Marocco del Sud 2
Correva come un pazzo, correva… Correva… Inciampava,… Si rialzava … Ricominciava a correre. Si giro’… Nessuno… riprese fiato appoggiandosi al tronco… Ancora una volta si era liberato degli amici e dei loro stupidi giochi, solo voci lontanissime laggiu’ dove la vita del villaggio scorreva tra le grotte, tranquilla ed immutabile come le pietre. Seminascosto dall’erba sali’ la collina con passo svelto ma senza correre, avanzo’ tra i cespugli spinosi, appoggiando con attenzione i piedi tra le pietre ed evitando accuratamente di graffiarsi la pelle nuda. S’inginocchio’, scosto’ con delicatezza le foglie dalla roccia e osservo’ attentamente per qualche minuto… Niente male, il vecchio ne sarebbe stato orgoglioso. Cerco’ le pietre adatte, le puli’ e le perfeziono’ limandone gli spigoli. Guardo’ il grande lago azzurro: minuscole onde trasparenti svanivano sui bordi erbosi e, piu’ lontano, dalla corona di vegetazione uscivano guardinghi gli animali. Molti erano sulla riva, il muso immerso nell’acqua, le orecchie frementi, gli occhi attenti poi finalmente, ecco il bestione sbucare dalla foresta, fermarsi annusando l’aria e cercando il posto migliore per abbeverarsi, quindi caracollare verso il lago; gli animali piu’ piccoli si allontanarono e una pennellata di uccelli rosa macchio’ il cielo. La posizione non era identica al giorno prima ma ormai mancavano solo pochi particolari: il ciuffo della coda e le grosse zampe posteriori. Il ragazzo comincio’ a scalfire la roccia: picchio’, scavo’, spinse e tiro’ senza curarsi del tempo che passava. Soffio’ via i residui polverosi, sputo’ e ripuli’ la pietra mettendo in evidenza l’incisione, le mani gli dolevano, le dita sanguinavano. Impugno’ una pietra piu’ aguzza avvolgendola in una foglia e con colpi decisi e rapidi cerco’ di riprodurre il manto maculato. Quando l’animale se ne ando’ il ragazzo si ripuli’ le mani dalla polvere e dal sangue e dedico’ una lenta occhiata alle opere disseminate attorno: c’erano tutti gli animali della foresta scolpiti nella pietra e nel tempo. Sorrise soddisfatto. Ridiscese la collina in direzione delle grotte e pian piano spari’ dietro gli alberi insieme al sole…..
5644 anni dopo, mese piu’ mese meno, arriviamo a Taouz sudati e ammaccati a bordo della 4×4. L’Erg Chebbi, ondulato come il corpo di una top model sdraiata al sole, ricama i finestrini con le dune dorate stampate nel cielo limpido del mattino. In piedi in mezzo ad un lago prosciugato, un biliardo accecante di sale, cerchiamo di spiegare al perplesso auista dove siano le colline con le incisioni cosi’ ben descritte da Gaudio. Per fortuna sulla linea piatta dell’orizzonte si materializza un miraggio azzurro in sella ad una scassata bicicletta: e’ il custode del museo all’aria aperta, non sara’ un tuareg ma si merita una decina di foto. Riusciamo a malapena a stargli dietro con la jeep, giriamo attorno ad una collina di sassi finche’ vediamo la bici abbandonata per terra e il grembiule turchese sventolare sul sentiero millenario tra i cumuli neri d’asfalto. Lo seguiamo, lo perdiamo, lo rivediamo piu’ in alto, lo raggiungiamo e ci sediamo al suo fianco ansimanti. Da quassu’ si domina il bacino biancastro del lago, non c’e’ vegetazione, nessuna costruzione, niente acqua ma sotto le suole abbiamo molti animali, grandi, piccoli, conosciuti e sconosciuti, orme indecifrabili e qualche squadrato carro stilizzato. Saranno arrivati fino qui i mitici Garamanti? Avranno proseguito fino al mare sui loro carri volanti? Avranno trovato la nebbia e un incidente gli ha ridotto i carri in questo stato? …E chi avra’ lasciato tracce di sandali? Chi avra’ inciso quel bestione con la testa abbassata, il ciuffo sulla coda e il manto maculato come un leopardo…? La pista del ritorno e’ il letto secco di uno uadi, il berbero sembra divertirsi ma riesce a risalire le sponde solo nei dintorni dell’Oceano Atlantico, poi recupera il tempo perso tradendo l’esistenza di una pista percorribile anche con la Uno. L’Erg Chebbi continua a farci compagnia interrotto da suggestivi ciuffi di palme e dai soliti alberghetti: Ksania, Yasmina, Erg Chebbi, Dunes d’Or, Soleil Bleu … Sostiamo in un villaggio abitato da neri originari del Senegal. Il “sindaco” offre the, pane caldo e racconti sugli antenati, neanche tanto lontani, liberi di scorrazzare in lungo e in largo tra le dune di un deserto senza frontiere e senza nomi e di come i bianchi, tra le altre cose, portarono quaggiu’ la strana usanza di delimitare lo spazio e distribuirsene un po’ ciascuno. Fu cosi’ che quelli venuti a lavorare come schiavi non poterono piu’ tornare a casa rimanendo intrappolati di qua, costretti a ricostruirsi da zero una nuova vita. Da Merzouga a Rissani la strada, una trentina di chilometri con un finale tormentato, richiede una sosta alla Maison Tuareg per contrattar tappeti, ingollare the alla menta e assaporare una pizza berbera tutto pepe e niente mozzarella. Verso Tazzarine l’asfalto spacca in due una distesa piatta e disabitata circondata dalle montagne del Djebel Saghro, regno incontrastato delle tribu’ degli Ait Atta che secondo Gaudio non avrebbero abbandonato del tutto la pratica della schiavitu’. Le capre, i pastori e le montagne sono le sole cose a spuntare dalla terra in mezzo a pochi alberi rinsecchiti. In mezzo al palmeto di Tazzarine c’e’ l’accampamento Amasttou con quattro tende berbere e poche camere: scegliamo le tende e prima di partire per la valle dei graffiti andiamo a vedere il museo etnografico messo su’ dal boss del camping di fronte alla sua principesca residenza…
La pioggia smise presto di cadere e i raggi del sole si fecero largo tra i nuvoloni grigi e le foglie degli alberi illuminando la valle tra la collina e l’alta falesia che, per gran parte del giorno, manteneva in ombra il fiume rinfrescandone le acque gorgoglianti. La ragazza sdraiata sull’erba umida dormiva col viso appoggiato sui lunghi capelli neri, la pelle lucida asciugava velocemente impreziosita da minuscole tracce come di rugiada. Sulle pietre bagnate spiccavano le immagini incise e nei tratti piu’ profondi brillava una striscia d’acqua illuminata dal sole. Lontano dal villaggio gli animali girovagavano avvicinandosi al fiume per abbeverarsi, le antilopi apparivano e scomparivano nell’erba con balzi eleganti, i corpi tesi e frementi negli slanci improvvisi. Con le ginocchia sulla roccia l’uomo ricomincio’ a scolpire; dopo ogni serie di colpi puliva la pietra sfiorandola dolcemente quasi accarezzando l’animale per non farlo fuggire. Domani l’avrebbe lucidato sfregandolo con la sabbia, l’immagine doveva essere la piu’ bella di tutte cosi’ che lo spirito della montagna proteggesse per sempre il loro amore. Le due antilopi sulla roccia si libravano armoniose una accanto all’altra, le zampe anteriori a scalciare il cielo, i musi rivolti al sole e le corna lunghissime a sottolinearne lo slancio, un prolungamento dei corpi nel vento, una simbiosi perfetta tra la pietra immobile e la vita inarrestabile: l’immagine era stupenda. L’uomo torno’ sotto l’albero, si sdraio’ accanto alla ragazza e la sveglio’…
4755 anni e due mesi dopo, usciti dal campeggio di Amasttou e dal labirinto di palme percorriamo la pista in mezzo ad una desolata spianata di rocce e bassi arbusti. Cinque chilometri e inaspettatamente alla nostra destra prende forma una falesia via via piu’ alta con ai piedi una lunga oasi di smeraldo; la striscia di vegetazione si allarga e si restringe seguendo la traccia di un fiume che si puo’ solo immaginare, il verde intenso e’ interrotto qua e la’ dalle macchie rosa degli oleandri, dalle mani protese dei bimbi, dalle sagome scure dei contadini e dagli spigoli delle costruzioni semi nascoste dagli alberi. La valle si allarga in un grandioso anfiteatro di roccia poco prima di un villaggio senza nome, tutto terra, sassi e bambini che dopo un attimo di sorpresa si attaccano alle auto. Una volta fuori dalla nuvola di polvere, di mani e di piedi mi ritrovo senza caramelle e senza tergicristalli, col paese alle spalle e il palazzo grigio dell’imam sulla sinistra. Dalla cima della collina il paesaggio sottostante sfuma nella sabbia sollevata dal vento. Lasciamo le auto vicino ad una catapecchia circondata da un piccolo zoo di pietra: elefanti, struzzi e rinoceronti, non c’e’ sasso senza un segno. Un centinaio di metri piu’ in la’ c’e’ tutto il bestiario neolitico immortalato tra le pietre. I graffiti, molto realistici, lasciano immaginare elefanti, giraffe, antilopi e gazzelle girovagare la’ sotto, vicino allo uadi rinsecchito da dove invece si alza solo la polvere. Due antilopi spiccano il volo all’unisono, le linee stilizzate proiettate verso l’alto ne sottolineano la leggiadria dei movimenti, le zampe e le corna protese si staccano dalla pietra per volare tra le braccia di una invisibile divinita’. Sulla via del ritorno sostiamo al villaggio attorniati da un nugolo di mosche e bambini, non so quali siano di piu’. Puliamo occhi e nasi a mezzo paese; Daniela lava una graziosa bimbetta da capo a piedi con i fazzolettini senz’acqua prima di regalarle una t-shirt formato station-wagon. Rientriamo in campeggio a tramonto inoltrato e il giorno dopo attraversiamo Nekob, capitale degli Ait Atta, per andare a incrociare una delle strade piu’ affascinanti del Marocco, la P31 che da Agdz a Zagora e’ un susseguirsi di oasi e casbe, gole e villaggi, palmeti e mercati pieni di vita. Superata Zagora proseguiamo per 88 chilometri fino a Mahmid dove di sicuro finisce l’asfalto e forse anche il mondo. Dopo il silenzio della necropoli di Fxxxxxx le dune di Tinfou sono fin troppo piene di vita, tre mucchi di sabbia, bottiglie e cartacce, con un traffico di jeep e dromedari da fare invidia alla Parigi-Dakar; un albergo-castello movimenta l’orizzonte e una strisciata di nuvolame rovina l’ennesimo tramonto a Giovanna. Al Repos de Sable, scelto piu’ per il nome che per il consiglio della Routard, ci mettiamo un paio d’ore ad uscire dalle camere, non tanto per il relax post-doccia quanto per le complicate serrature stile Dogon con cui ci siamo chiusi dentro. La tavola e’ apparecchiata sotto gli archi del chiostro dove e’ allestita una esposizione di quadri realizzati dai padroni di casa e dove la cena e’… Insaporita da una famiglia di piccioni che abita proprio sopra il nostro tavolo. In attesa che asfaltino il tratto da Zagora a Foum Zguid, risaliamo la P31 fino a Tansikht dove imbocchiamo la pista 5961, senza problemi neppure per le utilitarie, incrociamo l’asfalto della S510 proveniente da Tazenakht e tiriamo dritti sulla 6810 fino alla misteriosa Foum Zguid di cui ho poche e incerte notizie. Arriviamo al buio e all’ingresso del paese ecco l’ammiccante insegna di un hotel sopra il distributore di benzina. L’hotel e’ chiuso, come accuratamente indicato dalla guida e, come accuratamente indicato dalla guida, chiedo ad un militare di aprire le stanze e qui le indicazioni della guida cominciano ad essere meno accurate perche’ il poliziotto apre l’hotel ma non puo’ finire le stanze in fase di perenne ristrutturazione, in questo periodo mancano il pavimento e le pareti. Chiedo lumi al bar-ristorante-edicola-salagiochi all’uscita del paese sulla strada per Tata. Niente lumi ma in compenso, dopo un’infuocata partita a calcetto nei sotterranei del bar, troviamo da dormire. Un intraprendente vecchietto ci offre uno spartano stanzone ingombro di datteri, affacciato sul cortiletto con le docce a secchio e un gabinetto ad allineamento di buchi. Infilato lo slip da bagno mi rilasso nell’hammam di fianco al ristorante mentre le ragazze organizzano una spedizione toilettistica tra i campi dalla quale ritornano con profondi graffi ai polpacci, alle cosce e chissa’ dove ancora, chissa’… Non vogliono essere curate fidando nelle erbe miracolose di Tissint di cui domattina dovremmo fare incetta. A Tissint, a parte la verdura del mercato, non c’e’ un’erba neanche pitturata sui muri in compenso c’e’ della frutta buonissima e degli squisiti dolcetti per la colazione. Il signor Ibrahimi, guida ufficiale del villaggio, corre a mettersi la pesantissima divisa di lana del Ministero del Turismo per guadagnarsi la pagnotta. Lo aspetto al mercato sfogliando il libro di Gaudio e scatenando un pandemonio: alcuni passanti si riconoscono nelle foto tra urla e risate nonostante il ricco signore della casa verde sia morto da un paio d’anni. Mentre ci accompagna alla casa di Foucauld, Ibrahimi conferma l’assenza totale di erboristerie nel villaggio, le erbe vengono coltivate a Tissint, ma una volta raccolte sono instradate verso le citta’ e le farmacie del Nord e qui non resta neanche un filo d’erba per curarsi i calli. Intanto percorriamo una bellissima strada affiancata da una lunga serie di archi sopra i quali poggia il canale che porta l’acqua dal fiume al villaggio. Foucauld non e’ in casa, forse sara’ al suo albergo di Marrakech, ma possiamo comunque entrare ed ammirare quanto resta del cortiletto circondato da due piani di porticato col soffitto di legno riccamente decorato, in procinto di crollare da un momento all’altro. Qualche chiacchiera serve a passare indenni il controllo militare e appena fuori dall’abitato seguiamo le indicazioni di “Mohan il folle”, un portoghese venuto fin qui a comprare delle zucche. Abbandoniamo di qualche decina di metri l’asfalto fino al bordo di un canyon: giu’ sotto il corso del fiume si divide in due rami formando una ipsilon scintillante tra il verde intenso dei campi. Proprio tra i due bracci sorge un villaggio di pietra e palme movimentato dalle sagome di bambini, contadini e vesti colorate a spasso tra le stradine di terra. Seduto sul precipizio con le gambe penzoloni nello strapiombo, rimurgino su strane utopie bucoliche e rispondo al saluto di un vecchietto sorridente a dorso del suo mulo. Alla magica Tata arriviamo sotto un sole cocente e al Renaissance Hotel c’e’ Abdullah della Maison Nomade ad aspettarci, l’ha avvisato Mohammed da Erfoud. Programmiamo le escursioni escludendo il lago di Tazert, ridotto ad uno stagno dalla tremenda siccita’ di questo arido 1998. Agouliz e’ incastonato tra le rocce, i magazzini d’acqua e gli oleandri in fiore. Una breve sgambata nel canyon porta sotto le suggestive cascate; l’acqua sbuca dalla roccia e precipita con un cupo brontolio modellando la pietra secondo le curve piu’ comode per piombare in una pozza d’acqua dai bagliori turchesi. Come resistere al tuffo, come resistere… Semplice: sentire la temperatura. Risaliamo il ripido sentiero a fianco della cascata e per una mulattiera scendiamo alle spalle del villaggio e al parcheggio dove, sotto un compatto strato di bambini, ritroviamo le auto. Ad Agadir-Lena, la parte vecchia di Tata, e’ interessante il palmeto e l’intricato dedalo di canali che indirizzano l’acqua agli orti grazie ad un ingegnoso sistema di chiuse. Un gruppo di anziani misura i tempi di distribuzione dell’acqua con un metodo medioevale di origine spagnola fondato sulla legge della sgocciolatura … E in buona parte anche sugli orologi da polso. Tata e’ gia’ rossa di per se’ figurarsi al tramonto quando il sole infiamma i porticati e le colonne delle vie, elegantemente piastrellati come si usa in queste oasi del Sud. La colorazione rossa delle costruzioni crea un’atmosfera suggestiva quando, al tramonto, oltre al sole si specchiano sulle pareti le luci della strada e delle case. Dopo cena tiriamo notte sul terrazzo del Renaissance; con l’immancabile the alla menta, la tenera proprietaria dell’hotel e la gente in continuo andirivieni sulla strada aspettiamo di provare il latte bollente arricchito da una misteriosa polverina a meta’ tra la cannella e il cumino che secondo Abdullah dovrebbe conciliare il sonno; quando finalmente viene servito meta’ del gruppo sta dormendo sulle sedie…
La polvere filtrava la luce del sole sfumando l’orizzonte e confondendosi con le nuvole. Forse erano nuvole cariche di pioggia, da troppo tempo non pioveva, la terra piu’ lontana dal fiume cominciava a coprirsi di una fitta ragnatela di crepe e ogni volta gli animali dovevano andare piu’ lontano per trovare qualcosa da mangiare. Il pastore, seduto per terra, guardo’ incuriosito la roccia a suoi piedi: che strano animale era raffigurato, non somigliava a nessuno di quelli conosciuti. Numerose rocce incise erano disseminate li’ attorno; la maggior parte degli animali raffigurati li conosceva solo per le storie dei vecchi. Ora, salvo qualche antilope e poche gazzelle, raramente capitava di vedere animali diversi dai buoi dalle lunghe corna. Un paio di anni prima aveva visto un uccello un po’ ridicolo sfrecciare nella pianura, fermarsi di colpo e guardarsi in giro con rapidi scatti della testa appollaiata sopra un collo lunghissimo. L’aveva visto beccare qualcosa per terra, anzi sotto terra. Nessuna delle incisioni ricordava quello strano volatile, fuggito velocissimo appena aveva provato ad avvicinarlo. Trovo’ un bel pietrone piatto e, tanto per passare il tempo, dopo aver buttato un’occhiata ai buoi, comincio’ a scalfire la pietra con un sasso appuntito cercando di ricordare la sagoma un po’ ridicola dello struzzo. Ogni tanto scrutava l’orizzonte per vedere se le nuvole s’avvicinavano, ma quelle se ne stavano sempre laggiu’ lontane, proprio sopra la linea ondulata e minacciosa delle dune di sabbia che invece sembrava ogni giorno piu’ vicina…
3975 anni, 8 mesi e 12 giorni dopo, in mezzo alla polvere e agli scarichi nerastri della 205, anche noi arriviamo alle incisioni di Akka. Si esce dalla strada asfaltata e si prende una pista in direzione del nulla, dopo un paio di chilometri lasciamo le macchine in una pianura senza fine e senza ombra. Le incisioni, distribuite a destra e a sinistra di un sentiero in leggera salita, aumentano di grandezza e di numero in un crescendo sorprendente. Alla fine del sentiero, come il finale di uno spettacolo pirotecnico, ci accoglie una mitragliata di gazzelle, antilopi, bovini e un grosso pollo … Forse uno struzzo. Tornati ad Akka lasciamo Abdullah alla fermata dell’autobus per Tata e dirigiamo i cofani verso Foum Hassan per scoprire che gli ottanta “impraticabili” chilometri fino all’oasi di Assa sono stati asfaltati. Sarebbe stato meglio non lo fossero, cosi’ avremmo proseguito lungo la P30 andando a visitare il granaio di Amtoudi e la valle d’Adai e arrivando forse a Fort Bou Jerif per la notte invece che nella caotica Goulimine. Affascinati dai racconti sulla storica oasi di Assa e i suoi trecento marabutti ci buttiamo a capofitto nel piatto paesaggio attraversato dalla nuova strada diretta a Sud del Sud. Assa sonnecchia languida e annoiata; i pochi abitanti stravaccati fuori dai bar buttano occhiate interrogative … E questi cosa vogliono? … Un ragazzino, libri sottobraccio e sguardo impaurito, accetta di far da guida in cambio di un controllino ad un pessimo esercizio di francese; tentenna, guarda distrattamente le pagine su Assa, chiede un po’ in giro e alla fine ci accompagna sulla collina sopra la citta’ dove giace abbandonato il vecchio villaggio e si vede la famosa spianata con le tombe bianche dei marabutti. Invece di 300 sono 3, sara’ l’effetto dell’Euro! Il ragazzo e’ parco di spiegazioni: “Ma, dove sono i marabutti?” “Oui!” “C’e’ una moschea?” “Oui” “E’ possibile entrare?” “Oui” “Non e’ che s’incazza qualcuno…” “Oui”. Entriamo, sembra piu’ una palestra, col salone disseminato di pilastri e il pavimento coperto di tappeti. In effetti c’e’ tutto: il “mighrab” per inchinarsi verso la Mecca, il “minbar” per le letture del Corano, la zona delle donne, la fontana per le abluzioni… Una vera moschea… “Oui!” Questa e’ Assa e questa e’ la quotidiana esistenza di una cittadina qualunque lontana dai turisti e vicina al deserto. Ma e’ proprio necessario che ovunque ci sia sempre e per forza qualcosa da vedere, da visitare, da comprare, da salire, da scendere, da fotografare? Non e’ meglio qualche volta sedersi al tavolino di un bar, sul gradino di una piazza, chiacchierare con qualcuno, sorridere se non si riesce a capirsi, essere semplicemente li’, guardare, pensare e non fare niente? Un centinaio di chilometri d’asfalto piu’ a Ovest, c’e’ Guelmine famosa per il mercato tuareg del Sabato, oggi ridotto a mercato delle capre; troppo incasinata, troppo inquinata, troppo trafficata; meglio tirare avanti lungo la strada per Sidi Ifni. Una deviazione a destra indica il campeggio da cui prende il nome Abahinou, simpatica localita’ con due piscine termali, una per le donne e una per gli uomini. Nessun turista, un bel campeggio, un barettino con gente allegra e musica folcloristica, acqua santa non troppo puzzolente. Un vecchietto immerso fino al collo e’ cosi’ arzillo da far ben sperare anche per la mia ernia al disco. La strada verso Ifni e’ stretta ma buona, troppo buona, cosi’ decidiamo di passare dalla linea bianca segnata sulla Michelin 959, 12 km per arrivare al mare e risalire lungo la costa fino a riprendere l’asfalto. Sbagliamo l’entrata in pista un paio di volte, ma probabilmente sbagliamo anche la terza; la pista larghissima e ben battuta invita a proseguire anche se il contachilometri ha superato i 20 chilometri dal bivio e davanti a noi si vedono solo montagne e infinite distese di fichi d’India. La pista si restringe, diventa una pistarella, poi un sentiero, poi una flebile traccia, poi un campo di fichi, poi solo fichi e all’orizzonte sempre montagne… Dopo quaranta chilometri, intercetto un contadino impegnato a dissodare diecimila ettari di ficheto con una zappettina grande come la lama di un coltellino svizzero. Ci avviciniamo fischiettando con l’aria di cercare un tabaccaio aperto, lo catturiamo e lo leghiamo sulla 205; gli spieghiamo a gesti come e’ fatto un mare, Katia cerca di essere piu’ precisa mimando un oceano. Il contadino indica la direzione da prendere tra un fico e l’altro, brontolando e sbuffando ad ogni buca ma qui dove non c’e’ una buca e’ perche’ c’e’ una pietra. Non voglio piu’ vedere un fico d’India per i prossimi vent’anni, ma intanto ci passiamo in mezzo un paio d’ore. Il marocchino cerca di spiegare a Mariolina come deve guidare per non scaraventare i passeggeri dai finestrini. Finalmente, quando ormai mi aspettavo la frontiera mauritana, l’orizzonte si spiana, una leggera foschia ci accompagna fuori dal ficheto indiano, in lontananza come un miraggio il mare tira una riga sotto il cielo bianco. Sono passate 4 ore e 70 chilometri da quando abbiamo lasciato la strada principale una decina di chilometri prima di Ifni. Pero’ ragazzi, che escursione! Liberiamo il contadino dalle cinture di sicurezza e lo lasciamo tornare al suo podere, non chiedetemi come, lo pago il doppio di quanto mi chiede e con le lacrime agli occhi corriamo sulla spiaggia deserta. C’e’ la nebbia ma e’ un sogno il rumore delle onde sugli scogli, dei gabbiani in fuga, la sagoma di un relitto incastrato nella sabbia, i piedi nudi … Riprendiamo le auto e completiamo gli otto chilometri fino alla discarica di Ifni, una spianata ricoperta da sacchi di spazzatura, come dice la Routard: non si puo’ sbagliare, la puzza e’ inconfondibile. Il motore della 205 borbotta minaccioso ma nonostante tutto arriviamo a Tiznit per dare un’occhiata al mercato dell’argento e poi a notte inoltrata arranchiamo fino a Tafraout attraversando gli incomparabili paesaggi di questa splendida valle punteggiata da paesini arroccati tra i monti; noi ne vediamo solo le luci tremolanti, e le luci non sono molte. Troviamo da dormire al Tafraut Hotel, il suo proprietario e’ un personaggio, val la pena di starlo ad ascoltare anche se siamo un po’ stanchi. Riposiamo all’Etoile du Sud, tra Tajine alle mandorle, agnello alle prugne, couscous alle verdure e macedonia di arance col miele e la cannella. Ci sarebbero anche dei fichi d’India freschi … Il cameriere si prende una manica di botte senza motivo apparente… Al mattino, rimessi a nuovo, possiamo goderci le numerose escursioni: gazzella di pietra, cappello di Napoleone, rocce dipinte e case tradizionali ma quella che lascia a bocca aperta e’ l’oasi di Ait Bou-Nouh incastrata in una spaccatura della montagna, una rilassante passeggiata tra la folta vegetazione, palme e orti verdissimi sulle rive del fiumiciattolo. Dietro al sipario compatto delle foglie occhieggiano piccoli agglomerati di case confuse tra le rocce, un paradiso di rilassatezza e frescura. E’ in corso l’asfaltatura della strada e stanno tirando i fili della luce, non so per quanto restera’ cosi’.
Per andare a Taroudannt percorriamo la valle d’Ammeln e poi via, in direzione di Agadir. Poco prima della citta’ bianca, ma non prima di un traffico intenso, deviamo a destra e nel tardo pomeriggio siamo sotto le intatte mura di Taraoudannt; siamo tornati nella zona piu’ turistica e al mercato i prezzi s’impennano. Lungo la costa verso Essaouira scende minacciosa la nebbia e nella vecchia Mogador fa un freddo polare; per scaldarci scegliamo di dormire tutti insieme in uno stanzone dello Shahrazed hotel, appena fuori dalla citta’ vecchia. Ad Essaouira resterei una vita o due, non solo per i gamberetti di Chez Sam o per i croissants di Chez Driss comunque imperdibili, ma per l’atmosfera rilassata, per gli intriganti cortiletti del mercato, per le stradine immacolate e per la piazzetta sempre piena di gente. Il Sud finisce dove era cominciato: a Marrakech.
Sotto e sopra il terrazzo del Glacier lentamente i colori si fondono nel caldo arancione del tramonto. Incoronata dai mucchietti ordinati di mandarini il fumo aromatico delle bancarelle diffonde la luce delle lampade sulla “piazza degli impiccati”, le ultime strisce di nuvole diffondono la luce del sole dietro l’elegante sagoma della Koutoubia, centinaia di teste, di gambe, di braccia e di voci formano un tappeto brulicante di vita sopra la magia di un viaggio che finisce. Negli occhi di Giovanna luccicano due lacrimoni tremolanti, e’ un tramonto di una bellezza commovente ma lei, per la prima volta, ha lasciato la Nikon in albergo.