Marocco low cost in motorino
Per chi volesse viaggiare con il passeggero consiglio di evitare i passi più alti dell’Alto Atlante, la potenza del motore è poca e non si riuscirebbe a salire. Di ritorno dal sud mi ha raggiunto un amico e da Rabat abbiamo fatto in due la costa fino a Tangeri, Ceuta, Martil, Cabo Negro e siamo tornati salendo sulle montagne del Rif da Oued Laou a Chefchaouen. Il mio motore era già piuttosto stanco ma non abbiamo avuto problemi. Per vedere una cartina con il percorso del mio viaggio e qualche foto: http://sites.Google.Com/site/chiccoatw L’inizo del viaggio non era stato facile, tutti mi prendevano per pazzo e mi davano poche possibilità di successo, persino il meccanico che mi aveva stretto qualche bullone prima della partenza…Ma io avevo comprato quel motorino e non potevo certo mica tirami indietro! Avevo deciso di provare ad andare verso le montagne del Rif, solo così avrei potuto scacciare tutte le paure che infestavano i miei pensieri. Mi aspettavano duecento chilometri per raggiungere Chefchaouen e ho cominciato subito sbagliando strada. Ho continuato cercando di resistere alle sbandate provocate dai camion che mi superavano e mi sbattevano fuori dalla strada e sono quasi crollato psicologicamente quando alla prima sosta per fare il pieno ho scoperto che il mio serbatoio era grande la metà di quanto mi avevano promesso. Non sarei arrivato da nessuna parte con tre litri di capacità ma non sapevo cosa fare e così ho proseguito.
Lasciata la strada principale verso nord mi sono sbarazzato del traffico e dosando l’acceleratore per risparmiare carburante mi sono spinto verso le prime salite tra le colline arse dal sole, dove i pastori cercavano rifugio sotto i pochi cespugli che crescevano.
Stavo iniziando a trovare il mio ritmo, lento, molto lento, ma perfetto per gustare con calma il panorama che mi circondava. Ero pronto a rimanere a piedi da un momento all’altro, ma la benzina sembrava durare e ho festeggiato con il benzinaio di un paesino sperduto i consumi miracolosi che stavo riuscendo ad avere. La strada si inerpicava per una vallata scavata da un fiume, la pendenza cresceva e io salivo a passo d’uomo. Con gli occhi pieni di polvere e il fondoschiena indolenzito sono giunto a Chefchaouen in tempo per il tramonto, dopo una lunga ma trionfale giornata. Era presto per diventare ottimisti sul proseguimento del viaggio, ma era ormai chiaro che potevo iniziare a crederci sul serio. Dopo qualche passeggiata sul Rif e un tentativo di raggiungere il mediterraneo al quale avevo rinunciato per il vento che mi aveva fatto rischiare troppe collisioni con i fichi d’india che crescevano al bordo della strada, ero pronto a ripartire. Mi aspettavano le strade montagnose della regione di Ketama, infestate da cani e insistenti venditori di hashish all’ingrosso. Mi avevano consigliato di lasciare la zona il prima possibile e all’alba ero già in strada che salivo infreddolito per una tortuosa serie di tornanti di montagna.
Non ho incontrato altri stranieri e ho subito avvertito un clima diverso nella gente che mi puntava gli occhi addosso ed era insolitamente socievole. Mi invitavano a fumare con loro e non si rassegnavano facilmente davanti ai miei rifiuti. Vedendo che non mi fermavo mi hanno inseguito più volte con un vasto assortimento di veicoli. Non avevo alcuna possibilità di scappare in salita e non mi restava che sperare che tutto andasse per il meglio e che si stufassero di tallonarmi. Trattenevo il fiato e cercavo di non badare alle facce poco raccomandabili che si divertivano a spaventarmi con bruschi sorpassi e improvvise frenate.
Esausto, dopo un paio d’ore stavo riuscendo a uscire dalla regione e alla prima discesa verso il mare mi sono buttato alla cieca. Ho trovato una baia da sogno ad accogliermi, Cala Iris, affascinante e incontaminata. Ho dormito sulla spiaggia e ho perso una buona occasione per mangiare qualcosa declinando le offerte di un pescatore che viveva in una tenda e mi porgeva dei pesci cotti qualche giorno prima e pieni di mosche. Ho avuto paura per il mio stomaco, ma mi sono divertito ad ascoltare i suoi racconti, senza capire molte parole, ma coinvolto dalla sua mimica.
Sono riuscito a lasciare quel paradiso solo perchè il mio stomaco reclamava soddisfazione. Per non tornare alla strada di montagna dove avevo fatto tanti sgraditi incontri mi sono cimentato con una stradina costiera spettacolare ma completamente sterrata e costellata di pietre acuminate. Ovviamente non avrei dovuto farlo perchè non mi ero portato nulla per riparare le gomme in caso di foratura. Non potevo fare altro che sperare non succedesse niente e per agevolare la fortuna ho fatto tanti tratti a piedi per ridurre i rischi. Mi è andata bene, ma mi sono ripromesso di non tentare di nuovo, se andava male sarei stato solo a fare una lunga, lunghissima passeggiata. Raggiunta Al Hocceima ho cercato una stanza, mi sono buttato sul letto e mi sono risvegliato in tempo per il tramonto, che mi sono goduto da un’alta scogliera dalla quale si scorgeva in controluce tutta la costa dove ero passato. Ho lasciato poi la costa mediterranea, ho valicato di nuovo le montagne del Rif e ho passato una notte a Taza, città da dove passarono tutti gli eserciti invasori diretti alla conquista del Marocco, dai romani agli arabi. Ancora uno sguardo alle montagne dalla rocca e mi sono diretto a Fes, la città imperiale che meglio ha conservato la sua atmosfera medioevale, racchiusa tra le mura della sua immensa medina. Il giorno seguente, iniziando a girare per la Medina prima del sorgere del sole e prima dell’arrivo di turisti e seccatori, sono riuscito a partire per un autentico viaggio nel tempo. Una passeggiata indimenticabile tra le meraviglie di Fes, nel corso della quale ho incontrato i suoi abitanti, dal carattere gentile e disinteressato. Potevo entrare liberamente nei laboratori artigianali a curiosare, privo del timore di non poterne più uscire senza comprare qualcosa o subire una scenata. Le attività degli artigiani sono cambiate veramente poco nel corso dei secoli e assistere alla produzione del famoso cuoio marocchino, con le pelli che arrivano trasportate dagli asini e le colorate vasche per la tintura costruite in mattoni, è uno spettacolo di una bellezza che compensa il fetore degli odori legati alla concia. Fes non è una città dove colpiscano particolarmente alcuni monumenti, anche se vi sono antiche scuole coraniche o moschee di pregevole bellezza, ma è intrisa di storia e la storia sembra palpitare da ogni muro, in migliaia di angoli dove qualche meraviglia sembra riposare dimenticata da tutti Sulla via del ritorno a Rabat mi sono fermato ancora a Meknes e ne ho approfittato per esplorare le rovine romane di Volubilis e la città santa di Moulay Idriss, che prende il nome da un pronipote di Maometto, fuggito da Baghdad e giunto in Marocco a convertire la popolazione locale all’Islam. Tornavo a Rabat entusiasta, il Rapido aveva indubbiamente i suoi limiti, ma stava iniziando a meritarsi il suo buffo soprannome emi sentivo pronto a tentare la lunga spedizione nel profondo sud del paese. Con un pizzico di fortuna potevo farcela anche a tornare indietro per rivenderlo, altrimenti avrei avuto la coscienza a posto per aver tentato. Ero a casa dei miei amici da poche ore, il tempo di qualche racconto e già avevo una cartina tra le mani ed ero immerso nello studio accurato del mio nuovo itinerario per la mia imminente partenza.
Tornato a Rabat ero passato a salutare il meccanico, gli avevo promesso una visita nel caso fossi riuscito a tornare dal nord ed ero orgoglioso di dirgli che il motorino aveva funzionato a meraviglia e che mi sentivo pronto a partire per il sud.
Ho aggiunto che magari avrei provato a raggiungere Tan Tan e mi sono goduto la sua risata, non mi prendeva sul serio, ma aveva capito che ci avrei provato. Ha stretto qualche bullone, mi ha dato qualche attrezzo per riparare le gomme in caso di foratura e soprattutto mi ha dato la sua benedizione, inshallah sarei tornato indietro a raccontargli il mio viaggio. Ho lasciato Rabat all’inizio del Ramadan, il mese del digiuno per tutti i mussulmani, e come ho poi scoperto anche per chi viaggia in un paese a stragrande maggioranza mussulmana. Tutto si ferma, i negozi sono spesso abbandonati, i ristoranti aprono solo alla sera e anche nel caso si riesca a trovare qualcosa da mettere sotto i denti, bisogna nascondersi anche per sgranocchiare un paio di biscotti.
Ero felice di essere di nuovo in sella a guardare aridi paesaggi marocchini scorrere al mio fianco, ho cominciato a prendere stradine secondarie, prive di traffico e con segnaletica solo in arabo, con conseguenti soste ad ogni incrocio a sillabare lentamente per capire dove andare. Alle due del pomeriggio avevo già raggiunto Azrou e senza nemmeno pensarci troppo mi sono lanciato verso la catena del Medio Atlante che contavo di valicare nel pomeriggio. Avevo deciso d’impulso di non fermarmi e l’ho rimpianto mentre arrancavo su una ripida salita in un bel bosco abitato da insolenti bertucce e vedevo che le ore passavano e il sole si abbassava. Non avrei trovato nulla fino a Midelt e per raggiungerla avrei dovuto sfiorare i quattrocento chilometri in una giornata, cosa che non ritenevo possibile fino a quel giorno, tenuto conto che in salita ci mancava poco che dovessi scendere a spingere. Fortunatamente in discesa ho trovato una strada asfaltata di fresco e divertendomi come un ragazzino a giocare tra le curve ho recuperato il tempo perduto e sono giunto in tempo per il tramonto. Il ristorante era chiuso anche la sera e la notizia mi aveva colto in contropiede, avevo digiunato mio malgrado durante il giorno, ma, stanco come ero, contavo di rifarmi quella sera. Venne in mio soccorso l’ospitalità marocchina, potevo unirmi per un piatto di zuppa alla famiglia che lo gestiva e non me lo sono fatto ripetere due volte.
Una notte di meritato riposo e sono ripartito carico di ottimismo, dopo la tappa del giorno precedente pensavo di poter raggiungere le dune sabbiose dell’Erg Chebbi per sera. Un’altra catena di montagne sorgeva come un muro dalla pianura dove mi trovavo e non riuscivo proprio a capire dove sarei potuto passare intanto che mi avvicinavo. Ero sempre più solo sulla strada, non c’era più traffico, non c’erano più case, non c’erano più persone. Una ripida salita si incuneava in un varco tra le rocce, incrociavo come sempre le dita con la speranza che il motore reggesse gli sforzi e non mi lasciasse sul bordo della strada in una situazione che preferivo cercare di non immaginare, non vedendo soluzioni apparenti per uscirne. Superato un altro passo ho attraversato un meraviglioso altipiano dal paesaggio lunare, ho visto con sorpresa qualche casetta in mezzo al nulla e ho incontrato qualche persona che aspettava sul bordo della strada qualche passante per vendere delle mele. Considerato che per almeno tre ore non avevo incrociato nessuno non potevo che augurare loro migliore fortuna. Mi sono fermato a esplorare delle fortificazioni di fango abbandonate e sono sceso verso la pianura costeggiando un fiume che aveva scavato una spettacolare gola tra le rocce. Ho lasciato le montagne e sono entrato in una vera e propria fornace, sentivo l’aria calda avvolgermi, ero digiuno e piuttosto disidratato, ma non potevo fare altro che proseguire. Non c’era nemmeno un’angolo all’ombra e l’idea di fermarmi al sole perdendo quel poco di vento che creava la mia modesta velocità non mi sembrava molto attraente. Dopo tanta desolazione fu una vera gioia ritrovare il verde tra i colori del paesaggio, avevo raggiunto un corso d’acqua e numerose palme crescevano lungo le sue sponde. Mi sono fermato per svenire all’ombra e quando ho riaperto gli occhi ho visto un grappolo di datteri dorati penzolare tentatore sopra di me. Ho allungato una mano e dopo ne ho allungata un’altra, fino a quando ho ripreso le forze e mi sono messo al riparo da un altro calo di zuccheri. Rifocillato ho passato il villaggio di Rissani, ho trovato la strada nonostante la scarsa collaborazione degli abitanti e mi sono diretto verso le dune di sabbia. Mancavano cinquanta chilometri e mi aspettavo di vedere presto apparire all’orizzonte le montagne di sabbia dorate, avevo letto che le più alte superavano i duecento metri e quel pensiero mi dava la forza di andare avanti. Non avevo fatto i conti con la tempesta di sabbia che mi ha aspettato per movimentare ulteriormente il finale di quella giornata.
Un rombo sinistro mi ha anticipato che stava arrivando, ma non mi ha risparmiato la sorpresa di trovarmi in mezzo ad una nuvola giallastra con gli occhi semichiusi a vedere un fiume di sabbia che attraversava tutta la strada nascondendomela. Avevo paura a fermarmi perchè non avevo idea di come comportarmi, era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere e onestamente non sapevo proprio quanto sarebbe durata o se fosse destinata a peggiorare ulteriormente. A passo d’uomo, gli occhi pieni di polvere, con i piedi a sentire per terra per non finire fuori dalla strada che non potevo vedere, sono andato avanti con il cuore che batteva forte e la speranza di uscirne il prima possibile. Era ormai vicino il tramonto quando la visibilità è migliorata, quando ho visto un cartello per Hassi Labied, un villaggio ai piedi delle dune, ho abbandonato la strada e ho fatto i primi chilometri ondeggiando nella sabbia, senza avere però la freschezza di godermi il momento. Le dune non si vedevano, ma avevo trovato un letto ed era tutto quello che avevo bisogno, almeno per il momento. La mattina successiva ho avuto la mia ricompensa, sono salito sul terrazzo dell’albergo di fango dove dormivo e mi sono bloccato davanti al mare di sabbia che cominciava poco più avanti. Vedevo solo qualche altra casupola di fango intorno a me, l’unico rumore era il verso di un cammello legato poco lontano. – Guarda guarda dove sono finito – non potevo fare a meno di ripetermi intanto che le dune cambiavano colore dal giallo verso il rosso intanto che il sole saliva nel cielo e io non riucivo a smettere di guardarle. Passeggiando per il villaggio avevo conosciuto un ragazzo che era stato a lavorare in Italia e parlava con uno spiccato accento friulano, era tornato da poco nel suo paese di origine e si dedicava al noleggio di attrezzatura da sci. Poteva sembrare che il caldo stesse iniziando a giocarmi brutti scherzi, ma mi ero presto trovato a marciare verso le dune con una tavola da snowboard sotto il braccio. C’erano quaranta gradi e arrampicarsi per duecento metri su una duna di sabbia era molto più faticoso di quello che pensavo, però era talmente bello da farmi dimenticare il sole che mi stava lentamente cuocendo. Qualche breve discesa per prendere dimestichezza con la sabbia ed ero pronto a cimentarmi con la duna più alta. Raggiunta la cima sono rimasto troppo a lungo incantato dalle onde di sabbia che si perdevano all’orizzonte verso l’Algeria. Una seconda tempesta di sabbia mi ha colto nel punto meno adatto, non potevo nemmeno alzarmi da terra per scappare e non mi è rimasto altro da fare che aspettare, rannicchiato con le mani a proteggermi le orecchie e gli occhi chiusi. Ho dovuto rinunciare alla dicesa sul versante migliore perchè era il più esposto, ma non appena ho potuto sono stato felice de lasciare il deserto, ne avevo abbastanza, almeno per quel giorno. Era ormai buio quando ho raggiunto la mia camera e con gli occhi gonfi sono rimasto a guardare le dune di sabbia in miniatura che avevo creato togliendomi le scarpe. Nonostante il limite categorico che mi ero dato per la guida nella sabbia in modo da non rischiare guasti meccanici, sulla via del ritorno ho fatto una deviazione. Non ero riuscito a resistere alla tentazione di concedermi delle belle serpentine e qualche curva in controsterzo, divertendomi a lasciare la mia impronta nella sabbia e a riguardarla con soddisfazione dopo aver finito di disegnare la mia opera. Il Rapido era veramente l’ideale per divertirsi, era basso e leggero, molto più facile da controllare di una vera moto, mi permetteva di giocare anche a pieno carico e in tutta sicurezza. Fu soltanto la paura di riempire il filtro dell’aria di sabbia a consigliarmi un ritorno sulla strada. Ho lasciato perplessi parecchi pastori per la mia ossessione sulla recente asfaltatura di una deviazione per tornare da un’altra via sulla strada principale, senza che loro capissero quale differenza facesse, abituati come erano a muoversi con un asino. Attraverso villaggi dove le donne al mio passaggio nascondevano quel poco del volto che il velo lasciava scoperto e dove tutti sembravano infastiditi dalla presenza di un veicolo, sono riuscito a tornare sulla strada verso Ouarzazate.
Ero partito la mattina presto preoccupato per il gran caldo e mi sono trovato a Tinerhir, nel mezzo del palmeto che conduce alle gole del Todra, a viaggiare con tutto l’abbigliamento che avevo per proteggermi dal freddo e soprattutto con la paura di incontrare la pioggia. Ho continuato a salire nonostante le nuvole nere che non promettevano niente di buono, con la precisa convinzione che il Marocco è un paese arido e che raramente piove in abbondanza. Ragione per cui non avevo nemmeno portato nulla per proteggermi dalla pioggia. Ho fatto ancora pochi tornanti prima di dover rapidamente cercare riparo tra le rocce, un violento acquazzone si era scatenato e non era certo il caso di andare avanti. Mi ha fatto compagnia, in una piccola caverna scavata dal vento tra le rocce rosse, un giovane contadino accorso a vedere chi avesse parcheggiato un motorino davanti al suo campo.
Mi ha inviatato a casa sua per trascorrere la notte, ma gli ho risposto che ero ottimista e contavo che il maltempo passasse in fretta. Capiva il mio punto di vista sulla pioggia, ma spiegandomi quale fortuna fosse per loro un po’ di acqua, un’autentica benedizione dal cielo, riuscì a farmi sperare che non finisse tanto presto, contrariamente ai miei interessi.
Dopo aver trovato con sorpresa le gole del Todra con una fila di pulmann turistici parcheggiati alla fine della strada, mi sono fermato a dormire a Boumalne du Dades in modo da visitare le altre gole all’alba, prima dell’arrivo delle comitive di turisti.
Ho fatto una breve sosta dopo aver raggiunto il punto più alto della strada che si affacciava direttamente sull’orlo della gola. Lasciava una vista impressionante sul fiume che l’aveva originata e che scorreva un centinaio di metri più in basso, circondato da verticali pareti di roccia rossa.
Una notte a Ourazazate ed ero già diretto all’oasi di Zagora. Ho attraversato la meravigliosa valle del Draa e all’ombra di una palma sono stato colto in flagrante da un gruppo di ragazzini che mi ha beccato a bere spudoratamente dell’acqua, atto decisamente illecito durante il Ramadan, ma essenziale per non svenire con il caldo che faceva. A Zagora tra le palme ho trovato una sistemazione consona alla vita di un oasi: non avevo il letto, ma godevo dei benefici di un giardino da sogno con datteri freschi a portata di mano e meravigliosi cuscini su cui riposare all’ombra. Tutto quel verde mi sembrava allora un miracolo e quando ho visto apparire dei coloratissimi pavoni nulla più mancava per convincermi di avere trovato il giardino dell’Eden. In quel magico rifugio ho recuperato in fretta le energie perdute, ero arrivato in condizioni penose e un paio d’ore dopo ero pronto a partire per una passeggiata verso la cima della montagna che domina Zagora, in tempo per godermi la vista del tramonto sulla vallata. In cima, il panorama a 360° sulle montagne circostanti, sull’arida vallata segnata dal verde del percorso del fiume che si estendeva poi nell’oasi, mi ha spinto a rivoluzionare i miei piani. Volevo andare subito verso le montagne più alte del Marocco, sarei dovuto risalire verso nord e avrei dovuto affrontare i passi più difficili, che temevo dall’inizio del viaggio, ma sentivo che era il momento di provarci.
Dalla cima della kasbah di Ait Benhaddou avevo cominciato a guardare la catena dell’Alto Atlante, che volevo superare il giorno successivo attraverso il passo del Tizi’n Ticka per raggiungere Marrakech. Un ragazzo berbero mi avevo detto che non credeva fosse possibile farlo in motorino, che forse non ci aveva mai provato nessuno, ma che se ci fossi riuscito, dopo avrei potuto raccontarlo. Salutandomi mi aveva comunque consigliato di prendere un taxi.
Ovviamente non gli avevo dato ascolto, armato di tanta pazienza ero partito all’alba e avevo iniziato la lunga salita. Qualche ora più tardi le vette che mi circondavano si facevano sempre più alte e iniziavo a vedere da vicino l’ultima rampa di tornanti che mi avrebbe portato al passo. Ho iniziato a salire lentamente cercando di sforzare il meno possibile il motore.
Quel ritmo blando, appena sufficiente ad andare avanti senza dover appoggiare i piedi per terra, mi permetteva di non fare troppa attenzione alla strada e di concentrarmi sui colori accesi delle catene di montagne che la circondavano e sempre più numerose venivano raggiunte dal mio sguardo mentre salivo di quota. Appollaiati sul ciglio della strada, che dava direttamente sul precipizio, alcuni contadini con le loro bancarelle di frutta vedevano in me uno dei pochissimi potenziali clienti e mi rincorrevano a lungo, facilitati dalla mia modesta velocità.
Giunto al passo, ho trovato delle bancarelle di souvenir ed anche un cartello che riportava l’altitudine: ero a 2260 metri e tutto era andato liscio fino a quel punto. Si era avvicinato un anziano venditore di cianfrusaglie, gli ho detto per scherzare che ero venuto apposta per fare un po’ di shopping, mi ha preso in parola e non sono riuscito a liberarmi di lui fino a quando sono ripartito per la lunga discesa verso Marrakech.
La strada era emozionante, il panorama affascinante, ma una svista mi sarebbe costata cara. Se fossi scivolato fuori avrei rischiato un ruzzolone di un centinaio di metri, tenevo quindi lo sguardo incollato alla strada e mi lasciavo distrarre dal panorama solo dopo aver accostato. Dopo aver evitato una carovana di jeep cariche di turisti che non si curava della mia sorte il traffico era svanito di nuovo completamente. Ho incontrato solamente persone che procedevano a piedi e cercando di capire dove fossero dirette mi sono messo a contare i chilometri prima di raggiungere un’isolata abitazione con i tetti di paglia, un campo o una qualsiasi traccia di presenza umana. Sono rimasto stupito da quanto avrebbero avuto da camminare, chilometri e chilometri da fare in salita. Avrebbero impiegato varie ore e forse era per loro anche una quotidiana abitudine. Nonostante la presenza di una strada asfaltata e il passaggio delle comitive di turisti, la vita per quella gente continuava a svolgersi con i ritmi di un’altra epoca. Immagini cariche di poesia riempivano il panorama dopo aver superato la parte più critica della discesa, greggi sconfinate di pecore e capre riempivano tutta la vallata sottostante, circondata da rilievi brulli dalle forme corrugate. Qualche rara abitazione punteggiava il corso di un fiume che scorreva in un profondo solco scavato tra le rocce e piccoli campicelli sorgevano sulle sponde di questo, riempiendo di colore i pochi spazi coltivabili di quell’aspra terra. Dopo 300 km di strade di montagna ho finalmente iniziato la discesa verso la pianura e ho tenuto duro fino a quando ho visto apparire le mura di Marrakech.
Entrando in città mi ero immediatamente perso nel labirinto di viuzze larghe meno di due metri che ne costituisce la parte vecchia. Avevo chiesto qualche indicazione e stanco come ero dopo il Tizi’n Ticka mi ero lasciato guidare da un ragazzino che era scattato con la bicicletta dicendomi di seguirlo. Ho fatto fatica a stargli dietro, ma mi sono divertito tantissimo a fare lo slalom tra la folla in quegli spazi ristretti, schivando le signore con il velo nero che trovavo sempre in mezzo a qualche curva cieca e riuscendo per miracolo a non schiantarmi contro qualcuno. Era una questione di orgoglio non farsi seminare da una bicicletta, ma è stata dura e stavo per arrendermi alla sua abilità e alla mia prudenza quando siamo sbucati nella Djemna el Fnaa, l’immensa piazza al centro di Marrakech. Poco lontano ho trovato una stanza in un riad e nel cortile con la fontana ho parcheggiato il Rapido. La sera sono tornato in piazza e mi sono goduto la sua magica atmosfera medioevale che resiste al turismo e agli anni che passano. Giocolieri, musicisti, acrobati, cantastorie e altri tipi stravaganti attraggono una calca di spettatori che osservano rapiti lo spettacolo o ridono di gusto. I suoni si mischiano, creando un rumore diffuso che pare fondersi in un’unica vibrazione di sottofondo e contribuisce ad animare i presenti. L’aspetto più sorprendente è il numero di questi spettacoli improvvisati a cielo aperto.
Mi capitò di passare delle intere serate curiosando qua e là senza mai ritrovare gli stessi artisti. Alcune attrazioni sono indubbiamente studiate per il pubblico di stranieri, a cominciare dagli incantatori di serpenti, fino ad arrivare alle donne che disegnano il corpo con l’hennè, ma la stragrande maggioranza degli spettatori e costituita da gente locale. Senza dubbio i cantastorie, che raccolgono intorno a loro una nutrita schiera di persone, non rivolgono la loro esibizione ai turisti. Questi non sarebbero certo in grado di capire i loro racconti o di ridere per le loro battute, rigorosamente in arabo. Dopo un paio di giorni passati a fare il turista attraverso bellissimi palazzi, scuole coraniche, roccaforti, musei e tombe ero di nuovo pronto a ripartire per le montagne. Mi ero divertito, avevo conosciuto tante persone, e avevo approfittato della possibilità di mangiare liberamente come se il Ramadan non esistesse, ma avevo voglia di tornare nel vero Marocco, lontano dall’impatto del turismo e dalla vita di città. Ero partito fischiettando per una tappa che sulla carta pareva un’autentica passeggiata. Mi bastava percorrere una sessantina di chilometri per raggiungere il villaggio di Setti Fatma, situato nella valle di Ourika, da dove sarei partito per alcune escursioni a piedi nell’Alto Atlante. Fischiettavo allegramente uscendo dalla città e già iniziavo a immaginare di fare una piccola passeggiata nel pomeriggio per iniziare a scaldarmi le gambe.
Dopo pochi chilometri su una polverosa strada pianeggiante un primo imprevisto complicò i miei piani: avevo bucato una gomma ed ero fermo sul bordo della strada a toccare il copertone floscio intanto che pensavo al da farsi. Un vecchio con una lunga barba bianca si era subito fermato con il suo triciclo per aiutrami e mi stava venendo incontro con una toppa per riparare la camera d’aria e i ferri del mestiere. Ho deciso di stupirlo con la mia bomboletta presa a Rabat che prometteva di riparare la gomma semplicemente riempiendola con un gas. L’ho lasciato sorpreso di quella diavoleria tecnologica a constatare come la mia gomma fosse di nuovo gonfia come per magia. Ho pagato le conseguenze di quella arroganza per tutta la giornata, la mia gomma non teneva e dopo numerose soste per rigonfiarla con una sequenza di decisioni sbagliate che mi lasciarono infine a rifletterci sopra per ore a pochi chilometri da Setti Fatma, quando la mia gomma è esplosa definitivamente. Mi sono allora deciso a ripararla come si deve e in quel momento mi sono accorto che mi mancava un attrezzo per staccare un piccolo bullone. Ho provato a usare delle pietre, a parlargli, a insultarlo, ma non ho potuto fare altro che aspettare che arrivasse qualcuno, ma non c’era un gran passaggio da quelle parti.
Sono arrivato al tramonto, ci ho messo 10 ore per fare 60 km, se fossi andato a piedi sarei stato meno stanco e forse avrei fatto anche prima. Di sicuro non sarei stato coperto di grasso e sangue come ogni meccanico dilettante. Per qualche giorno non volevo più saperne del motorino, avrei fatto delle belle passeggiate sull’Atlante e mi sarei rilassato nella pace di quel tranquillo paesino della valle dell’Ourika. Stavo chiedendo informazioni sui sentieri della zona quando ho conosciuto un ragazzo tuttofare che oltre a fare la guida in montagna si dedicava anche alla creazione di interessanti opere artistiche. Ho accettato di vedere qualche sua creazione e ci siamo dati appuntamento per la cena, non appena fossero calate le tenebre. E’ cominciato tutto come una chiacchierata tra spiriti liberi e dopo qualche ora siamo finiti a parlare di religione, dandomi la possibiltà di parlare liberamente, cosa che spesso evitavo accuratamente di fare. Quando si è aperto veramente con me ho visto svanire la tolleranza che mi era sembrato di scorgere. Il nostro scambio di opinioni si era trasformato in una rivelazione della verità a mio beneficio, degenerata in un maldestro tentativo di convertirmi che mi ha stupito per la passione che ci metteva e la sua convinzione di quanto questo fosse inevitabile per il mio bene.
Il giorno successivo ho preferito però passeggiare da solo, nonostante l’entusiasmo che sembrava manifestare per il proseguimento della nostra conversazione. Ho visto quanto fossero diversi i villaggi non ancora raggiunti dalla strada e ho passato il pomeriggio con un simpatico bambino, che era rimasto a guardare silenziosamente le montagne al mio fianco. Non aveva mancato di guardarmi severamente quando in cima ad una salita non avevo potuto resistere ad un imbarazzato sorso di acqua dalla mia bottiglia, ma sembrava tollerare la mia imperfezione.
Tornato in sella mi ero spinto fino ad Oukaimeden, località a 2600 metri che vanta gli impianti di risalita dedicati agli sciatori più alti di tutta l’Africa. Mi era costato un grande sforzo quella lunga salita e quando mi sono accorto che la strada finiva e che sarei dovuto tornare indietro non ho voluto sentire la voce della ragione. Ho trovato un sentiero da trekking che scendeva dove ero diretto e catturato dalla vista del Toubkal, il monte più alto del Marocco mi sono buttato su quella ripida discesa senza stare a pensarci su troppo.
La cosa positiva era che sarebbe stata tutta discesa e che sarebbe stato più facile spingere, in fondo sarebbe stata una bella passeggiata con un panorama mozzafiato, sempre che riuscissi a non ruzzolare fuori mentre rimbalzavo tra le buche, con le ruote bloccate nella sabbia nel tentativo di rallentare la mia corsa.
Dopo un interminabile sequenza di tornanti, di sbandate, di colpi violenti presi dal motore e di sforzi che mi avevano tenuto con i nervi a fior di pelle, quando iniziavo ormai ad essere piuttosto stanco e mi sembrava di essere in ballo da almeno un ora, scoprii purtroppo di avere fatto soltanto un chilometro. Ne mancavano trentanove, sempre se era esatto quanto mi avevano detto gli abitanti del villaggio, che avevano aggiunto che il sentiero andava bene solo per gli asini. Avevano ragione dopo tutto, ma in qualche modo ne sono uscito, ho bucato la gomma quando ormai ero su una pista carrozzabile, mi sono incamminato come da programma e quando cominciavo ad essere ormai vicino all’avere delle visioni è apparso un camion che portava dei braccianti. Non era un allucinazione, abbiamo caricato il motorino sul cassone e dopo un’ora ho fatto un trionfale ingresso nel villaggio, portato in processione nel suk. La fatica aveva annebbiato la mia capacità di valutare la situazione, era ormai pomeriggio, ero a pezzi, ma dopo quello che avevo fatto avevo perso ogni timore per il Tizi’n Test, e mi ci ero diretto senza fare ulteriori riflessioni. L’ennesima esplosione della mia gomma appena riparata, ha fermato per fortuna la mia corsa vicino ad un villaggio, uno degli ultimi che avrei trovato per molti km. Si era squarciato anche il copertone e di proseguire non se ne parlava. Mi sono così fermato in una tenda nel giardino di una simpatica famiglia, rassegnato ad aspettare che mi venisse in mente qualche cosa. Mi sono sentito in trappola il primo giorno e a casa il secondo, non potendo fare altro che ringraziare la sorte che mi aveva portato a vivere quell’esperienza indimenticabile, vivere all’interno di una famiglia di uno sperduto villaggio tra le montagne.
Ero quasi triste il giorno che li ho dovuti salutare, il Tizi n’ Test è stato spettacolare ma non mi ha posto particolari problemi e sono così sceso nella vallata verso Agadir. Mi sono fermato a guardare ancora una volta le montagne alle mie spalle e mi sono accorto di avercela fatta, l’oceano era ormai vicino.
Dopo una notte nella piacevole Taroudannt, sono ripassato davanti alle sue mura di fango e mi sono diretto verso il mare seguendo il corso del fiume Souss. Ero costretto a passare vicino ad Agadir, ma sono riuscito a raggiungere in fretta la strada che porta a sud, verso il Sahara Occidentale. Raggiunta la cittadina di Tiznit ho abbandonato la strada principale e ho iniziato il conto alla rovescia dei chilometri che mi separavano dall’acqua. Un forte vento contrario dimezzava la mia velocità massima e ha prolungato l’attesa di quel momento che avevo sognato a lungo per esorcizzare la paura di restare bloccato tra le montagne. L’odore inconfondibile del mare mi ha raggiunto prima di vederlo e sono arrivato preparato alla lunga spiaggia di sabbia di Aglou. Le onde erano minacciose e il vento non invogliava a fare il bagno. Ho baciato la sabbia come mi ero ripromesso di fare nel caso ci fossi arrivato e sono rimasto a guardare la potenza dell’oceano che si schiantava contro la spiaggia. Ipnotizzato da quell’interminabile alternanza di riflussi e dal fragore prodotto ad ogni schianto, mi sono perso con lo sguardo verso l’origine di quella forza e ho ammirato a lungo l’orizzonte.
Avevo considerato l’ipotesi di restare a guardare le onde fino al calar della sera e di passare la notte in quel preciso punto della spiaggia. Qualche considerazione di ordine pratico, mischiata alla curiosità di percorrere un tratto di quella strada costiera, mi ha invece convinto a ritornare in sella. Una serie di curve si avvicendava a distanza di sicurezza dal mare, qualche isolata casetta bianca faceva da rifugio a solitari pescatori e distese di fichi d’india seguivano il profilo della costa, che si era subito fatta alta, rocciosa e frastagliata. Tra gli scogli rossi si aprivano delle insenature dove piccole spiagge di sabbia deserte creavano dei punti di accesso al mare, perfetti per un tuffo tra le onde. Sono giunto così fino a Mirleft, sperduto paesino arroccato di fronte al mare. I primi stranieri a giungervi furono gli hippy negli anni settanta, attirati dalla sua atmosfera tranquilla e dalle sue spiagge incontaminate la elessero quale rifugio dove poter vivere in anarchia. Poco mi sembrava essere cambiato da allora, a parte il fatto che non ci fossero più gli hippy, la sensazione di essere alla fine della civiltà prima del Sahara mi ha immediatamente conquistato e ho deciso di fermarmi per qualche giorno. Nei giorni successivi ho esplorato a fondo le spiagge che si aprivano nella serie di baie scavate tra le rocce, ho nuotato tra le onde in una solitudine quasi inquietante, spezzata solo dall’incontro con qualche pescatore. Sono rimasto a lungo ad ascoltare i loro racconti in berbero, capendo solo poche parole, ma non pareva importante. Quando incontri solo una persona in una giornata avere una lingua in comune non è fondamentale. Dopo il meritato relax quelle onde mi hanno richiamato verso lo sport. Ho cercato una tavola da surf e mi sono lanciato tra le onde collezionando una serie impressionante di cadute, rimanere in piedi sulla cresta dell’onda era solo un eccezione dettata dal caso, ma quelle poche volte che succedeva bastavano a riaccendere l’entusiasmo. Avevo perso il conto delle volte in cui, dopo aver rischiato di annegare, avevo detto che con quello sport avevo chiuso, dopo ripreso fiato non potevo resistere al richiamo di provare ancora un ultima volta. Era maturo il tempo per l’ultima tappa della mia discesa nel sud del Marocco, Tan Tan era ad un giorno di viaggio di distanza e mi sentivo a un passo dalla meta. Difficilmente sarei riuscito a resistere ancora a lungo al richiamo del deserto ed era venuto il momento di organizzarmi per l’ultimo sforzo. Un meccanico mi aveva preso in simpatia mentre gli parlavo del mio progetto. Aveva sistemato tanti piccoli problemi che il Rapido aveva accumulato strada facendo e me l’ha riconsegnato con una messa a punto perfetta. Doveva essere tutto a posto prima di partire, mi diceva, perché se fossi rimasto in panne sarei stato solo, ed essere soli in mezzo al deserto non è per niente piacevole. Avevo di nuovo una ruota posteriore libera di girare in asse e non sentivo più lo straziante rumore di ferraglia della catena che tanto mi aveva preoccupato negli ultimi giorni. Ero stato fortunato ad incontrare quel ragazzo, era un appassionato di moto da fuoristrada e lavorava spesso con le moto dei viaggiatori diretti verso la Mauritania. Avevo salutato i ragazzi dell’albergo di Mirleft dicendo loro di mandare qualcuno a cercarmi se non tornavo indietro nel giro di qualche giorno, mi ero lasciato le spalle Sidi Ifni e quella meravigliosa costa e avevo fatto le ultime salite in una vallata con le pareti coperte di fichi d’india che luccicavano al sole. Ero poi sceso verso Goulmine e quella pianura che si perdeva all’orizzonte e avevo fatto il mio ingresso in città con le ultime gocce di benzina rimaste nel mio serbatoio. Con un eccesso di prudenza avevo preferito esagerare alla stazione di rifornimento e avevo riempito anche la tanica di scorta, non sarebbe servito, ma non volevo rischiare di essere costretto a disturbare qualche cammello selvatico per chiedere un passaggio. Goulmime è la porta del Sahara, una città gonfiata oggi da esigenze politiche che hanno ampliato artificialmente le sue dimensioni attraverso la costruzione di immensi viali ed enormi palazzi carichi di bandiere, con poche persone per le strade e un’atmosfera da città fantasma. Con il caldo torrido che faceva era quanto mai surreale trovarsi bloccato da un’interminabile sequenza di semafori rossi, posti in mezzo al nulla a regolare incroci dove non passava mai nessuno, ma immancabilmente presidiati da un vigile che aspettava probabilmente da mesi l’occasione di mettere una multa.
Mi sono lasciato la città alle spalle e mi sono trovato in un paesaggio degno di un altro mondo che mi sorprese positivamente.Avevo letto nella guida che mi sarei trovato in una piatta distesa di pietre priva di ogni fascino e mi aspettavo un percorso decisamente monotono. L’asprezza del paesaggio era una ragione del suo fascino, qualche breve saliscendi mi portava a poter spaziare lontano con lo sguardo, mi perdevo allora tra gli avvallamenti attraversati dalla strada, che si faceva sempre più piccola fino a sparire all’orizzonte. Scendevo dalla sella, giravo la chiave per spegnere il motore e restavo immerso in quel silenzio assoluto a guardare il Rapido su quello sfondo incredibile. Cercavo di raggiungere la fine di quella distesa di terra e pietre in cerca di sollievo, ma sapevo che non l’avrei trovata. Su qualche pendio emergeva la sabbia dorata, qualche altra zona veniva coperta da qualche cespuglio, ma non c’erano altre sorprese all’orizzonte. Era stupendo, ma non riuscivo a rilassarmi, non potevo liberarmi dal senso di vuoto che mi circondava e dal desiderio di sfuggirgli. Ero solo con il mio motorino che era nato per gironzolare tra le vie di una città e non potevo sbarazzarmi di un generico senso di pericolo. Sentivo di dovermi allontanare al più presto. Mancava oltretutto lungo tutto il percorso la possibilità di trovare un angolo all’ombra dove fare una pausa e la ricerca della piacevole brezza prodotta dalla velocità era un richiamo irresistibile che mi spingeva continuamente ad andare avanti.
Dopo un centinaio di chilometri avevo attraversato un ponte che passava su un fiume e avevo pensato di avere le prime allucinazioni da disidratazione. Era il Draa che avevo incontrato andando a Zagora ed era in ottima forma nonostante avessi letto che raramente raggiungeva il mare finendo spesso per essere prosciugato dal deserto.
Eccitato dalla vista dell’acqua ero esploso in grandi festeggiamenti, parlavo al fiume come se stessi salutando un vecchio amico e avevo brindato alla nostra salute stappando per l’occasione la seconda delle mie bottiglie d’acqua. L’avevo sollevata al cielo ancora una volta prima di ripartire quando mi sono accorto con la coda dell’occhio che un posto di blocco mi attendeva poco oltre. Due soldati erano già in piedi e immaginavo con quanta curiosità avessero seguito la scena. Nella noia mortale delle loro giornate era già un evento il passaggio di un veicolo ed ero sicuro che l’arrivo di uno straniero in motorino non passasse certo inosservato. Forse pensavano fossi pazzo e la mia conversazione con il fiume non sembrava essere d’aiuto per smentirli. Mi vergognavo mentre mi avvicinavo, ma confidavo nella loro comprensione per gli effetti deleteri che cento chilometri di deserto possono avere sull’equilibrio mentale di una persona non abituata a quella desolazione.
Mi hanno trattenuto con un interminabile elenco di domande che mi sembrava scaturire dall’immenso bisogno di parlare. Se pensavo di essere uscito di testa in cento chilometri cosa avrebbe dovuto succedere a loro che passavano le giornate a pattugliare una strada nel deserto priva di traffico? Dopo aver congedato in fretta altri due militari che non avevo preso troppo sul serio,avevo percorso sereno gli ultimi chilometri. Due giganteschi cammelli di cemento colorati di un bianco immacolato mi hanno accolto all’ingresso di Tan Tan, posti uno di fronte all’altro sembravano aspettare il Rapido segnando il traguardo del mio viaggio. In un altro contesto mi sarebbero parsi decisamente di cattivo gusto, ma dopo ore di vuoto in mezzo al deserto sono stati uno spettacolo stupendo. Ho lasciato il Rapido in mezzo alla strada, sotto lo sguardo vigile dei due colossi, sono tornato indietro e mi sono seduto anch’io in mezzo alla strada a godermi la scena, con calma. Ero arrivato a Tan Tan, i pensieri mi hanno abbandonato e sono rimasto a lungo davanti a quelle enormi statue e a quel motorino che in mezzo a loro pareva tanto piccolo. Non avevo fatto tutta quella strada per fermarmi in una squallida città fantasma. Senza nemmeno fermarmi un attimo avevo deciso di proseguire ancora una trentina di chilometri fino a raggiungere il mare, dove sorgeva un piccolo porticciolo. Ho evitato per un pelo una beffarda caduta dovuta al vento che mi aveva poco gentilmente spinto fuori dalla strada, sono arrivato a El Ouatia, ho lasciato i bagagli in una stanza davanti al mare e mi sono trascinato in spiaggia per crollare soddisfatto davanti all’oceano, solo su una distesa di sabbia infinita battuta da un vento indimenticabile.
Per un mese e mezzo avevo sognato di spingermi fino a Tan Tan ed ora ero ci ero arrivato veramente, avevo realizzato il mio folle progetto e un senso di vuoto stava prendendo il suo posto. Quel villaggio nel profondo sud del Marocco all’inizio del Sahara Occidentale era divenuto senza apparenti motivazioni la mia chimera. All’inizio era solo un puntino sulla mappa, così lontano che difficilmente potevo credere sul serio di arrivarci. Non avevo nessuna ragione concreta che mi spingesse a farlo eppure era divenuto per me tremendamente importante riuscirci. Difficilmente qualcuno avrebbe potuto capire il senso di quello che avevo fatto, forse nemmeno c’era, ma io lo sentivo e mi riempiva il cuore.
Davanti a me, da qualche parte in mezzo al mare, troppo lontane per essere raggiunte dal mio sguardo, si trovavano le isole Canarie; quella spiaggia senza fine portava invece in Mauritania. Le distanze erano immense, ma nulla sarebbe cambiato nel paesaggio lungo il tragitto, poche cittadine artificiali avrebbero interrotto l’incontro dell’oceano con il deserto. Migliaia di gabbiani volteggiavano intorno a me nella luce del tramonto, indisturbati dominatori di quella costa dove l’assenza dell’uomo era la regola e la presenza di qualche isolato pescatore l’eccezione.
E non era ancora finita comunque, dovevo ancora riuscire a tornare indietro e a Rabat mi aspettava un vecchio amico per un giro verso Tangeri e lo stretto di Gibilterra, in due sul Rapido…