una enorme sagra di paese che tuttavia si ripete uguale ogni sera dell’anno.

Anche per il giorno successivo abbiamo in programma diverse tappe: la prima è Izamal, la “ciudad amarilla”, un grazioso centro turistico piuttosto piccolino ma curatissimo, con tutte (tutte!) le case assolutamente pitturate di color giallo.Il paese è famoso anche per il monastero di San Antonio da Padova, anche esso giallo, posto su una altura giusto nel centro cittadino e costruito sui resti (e con i resti) di una antica piramide maya di cui ancora oggi si vedono le iscrizioni in alcuni dei mattoni decorati con cui è stato costruito. Saliamo anche in cima ad una delle piramidi maya diroccate che si trova a poche centinaia di metri dalla piazza. La scalinata è effettivamente un po’ ripida ma avvicinandosi vedo gente che sembra impegnata nella nord dell’Eiger e in discesa ogni gradino con le chiappe, noi passiamo quasi correndo, ci guardano additandoci come alieni. Non molto distante da lì si trova il sito di Chichen Itzà. Questo probabilmente è il luogo più turistico di tutta le penisola dello Yucatan, già avvicinandosi all’entrata sembra che tutto graviti intorno alle rovine, una specie di esterno di Disneyland con alberghi e ristoranti palesi trappole per turisti. C’è un numero di persone inusitato in coda per entrare, non oso immaginare cosa debba essere in alta stagione. Il biglietto di ingresso, piuttosto caro, ha una logistica quantomeno anomala: si paga alla cassa un primo biglietto che consente l’accesso alla zona bar/ristoro e servizi, poi si fa un’altra coda, in un’altra cassa per il biglietto per le rovine; come se ci fosse uno che paga solo per andare al bar del sito, mah! La città e i monumenti però valgono sicuramente il prezzo e la confusione, la piramide di Kukulkan che accoglie i visitatori all’ingresso (El Castillo), che si vede in ogni catalogo del Mexico, è effettivamente magnifica e si staglia solitaria in mezzo ad un campo smisurato. Così come è bellissimo il tempio dei Guerrieri, con le sue mille colonne scolpite e decorate con le immagini appunto di guerrieri maya. Purtroppo anche a causa dell’elevatissimo numero di turisti, che notoriamente sono in maggior parte poco rispettosi, a differenza che in altri siti visitati hanno vietato l’accesso a tutti i palazzi che dunque si possono vedere solo a distanza, come si trattasse di un museo a cielo aperto. Per carità, tutto meraviglioso, però è un po’ diverso poter visitare in piena autonomia i palazzi, salendo sulle piramidi e guardando da vicino i bassorilievi. Inoltre a Chichen Itza non so per quale assurda scelta politica hanno lasciato entrare anche tutti i venditori di artigianato locale, senza numero massimo di licenze, quindi ci saranno centinaia di venditori lungo tutti i sentieri principali. Tra calendari maya, coltelli di onice, tappeti orribili in un fioccare di “versi di giaguaro” prodotti con delle specie di ocarine pare di essere al mercato. Fosse per me volerebbero tutti fuori in strada, ma capisco che anche i locali devono mangiare in qualche modo, solo che così è una cosa esagerata e toglie moltissimo al piacere della visita.

L’ultimo tratto di strada della giornata per fortuna ci riporta fuori dalle rotte turistiche, andiamo infatti verso nord e verso la riserva di Rio Lagartos. Per arrivarci facciamo una strada che, sulla carta, pare abbastanza logica e principale. In realtà ci infiliamo in una serie di paesini mezzi sperduti , senza cartelli o indicazione alcuna con strade praticamente deserte. Per di più ad un certo punto l’orizzonte si profila nerissimo e tempo 10 minuti siamo in mezzo ad un temporale biblico con ettolitri di acqua in mezzo alla strada. Tutto diventa un fiume e dobbiamo procedere a velocità ridicola perché ogni tanto quelle che giudico semplici pozzanghere si rivelano dei microcenote in cui va dentro mezza auto. In mezzo a questo diluvio passiamo per la cittadina di Tizimin e assolutamente non mi accorgo che ad un certo punto nel centro cittadino la strada su cui procedo diventa senso unico, ovviamente in senso inverso al mio. Alla quinta persona che mi incrocia sfanalandomi e insultando intuisco che forse sono contromano e chiedo indicazione ad un tipo in scooter su come uscirne. Senza colpo ferire il tipo mi fa cenno di seguirlo e in mezzo alla pioggia mi fa attraversare tutto il paese, tipo 5 km, fino alla parte opposta e si rifiuta anche di accettare la mancia che gli offro, veramente un signore. Arriviamo a Rio Lagartos che il temporale si è esaurito e vedo dal mare avanzare il fronte del sereno. Il paesino è magnifico, un tipico centro di pescatori situato proprio al termine di un promontorio che si protende nella laguna completamente contornata da barriere di mangrovie. Con le loro casette dai tetti bassi, coloratissime in colori sgargianti e le viuzze strette e dagli andamenti imprevedibili, leggiamo sulla guida che neppure gli stessi abitanti sanno con esattezza l’ordine delle strade. Noi per non differenziarci da loro facciamo una serie di giri inutili con l’auto prima di riuscire a trovare l’albergo dove vogliamo fermarci. Si tratta di una bella costruzione a 3 piani proprio di fronte al faro e dal terrazzo della nostra camera vediamo poco lontano una strana costruzione circolare fatta di legno e palme con uno spiazzo al centro. Scopriamo in questo modo che siamo capitati giusti giusti nei giorni in cui si celebra la festa di “Santiago Apostol” e quindi hanno allestito una piccola corrida per rodei con animali e chiunque voglia può entrare e sfidare un torello. Inoltre fanno spettacoli con cavalli, struzzi, scimmie. Ci aggiriamo curiosi per il paesino tutto addobbato di bandierine e festoni e veniamo letteralmente braccati da tutta una serie di “venditori di giri in barca” che hanno il compito di mettere in contatto i turisti con i proprietari dei barchini. Questo posto lontano dalle rotte turistiche è infatti molto famoso perché da qui si può rapidamente raggiungere la Riserva della Biosfera de Ria Lagartos che è uno dei posti più rinomati del Mexico per il birdwatching in genere ma soprattutto dei meravigliosi fenicotteri rosa che qui più che altrove si fermano in centinaia ad alimentarsi. Sempre dietro consiglio della LP prenotiamo per la mattina dopo la nostra guida presso il ristorante Isla Contoy dove poi mangiamo: un posto decisamente spartano ma ci portano 3 code di aragosta a testa ad un prezzo ridicolo, quindi se passate di lì non badate alle sedie di plastica e ordinate pure in allegria. Alla sera alla festa pare di essere tornati indietro nel tempo di 50 anni: le giostre da luna park su cui i bambini si divertono sono dei trabiccoli di lamiera improponibili, sotto un tendone una cubista dalla pancetta prominente si dimena su un tavolino di fronte ad un gruppo di messicani ubriachi, quando uno di questi conquista lo stesso cubo e gli si strofina, se ne va stizzita. Ci sono le solite bancarelle che vendono roba da mangiare strafritta e in giro un mucchio di persone che si divertono in questo modo molto “ruspante”. Anche qui ci accorgiamo delle occhiate curiose, anche questa sera tra centinaia di persone siamo in assoluto gli unici non locali, ma dove sono tutti i turisti?

Ci viene la tentazione di fare anche un giro su uno strano autobus scoperto auto costruito, con luci multicolori e casse ovunque che sparano musica a tutto volume, su cui la gente sale per andare , così, in giro per il paese, ma alla fine desistiamo.

La mattina dopo sveglia all’alba, perché tutti ci hanno consigliato che l’ora migliore per vedere la riserva è la mattina presto. Quindi alle 6.30 siamo già all’appuntamento con Juan, la nostra guida. Siamo completamente da soli in tutta la laguna, la nostra barchetta corre liscia su questo specchio d’acqua completamente accerchiato da mangrovie. Juan è estremamente preparato, paziente e parla anche un discreto italiano. Se ferma di volta in volta a farci vedere le diverse specie di uccelli che riesce a scovare con il suo occhio allenato. Fotografiamo fregate, aironi, palette rosa, cormorani, aquile di mare, cicogne , nella magnifica luce rosata dell’alba mentre attorno a noi il silenzio è assoluto. Intravediamo un coccodrillo sul pelo dell’acqua che si inabissa non appena ci avviciniamo. La laguna è decisamente poco profonda e a parte un piccolo corridoio centrale dragato per consentire il passaggio delle barchette turistiche, appena fuori non è più profondo di 30 cm. Dietro un’ansa finalmente scorgiamo i primi flamingos, non molti a dire il vero, ma magnifici nel loro incedere in gruppo alla ricerca dei gamberetti che gli conferiscono il caratteristico colore rosato. Osservatili per qualche tempo a Juan pare di scorgere una macchia rosa all’orizzonte e mi chiede se secondo me sono altri fenicotteri. Boh, dico io, se lo sono devono essere migliaia perché pare tutto rosa all’orizzonte. Ci dirigiamo verso quella direzione e mentre ci avviciniamo ci appare la meraviglia: sono praticamente migliaia gli uccelli che intorno a noi camminano lentamente sull’acqua bassa che sembra uno specchio mentre il sole finalmente sorge. Ci avviciniamo lentamente per non spaventarli, con il motore spento Juan spinge la barca con una pertica di legno fino a che l’acqua è così bassa che la barchetta si arena su una secca. Noi un attimo ci agitiamo, ma lui semplicemente smonta dalla barca e spinge indietro la barca a braccia. Ora siamo proprio in mezzo allo stormo che ci circonda quasi completamente, una cosa veramente emozionante, che animali eleganti. Ad un certo punto forse si rendono conto che siamo troppo vicini a loro e uno alla volta, come un’onda prendono il volo a decine con la loro corsa caratteristica e le ali enormi che fendono l’aria; pare incredibile che riescano in questo modo a staccarsi da terra, invece con pochi altri balzi sul pelo dell’acqua si librano in volo già planando in gruppo verso altri lidi. Juan è più che disponibile a portarci per tutto il tempo che vogliamo in giro tra loro, ma dopo un po’ ci pare di essere veramente di troppo, di rompere anche solo con la nostra presenza la pace e la tranquillità di quella valle solitaria, così ci dichiariamo più che soddisfatti del giro e ci riavviamo verso il porto. Prima di abbandonare la zona però resta un’altra sosta, quella presso la c.d. “SPA”. Una spianata di argilla fangosa che ci consiglia di spargere sul corpo per avere un effetto lisciante sulla pelle. Ammettiamo di avere poca voglia di questa pratica anche a causa dell’odore di zolfo emanato dall’argilla e ci accontentiamo di attraversare questa zona fangosa per andare a vedere le saline che sono poco più avanti. Purtroppo però a causa delle recenti piogge del giorno prima il fango ci arriva sopra al ginocchio e l’effetto “risucchio” è inquietante così non riusciamo ad attraversarlo. Peccato perché lì avremmo anche potuto fare il bagno nella cosi detta “agua rosada”, in pratica l’acqua di scarto della estrazione del sale, che ha una percentuale di sale superiore anche a quella del mar morto e in cui il galleggiamento doveva essere potentissimo. La gita prevedeva anche una sosta per tutto il tempo che volevamo nella spiaggia che si trova appena fuori dal porto in un’isola rivolta verso il mare aperto e non la laguna, ma avevamo altri programmi per la giornata e quindi dopo pochi minuti di visita siamo rientrati sulla terraferma, incrociando tutta una serie di altri barchini che solo ora partivano per il nostro stesso giro, mentre noi siamo stati completamente soli per tutto il tempo.

Ripartiamo dunque sulla stessa strada del giorno prima per tornare verso Valladolid; stavolta approssimandomi a Tizimin sto ben attento ai cartelli stradali per non infilarmi di nuovo in contromano e incredibilmente….mi capita la stessa cosa dell’andata! Ancora una volta gente che mi viene incontro lampeggiando con i fari, giuro il cartello non c’era, da un momento all’altro la strada passa da un verso all’altro, assurdo. A sto punto ci fermiamo lì in un baretto per fare la colazione che avevamo saltato per paura del mal di mare , ma siamo in piedi da talmente tanto tempo che alla fine ci facciamo un hotdog con cipolla e salsa piccante a testa, sono le 10 di mattina.

Valladolid la vediamo solo di passaggio dall’auto; è un centro carino sempre in stile coloniale ma c’è un casino di traffico e tutti suonano i clacson innervositi. Dopo la pace dei giorni precedenti non riusciamo a sopportarlo. Visitiamo solamente uno dei famosi cenote della zona, per la precisione quello di Dzitnup, che ha la caratteristica di essere completamente sotto terra all’interno di una grotta piena di stalattiti. Per accedervi c’è solamente una scaletta piuttosto angusta scavata nella roccia che fa scendere alla grotta. Qui la luce proviene da un foro sul soffitto che proietta una specie di faro proprio al centro dello specchio d’acqua. Decisamente un posto suggestivo, facciamo il bagno insieme ai pesce gatto che riempiono il cenote; ad un certo punto un giovane locale si affaccia da una grotta laterale a circa 5 metri dal soffitto e si tuffa goffamente in acqua, quindi passa per i visitatori raccogliendo offerte. Ma figuriamoci, anzi, fammi vedere come si arriva lassù che ti faccio vedere come ci si tuffa!( Sborone!)

Da qui rientriamo verso Playa, ma dato che la giornata non è ancora finita approfittiamo dell’auto per tornare nuovamente alla nostra spiaggia preferita, quella di Akumal. Dopo tanti giorni sempre di corsa ci rilassiamo di nuovo un po’ al sole e mentre rientriamo all’auto intravvedo un gatto che rovista in un bidone della spazzatura. Poi riflettendo meglio mi rendo conto che è troppo grosso per essere un gatto, mi avvicino e vedo un grosso procione intento a spolpare un pezzo di carne. So che può essere un trauma per chi è cresciuto guardando il dolcissimo orsetto Rascal, ma quando una di ‘ste bestie vi soffia contro con tutti gli artigli insanguinati non pare più così affettuoso.

Al momento di restituire l’auto faccio un errore e quasi certamente mi faccio fregare dal noleggiatore disonesto cui accennavo all’inizio del racconto. Dato che il tipo voleva il saldo “en efectivo” (in contanti), arrivo all’autonoleggio, parcheggio l’auto lì davanti e lo avviso che vado ad un ATM a prelevare. Quando torniamo per pagare, facciamo insieme il giro dell’auto per verificare eventuali graffi o ammaccature e “stranamente” è sparito il tappo della benzina (che era lì sicuramente alla mattina quando ho fatto rifornimento). Prova a spararmi che nuovo costa tipo 40€ e quando capisce che 40 non li avrei mai pagati va a controllare e dice che in effetti costa 12€, ben sapendo che per così poco non avrei insistito più di tanto. Me ne vado un po’ incazzato , ma la giustizia divina ci mette lo zampino perché tornato in appartamento mi rendo conto che mi sono dimenticato di restituirgli i documenti originali dell’auto! A questo punto decido di tenermeli almeno per qualche giorno, giusto per rompergli le palle, sperando che si accorga della mancanza, tanto non avevo neppure lasciato scritto dove alloggiavamo.

Dopo tanti giorni in giro da una parte all’altra della penisola ci prendiamo un giorno di riposo pieno, fa un caldo assurdo ora e il sole è feroce, passiamo tutta la giornata nella spiaggia più vicina al nostro appartamento, quella di fronte all’Hotel Las Palapas, che secondo me è il tratto più bello di tutta la città e ci mischiamo agli usi dei messicani in spiaggia, che si accampano con tende e ombrelloni, frighi pieni di ghiaccio, birre, patatine e roba da mangiare e stanno lì ad abbuffarsi tutto il giorno; non per dire , ma manca solo la pasta “alla Norma” e pare di essere a Mondello. Dopo tutti questi giorni siamo ormai pienamente inseriti nell’ambiente, mangiamo nei posti più assurdi della città, saliamo e scendiamo da un mezzo di trasporto all’altro; ci permettiamo di ridere di “quelli dei resort” che dai loro mondi dorati magari arrivano a Playa per la prima volta con i combi, vengono scaricati nella zona di raccolta dei bus e si guardano in giro attoniti per il luogo in cui sono giunti in mezzo a taquerie malfamate, venditori di “paletas de fruta y nieves” e supermarket. Una sera girovaghiamo per una sagra totalmente assurda, poco distante dalla quinta ma praticamente ignorata dai turisti. Ci sono delle bancarelle laidissime che vendono roba strafritta, i churros con lo zucchero sono buonissimi ma grondano olio da tutte le parti, prendiamo anche un margarita alla fragola: il tipo pesca il ghiaccio con le mani lorde e ci aggiunge marmellata di fragola, disgustoso. Ad un certo punto la nostra attenzione viene catturata da un tipo con microfono che grida cose del tipo: “Los animales stranos!”. C’è un camion con una porticina e dentro promette di farci vedere, animali rari, non posso resistere e pago i 10 pesos entrando assieme a dei bambini tra gli sguardi della gente. Dentro le gabbiette vedo tra le altre un gatto senza coda (l’incrocio tra il gatto e il coniglio!), una gallina con due ali palesemente incollate posticce ( a gallina con 4 ali!),il coccodrillo è chiaramente di plastica e l’anaconda secondo me era morta e impagliata; esco ridendo come un pazzo, i 10 pesos meglio spesi della mia vita!

Siamo quasi alla fine della vacanza ma dato che ci pareva di aver preso pochi mezzi di trasporto, la mattina dopo esageriamo: combi fino al centro, collectivo fino a Cancun, ancora combi fino al porto, aliscafo e siamo a Isla Mujeres. L’isola ci pare da subito magnifica, in pratica il centro è composto di una sola strada piena di ristorantini e bar molto carini, ma la spiaggia è ancora più bella. Leggendo la LP si trova scritto che una volta giunti qui vi passerà definitivamente la voglia di tornare a casa, ed in effetti il mare qui ha dei colori incredibili, dati dal fatto che il fondale degrada davvero molto lentamente, così anche a 100 metri dalla riva ancora si tocca. L’effetto è quello di camminare in una immensa piscina caldissima, le palme sulla spiaggia arrivano fin quasi in mare e il bagnasciuga ha una linea sinuosa che segue l’andamento della costa. Sulla estrema punta nord dell’isola su un isolotto unito alla terraferma da un ponte di legno si trova un hotel (a dire il vero piuttosto brutto esteticamente) ma affacciato su una ampolla circolare di acqua cristallina completamente circondata dagli scogli che è un paradiso per lo snorkeling. Passiamo tutta la giornata lì spaparanzati sotto la nostra palma personale in una atmosfera molto rilassata e probabilmente quest’isola sarebbe anche una buonissima meta di vacanza in cui fermarsi più di un giorno. Data però la assenza di una barriera corallina qui possono arrivare abbastanza vicino a riva anche gli yacht ed intorno ad alcuni vediamo imperversare dei gruppi di giovani americani con musica a palla e birre in pieno stile “spring break”.

Arriviamo così all’ultimo giorno “pieno”della vacanza, così ancora una volta decidiamo di tornare ad Akumal, ma non nella spiaggia delle tartarughe, bensì presso la laguna Yal-ku, che si trova solo un paio di km più a nord. Questo angolo di costa dall’aspetto quasi incontaminato unisce la bellezza di un fiordo che si incunea dal mare per qualche centinaio di metri, con isolotti di mangrovie e conformazioni rocciose ricche di fauna marina, alla semplicità di una riserva con poche costruzioni e un prezzo di ingresso onesto. In tutte le altre lagune simili della costa infatti hanno costruito tutta una serie di parchi a tema con ristoranti, spettacoli e percorsi guidati con grotte anche finte che in pratica trasformano la costa in una specie di Gardaland a uso e consumo dei turisti americani che adorano questo genere di cose. Qui invece è come un giardino molto curato, con sentierini tra le palme e gli arbusti che permettono di raggiungere delle semplici scalette di legno per facilitare l’ingresso in acqua. Il mare è ovviamente privo di onda e in pratica pare di fare il bagno in un enorme acquario: ci sono una moltitudine di pesci multicolori che si aggirano tra le conformazioni rocciose molto frastagliate ad una profondità quasi costante di 4-5 metri. Avvistiamo anche una bellissima razza che veleggia vicino al fondo e Livia quasi pesta una meno simpatica murena verdastra. Si può andare a nuotare anche sotto le mangrovie che con il loro intrico di radici subacquee hanno un aspetto vagamente inquietante. In certi punti della laguna nell’acqua del mare si riversano delle correnti di acqua gelida attraverso delle sorgenti sottomarine che alle volte ci prendono alla sprovvista, per fortuna il sole è caldissimo così appena usciti ci si riscalda immediatamente.

Siamo così all’ultima sera, non ci rimane altro che tornare dal disonesto noleggiatore a restituirgli i documenti dell’auto; purtroppo il titolare non si era accorto della “sparizione” perché i documenti ce li aveva lasciati il suo sveglissimo collaboratore senza interpellare il capo. Perlomeno lui avrà subito un cazziatone perché quando glieli restituiamo diciamo chiaramente che data la fregatura che ci avevano tirato con “el tapòn de la gasolinera” avevamo seriamente pensato di buttare tutto “en la bassura” (nell’immondizia).

Anche se dopo 24 giorni siamo contenti di tornare a casa, sperando anche in un clima migliore dato che gli ultimi giorni lì l’umidità è costantemente oltre l’85-90%, siamo piuttosto depressi e la mattina prima della partenza quasi sentiamo già la mancanza del camioncino che porta le bombole del gas e che quasi ogni mattina ci ha svegliato con il suo ossessivo ritornello: “ Pedidos gas, el gas que rende mas, servicio de qualidad, grande pundualidad….gaaaaaaaaaaaaasss!”.

A differenza del viaggio d’andata che tutto sommato era stato tranquillo, il ritorno è una mezza odissea: arriviamo in aeroporto a Cancun con 2 ore di anticipo sul volo, ma la coda al checkin ci porta via più di 2 ore! Una bolgia assurda senza nessuno che ci avvisi di nulla, così fino all’ultimo siamo convinti di aver perso il volo, che invece proprio a causa della coda è stato rinviato di un’ora, ma ditelo! Arriviamo a Citta del Mexico e quell’aeroporto è ancora più assurdo: indicazioni quasi inesistenti, chiediamo ad un assistente come passare dallo scalo dei voli domestici a quelli internazionali e ci dice che dobbiamo uscire dall’aeroporto e prendere un taxi. Ma come taxi?? Non c’è anche l’airtrain apposta? “Ah si, è vero, è lì!”, a 100 metri da dove eravamo. Gli scali internazionali sono ancora più un casino, non esiste un tabellone in cui siano indicati i gate dei voli, ci sono però decine e decine di addetti con un block notes cui chiedere dove bisogna andare. “Il vostro volo dovrebbe essere di là, circa al gate 34 o 35” Ma come “circa”? Poi per fortuna era proprio quello esatto. Facciamo conoscenza con altri italiani anche loro in fase di rientro e appena ci vedono al gate ci fanno: “ ma che cavolo di aeroporto è questo? Abbiamo chiesto il numero del gate ad un addetto e lui ci fa: provate da quella parte! Così, a caso”. Il volo transoceanico fa anche questo ritardo e quindi anche a Parigi rischiamo di perdere la coincidenza; se non fosse che anche il volo per Venezia è a sua volta in ritardo; 3 voli su 3, un bell’en plein, però stavolta non ci si può lamentare.

Per concludere tirando le somme, le valutazioni che mi vengono in mente adesso sono queste: luglio e agosto, che in Mexico sono bassa stagione, hanno certamente aspetti negativi ed altri positivi. Di certo fa un caldo disumano, abbinato ad un tasso di umidità a volte insopportabile e se vi capitano molti giorni di maltempo come i nostri primi 3 giorni è un po’ deprimente. D’altro canto in estate ci si può godere le spiagge e i siti in pace e tranquillità, non serve prenotare nulla in anticipo e pare di essere i padroni dello stato.

Quanto al “tipo” di vacanza, la scelta è molto personale ma a mio parere fare 10.000 km per andare a chiudersi in un resort è uno spreco. Certo se uno dalla vacanza vuole solo stare disteso in spiaggia con un cubetazo di Corona affianco, ci sono dei resort magnifici con servizi allucinanti, ma a questo punto a cosa serve andare in Mexico? Io mi sono fatto l’idea che almeno lo Yucatan sia girabile tranquillamente in auto da soli , fissando le tappe di massima ci sono infinite cose da vedere e direi che una settimana non basta, visto che poco distanti ci sarebbero anche Guatemala e Belize che promettono di essere magnifici. In alternativa la nostra soluzione appartamento+giro autonomo è una buona opzione per vedere abbastanza e poi riposarsi, ma anche in questo caso eviterei sia i resort che Cancun. Playa alla fine offre un ottimo compromesso tra servizi buoni ma anche aspetti abbastanza “autentici” della regione e l’offerta di alberghi e appartamenti/residence è assolutamente per tutte le tasche.

Quello che però in ogni caso non deve mancare se si vuole un minimo “vivere” il luogo che si visita, è il mischiarsi alla gente del posto, mangiare dove mangiano loro, non rinunciare ai luoghi e alle manifestazioni che frequentano solo i locals perché seppur semplici sono comunque un popolo squisito e molto generoso. Certo se si visitano altre località del Messico l’attenzione dovrebbe essere un po’ più alta, ma l’impressione rimanendo all’interno della penisola dello Yucatan è che stiano facendo molti sforzi per far crescere un turismo sicuro e fruibile da tutti.

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Playa Paraiso a Tulum

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Laguna Bacalar

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Il mezzo tipico dello Yucatan

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Rio Lagartos

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Isla Mujeres

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Campeche

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Labnà



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