Mauritius: mare, architettura coloniale e séga
Dopo il viaggio di nozze in Australia e a Hong Kong, per festeggiare questa ricorrenza serviva una meta esotica.
La scelta è caduta sulle Mauritius. Le Mauritius comprendono Mauritius Island, la piccola isola di Rodrigues e le altre minuscole di Agalega Islands e Saint Brandon. Noi siamo rimasti sull’Ile Maurice.
E’ maggio e la voglia di mare-bagno-spiaggia-caldo si fa sentire.
Partiamo con Air Mauritius da Milano Malpensa in ritardo e arriviamo a destinazione dopo 10 ore di volo… pesantissime! Anche se per i voli transoceanici generalmente si viaggia di notte, io non riesco MAI a dormire, presa come sono dai miei moti d’ansia.
Comunque, tutto bene. Senonché a destinazione piove a dirotto.
Tristezza. Abbiamo scelto una vacanza “stanziale”, nel senso che all’albergo abbiamo preferito il villaggio turistico. Così ci viene a prendere Furio che, sul pulmino, ci rasserena: non preoccupatevi, domani ci sarà il sole.
Arriviamo al villaggio. Bellissimo. E ottima, avremmo scoperto poi, la compagnia e la professionalità di Furio ed Elisa. Ma le attività del villaggio, a parte il viaggetto in canoa che si è fatto SuperTechMan sullo specchio di mare che fronteggiava la spiaggia, non erano di grande interesse. Così, come prevedevamo, ci siamo fiondati ad acquistare le escursioni, per andare alla scoperta dell’isola.
La prima cosa che scopriamo è che l’isola non è così esotica come pensavamo. Fatta eccezione per la cosiddetta “Isola dei Cervi” (che noi non abbiamo visitato per mancanza di tempo e perché l’escursione che portava qui si effettuava su “Barca Pirata” con tanto di rhum a partire dalle prime ore del mattino –troppo trash!-). Quest’isola, che si trova di fronte alla costa orientale, ci hanno poi raccontato avesse spiagge di sabbia finissima, bianca e stelle marine che arrivano fino a riva. Il resto del litorale, invece, non è “da fare invidia”. A sud ci sono scogliere a strapiombo su un mare in perenne agitazione, con onde altissime che però non possono essere cavalcate dai surfisti, che altrimenti, a fine corsa, sarebbero sbalzati su spiagge troppo brevi da non lasciar loro quasi via d’uscita. A ovest il mare è calmo, ma niente di speciale. A nord c’è la capitale dell’isola, Port Louis, con il suo porto abitato da un centro commerciale interamente costruito su una piattaforma artificiale galleggiante.
La gente è metà africana e metà indiana. Sono creoli e parlano un sacco di lingue: creolo, indiano, inglese, francese… alcuni anche l’italiano senza difficoltà. Ci sono i ricchi-ricchissimi con ville da urlo e proprietari di interi villaggi turistici, e i poveri-poverissimi, che vivono in capanne di latta lungo le strade ad alta percorrenza o nei pressi del mare.
Abbiamo visto bambini scalzi camminare tra le baracche, un ciclista investito e morto sulla strada, mercanti trascinarci alle loro bancarelle offrendoci merce di ogni tipo (tessuti, borse, spezie… tantissime spezie), due tra i francobolli più rari del mondo conservati al Blue Penny Museum di Port Louis, l’unico esemplare di Dodo esistente sulla faccia della terra (lo scheletro rimontato, come si fa con i dinosauri faceva bella mostra di sé al Natural History Museum), splendide case coloniali, le ninfee giganti al Jardin de Pamplemousses di Port Louis e donne portare sacchi enormi sulla testa. Abbiamo conosciuto un calciatore del Lecco (di cui ho dimenticato il nome) con fidanzata, una coppia di Novara (Marco ed Eloisa) e una coppia di Fucecchio (Andrea e Monica) che era in viaggio di nozze.
Abbiamo visto distese di tè, ananas, caffè e canna da zucchero, le tartarughe giganti, le terre del sud che cambiano colore in base alla luce del sole, i tempietti indù davanti alle case abitate da fedeli di questa religione, abbiamo sentito storie di fantasmi presenti nelle enormi case coloniali che erano state di loro proprietà, e abbiamo conosciuto Nadine, la nostra guida, creola, ma che, avendo vissuto e studiato per anni in Italia, parlava italiano e avrebbe tifato Italia per i Mondiali di Calcio. Ci ha portato fortuna.
Abbiamo visto un tempio indù con i macachi che giravano liberi senza paura dei turisti e abbiamo ammirato donne e uomini bellissimi ballare la danza nazionale, la “séga” e l’ultima sera l’ho ballata al villaggio con loro (diciamo che ci ho provato…). La stessa sera, una cantante dalla voce bellissima intonava “You might need somebody”, di Shola Ama, che è diventata la colonna sonora della vacanza.